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Marghera senza fabbriche di Targhetta

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Academic year: 2021

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Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori

ilSaggiatore

Tirature

’19

Tuttestorie di donne

a c u r a d i v i t t o r i o s p i n a z z o l a

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www.fondazionemondadori.it info@fondazionemondadori.it

www.ilsaggiatore.com In collaborazione con Regione Lombardia Fondazione Cariplo ISBN 978-88-85938-65-6

© Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori / il Saggiatore, Milano 2019

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SOMMARIO

TUTTESTORIE DI DONNE

Storie di donne libere e di donne prigioniere:

Janeczek, Postorino, Canepa 9 di Gianni Turchetta

Le donne sbiadite delle storie di famiglia 19 di Elisa Gambaro

Di mamma ce n’è una sola. Falso! 25 di Giovanna Rosa

Fumetto XX 31

di Giuliano Cenati

Donne in cerca di guai 39

di Mauro Novelli

È un paese per donne. Scrittrici migranti in

lingua italiana 43

di Giuseppe Sergio

Un fantasy tutto in rosa 53 di Maria Sofia Petruzzi

Stratigrafie in versi di vite femminili 59 di Lorenzo Cardilli

La Marghera senza fabbriche di Targhetta 69 di Paolo Giovannetti

Webstar, libroidi e prosimetri. A che genere

giochiamo? 75

di Chiara Richelmi

GLI AUTORI

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I “diritti delle donne”. La parola alle agenti letterarie 139 di Sara Sullam

Il fantasma dentro la macchina. Lo scouting editoriale al tempo di Internet 145 di Giuseppe Strazzeri

Da Cairo Publishing a Solferino 153 di Walter Galbiati

Audiolibri, che bellezza! 159 di Paola Dubini

GLI EDITORI

Massini liturgico e anedottico 85 di Mario Barenghi

Narrazioni apparenti. Le “prose in prosa” di

Inglese e Bortolotti 91

di Stefano Ghidinelli

I libri dei segretari del Pd 97 di Luca Gallarini

Quasi un romanzo 107

di Giacomo Raccis

La “trilogia” di Silvia Avallone 113 di Luca Daino

Canzonette sotto i ferri 119 di Umberto Fiori

Il miracolo di Ammaniti 125 di Tina Porcelli

Narrare la disabilità negli anni duemila 131 di Francesca Caputo

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I LETTORI

Libri per far leggere? Vite di lettori, piccole biblioteche, vademecum-manifesto 173 di Bruno Falcetto

Notizie dalle blogosfere 181 di Elisa Gambaro

Letture per le orecchie 189 di Paolo Costa

Vedere i testi, leggere le immagini. Le

visualizzazioni per «la Lettura» 197 di Stefano Ghidinelli

Vedere i testi, leggere le immagini. Le

visualizzazioni per l’Atlante Calvino 203 di Bruno Falcetto

MONDO LIBRO 2018

Almanacco delle classifiche 209 di Alessandro Terreni

Calendario editoriale 219

di Roberta Cesana

Mappe transnazionali 231

di Sara Sullam

Taccuino bibliotecario 237

di Stefano Parise

Gli autori 4.0 e l’insostenibile bisogno di autopromozione sui social network 163 di Valeria Pallotta

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TUTTESTORIE DI DONNE

Storie di donne libere e di donne prigioniere: Janeczek, Postorino, Canepa

di Gianni Turchetta

Le donne sbiadite delle storie di famiglia

di Elisa Gambaro

Di mamma ce n’è una sola. Falso!

di Giovanna Rosa Fumetto XX di Giuliano Cenati Donne in cerca di guai di Mauro Novelli

È un paese per donne. Scrittrici migranti in lingua italiana di Giuseppe Sergio

Un fantasy tutto in rosa di Maria Sofia Petruzzi

Stratigrafie in versi di vite femminili di Lorenzo Cardilli

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Storie di donne libere e di donne prigioniere:

Janeczek, Postorino, Canepa

di Gianni Turchetta

Tra i titoli più significativi della stagione 2017-18 spiccano tre libri di donne che narrano storie di donne: La ragazza con la Leica di Janeczek, Le assaggiatrici di Postorino, L’animale femmina di Canepa. Storie in cui la centralità della figura femminile è contesa fra tensioni opposte e complementari: da un lato c’è la rivendicazione profonda, più o meno esplicita, del diritto a un pieno godimento dell’esistenza; dall’altro questa rivendicazione fa tutt’uno con la messa in scena di condizioni di costrizione.

F

ra i titoli più significativi della stagione letteraria 2018, non a caso vincitori di alcuni fra i premi maggiori, spiccano tre libri di donne che narrano storie di donne. Al di là di questa banale evidenza, sono storie in cui l’indubbia centralità del- la figura femminile, nel suo protagonismo a prima vista conclama- to, appare contesa fra tensioni opposte e complementari. Da un lato, infatti, la rappresentazione della donna tende a farsi carico di una rivendicazione profonda, più o meno esplicita, del diritto a un pieno godimento dell’esistenza, della spinta a un’affermazione di sé finalmente libera da vincoli psicologici e materiali. Da un altro lato, però, proprio l’evidenza della richiesta di libertà fa tutt’uno con la messa in scena estensiva di condizioni di costrizione, diver- samente declinate ma sempre evidenti, che vanno dalla sudditanza psicologica alla prigionia vera e propria, fino a implicare il rischio quotidiano della vita stessa. En passant, è d’obbligo notare che al- cune fiction televisive recenti di grande successo hanno come tema proprio la rappresentazione sistematica di donne in condizioni di estrema coercizione: penso a Orange is the New Black (Netflix, dal 2013), tratto dalle memorie di Piper Kerman, ambientata in un carcere femminile, e a The Handmaid’s Tale (Hulu, dal 2017), trat- ta dall’omonimo romanzo distopico (1985) di Margaret Atwood, che racconta un futuro ipotetico in cui gli Stati Uniti sono gover-

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nati da un regime totalitario e teocratico, dove tutte le donne sono schiavizzate e destinate alla riproduzione.

Proverò qui a ragionare su tre romanzi pubblicati tra l’ul- timo scorcio del 2017 e il 2018: La ragazza con la Leica di Helena Janeczek (Guanda, 2017, premio Bagutta e premio Strega 2018);

Le assaggiatrici di Rosella Postorino (Feltrinelli, 2018, vincitore, con distacco abissale, del premio Campiello 2018); L’animale fem- mina di Emanuela Canepa (Einaudi, 2018, ma pubblicato dopo la vittoria al premio Calvino 2017, conquistato all’unanimità). Accolti da un ampio consenso della critica e, specie nel caso della Posto- rino, anche da un notevolissimo successo di pubblico, questi libri hanno certo avuto un peso fondamentale nel dare sapore e spessore all’ultima stagione letteraria. Al di là delle molte specificità, su cui mi soffermerò fra poco, essi dispiegano non poche corrispondenze incrociate, che credo valga la pena di ricordare, per quanto corsi- vamente. Anzitutto, Le assaggiatrici e L’animale femmina sono due romanzi di fiction, raccontati, in prima approssimazione, da una figura femminile che è narratore interno, protagonista, e che… si chiama Rosa: più precisamente Rosa Sauer, nel primo caso, e Rosita Mulè nel secondo. La corrispondenza dei nomi, benché casuale, o meglio non causale (Jung forse parlerebbe di “sincronicità”…), non è priva di effetti. Infatti, il nome “Rosa” non cessa di evocare qualcosa come la quintessenza della femminilità, quasi impercetti- bile, dissimulata provocazione, ultimo residuo, forse a contropelo, di secoli e secoli di Rose letterarie, volta a volta angelicate o de- monizzate, pure o carnalissime, la cui sessualità viene comunque evocata dal fin troppo archetipico “fiore”: da Ciullo d’Alcamo, a Shakespeare, da Ronsard e Malherbe, ai dannunziani Romanzi del- la rosa, a Gozzano, a Campana e, ça va sans dire, a un oceano di can- zonette. Nel caso della Postorino, che si chiama Rosella, la scelta del nome si screzia pure di suggestioni autobiografiche. Comunque la si voglia considerare, la scelta del nome chiama in causa qualche non innocente granello di significato: il titolo della Canepa, del re- sto, non lascia in questo senso dubbi.

Ancora, Le assaggiatrici fa perno su una condizione di costrizione assoluta, che si confronta costantemente con la vita e con la morte: Rosa ha fame a causa della guerra, e facendo l’assag-

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giatrice del Führer può sfamarsi con abbondanza; ma correndo un rischio enorme, perché ogni pasto potrebbe essere l’ultimo.

Tornerò più avanti sul nesso vita-morte, che si fa vero e proprio cortocircuito, dove l’autrice mostra supremo sprezzo del pericolo, perché davvero la materia corre sul filo di rasoio del patetismo orrorifico. Anche L’animale femmina ci parla continuamente di una condizione di costrizione, assai più soft, ma non meramente psicologica: perché Rosita ha materialmente bisogno del suo dato- re di lavoro, l’avvocato Ludovico Lepore, scapolo settantaseienne, che lo sa e ne approfitta, tormentandola sottilmente e stabilendo un rapporto di dipendenza in cui, con spietata sobrietà, Canepa mette in gioco una dinamica aguzzino-vittima, incruenta ma fla- grante, sottilmente crudele. Anche la Postorino mette in gioco un aguzzino, che in questo caso è un aguzzino vero, il tenente Ziegler:

che prima rende più aspra, poi colora di tormentosa felicità possi- bile la vita di Rosa, segregata a Gross-Partsch, nella Wolfsschanze, la Tana del Lupo del Führer. È d’obbligo notare, oltre alle evidenti differenze di tema e di tono, anche una decisiva differenza struttu- rale fra i romanzi di Postorino e di Canepa: se infatti Le assaggiatri- ci, coraggiosamente, sfida gli estremi dall’inizio alla fine, lasciando Rosa sempre al centro della narrazione, L’animale femmina inve- ce, dopo poco meno di cinquanta pagine, apre una seconda linea narrativa, che si svolge circa sessant’anni prima della storia princi- pale, tra il 1958 e il 1960: riguarda, stavolta, la giovinezza dell’av- vocato Lepore, e viene narrata da un narratore esterno, che a tratti assume la prospettiva del personaggio. Vedremo meglio più oltre alcuni effetti di questa costruzione.

Le storie narrate da Janeczek e Postorino sono poi entram- be ambientate al tempo del nazismo, e in costante relazione con vicende di guerra: rispettivamente la guerra di Spagna e la Secon- da guerra mondiale. E se il libro di Janeczek, almeno in prima ap- prossimazione, è una biografia, cioè una ricostruzione storica (ve- dremo quanto e in che senso romanzata), Le assaggiatrici muove dalla scoperta inquietante di una vicenda reale, quella di Margot Wölk, che fu davvero una delle assaggiatrici dei cibi di Hitler: a lei l’autrice fa esplicito riferimento, esprimendo il rammarico di non aver potuto conoscerla direttamente. Forse il libro non sarebbe

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cambiato, ma l’intenzione di restare ancorati alla Storia reale non è certo dettaglio da poco.

Ripartendo da La ragazza con la Leica, è d’obbligo constatare che, fin dall’esordio con Lezioni di tenebra (1997, 20112), la Janeczek (nata a Monaco di Baviera, nel 1964, in una famiglia di ebrei polacchi na- turalizzati tedeschi) ha costruito una sua peculiare via narrativa alla Storia, programmaticamente colta di scorcio, attraverso l’aggancio a vicende familiari e lato sensu autobiografiche. A prima vista questo suo ultimo, importante libro funziona in tutt’altro modo. Ma vedre- mo che le cose non stanno esattamente così. Facile, fin troppo ovvio dire che il libro della Janeczek ha una protagonista non autobiogra- fica che non può essere narratrice: Gerda Taro, all’anagrafe Gerta Pohorylle, è infatti morta tragicamente a Brunete il 27 luglio 1937, poco prima del suo ventisettesimo compleanno. Proprio la morte precoce della protagonista, in drammatico contrappunto con la sua travolgente vitalità, è una molla fondamentale di una costruzione narrativa programmaticamente composita, tesa ad afferrare proprio ciò che non può essere afferrato: l’assoluta singolarità di un’esisten- za, e ancora più di un’esistenza eccezionale, che ha lasciato tracce profonde nelle vite altrui, anche se finita tanto presto, e un po’ anche perché finita tanto presto. Ma il nocciolo di una vita, di questa come di tutte, resta qualcosa che per definizione è irraggiungibile: come la vita stessa, come il tempo che fugge, come l’immagine di un momen- to che si sarebbe voluto fotografare, senza però fare a tempo: come accade nelle ultimissime battute del libro: «“Quello sarebbe stato da fotografare.” / “Ach! Ormai chissà dov’è…”» (p. 330).

Credo sia un po’ troppo dire, come pure è stato detto, che in questo libro Gerda non esiste. Diciamo piuttosto che Gerda può es- sere raggiunta solo in modo laborioso e mediato, attraverso i docu- menti, sì, non però ripresi nella loro problematica oggettività, bensì affidati alle voci di tre narratori interni testimoni, cioè alle memorie incarnate di persone che hanno visto da vicino e amato profonda- mente Gerda. Agli estremi, primo e terzo narratore, due uomini in- namorati di lei: Willy Chardack, illustre cardiologo, emigrato negli Stati Uniti, che da giovane aveva dovuto subito cedere il posto al più avvenente e affascinante Georg Kuritzkes, che è anche il terzo

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Storie di donne libere e di donne prigioniere

narratore, ora funzionario della Fao di stanza a Roma, amante di Gerda per un breve periodo, poi soppiantato dall’irresistibile fasci- no zingaresco di Endre Friedmann, meglio noto come Robert Capa, il re dei fotografi di guerra. Fra di loro, seconda voce narrante inter- na, Ruth Cerf, amica fin dall’adolescenza di Gerda. Quest’ultima ricorda Gerda da una distanza temporale e spaziale molto limitata, cioè nel 1938, pochi mesi dopo la sua tragica scomparsa, e da Parigi, dove tante vicende aveva condiviso con lei. Nella costruzione nar- rativa di Janeczek invece Chardack e Kuritzkes ricordano insieme, ormai lontani nel tempo e nello spazio, rispettivamente da Buffalo e da Roma, nel corso di una lunga telefonata che si sarebbe svolta nel 1960, o piuttosto a partire da questa.

A Willy, Ruth e Georg sono affidate le strutture portanti del- la narrazione. Benché sorretta da attenta, capillare documentazione storica, la costruzione delle voci narranti è dunque profondamente letteraria: la soggettivizzazione del racconto (en passant, un aspetto fondante della narrativa contemporanea: Auerbach docet) è infatti frutto dell’invenzione dell’autrice, che si incarica di sorreggere tut- to il narrare dei tre amici con la propria penetrante comprensione psicologica. In realtà la struttura narrativa è ancora più complessa, perché in ogni tranche assistiamo a molti slittamenti temporali, in un succedersi di piani prospettici che s’intrecciano e si sovrappongono in continuazione. L’operazione dà luogo a un andamento quasi diva- gante, programmaticamente frammentato, di indubbio fascino, ma non sempre perspicuo. Persino il lettore esperto può fare a tratti un po’ di fatica a ricomporre le continue oscillazioni della narrazione, anche perché, come in un romanzo russo, le stesse persone vengono evocate con nomi diversi (nome anagrafico, cognome, nome tradotto o adattato, nomignolo per gli amici, nome d’arte, cognome d’arte, di- minutivo, diminutivo del soprannome…): un artificio che certo serve a sospingere il lettore nel mezzo della storia, nel punto di vista di chi rivive le vicende ben conoscendo le figure che vi prendono parte.

Ad ogni modo, Gerda è sempre vista dagli altri. Lei non può parlare, e, di più, il sogno dichiaratamente impossibile di afferrarla impone all’autrice una discrezione e un pudore più radicali, impedendole di farsi direttamente carico di una verità troppo ardua per essere detta.

A ben guardare, però, le cose non stanno proprio così. A

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complicare ulteriormente il quadro enunciativo, infatti, un ruolo strategico è affidato al Prologo e all’Epilogo, il cui statuto narrativo è diverso da quello del resto del libro. Nel Prologo accade, anzitutto, che Gerda possa, sia pure per poco, condurre il discorso per via di immagine: dopo poche righe infatti il libro mostra una foto da lei scattata a una coppia di amanti, che consente di raccontare, attra- verso le analogie e le differenze con la foto scattata da Robert Capa alla stessa coppia pochi istanti dopo, qualcosa come la felicità stessa di Gerda e Robert: la cui foto, in corrispondenza speculare, compa- re nell’Epilogo, dove la narratrice prima, cioè la voce autoriale della Janeczek stessa, si mette in campo in modo più marcato. Infine, pro- prio nell’ultima pagina l’autrice rivela, dando l’unico, ma definitivo strappo al suo estremo pudore, quanto di autobiografico c’è, o po- trebbe esserci, nella storia di Gerda Taro, dicendosi ormai costretta

«a usare la prima persona. I miei genitori si sono fidanzati nel ghet- to, si sono ritrovati dopo la guerra, si sono amati e, a tratti, odiati, divertiti e sopportati, finché morte non li ha separati. Mia madre, che di Gerda aveva la coquetterie testarda, avrebbe potuto esserne una cuginetta. Mio padre, grande affabulatore come Capa, un fratel- lo minore» (p. 330). Helena, in altre parole, ribadisce che non può identificarsi con la Taro, ma ci dice senz’altro che potrebbe essere sua figlia. Proprio questa parentela, inesistente eppure fondata, appare come la conditio sine qua non per quella dose assai consistente di empatia che rende nonostante tutto praticabile la mission impossi- ble di raccontare Gerda, legittimando la soggettivizzazione, pur con tutte le cautele del caso, e lo stesso ricorso all’immaginazione, senza la quale i documenti, e persino la memoria, sarebbero vuoti e muti:

«No, non fatico a immaginare Robert Capa e Gerda Taro» (ivi).

Il sogno di afferrare Gerda diventa così anche, in modo im- plicito ma profondo, un discorso sulla letteratura: sulla sua impoten- za, in prima approssimazione, che però finisce per diventare la strada più vera per arrivare di scorcio a una verità che comunque nessuno mai sarà in grado di possedere. Da questo punto di vista, a mio av- viso, il libro di Janeczek è anche e proprio un libro sulla irriducibile forza della letteratura, che dà forma al ricordo: perché «per ritro- vare qualsiasi cosa bisogna attingere alla memoria, che è una forma d’immaginazione» (pp. 324-325). Su questo assunto di partenza si

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Storie di donne libere e di donne prigioniere

colloca anche la fittissima rete di affermazioni di carattere generale, di aforismi distribuiti un po’ dovunque nel libro: aforismi che sa- rebbe giocoforza attribuire in definitiva alla narratrice, ma che pure appaiono sistematicamente connessi al punto di vista, volta a volta attivo, dei personaggi principali e non di rado di Gerda stessa, deli- neando una sorta di discorso indiretto libero capillarmente diffuso e tuttavia dissimulato. A cominciare da questa strategica dichiarazione di principio: «Vivere a tutti i costi, ma non a ogni prezzo» (p. 145). E ancora: «Resistere è fare finta di niente, resistere è recitare» (p. 188).

Alla fine il ritratto di Gerda risulta davvero ricchissimo, sfu- mato e potente, coerente nella sua mobilità: col suo «bisogno di di- vertirsi» (p. 41), la frequenza e l’intensità ammalianti del suo riso e del suo sorriso (un autentico topos), la capacità di godere (come «un felino», p. 48), la «luminosità» (p. 51), «il suo fascino e la capacità di sfuggir[e]» a chiunque (p. 53), la capacità di attrarre «tutti gli sguardi, questa incarnazione di eleganza, femminilità, coquetterie» (p. 112), la civetteria (p. 267), la spregiudicatezza sentimentale e sessuale («era e restava leggera, in tutti i sensi, anche in quelli traslati e meno lu- singhieri», p. 85), «la sua intoccabile spensieratezza» (p. 208) e però anche la sua capacità di amare, «la prontezza al cambiamento» che

«la faceva apparire sempre uguale a se stessa» (p. 266), l’intolleranza per la monotonia (pp. 157-158), la sincerità «sino a far male» (p. 58), il talento di fotografa, la «sveltezza e gioia concentrata» nel lavoro (p. 44), il coraggio al limite della temerarietà (pp. 189, 232), «quel particolare senso estetico che collimava con il suo senso di giustizia»

(p. 298), e infine, last but not least, quella stessa miscela irriducibile di etica e cinismo che la rende un perfetto fotografo di guerra. Gerda Taro diventa così un emblema, ma concretissimo, della forza assoluta della vita e della gioia irriducibile di viverla, della necessità di valoriz- zarla senza mezzi termini, finché c’è: come la sua morte precoce non finisce di ribadire: «Quella morte ottusa strideva così ferocemente con l’ingegno di Gerda per la vita» (p. 102); e ancora: «Gerda la te- meraria, l’imprevedibile, la volpe rubia, che non rinuncerebbe a qual- siasi morso di felicità si possa rubare al presente» (p. 215).

Le assaggiatrici di Rosella Postorino (nata a Reggio Calabria nel 1978, cresciuta in Liguria, ma residente a Roma dal 2002; al quarto

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romanzo) avvince il lettore con la scelta temeraria di portarci subito al centro dell’orrore: cioè del nesso conturbante fra il bisogno invin- cibile di mangiare e il connesso rischio di morire. Più sottilmente, con malizia e abilità, la Postorino mette in gioco tutta una costella- zione di spinte fisiologiche e pulsionali: mangiare, certo, ma anche mordere, succhiare, assaporare, creando una rete di corrispondenze inattese, sulle quali la narrazione continuerà a fare perno, carican- dosi d’intensità. Così, se da un lato l’amore si caratterizza presto come «una bocca che non morde» (quella del marito Gregor, sul fronte all’epoca della narrazione principale, p. 14), sovrapponendo la voglia di mangiare e il desiderio sessuale (p. 21), d’altro lato la relazione con gli affetti familiari si colloca subito sotto il segno della congiunzione fra oralità e senso di colpa (i pezzi di filo della madre sarta infilati in bocca e ingoiati, p. 27; una monetina nascosta in boc- ca; il morso violento alla manina del fratello minore, p. 28), e del necessario rapporto fra «colpe» e «segreti» (p. 29), includendo fin dal primo momento, cioè prima ancora della vicenda delle «assag- giatrici», la possibilità che ciò che ci fa vivere, e a cui non potremmo resistere, sia anche ciò che può ucciderci: «Mia madre diceva che quando si mangia si combatte con la morte» (p. 12). Ne deriva una costante, violenta sovrapposizione di fondo fra la vita e il rischio di morte, con chiari effetti drammatizzanti, che la condizione di Rosa esalta all’estremo, e che viene ulteriormente complicata (con una curvatura narrativa e ideologica quanto mai femminile) dalla conse- guente problematizzazione della maternità: se infatti Gregor è rilut- tante ad avere bambini («Diceva che mettere al mondo una persona significava condannarla a morte», p. 62), Rosa invece lo desidera, pur sapendo che «Se fossi rimasta incinta, avrei nutrito il figlio nel mio grembo con il cibo della mensa […] / Avrei rischiato di avvele- nare il bambino, saremmo morti tutti e due. O saremmo sopravvis- suti» (ivi). La drammaticità estrema della condizione di Rosa viene inoltre ulteriormente complicata dalla sua difficoltà a integrarsi con le altre nove assaggiatrici: sia perché percepita apertamente come una cittadina (Rosa ha vissuto fino a poco prima a Berlino), sia per- ché fatica a condividere l’entusiastica fede nazista delle compagne.

In realtà, almeno con una di esse, Elfriede, Rosa riesce a stabilire un controverso rapporto, se non di amicizia, di riconoscimento reci-

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proco della rispettiva umanità. Inoltre, tutte le donne del romanzo vivono in una condizione di subordinazione ai maschi e al potere che incarnano. Nonostante tutto, Rosa continua ad avere voglia di vivere: finché però riceve la lettera ufficiale che le comunica che il marito Gregor è disperso, e dunque probabilmente morto. Quan- do, con la seconda parte del romanzo, compare la figura di un più feroce aguzzino, il tenente Ziegler, Rosa potrà tenergli testa, alme- no sul piano morale, proprio perché non ha più «motivi per vivere.

Ecco perché Ziegler non mi faceva paura. / Lui l’aveva vista, la mia inclinazione alla morte, e aveva dovuto distogliere lo sguardo» (p.

97). In questo, solamente in questo, i rapporti di forza si invertono, e il romanzo lentamente ruota sul manifestarsi, non inopinato, dell’at- trazione fatale di Ziegler verso Rosa, presto corrisposta. L’avvio di una relazione amorosa accentua le contraddizioni della protagoni- sta in una nuova direzione: perché, facendole ritrovare ragioni per vivere, d’altro canto fa crescere «la lista delle colpe e dei segreti»

(p. 136), al punto di farle credere che il marito possa essere morto in qualche modo proprio a causa del suo tradimento. La Postori- no è brava a mettere in gioco un ventaglio articolato e complesso di sentimenti ed emozioni, cui corrisponde una tensione narrativa mai allentata. Nel complesso, però, lo spostamento di accento dal terrore quotidiano alla relazione amorosa rischia di accantonare buona parte dell’ambiguità, attuale e potenziale, della situazione narrativa, pure così gravida di significati, energicamente evocati: le componenti di crudeltà si vanno così decisamente smussando, e la dinamica esplosiva dell’incrocio fra attrazione e disparità, fra amore e prigionia, si ammorbidisce fin quasi a spegnersi. Postorino però è ancora brava a rialzare la tensione narrativa: con il sospetto di una gravidanza di Rosa (pp. 243-246), con le vicissitudini della sua fuga, favorita da Ziegler, e con un finale insieme a sorpresa e in fading, che elude ogni rischio di un troppo facile idillio.

L’animale femmina di Emanuela Canepa (classe 1967, bibliotecaria, romana di nascita e padovana di adozione) è un esordio di sorpren- dente maturità stilistica e strutturale. Se la storia di Gerda Taro aveva mostrato anche una figura di donna libera da condizionamenti pa- rentali, e il romanzo della Postorino aveva fatto balenare una ma-

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dre angosciosa, poi rimpiazzata dalla suocera, quello della Canepa mostra un rapporto non meno conclamato fra i sensi di colpa della protagonista Rosita e la sua difficoltà a liberarsi dall’ingombrante presenza materna, per riuscire così a vivere finalmente la propria vita. Ricordiamo anche le motivazioni della giuria che ha attribuito a L’animale femmina il premio Calvino, all’unanimità, giudicandolo romanzo «compiuto, maturo, di esemplare nitidezza nella struttura e incisivo nella lingua», capace di mettere «in campo uno spiazzan- te gioco di seduzione senza sesso e che, pur attento alla psicologia maschile, dà in particolare voce, con stringente analitica, alla forza carsica del femminile». Fondamentale nella costruzione del roman- zo è però anche l’attivazione di una seconda linea narrativa, cui ac- cennavo poco sopra, dove Rosita smette di essere protagonista. A prima vista, la vicenda di Rosita assunta nello studio dell’avvocato Lepore potrebbe lasciar supporre possibili implicazioni sessuali ri- guardanti la protagonista e narratrice; invece Canepa apre a sorpresa un’altra storia, completamente diversa, che s’intreccia con la prima, contrappuntandola e spingendola di colpo lontanissima da qualsiasi soluzione immaginabile dal lettore: la storia dell’intenso, contrasta- to amore omosessuale di Ludovico adolescente per l’amico Guido.

Scopriamo così come Ludovico è diventato quello che è, e come le malizie con le quali esercita il suo potere siano intrecciate a filo dop- pio con la sua ormai remota ma mai sanata disillusione sentimentale:

di cui è responsabile non solo l’amico, ma anche lui stesso, bloccato nell’incapacità di godere pienamente dell’esistenza. Il romanzo ne ricava una nuova spinta narrativa, che prende spazio e peso crescen- ti, producendo uno spostamento del centro tematico dalla Bildung di Rosita all’educazione sentimentale di Ludovico, ancora dolorosa- mente irrisolta. In questo modo, la storia passa dalle difficoltà e fra- gilità della donna, esposta a tutte le sottili violenze del proprio capo, alle fragilità, ancora più profonde e forse definitive, del supposto uomo forte. Così facendo Canepa lascia un po’ per strada la matu- razione di Rosita, e inventa uno scioglimento narrativo inatteso (cui contribuisce la stessa protagonista), aprendo a una possibile parziale pacificazione, ma senza cedere a nessuna tentazione consolatoria. La libertà delle femmine, ora lo sappiamo un po’ meglio, è certo proble- matica: ma anche quella dei maschietti non scherza…

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Le donne sbiadite delle storie di famiglia

di Elisa Gambaro

Le storie di famiglia scritte da donne hanno ormai conquistato ampio spazio nel circuito della produzione e del consumo. La tendenza a ibridare romanzo familiare e romanzo storico ha prodotto nell’ultima stagione declinazioni specifiche, così che scrittrici diverse hanno scelto di misurarsi con il filone della memorialistica ebraica: i libri di Lia Levi, Colette Shammah e Anna Foa, accomunati dai medesimi intenti civili. Peccato che le figure femminili ritratte siano poco coinvolgenti.

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on se ne parla poi moltissimo, eppure il fenomeno è noto agli addetti ai lavori: storie e saghe di famiglia a firma femminile continuano ad appassionare una parte non pic- cola del pubblico delle lettrici: che è poi come dire – questo lo si ammette, se messi di fronte all’evidenza dei numeri – la porzione ormai stabilmente maggioritaria dell’utenza libraria.

Di per sé, il riscontro non è inedito, anche in una scena let- teraria, come quella italiana, che a lungo ha concesso sanzione di va- lore e riconoscimento culturale a poche scrittrici, avvalendosi senza remore di pregiudizi maschilisti. Se guardiamo indietro e in alto, i libri più belli e più letti delle nostre grandi autrici novecentesche – da Menzogna e sortilegio a Lessico famigliare – sono anzitutto epopee domestiche. Ma anche scendendo i gradini del canone, avvicinando- ci all’oggi e muovendoci nei paraggi della narrativa istituzionale, non è difficile accorgersene: gli intrecci intergenerazionali, con i confron- ti, i conflitti e il pathos che ne vengono, sono sempre molto frequen- tati dalle professioniste della penna. Dai signorili romanzi memoriali di Rosetta Loy negli anni ottanta e novanta, fino ai melodrammoni truci di Mazzantini nel decennio zero, passando attraverso un’area frastagliata e ampia di produzione mediana, le vicende di famiglia abbondano: segno di una più salda fiducia, da parte delle scriventi, di rispondere a bisogni estetici diffusi. Non a torto: ricreare il vissuto

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di personaggi entro i vincoli sociali e affettivi dell’intimità quotidiana sollecita il coinvolgimento di platee vaste, perché chiama in causa esperienze esistenziali largamente condivise.

È così accaduto che il prototipo del romanzo familiare delle scrittrici abbia proliferato in una gamma articolata di modelli secon- dari e ibridi: un esito che ne misura la fortuna, e complica il tenta- tivo di tracciarne una mappa dettagliata – se mai qualcuno volesse provarcisi. Qualche ragionamento si può tuttavia tentare anche qui, se è vero che le dinamiche di differenziazione interna del genere si sono spinte molto avanti, dando vita a fenomeni editoriali piuttosto riconoscibili.

Il primo dato che salta all’occhio è la frequenza di conta- minazione tra saga di famiglia e romanzo storico. Subito dopo, si è colpiti dalla reviviscente fortuna di un sottogenere della narrazione storica quale è diventata la memorialistica ebraica. Nella stagione 2018 sono usciti almeno tre libri che vi si rifanno in modo più o meno esplicito: Questa sera è già domani di Lia Levi (e/o), La fa- miglia F. di Anna Foa (Laterza), In compagnia della tua assenza di Colette Shammah (La nave di Teseo).

Si tratta di opere morfologicamente e stilisticamente molto diverse tra loro, come d’altronde già certificano le rispettive sigle editoriali. Questa sera è già domani è l’ultima prova di un’autrice che ha alle spalle un lungo curriculum di romanziera, ed è una sto- ria di fiction; va però detto che la vicenda rielabora letterariamente l’esperienza realmente vissuta dal marito di Levi, come scopriamo nell’ultima pagina del volume, che reca riprodotto il modulo della sua accettazione in territorio elvetico emesso dalla dogana svizzera in data 15 ottobre 1943. Il secondo e il terzo libro sono resoconti memoriali, ma difformemente declinati: La famiglia F. è la biografia di Vittorio Foa e di sua moglie Lisetta Giua firmata da una storica di professione, che en passant si trova a essere la figlia dei protagonisti ritratti. In compagnia della tua assenza è invece l’opera prima, an- ch’essa di matrice autobiografica ma con ben più esibite ambizioni letterarie, di un personaggio noto, per via familiare, sulla scena del teatro istituzionale milanese.

Ad accomunare i tre titoli è il tentativo di raccontare storie di famiglia sullo sfondo di più ampio respiro degli eventi collettivi,

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in frangenti drammatici e noti. L’operazione rispetta i consueti pre- supposti di funzionamento del genere: da una parte si punta a insa- porire la materia privata per accrescere l’interesse di chi legge, faci- litandogli altresì l’orientamento nelle maglie dell’universo libresco.

Dall’altra parte, l’allargamento del quadro è anche, come si dice,

“segno dei tempi”: che demandano la riproposta narrativa di trage- die e traversie del passato a monito del nostro poco allegro presente.

Il romanzo di Lia Levi è senz’altro il libro che più scoperta- mente risponde a questo movente civile, in coerenza con il percorso di una scrittrice che ha da sempre fatto della necessità del pubblico ricordo il perno della sua proposta letteraria. Con riscontri effettivi:

la vittoria del premio Strega Giovani 2018 di un’autrice ultraottan- tenne è senz’altro sintomo del bisogno di coordinate e orientamento diffuso nelle giovani generazioni.

Assai più deludenti, possiamo dirlo, sono gli esiti di tutti e tre i libri quando invece li misuriamo sull’efficacia delle immagini di femminilità offerte al pubblico delle lettrici: le quali si trovano di fronte a “personagge” assai poco duttili, piatte e sbiadite, nel com- plesso carenti nel sollecitare dinamiche di immedesimazione, proie- zione e rielaborazione dell’identità personale.

L’intreccio di Questa sera è già domani si svolge tra gli estre- mi cronologici degli anni 1937-43, seguendo le vicissitudini di una famiglia ebraica, dalla piena integrazione borghese alla fuga dispe- rata tra le nevi del confine italo-svizzero. Questo canovaccio nar- rativo, che si riallaccia a precedenti ormai canonici della narrativa italiana del secolo scorso, è però esclusivamente dipanato entro l’ot- tica chiusa dei dissidi familiari. Al centro il protagonista Alessandro, prima enfant prodige, poi adolescente tormentato, e la sua matura- zione etico-politica: ma al di là delle pretese di esemplarità ideologi- ca, la storia di formazione è giocata per intero sul piano dell’intimità psichica, nello scontro tra un figlio e sua mamma. Mentre gli eventi precipitano, il ragazzo cresce diviso fra una «madre cattiva», ran- corosa e anaffettiva, che poco comprende di quel che accade e pur tuttavia esercita un subdolo dominio domestico, e un padre cosmo- polita, intelligente e sensibile, ma remissivo e irresoluto. Attorno al terzetto si muove una folla di zii, cugini e parenti vari, uniti da ataviche tradizioni, vincoli di sangue, alleanze commerciali e taciuti

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rancori; la loro rappresentazione screzia la pagina di nostalgie affet- tuose e note di costume, ma quel che conta davvero è la cassa di ri- sonanza che i personaggi secondari forniscono al sordo conflitto fra mamma e papà. Il lieto fine del romanzo vedrà il sedicenne Alessan- dro portare in salvo se stesso e i genitori grazie alla medaglietta con la stella di David che ha clandestinamente conservato: è una trovata romanzesca d’effetto che parifica salvezza personale, sussunzione piena dell’identità ebraica, fine dell’infanzia ed entrata nel mondo adulto. Le modulazioni avventurose della trama non riscattano tut- tavia l’impressione che il protagonista si sia sottratto, prima ancora che ai nazifascisti, a una figura materna la cui grettezza rimane nar- rativamente poco motivata.

Da un’attitudine opposta muove In compagnia della tua assenza di Colette Shammah, un libro che si offre anzitutto come appassionato epicedio alla madre scomparsa: la storia è quella di Sophie, fascinosa rampolla della borghesia ebraica di Aleppo, che riesce da sola a recarsi a studiare in Francia, e poi dalla Francia deve fuggire quando il paese è occupato dai nazisti. Il resoconto di queste peripezie è preceduto da un affondo nel passato più recente, quan- do Sophie, ormai anziana e malata, sceglie di darsi la morte nella sua lussuosa casa milanese: dal gesto di dignità e coraggio, e dai silenzi che si porta dietro, nasce nell’orfana la spinta a raccontare la vita della genitrice: «Non volevo il mondo ti dimenticasse, che cancel- lasse il tuo nome». A disturbare non è tanto l’impiego della forma allocutiva, che pure sortisce esiti stilistici stucchevoli, quanto piut- tosto il ritratto senza macchia, irrimediabilmente statico, della pro- tagonista: Sophie è bella, intelligente, intrepida, sofisticata, a tutti e a tutte superiore, perché «lei viveva il privilegio di poter dire e fare quello che voleva». Invidiabile prerogativa: forse troppo fulgida per sollecitare la simpatia di destinatarie minimamente avvertite.

Di ben altra pasta sono fatti i componenti della Famiglia F., dove la ricostruzione scorrevole e informativa della storia della si- nistra italiana lungo l’intero secolo scorso si modella sul frondoso albero genealogico dell’autrice, non a caso riprodotto in effigie al termine del volume. L’assunto del libro è presto detto: proporre in forma narrativa le vicende del clan Foa significa rievocare la sto- ria pubblica senza diaframmi di sorta. Perché stupirsi dell’azzardo,

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quando leggiamo che «le parole “mamma” e “papà” sono state bandite dalla nostra famiglia ben prima del Sessantotto, e quando, per sbaglio, mi è successo a volte di pronunciarle mi sono sentita a disagio, come se avessi detto qualcosa di sconveniente». E come no.

Fedele alla propria educazione prima ancora che all’attitudine da ricercatrice, chi narra interpella i genitori-eroi solo come Lisa e Vit- torio: allo stesso modo, il racconto delle loro movimentate esistenze coincide, senza residuo alcuno, con la storia delle rispettive azioni, passioni e posizioni politiche.

Per chi legge, questa scelta non mina la gratificazione di ri- percorrere gli eventi collettivi dall’invidiabile specola del “visti da vicino”: ne depotenzia tuttavia gli effetti di suggestione, perché si porta dietro una palpabile nebulosità nel ritratto individualizzante dei due protagonisti in scena. Né bastano, a supplire, le diverse me- morie letterarie, di volta in volta sollecitate da questo o quel nome illustre che fa capolino nel racconto. Le figure evocate da Anna Foa sono le stesse che animano le pagine memorabili di classici nove- centeschi come Lessico famigliare o L’orologio, libri puntualmente richiamati dalla scrivente in funzione esplicativa, perché spesso co- stituiscono le uniche fonti del resoconto; nessuna civetteria citazio- nistica dunque, semmai il candore che nasce dall’agio di un’appar- tenenza d’eccezione. La narrazione è cronologicamente ordinata sulla storia novecentesca: si comincia con il «mito fondativo» della guerra di Spagna, dove trova morte eroica Renzo Giua, il fratello maggiore di Lisetta, si prosegue con gli anni trascorsi nelle carceri fasciste dal nonno materno e dal padre Vittorio, infine si percorrono i mesi intensissimi della Resistenza, quando Vittorio è dirigente del Cln mentre Lisetta, incinta dell’autrice, scampa miracolosamente alle grinfie della banda Koch a Villa Triste. Già a questo punto del libro, il lettore ha capito benissimo come «l’idea che l’eroismo fosse una dimensione normale della vita» è l’autentico perno del progetto di scrittura, e le pagine che seguono non intendono certo smentirlo.

Il tempo di pace non minaccia più la sopravvivenza dei personag- gi, ma i frangenti politici da loro attraversati non perdono nulla in drammaticità, nel rapporto totalizzante, arrovellato e problematico con lo scontro di classe in atto in Italia e le scelte di militanza di volta in volta compiute. Ciò che colpisce, tuttavia, è come le due figure ge-

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nitoriali ne escano diversamente. Il ricchissimo percorso di Vittorio Foa, fatto di scelte politicamente atipiche, svolte ed esperienze dif- formi, è rappresentato con pietosa, ma inscalfibile, devozione filiale, così che, al termine del libro, la fisionomia del grande vecchio della sinistra italiana riluce di superiore coerenza. All’opposto, il profilo di Lisetta mantiene un persistente cono d’ombra: la militanza par- tigiana, quella nel Pci, il maoismo sessantottino, l’attivismo politico nell’est Europa e poi in Africa sono tutti dati che non riescono a comporsi in un ritratto davvero coinvolgente. Qualcosa sfugge, e il sospetto è che si tratti dell’essenziale.

Nelle storie di famiglie borghesi scritte da donne sono in- somma le figure femminili a rimanere letterariamente irrisolte: che questi personaggi siano infine le mamme non stupisce, ma continua a dirci quanto sia difficile proporre modelli di femminilità adeguati alla crescente consapevolezza di noi lettrici.

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Di mamma ce n’è una sola. Falso!

di Giovanna Rosa

L’ultima produzione narrativa a firma femminile ripropone una galassia policroma di figure materne. Le opere più interessanti, lungi dal tratteggiare il profilo unico e insostituibile della genitrice o rilanciare il personaggio tradizionale della matrigna, pongono al centro l’esperienza della maternità, come fa Cattiva di Rossella Milone: una storia che intreccia, in un montaggio franto, la rievocazione scontrosa del parto con la conquista faticosa di un nuovo equilibrio soggettivo e interpersonale.

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i mamme nella nostra narrativa ce ne sono sempre state tante, forse troppe: l’amore materno, possessivo e ir- revocabile, ha dilagato con mille sfumature, dalle più sentimental- mente sdolcinate alle più subdolamente viscerali.

Nelle opere tardonovecentesche a firma femminile, il segno si è ribaltato, bruciando le note di melensaggine a vantaggio di una relazione matrilineare forte, capace di rompere i vincoli di dipen- denza stretta dal patriarcato. Poi, nel paesaggio di millennio, quan- do le autrici del postfemminismo hanno cominciato a espugnare la

“città proibita”, le protagoniste di una fortunata antologia di Stile Libero, Ragazze che dovresti conoscere, sono entrate con spavalda baldanza nell’universo della sessualità, liberando le pulsioni della libido, più o meno trasgressiva: poco importa se, nelle loro storie, a dominare fosse l’esuberanza sensuale o il senso frustrante di perdi- ta, dietro le scorribande spudorate dell’eros l’ombra perversamente amorevole delle madri tendeva a dileguare.

Sono passati quasi tre lustri dalla Sex Anthology einaudia- na, e nell’ultima stagione letteraria la maternità negata torna a ri- vendicare un ruolo centrale: a fine 2018 Garzanti pubblica Tu sei parte di me. Sin dal titolo, la raccolta di sette racconti con protago- niste donne «amiche, complici, nemiche o rivali, ma sempre madri e figlie» – come recita il sottotitolo – suona replica alle voci femmi-

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nili di chi voleva affrancarsi dai legami di una mammità onnipos- sente e ultrapossessiva, per ribadire, nelle diverse scelte espressive, che nulla può recidere il cordone ombelicale. Non sorprende allora che le autrici italiane, affiancate dalla più celebre Clara Sánchez, disegnino un quadro di relazioni famigliari convenzionale, senza guizzi d’estro immaginoso. Le narrazioni, di lunghezza media e di- stesa, sono per lo più affidate alla prima persona – cinque su sette – e oscillano fra i poli opposti di focalizzazione: ora prescelgono il pun- to di vista della figlia che recupera il rapporto con la figura materna, dopo anni di separazione e traversie varie; ora il focus si concentra sulla genitrice e sulle sue distorte percezioni di ordinaria quotidia- nità. Nei testi più interessanti, l’esperienza della maternità segna l’incontro ravvicinato con l’altro da sé, che matura un senso diver- so dell’io muliebre: può essere la protagonista che, in attesa della secondogenita, entra in sintonia con la prima figlia (Siamo noi la nostra casa); o una madre stanca e assonnata a cui una sconosciuta ruba, in un centro commerciale, la neonata in carrozzina (Il Giorno Zeta); o infine una single in carriera, incinta di due gemelle, aiutata da altre puerpere a superare l’orgoglio dell’autonomia autosuffi- ciente (La donna di ghiaccio). È grazie a questo groppo di emozioni e sentimenti che il «Vecchio Me» (Simona Sparaco) scompare per lasciare il posto all’euforia contagiosa della condivisione d’affetti.

Accomunati da una scrittura piana, talvolta appesantita da manie- rismi retorici – in Adua di Carmela Scotti le similitudini si sprecano – i racconti di Tu sei parte di me hanno soprattutto il merito, se così si può dire, di sottolineare il cambiamento culturale che, in questo decennio, ha investito le pratiche di scrittura femminile, sancendo il ritorno trionfante delle madri.

Aveva cominciato Silvia Avallone con Da dove la vita è per- fetta (Rizzoli, 2017), un romanzo ambiziosamente corale, in cui il garbuglio della trama è solo apparente: la reiterazione di temi e re- lazioni congela il sistema dei personaggi in schemi fissi e ridondanti, sviluppando in analessi la vicenda di una ragazzetta diciassettenne che abbandonata da tutti, compreso il compagno Manuel, decide di dare in affido la piccola Bianca, salvo poi ripensarci, in extremis.

A una struttura circolarmente compatta, che poco spazio lascia all’ariosità delle dinamiche d’intreccio, corrisponde una scrittu-

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ra affabulante, spesso melodrammatica, non dissimile dalle scelte stilistiche d’esordio. Ma qui lo squallore della periferia bolognese, la tipologia sfigata del gruppo dei giovani e soprattutto l’omaggio all’amor materno totalizzante e risolutore fanno rimpiangere l’ener- gia rappresentativa con cui Avallone aveva schizzato, sullo sfondo dell’altoforno di Piombino, il profilo spiazzante di due adolescenti,

“amiche del cuore”, in rotta di collisione con il mondo adulto.

Diversa ma analoga l’intonazione di Donatella Di Pietran- tonio che, lungo un percorso narrativo a dominanza femminile, giunge, dopo Mia madre è un fiume, al successo conclamato con L’Arminuta. Il libro vincitore del Campiello 2017, oggi riproposto in tascabile (ET 2019), evoca, sullo sfondo opposto e complemen- tare della miseria contadina e dell’ipocrisia provinciale piccolobor- ghese, la Bildung di una tredicenne, di cui non viene mai pronun- ciato il nome: vale solo l’appellativo che ne racchiude la vicenda, l’arminuta, ovvero la ritornata. Nell’andirivieni fra due case e due madri, non c’è molto da scoprire o imparare, anzi: a salvarla, alla fine, più che la complicità sororale, è un sano istinto di fuga davanti al pianto di un fratello neonato, conosciuto in una nuova famiglia, la terza, in cui il perbenismo domestico poggia sulla severità di un padre ottuso e di una madre desolantemente succube che è meglio perdere che ritrovare.

Quasi in replica, anche Margherita Oggero racconta la sto- ria di una doppia maternità: riversate in televisione le avventure in- vestigative della prof Baudino, in Non fa niente la scrittrice torinese sceneggia, dapprima sullo sfondo cupo del nazismo – uno scenario ormai inflazionato – la vicenda di Esther, giovane donna di spiri- to energico e intelligenza affinata. Abbandonata dalla madre e poi osteggiata da una suocera veterosabauda, riscatta l’istinto oblativo della propria maternità impossibile, chiedendo a Rosanna, una con- tadina ignorante, bella e sensuale, di concepire un figlio per esaudi- re il desiderio di paternità del marito, l’ingegner Riccardo. A confor- tare una simile scelta, il modello esemplare del testo sacro: «Come nella Bibbia fece Agar per Abramo e Sara». Così nasce Andrea, un maschio «bello e in carne, tre chili e due etti di carne e ossa, brac- cia e gambe pienotte, un bambino che appagava le più ottimistiche aspettative» della famiglia allargata; e tutto fila al meglio. È vero che

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l’uomo sconta il tradimento biblicamente concordato, morendo po- chi anni dopo di cancro, ma il figlio di due madri cresce all’insegna di un sentimento pacificato di cura, che dissolve ogni contraddizio- ne pubblica e privata. A governare la progressione d’intreccio, che si distende lungo un cinquantennio di storia italiana ed europea, è il ritornello che dà il titolo all’opera, “non fa niente”: può succedere di tutto, sull’orizzonte collettivo o dentro l’intimità più riposta, ma, appunto, nulla può rompere il legame di complicità rassicurante fra queste due figure femminili che, pur nell’antagonismo sociale e cul- turale, si corrispondono a tal punto da vanificare nelle lettrici ogni moto di empatia o anche di dubbio inquieto.

A corroborare, in controcanto, il dilagante ritorno della mammità sono due libri editi nel 2018, Matrigna di Teresa Ciabatti e Cattiva di Rossella Milone.

Dal titolo solo apparentemente consonante, le due opere pongono al centro del racconto la relazione matrilineare fra genitri- ce e figlia, ma la dispiegano in senso opposto, a partire dalla scelta dell’omodiegesi, a cui entrambe s’affidano. In Cattiva a narrare è una giovane donna che rievoca il parto e i primi mesi di difficile convivenza con la neonata; in Matrigna al contrario, la voce narrante appartiene a Noemi, traduttrice indipendente, chiamata ad assistere la madre vedova e un po’ fuori di testa.

Ciabatti replica il paradigma compositivo che aveva sancito il successo di La più amata: là il confronto con una figura paterna, tanto più adorata quanto più imperiosa e opprimente, era cadenza- to sulle note morbose dell’autofiction filiale e la narrazione abile e spregiudicata funzionava grazie all’ironia corrosiva di una memoria infantile, narcisistica e feroce. Nel passaggio di editore, da Mon- dadori a Solferino, il meccanismo si inceppa: non cala la «voluttà di rendersi antipatica» (Petruzzi, Tirature ’18), semmai si rafforza nell’esasperazione acida dei toni con cui è rappresentato il conflitto matrilineare. Troppo facile e scontata la dinamica antagonistica fra le due protagoniste per reggere l’intelaiatura del racconto: alla fine, chi legge poco cura le paturnie della narratrice, devastata dai soliti e banali sensi di colpa, e parteggia per la madre, capace di rispondere al lutto per la scomparsa dell’adorato figlio maschio con il desiderio vitalistico del delirio compensativo.

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Più intrigante Cattiva, che solo alla fine scioglie l’equivoco del titolo: dapprima riferito alla figura materna, come suggerisce la voce narrante, «io sono una persona buona quando l’allatto, sono cattiva quando voglio fuggire», trova autentica rifrangenza di senso nella conclusiva attribuzione alla bimba appena nata: «Allora sarà una figlia cattiva». In realtà, quell’aggettivo funziona in antifrasi a suggerire l’inevitabile distacco fra genitrice e creatura: solo l’abrasio- ne dell’idea deleteria che «tu sei parte di me» consente di riplasmare lo spazio quotidiano di crescita in pienezza di libertà e d’affetti.

Rossella Milone narra, sui ritmi di un montaggio a sequen- ze alterne, l’esperienza di diventare madre, intrecciando i tempi in diretta del parto al racconto dei primi mesi dello svezzamento, en- tro un reticolo famigliare composto da un marito intelligente, mai banalmente comprensivo, cui si affiancano una «mamma lontra un po’ cecata», un papà dal sorriso buono, un fratello lontano ma vi- cinissimo. La scrittura, a volte sintetica e brusca, a volte cadenzata sulle visioni rammemoranti, capaci di riscattare anche lo scontato scenario partenopeo, accompagna il percorso di autodisvelamento dell’io femminile, nella conquista faticosa dell’autonomia che bru- cia l’istinto di onnipotenza protettiva connaturato alle specie ani- mali: «Quando mia figlia piange io so di essere un animale e corro.

Quando mia figlia piange io la devo salvare». Nello scioglimento della vicenda solo dopo una fuga liberatoria sarà possibile dare, fi- nalmente, un nome alla piccola: e Lucia si appresta a crescere, pron- ta a diventare una figlia “cattiva”, non troppo dissimile da chi la sta allattando e ogni tanto scappa nelle ville diroccate vicine al mare.

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di Giuliano Cenati

Che il fumetto fosse geneticamente vincolato alla visione maschile del mondo è stato un topos incontrovertibile per gran parte del Novecento:

accanto ai campioni del superomismo, anche i personaggi femminili più intriganti, da Barbarella a Druuna, erano confezionati da autori maschi a misura di lettori maschi. Dal volgere del secolo, però, viene delineandosi una schiera di autrici e lettrici propense a trattare il fumetto come un campo narrativo congeniale. Complementare al cromosoma XY, nel fumetto si innesta finalmente un cromosoma XX, che trova le forme più efficaci di racconto nei romanzi di famiglia dagli orizzonti sociali aperti e nell’umorismo spinto dell’emancipazione.

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on è un gioco per femminucce: questo è il luogo comune che ha imperato lungamente nel mondo del fumetto.

Si tratta di un luogo comune fondato e attendibile quant’altri mai, se attraverso tutto il Novecento le autrici e le personalità femminili di rilievo nella produzione fumettistica si possono contare sulle dita delle mani o quasi (di particolare spicco le sorelle Giussani, Tea Ber- tasi Bonelli, Anna Maria Gregorietti, Laura Lepetit e Vanna Vetto- ri). Per non dire delle lettrici, che paiono bandite dal dominio delle strisce disegnate nel momento stesso in cui maturano un germe d’i- dentità sessuale. Diversamente vanno le cose per quanto riguarda i personaggi, da Barbarella a Valentina, da Petra Chérie a Druuna, il che pare ribadire il luogo comune sotto il profilo della connotazione di genere che l’immaginario a fumetti assume in via preponderante.

Tant’è che i creatori di quelle protagoniste avvenenti e discinte sono a propria volta maschili, come lo sono i creatori degli eroi e supe- reroi che si sono meglio guadagnati l’affetto del pubblico da una generazione all’altra.

Quando l’offerta fumettistica si articola in modo da po- tersi rivolgere anche a un pubblico adulto, lungo gli anni sessanta, con l’invenzione del fumetto nero ed erotico, le barriere di genere sembrano addirittura rafforzarsi. Isabella la duchessa dei diavoli, Zakimort, Satanik e le altre innumerevoli femmes fatales del tasca-

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bile da edicola rispecchiano certamente fantasie avventurose di in- clinazione fallocentrica, agli antipodi del romanzo rosa e del foto- romanzo a dominante sentimentale che avevano costituito sin lì le letture preferenziali per le donne alfabetizzate. Non solo le femmine hanno dunque parte produttiva limitata nell’industria del fumetto, ma quando di femmine non si può fare a meno perché una storia si metta in moto, sono disegnate perlopiù a immagine e somiglianza delle femmine che albergano nella mente dei lettori e dei produttori penemuniti.

Che non sia questione riconducibile soltanto ai retaggi pa- triarcali mediterranei pare confermato dal rinverdire del medesimo luogo comune presso un po’ tutte le latitudini del mondo fumetti- stico. Anche laddove il fumetto si è imposto con il suo apparato in- dustriale in grande stile, negli Usa, il paradigma maschilista appare rafforzato dalle specifiche forme compositive del supereroismo di massa, in maschera e in costume, trasudante testosterone e insieme propenso al narcisismo infantilistico più esasperato. Nel suo ten- tativo di rileggere la tradizione supereroica americana alla luce dei diritti civili, la Martha Washington di Frank Miller e Dave Gibbons – nera, povera, femmina, ma con due gran coglioni – non può che rincarare la dose all’insegna di un patriottismo archetipico.

Occorre guardare a levante, verso il Giappone, per con- statare come il laicismo utilitario dell’industrializzazione culturale abbia saputo garantire nuovi spazi espressivi ad autrici e lettrici, malgrado gli usi inveterati di un patriarcato tutt’altro che remissivo come quello nipponico. È qui che un settore editoriale come lo sho-jo manga, fumetto femminile a destinazione adolescenziale e preadole- scenziale, può essere codificato in tempi relativamente precoci, da- gli anni cinquanta anche a opera di autrici come Masako Watanabe, Miyako Maki e Hideko Mizuno, entro un sistema di classificazione dell’offerta oltremodo sfaccettato, volto a identificare e soddisfare esigenze di lettura variegate su base anagrafica, sociale e culturale.

La molteplicità di ambientazioni, sfondi e personaggi si combina nello sho-jo manga con una visione drammatica del conflitto tra nor- ma sociale e aspirazioni sentimentali delle protagoniste; ma è, dopo- tutto, l’incombere di nefaste fatalità che mortifica tragicamente ogni loro tentativo di autodeterminazione. Toccherà aspettare la verve

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umoristica di Rumiko Takahashi, l’autrice di Lamù e Ranma ½, af- finché tra anni settanta e ottanta il cupo orizzonte del fumetto fem- minile giapponese possa rischiararsi di tonalità promiscue e trovate ridanciane, mentre va coltivando schermaglie amorose non esenti da qualche brivido sensuale. Eppure Takahashi si trova a operare nell’ambito non dello sho-jo manga bensì dello sho-nen manga, il fu- metto a destinazione adolescenziale maschile, contribuendo a ride- finire il terreno di iniziativa delle autrici nello stesso momento in cui tendono a riconfermarsi consuetudini di lettura marcate sulla base del genere sessuale.

Quegli anni settanta in cui si viene delineando un apporto femminile più significativo alla strutturazione del sistema fumet- to giapponese sono in effetti gli stessi anni nei quali in Italia, sul

«Corriere dei Ragazzi», si possono distinguere la delicatezza e l’a- cume di caratterizzazione di Grazia Nidasio, nella serie Valentina Mela Verde: dove il profilo della protagonista, studentessa liceale della Milano bene, offre alle giovani lettrici strumento di identi- ficazione e insieme mezzo di proiezione verso le problematiche dell’attualità, della cultura giovanile e del più vasto mondo con- temporaneo. Se non si dà insomma l’opportunità alle donne di partecipare a pieno titolo della produzione fumettistica, attraver- so ruoli, pubblicazioni seriali e segmenti di mercato a loro riserva- ti, come avviene in Giappone, resta perlomeno qualche margine entro cui si possono affermare la singola personalità originale o il progetto davvero innovativo, come Valentina Mela Verde appun- to, capace di coniugare le soluzioni della più aperta comunicatività verbovisiva con le migliori istanze di revisione dei costumi espres- se dal sessantottismo e dal femminismo. Può capitare inoltre che spetti proprio a una donna, come Ilaria Volpe (Mirka Martini), la responsabilità di sceneggiatura più avanzata sul fronte della com- mistione tra intrattenimento popolare e ridefinizione del costume:

ciò che avviene, per le chine e con la collaborazione di Magnus, nella serie pornohorror Necron (Edifumetto, 1981), dove la scien- ziata Frieda Boher calca le orme del dottor Frankenstein in chiave necrofila, con piglio assatanato e farsesco.

Lo sviluppo duemillesco del graphic novel ha rimescolato abbondantemente le carte per quanto attiene ai ruoli e alle dina-

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miche vigenti entro il sistema fumetto e nei suoi dintorni: il con- seguente cambiamento nelle prassi di produzione e di lettura, tut- tavia, non pare aver rivoluzionato davvero gli equilibri tra i generi sessuali. Vero è che il graphic novel ha orientato in maniera nuova ed espansiva le aspettative del pubblico leggente nei riguardi del fumetto: ha favorito occasioni di accostamento originale tra la let- teratura romanzesca e il racconto per immagini e parole, nel mo- mento stesso in cui è venuto rivendicando alla narrativa disegnata occasioni risorse sedi di diffusione inedite e crescenti. Se i lettori e gli operatori culturali di formazione letteraria hanno potuto avvici- narsi, attraverso il graphic novel, all’immaginario fumettistico come mai prima avrebbero pensato di fare, qualcosa di simile riguarda proprio e soprattutto le donne, che costituiscono parte preponde- rante della repubblica letteraria, e in particolare del romanzo con- temporaneo. Lo attesta da ultimo, nell’ambito del festival Lucca Comics & Games, l’attribuzione del premio Gran Guinigi come miglior disegnatore/disegnatrice a Barbara Baldi per il janeauste- niano Lucenera (Oblomov, 2018), a Sara Colaone per la biografia dell’anarchica Leda (Coconino Press, 2017), che ridipinge di orien- talismo onirico la stagione liberty e il biennio rosso, e l’attribuzione del Premio speciale della Giuria 2017 a Leila Marzocchi per Niger (Coconino Press, 2006-2016).

L’irromanzimento del fumetto ha proceduto di pari passo con la sua femminilizzazione. A mano a mano che il fumetto ha mi- tigato la cesura che nel corso del Novecento lo separava dall’insieme del panorama editoriale, in quanto branca subalterna dell’industria culturale, contraddistinta da un codice espressivo ibrido ultraspe- cialistico, gli spazi per il protagonismo femminile di lettrici e autri- ci sono venuti ampliandosi in misura ragguardevole. E dal graphic novel la presenza femminile ha potuto espandersi verso generi e for- me fumettistiche originarie della tradizione novecentesca, aggiorna- te secondo le istanze insorgenti dal nuovo assetto massmediatico e dalla rivoluzione digitale.

Negli anni recenti la fantasia muliebre della narrazione commista di parole e figure si riconosce particolarmente in due filoni preminenti: quello delle storie di famiglia, tratteggiate con indugio di rievocazione memoriale, come si confà alle misure del

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graphic novel di fattura libresca, e quello dell’umorismo estroso e fantasmagorico, scandito dal passo episodico delle avventure o de- gli sketch, nelle forme dell’albo cartonato. Lungo il primo percor- so, dove l’autenticità e il realismo della narrazione sono corroborati dalla focalizzazione familiare del resoconto, il legame genealogico tra l’autrice e i personaggi disegnati al centro della scena si traduce in evocazione e differimento del culto autofinzionale. Specialmente all’acme del ricambio tra le generazioni, l’autrice si dispone al ruolo di testimone, custode di memorie intime della consanguineità, e si impegna nella ricostruzione di un’epoca o di un microcosmo sociale che fanno tutt’uno con la storia di famiglia. Sullo sfondo si intrave- dono i modelli di Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Lalla Romano.

Abbandonata la posizione egocentrica e centripeta dell’au- tofiction, la funzione testimoniale assunta dall’autrice-narratri- ce rende al fumetto uno spessore di veridicità che ha il sapore del nuovo insieme con quella garanzia di autorialità che per il fumetto è acquisizione recente da rivendicare. La mediazione esercitata at- traverso la propria controfigura narrativa consente di mitigare lo spaesamento e avvivare la proiezione affettiva verso quel mondo so- ciale remoto o quella cultura altra entro cui i protagonisti familiari assumono concretezza di caratterizzazione. Non per nulla le sto- rie di famiglia inscenate dalle fumettiste italiane degli anni duemila sono tanto spesso storie di un’umanità lontana nel tempo o nello spazio, così che la pietas della discendenza solleciti verso l’altrove geostorico e interculturale. È il caso di Sara Colaone che con Ciao ciao bambina (Kappa Edizioni, 2010), sulla scorta del romanzo di formazione della madre friulana Valeria, offe un quadro d’ambiente intorno alla comunità degli emigranti italiani in Svizzera negli anni cinquanta, propensa a cogliere lo slancio edificante della gioventù, dalle intense tinte pastello, tra la durezza del padronato e le angustie dell’integrazione. È il caso ancora di Pia Valentinis che con Ferrie- ra (Coconino Press, 2014) ricostruisce, attraverso il suo variegato tratteggio reticolare, la quotidianità tenace del padre operaio Mario nella provincia friulana, ma attraverso di lui illustra un’intera vicen- da di classe, l’orgoglio del lavoro e del radicamento sociale.

Affine è altresì il caso di autrici che, visualizzando in for- za del racconto orale le avventure dei congiunti, hanno modo di

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TUTTESTORIE DI DONNE

rielaborare la propria stessa plurima identità culturale e con ciò fanno specchio all’ammodernamento della comunità democratica nazionale: Elisa Macellari in Papaya salad (Bao Publishing, 2018) ri- percorre mediante il ventaglio simbolico dei cromatismi le peregri- nazioni dello zio Sompong, studente modello, dalla campagna thai- landese alla capitale Bangkok e di qui all’Europa e all’Italia dilaniate dalla Seconda guerra mondiale; Ciaj Rocchi insieme con il marito Matteo Demonte illumina l’itinerario milanese di integrazione del nonno di lui Wu Li Shan, da venditore ambulante a rispettato im- prenditore, ramo pelletteria, in Primavere e autunni (BeccoGiallo, 2015), che trova un seguito storico-documentario allargato all’inte- ra comunità cinese di Milano, tra l’Expo del 1906 e gli anni settanta, in Chinamen (BeccoGiallo, 2017); Takoua Ben Mohamed racconta con La rivoluzione dei gelsomini (BeccoGiallo, 2018) il suo viaggio di separazione e ritrovamento tra Italia e Tunisia, che è anche quello della sua famiglia divisa dall’esilio politico e il viaggio delle donne ombra, oppresse tra gli oppressi sotto il regime di Ben Ali, verso l’affrancamento democratico.

All’opposto del realismo sociofamiliare ricreato attraverso le modulazioni da graphic novel, si delinea un manipolo di autrici giovani o giovanissime che prediligono il passo svelto dell’umorismo sganasciante e le tipizzazioni pupazzettate, volte ora nel segno della stilizzazione minimalista aggraziata, come Lorenza di Sepio con la serie Simple & Madama (Shockdom e Magic Press, 2013-2018), ora nel segno della distorsione fisiopsichica e coloristica espressionista, come Sketch & Breakfast (Simona Zulian e Andrea Ribaudo) con la serie Felinia (Dentiblù e Magic Press, 2014-2018), ora nel segno della sovversione paradossale degli stereotipi di genere, ottenuta per eccesso di convenzionalismi, come Mirka Andolfo con la mi- niserie Sacro/profano (Dentiblù, 2013-2015) o Pocci Pocetta con la miniserie Hi/Lo (Shockdom, 2016-2018). Accanto all’impronta marcata della tradizione manga, si avverte nelle loro pagine qualche parentela con la filosofia fumettistico-esistenziale, di taglio umoristi- co iperbolico, delle sorelle maggiori Silvia Ziche, Vanna Vinci, Fran- cesca Ghermandi. Il sostegno della socializzazione via web appare determinante in molti dei loro exploit editoriali, a tal punto che la pubblicazione cartacea segue qualche volta il primitivo successo ca-

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Fumetto XX

pitalizzato in Rete, sulle pagine dei blog o dei siti autoriali, o assume i contorni dell’autoproduzione di tutto rispetto, in forza del consen- so maturato nella propria bolla digitale di riferimento, come avviene con Il Principene azzurro e la Principassera disincantata di Franziska (Francesca Casano, 2018).

Le ansie della singletudine, le ambiguità di orientamento sessuale, i dilemmi amorosi, gli inciampi della vita di coppia, che pure si accampano al centro delle trame, non costituiscono il bari- centro esclusivo di un immaginario femminile chiamato a soddisfa- re l’imperativo categorico della progettazione familiare e della pro- lificazione onorevole. Semmai il binomio elementare delle relazioni affettive, in potenza o in atto, costituisce specola di registrazione ma anche, nei casi più fortunati, di mitigazione degli schematismi morali e delle contraddizioni sociali: diventa strumento di scrutinio privilegiato della pittoresca fenomenologia umana, a tutto campo, ma soprattutto si distingue come spazio eminente di riconoscimen- to dell’altro nella sua autonomia e peculiarità. Così Felinia (Sketch

& Breakfast) può disegnare con nonchalance la propria contro- figura a fumetti colta in una seduta al gabinetto particolarmente travagliata o dettagliare il calibro dei suoi peli superflui, riottosi a ogni trattamento di bellezza, poche vignette dopo aver rievoca- to i suoi soggetti grafici preferiti in forma di cazzi infiocchettati.

Franziska può suggerire mediante una stilizzazione cartoonesca la giostra fallica, detta l’“elicottero”, del compagno di letto dell’amica Alexia, che ne è deliziata al di fuori di ogni dovere orgasmico. Per le protagoniste, insomma, si aprono prospettive di legittima giocosità sensuale, di ricerca fantasiosa dell’eccitazione e dell’appagamento, di nuove attitudini relazionali. Attraverso gli apparati autoironici e ridicolizzanti, l’esaltazione della caricatura e il ribaltamento dei cliché scavano nelle prescrizioni estetiche e comportamentali in- valse, rimettono alla prova la funzionalità delle gerarchie sociali e produttive dominanti.

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