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CONTRATTI DI OUTSOURCING SOCIALMENTE TIPICI: IN ITALIA LA CERTEZZA NORMATIVA ARRIVA CON LA CERTIFICAZIONE

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V iale B e re n g a rio n . 5 1 4 1 1 21 M o d e n a ( It a ly) T e l. 0 5 9 .2 0 5 6 7 4 2 /5 – F a x 0 5 9 .2 0 5 6 7 4 3 – S ito ww w.c e rti fic a zi o n e .u n im o re .it ce rtifi ca zi o n e co n tr a tt i@ u n im o re .it ; tir a b o sch i@ u n im o re .i t; fl a via. p a s q u in i@u n im o re .it entro S tu di I nter na zi on al i e C om par ati D E A L O M MIS S IO N E D I C E R T IF IC A Z IO N E @certifica_MO, 21 febbraio 2014

CONTRATTI DI OUTSOURCING

SOCIALMENTE TIPICI:

IN ITALIA LA CERTEZZA NORMATIVA

ARRIVA CON LA CERTIFICAZIONE

di Gabriele Gamberini

Nell’attuale sistema economico, le imprese progressivamente esternalizzano con sempre maggiore frequenza le attività che non costituiscono il proprio c.d. core business, ed è comune lo scenario in cui una impresa committente benefici di beni o servizi realizzati da una impresa fornitrice e quindi si avvalga, seppur indirettamente, di attività svolte da lavoratori con cui non ha alcun legame contrattuale diretto.

Dette operazioni potrebbero essere inquadrate nella categoria dei c.d. contratti di outsourcing, caratterizzati da uno schema contrattuale in cui è presente una impresa beneficiaria finale, c.d. “client”, ed una impresa che esegue le attività oggetto del contratto, c.d. “contractor” (cfr. Y. JORENS,S.PETERS,M.HOUWERZIJL, Study on the protection of workers’ rights in subcontracting processes

in the European Union, Project DG EMPL/B2 - VC/2011/0015, 2012, European Commission,

Employment, Social Affairs & Inclusion).

Sebbene questi contratti abbiano natura commerciale e vengano posti in essere da imprese, le vicende che li riguardano, almeno indirettamente, potrebbero però avere ripercussioni anche sui lavoratori che in virtù di tali accordi prestano la propria attività.

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Tale connessione non dovrebbe ritenersi sussistente in virtù della traslazione nell’ordinamento lavoristico del principio generale per cui ogni operatore economico è direttamente responsabile per le obbligazioni da lui stesso contratte, in quanto, così ragionando, dovrebbe sussistere unicamente la responsabilità diretta del datore di lavoro per le obbligazioni assunte nei confronti dei lavoratori di cui si avvale, indipendentemente dalla circostanza che sia beneficiario finale della prestazione o meno. Tuttavia, il principio per cui il datore di lavoro, utilizzando il frutto della attività del lavoratore, è chiamato a rispondere unicamente di una serie di obbligazioni a favore di quest’ultimo dovrebbe forse essere riconsiderato, poiché risente di una epoca in cui la impresa svolgeva direttamente tutte le fasi del ciclo produttivo e non era pertanto presente null’altro che il rapporto dualistico datore di lavoro - lavoratore. Ora invece molti rapporti tra imprese apparentemente indipendenti configurano di fatto scenari in cui i lavoratori della impresa contractor possono ricevere pregiudizi che, benché formalmente attribuibili al proprio datore di lavoro, costituiscono solo la mera conseguenza di una azione od omissione compiuta dalla impresa client.

Il tema della protezione dei lavoratori impiegati nell’ambito dei processi di esternalizzazione e la determinazione dei profili di responsabilità applicabili alle imprese facenti parte delle filiere contrattuali è oggetto, da alcuni anni, di dibattito a livello europeo, ed è stato affrontato all’interno di diverse fonti, dalla cui analisi emerge la tendenza ad ambire ad una normativa che, a livello comunitario, si occupi della regolamentazione dei c.d. “subcontratti” al fine di non arrecare pregiudizi ai lavoratori ivi impiegati. Cionosotante, non è stata ancora adottata alcuna misura concreta (cfr. M.R.AMON, Liability Regulations in European Subcontracting: Will Joint Liability

Be the 21st Century European Approach?, in The Journal of International Business & Law, 2010, 9, 231).

Il minimo comune denominatore delle esternalizzazioni è la separazione tra il beneficiario finale dell’attività del lavoratore e chi viene definito il “datore di lavoro”, il quale crea il rischio di un abuso, o quanto meno di un mancato riconoscimento, dei diritti dei lavoratori c.d. secondari, cioè di quei lavoratori che prestano la propria attività all’interno di un processo di outsourcing. Diversi legislatori nazionali hanno tentato di regolare tale fattispecie: i metodi adottati per tutelare i lavoratori secondari possono dividersi in strategie ex ante, in cui sono presenti normative specifiche a tutela dei medesimi ed in cui i giudici devono solo decidere se tali normative si applicano ad una determinata fattispecie, e strategie ex post, in cui vengono determinati standard minimi che devono essere rispettati ed in cui i giudici hanno più ampio potere discrezionale nel determinare il tipo di rapporto di lavoro (cfr. Y.FELDMAN, Ex-Ante vs.

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Ex-Post: Optimizing State Intervention in Exploitive Triangular Employment Relationships, in Comparative Labour Law and Policy Journal, 2009, 30, 751)

L’ordinamento italiano costituisce un esempio di strategia ex ante poiché identifica il contratto di appalto come principale tipologia per la realizzazione «di una opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro» (articolo 1655 del codice civile) e prevede una complessa disciplina a tutela dei lavoratori impiegati nella sua esecuzione. Si tratta di un contratto stipulato tra due soggetti: da un lato il committente, ossia colui che conferisce l’incarico relativo al compimento della opera o del servizio e che rappresenta il soggetto in favore del quale si realizza il risultato finale; dall’altro l’appaltatore, ossia colui che è tenuto ad eseguire la opera od il servizio a fronte del pagamento di un corrispettivo, agendo a proprio rischio e con la organizzazione dei propri mezzi. Si tratta di un contratto essenzialmente obbligatorio, in quanto deriva a carico di entrambe le parti il dovere di adempiere ad una obbligazione di facere, che sarà, appunto, eseguire la opera od il servizio per l’appaltatore e pagare il corrispettivo in denaro.

La relativa disciplina dovrebbe quindi essere applicabile a tutti i casi in cui due imprese si accordino per la realizzazione di una opera o la esecuzione di un servizio verso un corrispettivo in danaro. Tuttavia, nella prassi commerciale si sono diffusi contratti che, in virtù della peculiarità della opera o del servizio, sono considerati solo “socialmente tipici” e che, anche per questo, non consentono di determinare con certezza la disciplina applicabile.

La subfornitura industriale, ad esempio, costituisce una particolare tipologia di appalto – avente ad oggetto «lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente» o «prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso» (articolo 1, comma 1, della l. n. 192/1998) – a cui tuttavia non è chiaro se possa applicarsi o meno la relativa disciplina a tutela dei lavoratori.

Oltre alla subfornitura industriale sono poi presenti numerosi altri contratti socialmente tipici, tra i quali auditing, factoring, franchising, marketing ed engineering, i quali presentano numerose affinità con lo schema contrattuale dell’appalto, ma a cui è incerto il tipo di normativa applicabile. Nella indeterminatezza normativa non parrebbe irragionevole ritenere che, data la affinità con lo schema contrattuale dell’appalto, anche le imprese contractor di tali fattispecie contrattuali debbano possedere i requisiti della organizzazione dei mezzi necessari e della assunzione del rischio d’impresa di cui all’articolo 29, comma 1, del decreto legislativo n. 276/2003. In caso

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impiegato potrebbe chiedere, mediante ricorso giudiziale, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze della impresa client. Inoltre, ai sensi dell’articolo 18, comma 5-bis del decreto legislativo n. 276/2003, il client ed il contractor potrebbero essere puniti con la pena della ammenda di euro 50 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione con arresto fino a diciotto mesi ed aumento dell’ammenda fino al sestuplo in caso di sfruttamento dei minori. Ove poi venisse dimostrato che il contratto di outsourcing illecito è stato posto in essere al fine di eludere, in tutto od in parte, i diritti dei lavoratori derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratto collettivo, si realizzerebbe anche la ipotesi di reato di somministrazione fraudolenta, il quale comporta la ulteriore pena dell’ammenda di euro 20 per ciascun lavoratore coinvolto e per ogni giorno di impiego.

Potrebbero inoltre ritenersi applicabili anche alle imprese della filiera dei contratti di outsourcing socialmente tipici le disposizioni che prevedono la responsabilità solidale per quanto riguarda i crediti retributivi, previdenziali ed assicurativi, oltre che per il versamento all’erario delle ritenute fiscali ed il risarcimento dei danni c.d. differenziali dei lavoratori impiegati nelle medesime.

In definitiva, la continua diffusione di nuovi modelli di outsourcing e la pressione comunitaria per scongiurare i rischi di pregiudizio per lavoratori ivi impiegati potrebbero far quindi temere che, per ovviare al silenzio del legislatore, i giudici e gli ispettori del lavoro si orientino nel senso della applicazione di norme già esistenti per il contratto di appalto in maniera estensiva, andando così a tutelare anche i lavoratori operanti nell’ambito dei contratti di outsourcing socialmente tipici.

In via cautelativa, al fine di evitare la incertezza normativa e scongiurare futuri provvedimenti sanzionatori o addirittura contenziosi, potrebbe quindi essere opportuno, da parte delle aziende, provvedere alla certificazione di tali fattispecie contrattuali per stabilire quanto meno la genuinità degli imprenditori contraenti e la corretta ripartizione di responsabilità nei confronti dei lavoratori impiegati. Non sembrerebbero infatti porsi particolari limiti all’applicabilità dell’istituto della certificazione ai processi di esternalizzazione in genere, considerato che il quarto comma dell’articolo 30 della legge n. 183/2010, andando a sostituire l’articolo 75 del decreto legislativo n. 276/2003, ha previsto che, «al fine di ridurre il contenzioso in materia di lavoro, le parti possono ottenere la certificazione dei contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro». Ed in effetti i contratti commerciali con cui in genere si effettua una esternalizzazione sono sempre contratti in cui viene dedotta almeno indirettamente una prestazione di lavoro, oltre che contratti, tenendo conto delle

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argomentazioni sopra esposte, in cui sarebbe davvero importante individuare con certezza le regole applicabili al fine di contribuire concretamente alla riduzione del contenzioso in materia di lavoro.

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