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IL SENSO DELLA FILOSOFIA

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IL SENSO DELLA FILOSOFIA

Che cos’è la filosofia: La parola filosofia oggigiorno è una parola fin troppo abusata, strumentalizzata, quasi violentata in un certo senso, tanto che ha dato origine a non pochi fraintendimenti ed ambiguità di significato in merito alla sua autentica natura. Il termine viene tra l’altro utilizzato praticamente in ogni ambito dell’esistenza umana, anche quando non avrebbe alcuna attinenza con la materia a cui dovrebbe fare riferimento. A fronte di un uso eccessivo e smodato del vocabolo, pratica che non di rado ha sortito l’effetto di storpiarne il significato, non molti, a meno che non abbiano studiato i primi rudimenti di filosofia alle scuole superiori, hanno ben chiaro di che cosa si tratti in realtà come disciplina. Si sente sempre più spesso parlare, infatti, di “filosofia di vita”, della “mia filosofia”, di “filosofie orientali”, di “nuove filosofie”, della “filosofia del Barcellona”, o di

“prendere con filosofia” una data situazione esistenziale, o ancora di “filosofia esecutiva”, di “filosofia quantica”, “di filosofia del successo”, di “filosofia extraterrestre” o di “filosofia new age”. Si è venuta così a produrre una Babele infinita di applicazioni confuse del termine che generano talvolta degli autentici non-sensi. La maggior parte delle persone, oggi, tende ad associare il termine filosofia all’idea delle molteplici visioni del mondo che ognuno di noi può adottare, tanto che le espressioni sono divenute un sinonimo. Poco importa che le infinite possibilità delle visioni del mondo siano già belle inscatolate e pronte ad essere abbracciate e fatte proprie, o che possano essere un prodotto autonomo della fantasia individuale. Si parla, perciò, apertamente ed indiscriminatamente della “mia filosofia di vita”, volendo intendere con ciò lo stile di vita che ognuno tende più o meno consapevolmente ad adottare, con tutti i corollari degli usi e costumi ad esso connessi, quali idee politiche, religiose, valutazioni etiche, comportamenti commerciali, schieramenti ideologici, credenze soprannaturali, dubbi complottistici, stili mentali o addirittura estetici, scelte esistenziali o identificazioni auto-celebrative con le innumerevoli macro-etichette che la società consumistica ci mette a disposizione e così tanto in voga nell’epoca dei social- network, ma purtroppo tutte altamente semplificatorie e svilenti rispetto alla nostra realtà intellettuale o sentimentale, spesso infinitamente più ricca.

Per cercare di fare un minimo di chiarezza e provare ad orientarsi in questo autentico labirinto di significati e di interpretazioni più o meno libere del termine, come sempre nel caso dei segni semantici, si deve risalire alle origini e quindi

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all’etimologia delle parole. Se è vero, infatti, che per certi aspetti siamo un po’

tutti filosofi, nel senso che ogni essere umano mentalmente sano può naturalmente porsi gran parte delle domande che appartengono alla tradizione filosofica; d’altro canto, è anche vero che con il termine filosofia si vuole più precisamente indicare un fenomeno del pensiero che ha una data di nascita ed una collocazione storica ben rinvenibile e che, tradizionalmente, ha assunto dei meccanismi, una struttura intellettuale ed una metodologia d’indagine del reale e dell’universo che procede

«attraverso l’analisi, la proposta di argomenti e il dibattito», caratteristiche che la rendono unica ed irripetibile come disciplina 1. Il termine filosofia è ovviamente di origine greca e significa letteralmente “amore del sapere”, accezione che finisce perciò per interessare direttamente ed in maniera specifica l’immenso ambito della conoscenza umana che pare non avere confini. Questa definizione, infatti, solleva immediatamente alcune questioni fondamentali sui meccanismi con cui funziona il nostro stesso pensiero e ci offre una prima opportunità di capire quali siano alcune delle domande fondamentali che si pongono in filosofia: ovvero, che cosa possiamo intendere esattamente con il termine conoscenza; che cosa si può catalogare all’interno di questa categoria, e che cosa invece ne resta escluso?

Come possiamo effettivamente conoscere qualcosa, invece di credere semplicemente in qualcosa o averne nulla più che un’opinione? E ancora, quanto della nostra conoscenza dipende dall’esperienza o dai sensi o quanto, al contrario, ne è del tutto indipendente? Non a caso, una delle opere filosofiche più importanti di tutti i tempi, la Critica della Ragion pura di Immanuel Kant, tenta proprio di rispondere ad una domanda del genere: che cosa possiamo conoscere?

A ben vedere, in effetti, in quanto esseri umani, siamo degli esseri straordinari ed allo stesso tempo enigmatici e confusi; illusi di essere imparentati al divino, ma qui, sulla terra, siamo «un coacervo raffazzonato di presunzione e stupida volontà» 2; siamo imparentati con il resto del vivente, ma dotati di stupefacenti capacità di pensiero; in grado di partorire idee come quella dell’infinito, della

1 James Ladyman, Filosofia della scienza. Un’introduzione, Carocci, Roma 2002, p. 33.

Ovviamente generalizzando molto, si può sostenere che religione, filosofia e scienza, siano tre discipline distinte che tentano di rispondere alle infinite domande di natura esistenziale che può arrivare a porsi la mente umana, ognuna secondo le caratteristiche specifiche della propria metodologia d’indagine. La religione cerca di rispondere essenzialmente al perché delle cose affidandosi soprattutto alla fede ed alla rivelazione esposta in particolare nei testi considerati sacri ed espressione della parola divina. La scienza ha espulso dal suo dominio ogni questione di natura teleologica ed ambisce a rispondere al come avvengono i fenomeni che possiamo osservare, basandosi sulla ragione e sugli esperimenti propri del cosiddetto metodo scientifico. La filosofia, invece, che ha legami di parentela sia con l’una che con l’altra, procede utilizzando il ragionamento, si muove e si articola esclusivamente nell’ambito del pensiero, non pone limiti al suo campo d’indagine e resta un sapere aperto che ambisce ad allargare ed approfondire la conoscenza umana in ogni direzione, concentrandosi più sulla nostra capacità di arricchire la natura delle domande che siamo in grado di porci, piuttosto che fornire delle risposte ritenute valide una volta per tutte.

2 True Detective, prima stagione.

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perfezione o dell’onnipotenza, ma anche consapevoli delle nostre congenite limitazioni: percepiamo prepotentemente sulla nostra pelle e nello scorrere inarrestabile della nostra esistenza che siamo come sbattuti e smarriti nel flusso del tempo, condizionati dallo spazio ed imprigionati su questo minuscolo ed insignificante pianeta. Nella nostra mente si accatastano domande ed ancora domande. Quali aspetti del nostro essere o della nostra coscienza possiamo affermare di conoscere effettivamente? Quali certezze abbiamo su ciò che siamo realmente, dal di dentro, in quanto esseri umani ed in quanto individui? Ed ancora di più, che cosa sappiamo del mondo che ci circonda, della natura, della realtà nel suo complesso, o dell’universo, e che rapporto intratteniamo con tutto ciò? Chi siamo noi e qual è l’esatta natura dei termini, dei concetti e delle idee che percepiamo, che ruotano e si miscelano nella nostra mente ed attraverso cui costruiamo la nostra fragile identità?

Una delle caratterizzazioni più durature ed importanti di che cosa sia la filosofia ci è fornita da Platone che, nelle pagine dell’Eutidemo, la definisce come

«l’uso del sapere a vantaggio dell’uomo». Tuttavia, anche in questo caso, sembra che le domande che solleva questa proposizione siano molte di più delle certezze, giacché l’«uso del sapere al quale l’uomo, a qualsiasi titolo, accede, è, in primo luogo, un giudizio sull’origine o la validità di tale sapere». E ancora, possiamo trovare un accordo condiviso su quali siano i vantaggi per l’uomo? Per quel che concerne il primo caso, ci si aprono immediatamente di fronte due opzioni fondamentali, che chiamano in causa altrettante visioni contrapposte dell’universo, della vita e dell’uomo: la «prima alternativa stabilisce l’origine divina del sapere», tanto che esso «è per l’uomo una rivelazione o un dono»; la seconda, invece, stabilisce «l’origine umana del sapere», in base alla quale la conoscenza è una conquista o una «produzione dell’uomo» 3. Come mostrano questi primi esperimenti, la filosofia viene quindi a costituirsi, nel corso del tempo, come un continuo emergere di questioni e di perché, che si palesano e s’intrecciano gli uni negli altri, nel tentativo di esplorare alcune delle domande più profonde e significative dell’esistenza umana in questo mondo: come può spiegarsi la molteplicità del reale; chi è l’uomo; come si struttura l’universo; che scopo ha la vita; come si definisce la giustizia; esiste qualcosa che trascende la condizione umana; che cos’è la morte; perché esiste il male?

Tutte le numerose civiltà che si sono sviluppate su questo pianeta hanno, a modo loro, cercato di rispondere a domande di questa natura, ed attraverso le proprie risposte, spesso banali, quasi sempre dogmatiche e basate sulla ceca fede religiosa, hanno plasmato la propria peculiare visione del mondo, almeno fino alla

3 Filosofia, in Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, Utet, Torino 1998, p. 476-493.

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nascita della filosofia. Ma allora, che cosa distingue la filosofia propriamente detta da quelle che sono le infinite e singolari visioni del mondo che ognuno di noi può partorire da sé, facendo ricorso al proprio bagaglio di conoscenza, alla propria cultura di provenienza, o alla propria fantasia? In primo luogo, si deve notare che a fare da guida e da sfondo alle riflessioni propriamente filosofiche, fin dalla speculazione delle prime menti che si avventurarono in questo campo, è stato soprattutto l’uso della sola ragione rivolto alla ricerca della verità, ovvero l’inestinguibile volontà di indagare l’architettura che sta alla base del cosmo o delle profondità dell’essere umano, per vedere se si possono rinvenire dei punti fermi a cui aggrapparsi e da cui continuare a scavare ancora. Nell’ambito della cultura greca antica, infatti, il termine filosofia, prima di trovare una sistemazione più coerente, ha oscillato fra due poli piuttosto distanti, che hanno continuato per diverso tempo a caratterizzarne in modo problematico la definizione. Da un lato, infatti, essa indicava la cultura in generale, ossia quella che i greci chiamavano paidéia, la formazione o l’educazione ideale dell’uomo e del cittadino, ma dall’altro, il termine ha iniziato ben preso anche a riferirsi ad una disciplina più definita, avente per oggetto i principi primi dell’essere, della realtà o dell’universo. Il senso di questa volontà caparbia e di stampo eminentemente razionale che regge il peso della filosofia può essere meglio chiarito facendo riferimento al significato di alcuni termini fondamentali con cui i greci s’incamminarono, per primi, nel campo della filosofia propriamente detta ed aiutarci così a comprendere quali siano i meccanismi specifici del pensiero che appartengono ad essa come disciplina.

− Aletheia: letteralmente “lo stato del non essere nascosto”, e quindi

“evidente”, “disvelato”. Il termine deriva da Lethe, ossia oblio, ciò che copre e che oscura, come il fiume del regno dei morti, preceduto dalla a privativa. Di conseguenza, il concetto di aletheia, per la cultura classica, va a fondersi con quello di verità, in un’accezione che possiede una valenza eminentemente razionale, finendo perciò per connettersi all’idea della filosofia come conoscenza di ciò che non è occultato, ma ben visibile e per questo innegabile. Aletheia è perciò la verità di ragione, ossia ciò che si manifesta all’uomo di modo che non possa in alcun modo essere contraddetto e che s’impone a tutti per la sua evidenza, senza ulteriore possibilità di discussione. La verità, quindi, è percepita come base della conoscenza per rendere l’uomo un essere libero, poiché solo di fronte alla verità e tramite un atteggiamento votato alla sincerità possiamo dirci uomini autenticamente liberi. Se proviamo a pensare a qualcosa che si riveli immediatamente innegabile a qualsiasi mente umana sana e dotata di capacità razionali, le cui conclusioni appaiano evidenti, indipendentemente

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dallo spazio o dal tempo nel quale un individuo abbia vissuto e, per certi versi, anche dalla cultura appresa, il primo elemento che ci viene in mente è senza dubbio la matematica, poiché, come ha affermato l’astrofisico John D. Barrow, docente di scienze matematiche presso l’Università di Cambridge, «i numeri sono la più vasta esperienza condivisa del genere umano» 4.

Bisogna pur dire che questo tipo di rappresentazione è particolarmente connaturato alla mentalità greca, in base alla quale la nozione di verità era intesa soprattutto nel senso di corrispondenza. La realtà era percepita come il trionfo del limite sull’infinito, dell’ordine sul disordine, della forma sul caos, ed in questo contesto la matematica, con la sua perfezione, costituiva un elemento paradigmatico dell’universo. In epoca moderna, al contrario, sulla natura e sui fondamenti della matematica non c’è un accordo unanime in filosofia e ci si divide, dovendo per forza di cose generalizzare, in due grandi segmenti: fra logicisti, per i quali gli enunciati matematici vertono su entità astratte dotate di un’esistenza oggettiva, e formalisti, i quali sostengono la dimensione sociale e culturale della matematica, il cui esercizio equivale a manipolare segni privi di significato. Così, per alcuni, la matematica può essere considerata come un sistema complesso le cui regole vanno apprese per via sociale e culturale, ed in base a questa prospettiva, il generale accordo sui nostri calcoli, come afferma Wittgenstein, non sarebbe altro che una conseguenza del modo in cui impariamo a muoverci al suo interno. Mentre per altri, secondo un’ottica più razionalista o legata alla visione classica della matematica, se si vuole, la distinzione fra unicità e molteplicità sembra immediata ed istintiva e, come scrive il fenomenologo Alfred Schutz, «l’espressione 2x2

= 4 ha un significato oggettivo qualunque cosa possa trovarsi nella mente di uno solo o di tutti coloro che la impiegano» 5.

− Epistème: “dominare ciò che sta al di sopra”, deriva da stenai, cioè “stare fermo” e descrive la filosofia come indagine dei principi superiori, ovvero come un eroico tentativo di esercitare il controllo su ciò che ha potere nell’universo o, perlomeno, di scoprire e comprenderne le leggi che ne stanno alla base. Il termine, in sostanza, voleva indicare la «conoscenza oggettiva, da contrapporsi a doxa, che è invece opinione soggettiva», nel senso che qualsiasi autentica forma di conoscenza, si deve configurare

4 John D. Barrow, I numeri dell’Universo, Mondadori, Milano 2003, cit., p. 7.

5 Francesco Crespi, Fabrizio Fornari, Introduzione alla sociologia della conoscenza, Donzelli, Roma 1998, p. 177.

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come «credenza vera giustificata» 6. Il concetto di epistème, inoltre, riesce meglio di ogni altro ad illuminare noi moderni rispetto a ciò che gli antichi intendevano per scienza, come un qualcosa di radicalmente diverso rispetto a quello che potrebbe significare oggi. Come scrive il docente dell’Università di Padova Enrico Berti, infatti, «se per noi la scienza è caratterizzata dalla probabilità, e quindi dalla fallibilità e dalla rivedibilità delle nostre teorie, per i Greci “scienza” (epistème) era al contrario sinonimo di stabilità (…), di immutabilità, di necessità» e, non a caso, «il modello di scienza per eccellenza era la matematica, in particolare la geometria, la quale non dice semplicemente come stanno le cose, ma dice anche che esse non possono essere altrimenti». Nell’ottica dell’antichità classica, quindi, scienza significa «sapere che le cose stanno necessariamente in un certo modo» 7.

− Archè: “principio di tutte le cose”, elemento originario capace di spiegare in maniera unitaria la molteplicità del mondo, viene identificato dapprima con una sostanza materiale, poi con un principio metafisico, l’essere.

Anche se il concetto appare fin dagli albori della filosofia nella riflessione dei milesi, sono poi Platone ed Aristotele a fornire una più precisa formulazione del termine. Il suo senso, infatti, esprime due forme di priorità: l’una in riferimento al valore, ossia a ciò che viene prima per importanza; l’altra in riferimento al tempo, ovvero a ciò che precede le cose nell’ordine della storia del mondo come causa prima.

− Lògos: letteralmente traducibile con diversi termini: “parola”, “discorso”, ma anche “scegliere”, “enumerare”, “calcolo”, “ragion d’essere”,

“spiegazione”, “definizione”. In realtà il concetto espresso con il termine lògos è particolarmente difficilmente da tradurre in maniera corretta in italiano, poiché contiene una pluralità di significati interdipendenti. Esso, in effetti, è al tempo stesso il discorso vero, la dottrina vera, la vera realtà delle cose, il corretto ragionamento, il contrario del caos, quindi ordine, armonia e, perciò, in ultima analisi, ragione e pensiero. Anche in questo caso, nonostante il concetto sia riconducibile già ad alcuni dei primi filosofi, ed in particolare ad Eraclito che lo erge a sostanza prima o causa del mondo, per trovare una piena sistematizzazione ci si deve rivolgere a Platone ed al Teeteto. In primo luogo, afferma Platone, il lògos può essere la «manifestazione del pensiero attraverso i suoni articolati di una lingua»

6 Mauro Dorato, Che cosa c’entra l’anima con gli atomi? Introduzione alla filosofia della scienza, Laterza, Roma-Bari Edizione digitale 2015, p. 9.

7 Enrico Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 7.

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e, quindi, il campo specifico del «lògos filosofico» diviene quello del

«discorso definitorio», ovvero la capacità di produrre ed al tempo stesso di comprendere il ragionamento corretto, «la proposizione o asserzione vera o falsa» 8. Riprendendo quest’accezione del termine, Aristotele diverrà poi uno dei padri della logica, intesa come quel campo del sapere che si dedica al corretto ragionamento o, più precisamente, la «disciplina che privilegia lo studio di insiemi coerenti di enunciati» 9.

− Physis: “natura, nascere, generare”, con esso i greci intendevano sia il complesso di tutto ciò che esiste o accade, sia l’elemento che sta alla base del tutto e che rappresenta l’intrinseco principio di vita della natura medesima. Al contrario di altre visioni del mondo, e particolarmente quelle più marcatamente antropocentriche, i greci erano fermamente persuasi che anche l’uomo facesse parte della natura ed in tal senso, conoscere la natura significa, prima di tutto, conoscere anche l’uomo stesso. L’essere umano, così, nella cultura greca, è ritenuto in grado di ragionare perché la ragione non gli appartiene in proprio, ma appartiene alla natura nel suo insieme. A questo concetto è connesso anche quello di kosmos, che significa “ordine” e se l’ordine, peri primi filosofi, può avere un’origine – che fosse di natura materiale, o di stampo metafisico come per Anassagora, o ancora frutto del caso come per Democrito – «la sostanza dell’universo, di cui il cosmo è costituito, non ha nessuna origine, è eterna». E’ bene ricordare, infatti, che «nessun filosofo greco di quest’epoca ammise la possibilità di una nascita dell’universo dal nulla» e, di conseguenza, cioè, che nessuno adombrò mai la possibilità di quel

«concetto di creazione che sarebbe stato alla base delle grandi religioni monoteistiche (…) e che già a quel tempo era stato messo per iscritto nel libro della Bibbia chiamato Genesi, ad essi sicuramente ignoto» 10.

8 Lògos, in AA. VV., Le Garzantine, Filosofia, Garzanti, Milano 2001, p. 658-659.

9 Logica, in N. Abbagnano, Dizionario di Filosofia, p. 656.

10 E. Berti, In principio, cit., p. 8, 9.

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La filosofia quale prodotto tipico della cultura occidentale: La questione delle origini della filosofia ha sempre suscitato accesi dibattiti che ancora oggi non hanno cessato di provocare delle vere e proprie linee di frattura per le quali gli esperti si schierano da una parte o dall’altra della barricata. In effetti, vi è chi ritiene che la filosofia non possa avere una nascita storicamente databile o registrabile, perché sarebbe esistita da sempre, o perlomeno da quando l’uomo avrebbe iniziato a pensare. Agostino Steuco, filosofo umbro del XVI secolo, coniò a questo proposito la definizione di philosophia perennis, volendo intendere con ciò, che i «problemi che essa si pone e le soluzioni che essa profila sono così importanti che non possono non esserci sempre stati e non potranno che esserci sempre» 11. A tutt’oggi gli studiosi di filosofia si dividono in due grandi correnti, generalmente dette degli occidentalisti e degli orientalisti, le quali dibattono in merito ad un problema fondamentale che pare non poter giungere ad una soluzione univoca o ad una conclusione condivisa: ovvero se la filosofia sia un prodotto tipico e specifico della cultura occidentale, con una nascita storicamente collocabile e delle peculiarità precise che la caratterizzano in quanto disciplina e generalmente riconducibili alle particolarità della cultura greca antica, oppure se quel fenomeno del pensiero sorto in Grecia non sia altro che il frutto di influenze ben più antiche che trovano le proprie radici nella ricchezza del sapere orientale.

Altri ancora, ritengono che il VI secolo a.C., l’epoca nella quale si colloca generalmente la nascita della filosofia greca, possa rientrare sotto l’ombrello ben più ampio di «un arco di tempo decisivo nella storia dell’umanità che un filosofo tedesco contemporaneo, Karl Jasper (…) nella Piccola scuola del pensiero filosofico del 1965, ha definito assiale». In quell’epoca, in effetti, continua Jasper, quasi si fosse registrata una sorta di fase di sviluppo complessiva dell’umanità, si sono succeduti «eventi spirituali – pressoché indipendenti gli uni dagli altri – che hanno originato la coscienza della quale ancora oggi viviamo». Da parte di varie culture e civiltà, cioè, sono stati posti i «fondamenti religiosi e filosofici e date le risposte che ancora oggi ci vincolano» 12. E’ più o meno al VI e V secolo che risalgono la speculazione di Lao-Tse sul principio cosmico del Tao; l’etica delle responsabilità di Confucio o le riflessioni sull’arte della guerra di Sun Tzu; al VII e VI secolo, invece, si possono ricondurre la composizione delle Upanishad e la predicazione del Buddha in India; mentre ad un’epoca ancora più antica, collocabile fra il X ed il VII secolo a.C., risalgono le predicazioni in Persia di Zarathustra e la sua riforma religiosa o l’età del profetismo ebraico. Ovviamente, gli scambi culturali e commerciali del tempo, seppur limitati, hanno potuto

11 Sergio Givone, Francesco Paolo Firrao, Filosofia, vol. 1, Dalle origini al Medioevo, Bulgarini, Firenze 2013, p. 3.

12 Ibidem, p. 20.

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favorire il passaggio delle idee da una regione all’altra ed una reciproca influenza, tuttavia – a meno che non si voglia supporre che questa sorta di risveglio spirituale dalla portata globale dipanatosi per un periodo di tempo piuttosto lungo, non sia stato il frutto di una medesima rivelazione divina, soprannaturale, o addirittura extraterrestre, com’è stato ipotizzato da alcuni ambienti piuttosto fantasiosi, benché privi di qualsiasi credito scientifico – tutte queste manifestazioni del pensiero umano appaiono piuttosto varie, ben radicate ognuna nella cultura specifica che ha finito per produrle, e sostanzialmente frutto di uno sviluppo autonomo che ha seguito strade e percorsi del tutto indipendenti.

Ovviamente anche le civiltà del vicino Oriente, con cui la Grecia intratteneva continui rapporti di scambi commerciali e culturali, erano giunte ad elaborare importanti e vaste forme di sapere, basti pensare all’Egitto o alla straordinaria complessità delle religioni indiane come il buddhismo, le quali spaziavano dalla conoscenza degli astri a quella dei calcoli matematici, dalle terapie per curare le malattie ai supposti tentativi di prevedere il futuro. Tuttavia, gran parte di queste conoscenze erano utilizzate, soprattutto, per scopi immediati e per pratico interesse. Naturalmente, anche le culture orientali, i cui interessi erano spesso estremamente vasti e ricchi, attestano la presenza di elementi filosofici, i quali, però, erano per lo più inseriti in sistemi dottrinali dal carattere eminentemente religioso e pertanto difficilmente considerabili come espressamente appartenenti alla filosofia. Al contrario, scopo primario della genesi della filosofia, per la prima volta nella storia del genere umano, è stato propriamente quello di coltivare la sapienza in maniera per così dire disinteressata, o meglio anti-utilitaristicamente, ovvero per il solo desiderio di conoscere e comprendere il perché delle cose. La tesi secondo la quale la cultura greca abbia subito un profondo influsso da parte della cultura orientale, e grazie ad essa sia stata poi in grado di sviluppare il metodo filosofico, è oltretutto posta in dubbio dal fatto che in nessuna opera dell’antichità classica si trovano indicazioni in tal senso ed è quasi certo, da un punto di vista storico, che i primi filosofi non possedessero conoscenze rilevanti, ad esempio, delle dottrine indiane o cinesi. Il filologo tedesco Walter Burkert, pur ammettendo che «vi furono senza dubbio profondi scambi culturali e commerciali tra i coloni greci e le civiltà orientali anche nei secoli precedenti, con evidenti influssi sulla letteratura, sull’astrologia e sulla mitologia ellenica», finisce per concludere che in realtà non esistono «testimonianze di testi iranici, babilonesi, ebraici o altri, tradotti in greco a quei tempi e, addirittura, fino all’epoca ellenistica» 13. Allora come mai la filosofia propriamente detta è nata solo in Grecia; perché, secondo alcuni, si può parlare correttamente di speculazione

13 Armando Torno, Eraclito, tutto scorre in un conflitto di opposti, in Roberto Radice a cura di, Eraclito, Le grandi collane del Corriere della Sera, Rizzoli, Milano 2014, p. 7-49.

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filosofica unicamente in riferimento alla civiltà occidentale e, soprattutto, perché solo nell’ambito della cultura classica il sapere stesso è divenuto oggetto d’indagine e perno attorno al quale costruire una forma di vita ritenuta superiore alle altre? I greci, in effetti, sono stati i primi ad impegnarsi nell’indagine critica e razionale, a creare esplicitamente il modo di pensare filosofico ed a fondare la propria riflessione unicamente sulla forza del pensiero, riconoscendo in esso l’unica guida possibile ai fini dell’accumulazione del sapere. Non per niente, Martin Heidegger, probabilmente il più grande filosofo del secolo scorso, ha scritto che la «filosofia nasce grande», dando così grande credito all’idea del miracolo greco, ovvero a quella lettura nella storia del pensiero che interpreta l’esperienza dei primi filosofi ellenici in un’ottica di totale discontinuità con tutto ciò che l’essere umano aveva elaborato culturalmente in precedenza. Quella del miracolo, naturalmente, pur soffrendo in qualche misura del condizionamento storico del «primato della cultura occidentale», è una «prospettiva drastica (…) secondo cui la filosofia sarebbe una manifestazione assolutamente nuova della ragione, finalmente affrancata da altre forme di pensiero», tanto che, per quanto si provi a confrontare i primi passi del pensiero filosofico con le altre culture, non solo ad esso contemporanee, ma anche di molto successive, resta sempre «difficile non rimanere colpiti dalla novità, dalla grandezza speculativa e dall’audacia delle nuove prospettive filosofiche: non più dei, ma nozioni impersonali, potenze» 14. Come afferma Armando Torno, la filosofia, in primo luogo, nasce dalla curiosità degli uomini che osservavano il cambiamento del mondo ed il dispiegarsi dei misteri dell’universo intorno a loro, ma la reale «grande invenzione dei primi filosofi (…) che non trova riscontro in altre civiltà dell’epoca», è stata la

«formulazione di categorie astratte fondamentali riguardo all’“esistenza”, e riguardo a “verità” decontestualizzate che possono essere rivelate attraverso il pensiero razionale e non più dalla religione o dalla mitologia» 15. Ovviamente, nella storia dell’uomo, si sono susseguiti modi diversissimi di rispondere alle domande fondamentali che riguardano la realtà o l’universo, ed uno di questi, ad esempio, è costituito dalle religioni, «che sono materia di fede, e che sono state tramandate sotto forma di miti e di rivelazioni». Tuttavia, queste tradizioni si distinguono dalla filosofia inventata dai greci poiché essi diedero forma ad un

«ragionamento filosofico, mediante il quale, invece, si cercava sempre di attenersi a quelle che venivano considerate le leggi della nostra mente». A questo proposito, scrive Umberto Eco, esiste «una ragione culturale per cui una storia della filosofia inizia dai Greci», ed essa risiede nel fatto che è stato questo modello di pensiero «a formare il modo di pensare del mondo occidentale e solo

14 S. Givone, F. P. Firrao, Filosofia, vol. 1, cit., p. 24.

15 A. Torno, Eraclito, cit., p. 7-49.

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comprendendo che cosa avessero pensato i Greci noi possiamo capire come abbiamo continuato a pensare negli ultimi tre millenni circa» 16. I greci, in effetti, come ricorda Giorgio Colli ne La nascita della filosofia, nel corso dei secoli hanno elaborato una cultura, sorretta da una ricchissima mitologia, che si configura come una vera e propria «vocazione (…) per la conoscenza», in base alla quale, «sapiente non è il ricco di esperienza, chi eccelle in abilità tecnica, in destrezza, in espedienti», ma colui che «getta la luce nell’oscurità, chi scioglie i nodi, chi manifesta l’ignoto, chi precisa l’incerto», e la figura di Apollo stava lì a simboleggiare «questo occhio penetrante». La conoscenza, quindi, fu solo ed unicamente nell’ambito della cultura ellenica che divenne «il massimo valore nella vita», mentre presso tutti gli altri popoli, malgrado la ricchezza di sapere che spesso seppero raggiungere, nessuno «la innalzò a simbolo decisivo, per cui, nel grado più alto, la potenza si esprime in conoscenza, come ciò accadde presso i Greci» 17.

• La diversa configurazione politica: Le civiltà orientali erano politicamente dominate da vaste monarchie per le quali il centro del potere, amministrativo, religioso ed economico, si concentrava nella corte del re, all’interno delle cui mura tutto il sapere era elaborato, gelosamente custodito e conservato. Le forme dispotiche di potere, infatti, allora come in epoca moderna, non permettono alcun libero esercizio del pensiero, né alcuna forma di partecipazione politica. La Grecia, ed in particolare la fortunata condizione delle colonie della Magna Grecia, al contrario, si presenta come formata da una molteplicità di città politicamente indipendenti, il più delle volte rette da forme più o meno complesse di governi oligarchici, in cui l’esercizio del potere è appannaggio di un gruppo di aristocratici che necessita di uno scambio estremamente più articolato di pareri e discussioni. Oltretutto, le città greche affacciate sulle civiltà mediorientali rappresentavano dei centri economicamente e culturalmente ricchissimi e particolarmente complessi, in cui si poteva osservare un vero e proprio crogiuolo di genti e di culture, d’interscambio di commerci e di lingue, ma anche d’informazioni e di visioni del mondo.

La civiltà greca, al contrario di tantissime altre ad essa contemporanee, era perciò mentalmente aperta al resto del mondo, propensa a spedire i suoi cittadini in terre lontane per creare degli avamposti, per poi colonizzarli e farli fiorire, e fatalmente disposta a mescolarsi con altri

16 Umberto Eco, Perché la filosofia?, in Umberto Eco, Riccardo Fedriga a cura di, La filosofia e le sue storie. L’antichità e il Medioevo, Laterza, Roma-Bari, p. XI-XVI.

17 Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 2011, p. 15, 16.

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popoli e ad assorbire le conoscenze e gli insegnamenti che da essi si potevano trarre.

Già Hegel, a questo proposito, ha più volte affermato che la differenza sostanziale fra la tradizione greco-romana occidentale e quella orientale antica, sta proprio «nella scoperta della libertà, cioè dello spirito». Nel panorama orientale, infatti, amava ricordare il grande filosofo idealista,

«un solo uomo è libero, il despota, e tutti gli altri sono schiavi, mentre nel mondo greco ad essere liberi sono alcuni uomini (gli altri sono schiavi)».

Si può affermare, perciò, che è il mondo greco che «scopre la libertà, perché questa presuppone il riconoscimento di un altro come libero» ed in tal senso «può esserci filosofia solo dove c’è libertà», perché è essenzialmente la «scoperta della libertà» che «equivale alla scoperta dell’idea di uomo» 18. La società greca dell’epoca, perciò, si presenta priva di grandi sovrani sul modello di quelli orientali, il cui potere centrale era persino divinizzato, di scribi che custodiscono segretamente tutto il potere, o di caste sacerdotali che imponevano norme e divieti attraverso regole morali o di comportamento scolpite per sempre in testi sacri considerati indiscutibili. Furono proprio queste le condizioni sociali, culturali e politiche che permisero l’espandersi della partecipazione politica, del dialogo, del rimescolamento delle idee e, quindi, tutte quelle premesse necessarie affinché di lì a poco si formasse una mentalità aperta e critica, che ben presto si spinse fino ad indagare i misteri dell’universo.

Si apre, così, per la prima volta nell’area culturale greca e nell’ambito della pòlis, uno spazio maggiore per l’esercizio della libertà di pensiero e della partecipazione politica, attraverso la libera discussione di tutti i cittadini che sono chiamati a prendere le decisioni che li riguardano in prima persona. Questo processo politico e culturale culminerà poi nella democrazia ateniese, dove Solone, che non a caso sarà contemporaneo dei primi filosofi, scriverà la prima costituzione democratica dell’umanità e dove Pericle, poi, riuscirà a fare evolvere la città verso la sua epoca aurea.

«Concepire una struttura politica democratica – argomenta il fisico Carlo Rovelli in un testo che ripercorre le tappe fondamentali della nascita della mentalità scientifica nell’insieme della cultura occidentale – significa accettare l’idea che le decisioni migliori possano emergere da una discussione fra tanti, invece che dall’autorità di uno solo; (…) l’idea che si possa argomentare e convergere a una conclusione. (…) La base culturale della nascita della scienza è quindi la stessa base sulla quale si

18 E. Berti, In principio era la meraviglia, cit., p. 128, 129.

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appoggia la nascita della democrazia: la scoperta dell’efficacia della critica e del dialogo fra eguali» 19.

La filosofia, in effetti, nasce all’interno delle città indipendenti greche, proprio perché sono le uniche realtà sociali e politiche del mondo in cui essa può trovare le condizioni ambientali necessarie alla sua crescita. Essa si sviluppa negli spazi aperti e pubblici, dove può emergere dal dibattito e dal confronto politico ed intellettuale, ed uno dei suoi aspetti caratteristici è, non a caso, l’esercizio collettivo della riflessione elaborato da parte dei primi filosofi all’interno delle scuole di pensiero in cui potevano liberamente riunirsi. Oltretutto, la filosofia, risponde anche ad una concezione del sapere tipica dell’universo mentale ellenico, ed anche in questo senso si presenta come una «creazione originale dello spirito greco e una condizione permanente della cultura occidentale». Il fondamento di questa concezione della filosofia si trova nell’idea aristotelica che l’uomo sia essenzialmente un «animale ragionevole» e che, perciò, «tutti gli uomini tendono per natura al sapere». Ciò significa non solo che gli uomini, mossi dalla curiosità e dallo stupore della propria mente di fronte alla bellezza della realtà, desiderano il sapere, ma che per natura «possono conseguirlo». Il sapere, in questo senso, «non è un privilegio o un patrimonio riservato di pochi; ognuno può contribuire al suo acquisto e al suo incremento», e la filosofia, dovendo obbedire alle regole del corretto ragionamento al fine della conquista di un’autentica conoscenza, da questo punto di vista, «si contrappone alla tradizione, al pregiudizio, al mito, e in generale alla credenza infondata o non giustificata che i Greci chiamavano opinione» 20.

• La peculiarità della lingua greca: Altro fattore fondamentale, che resterà per sempre legato allo sviluppo della filosofia anche come “riflessione sul linguaggio”, è determinato dalle particolari caratteristiche della lingua greca, dalla sua plasticità e dalla possibilità che offre di svincolarsi dai dati immediati dell’esperienza per elaborare nozioni astratte e generali. I greci adottarono la scrittura attorno all’800 a.C. sul modello di quella fenicia, da cui derivano la quasi totalità degli alfabeti occidentali e, da lì a breve, una volta adattata alla propria lingua, diedero vita ad una vera e propria proliferazione di testi scritti. L’Iliade, infatti, venne messa per iscritto solo cinquant’anni dopo, mentre in tempi strettissimi sarebbe nata

19 Carlo Rovelli, Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro, Mondadori, Milano 2014, p. 98.

20 Filosofia, in N. Abbagnano, Dizionario di Filosofia, cit., p. 476-493.

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la filosofia. Anche quella dell’alfabeto, come molte altre delle storie che s’intrecciano con quella della filosofia, è una storia di progresso e di liberazione dell’uomo, segnata da un processo di diffusione e di maggiore democratizzazione della conoscenza che apre la strada alla libertà mentale. Tutte le forme di scrittura antiche, infatti, che venivano praticate ormai da millenni, come quella cuneiforme esercitata in Mesopotamia, o quella geroglifica egiziana, facendo «uso di centinaia di simboli diversi», richiedevano una «vasta competenza» ed un «lungo apprendistato» per coloro che la praticavano, con il risultato che restava di fatto appannaggio di scribi professionisti, i quali, il più delle volte, lavoravano nel chiuso delle corti dei despoti di cui erano al servizio. La scrittura fenicia, invece, costituisce «un’invenzione che rappresenta già un progresso immenso», poiché possiede una struttura consonantica, ossia vengono scritte solo le consonanti delle parole, aspetto che «semplifica drasticamente» il suo utilizzo, perché «invece di centinaia si simboli, ne bastano una trentina».

Quando i greci s’imbattono nella scrittura fenicia e ne assorbono l’alfabeto, «incontrano un dettaglio cruciale»: la loro lingua indoeuropea, cioè, «è più semplice della fonetica fenicia», ha molte meno consonanti.

Restano così alcuni caratteri consonantici inutilizzati che non esistono in greco, a e i o u. A questo punto, non sappiamo come e nemmeno come sia successo, ma a qualcuno viene un’idea: utilizzare questi simboli per rappresentare le vocali, «sembra un’idea da poco, ma rivoluziona il mondo». Come spiega il direttore del Dipartimento di fisica teorica di Marsiglia, Carlo Rovelli, infatti, nasce «in questo modo il primo alfabeto fonetico completo della storia dell’umanità», grazie al quale, in

«confronto con le difficoltà precedenti, scrivere e leggere diventano quasi un gioco da ragazzi», perché si tratta, in sostanza, della «prima tecnologia della storia (…) che preserva una copia della voce umana» 21. A tutto ciò si deve aggiungere che la lingua greca, come l’italiano ed al contrario del latino, dispone dell’articolo determinativo, il quale permette alla ragione di manipolare elementi fondamentali del pensiero, nel senso di sostantivare aggettivi e verbi e, pertanto, di elaborare forme concettuali come il bello o l’essere, attraverso i quali è possibile formulare concetti generali e raggiungere livelli d’astrazione che, a partire da questo momento, resteranno una costante nella storia della cultura occidentale.

Un altro tratto caratteristico della lingua greca che permetterà il costituirsi di uno dei pilastri fondamentali attorno cui si plasmerà il

21 Ibidem, p. 92, 93, 94.

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pensiero filosofico, è la presenza della copula, ovvero la voce del verbo essere che, in una proposizione qualsiasi, lega il soggetto alla parte nominale, costituita da un nome o da un aggettivo, come risulta evidente dalla stragrande maggioranza delle asserzioni tramite le quali, sostanzialmente, non facciamo altro che esprimere giudizi su noi stessi e sul mondo che ci circonda: “il mare è calmo”; “l’erba è verde”; “Mario è scemo”, “io sono triste”. Dal punto di vista concettuale, infatti, la copula, permette di «separare l’essere dalla cosa che lo contiene», rendendo così manifesto ciò che nell’asserzione viene dato come implicito, «per farlo diventare una questione a sé, quella di una cosa che non solo è immediatamente un libro, un topo, un dio o un uomo, ma “è”, “esiste”», aprendo così il pensiero all’eterna questione dell’esistenza, o in definitiva dell’essere. Sarà questa semplice caratteristica lessicale a permettere lo sviluppo di una delle brache più importanti della filosofia, la metafisica, che affronta la questione forse più decisiva del pensiero, quella, appunto, dell’essere. La copula, inoltre, permette di collegare il soggetto al predicato, rendendo in tal modo manifesta una delle caratteristiche più importanti della struttura intima del nostro pensiero e facendoci comprendere uno dei meccanismi fondamentali in base al quale agisce la nostra mente, poiché «articolare, collegare, unire e distinguere, premettere e trarre conseguenze sono atti tipici della narrazione e del pensiero logico e argomentativo, e quindi anche della filosofia o della maggior parte delle sue manifestazioni» 22.

E’ abbastanza curioso notare come, in generale, si sia soliti considerare in maniera piuttosto negativa l’atto del giudicare, anche se una delle funzioni più spiccate secondo le quali agisce la nostra mente, quale prodotto dello sviluppo evolutivo del cervello, è esattamente quella di catalogare, in base a giudizi, il mondo attorno a noi e gli eventi che in esso si svolgono. Non è un caso che uno dei passi più celebri del Vangelo di Matteo, reciti: «Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati». Il testo della CEI, poi, approfondisce il passo spiegando che giudicare «importa per lo più un significato sfavorevole:

condannare», mentre colui «dal quale siamo giudicati è Dio», e lui soltanto, nel senso che il giudizio non apparterebbe in proprio all’essere umano, pena l’ipocrisia 23. Tuttavia, ogni «proposizione mentale», ossia ogni nostro atto di pensiero, ed un giudizio, sono in sostanza la medesima

22 S. Givone, F. P. Firrao, Filosofia, vol. 1, Dalle origini al Medioevo, cit., p. 8.

23 Matteo 7,1, in La Sacra Bibbia, Edizione Ufficiale della CEI, Milano 1989.

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cosa, tanto che, «la percezione delle cose è un giudicio», per utilizzare le parole di Tommaso Campanella. Come si legge ne Il rinnovamento della filosofia in Italia, proposto in pieno Ottocento da Terenzio Mamiani della Rovere e curato da Antonio Rosmini, il giudizio «è affermare a noi stessi che una cosa è», poiché «in ogni proposizione mentale interviene la massima astrazione, quella dell’essere», nel senso che ogni atto mentale costituisce un processo di astrazione che «interviene in ogni giudizio», cioè «il primo fenomeno dell’atto conoscitivo» 24.

Nonostante la condanna religiosa, il fatto che ogni nostro possibile pensiero sul mondo non possa che esprimersi sotto forma di giudizio, viene spiegato, forse molto più chiaramente di qualsiasi trattato filosofico, dal genio cinematografico di Nic Pizzolatto in uno degli episodi della prima serie di True Detective. La produzione «non è una serie tv» come le altre, ma «un viaggio alla radice dell’Uomo», secondo il giudizio di Renato Franco, che costituisce un capolavoro assoluto, è «l’uomo vitruviano di Leonardo, è una discesa in un abisso di verità scomode e dolorose, è lo specchio del nostro vivere senza il teatro dell’ipocrisia, senza infingimenti, soli davanti alle stelle». La storia si basa su una serie di omicidi perpetrati nell’ambito di un caso di pedofila, in cui si mescola la perversione di alcune istituzioni religiose con misteriosi riti di sapore tribale. La vicenda criminale, però, sembra solo fare da cornice alle vicende ed alle vite dei due personaggi principali, i detective Rustin Cohle e Martin Hart, «nichilista e visionario uno, conformista e pragmatico l’altro»; amaro, realista, riflessivo e filosofico l’uno, bigotto e sempre pronto a salvare le apparenze l’altro 25. Gli episodi si susseguono in un crescendo di suspense e di atmosfere cupe e dolorose, mentre le vite dei due s’intrecciano, si dispiegano e si mettono a nudo davanti allo spettatore, dando vita a dialoghi memorabili colmi di riferimenti e di citazioni filosofiche che tirano in ballo Nietzsche, Schopenhauer o Emil Cioran. La famiglia di Martin «è una famiglia tipicamente e classicamente americana, con tutte le ipocrisie del caso, i piccoli tradimenti, le assenze del marito e la totale gestione delle bambine da parte della moglie» 26. Nel sesto episodio Cohle e Martin si confrontano duramente per l’ennesima volta. La tradizionale visione maschilista o patriarcale di Martin, fatta di

24 Antonio Rosmini-Serbati, Terenzio Mamiani della Rovere, Il rinnovamento della filosofia in Italia, Boniardi-Pogliani, Milano 1840, p. 163-166.

25 Renato Franco, True Detective? Meglio il n.1. Irripetibile il viaggio nelle ferite dell’anima di Mc Conaughey, in Il Corriere della Sera, 12/08/2015.

26 Marco Filoni, Salvatore Patriarca, La filosofia di True Detective, in Lo sguardo. Rivista di filosofia, Posophia, n. 16, 2014.

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concessioni morali alla menzogna ed alla perpetuazione del tradimento e di sensi di colpa sopiti nell’alcool, viene scossa dalla complessità colta di Cohle, dal suo realismo scettico, dal suo continuo richiamo ad un’etica che impone all’essere umano di fare sempre e comunque i conti con la verità, a qualunque costo. Ne segue un confronto duro e rabbioso, nel quale l’uno imputa all’altro l’illegittimità del giudizio morale sulle sue azioni private, sentendosi sbattere in faccia come risposta l’ennesima lezione di saggezza realista e razionale da parte di Cohle.

«Senti, come carne senziente, per quanto illusorie siano le nostre identità, modelliamo queste identità formulando giudizi di valore. Tutti giudicano, continuamente. Se questo ti crea problemi, vuol dire che stai vivendo nel modo sbagliato» 27.

• Il diverso approccio religioso: La speculazione tradizionale di origine orientale, nel suo complesso, si caratterizza ancora oggi soprattutto per un elevato livello d’interesse verso problemi esistenziali e di natura religiosa e concepisce ogni tipo di conoscenza in funzione della salvezza o, più in generale, di quella che viene percepita come una sorta di liberazione dell’uomo ai fini del ricongiungimento con una realtà primordiale o di supposta perfezione, come dovrebbe avvenire, ad esempio, nello stato detto del nirvana. In questo senso, un tale bagaglio culturale, seppur ricchissimo, è restato per lungo tempo ancorato ad un piano essenzialmente mitico o teologico, basato su una sapienza di tipo tradizionale e costellato da rappresentazioni fantastiche. Una tale attitudine mentale e religiosa, nell’antichità, era legata anche ad un sistema di pensiero a sua volta connesso ad una società che ruotava per la sua interezza attorno alla figura ed al potere del suo sovrano e della sua corte, assurto non solo a emblema della civiltà stessa, ma anche a vera e propria divinità a cui si dovevano riti, culti e devozione totale. Ai sistemi governativi dispotici dei sovrani orientali, non di rado, si accompagnava anche il potere tirannico di una casta sacerdotale estremamente potente, molto spesso dedita a stilare e stabilire le norme e le strutture di una legge divina data una volta per tutte, e scolpita in testi ritenuti ispirati in modo soprannaturale e per questo sacri e fonte dell’unica verità. A differenza della maggior parte delle civiltà antiche orientali, invece, come quella ebraica con il Vecchio Testamento o quella persiana con l’Avesta attribuita

27 True Detective, Prima stagione.

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a Zoroastro, la Grecia non possiede un libro sacro attraverso il quale imporre in maniera vincolante una serie di credenze e pratiche culturali.

La religione riassumibile nei miti greci, infatti, non è caratterizzata da un complesso di credenze fortemente unificato intorno ad un unico centro di potere, insieme sacrale e politico, ma è contraddistinta da una straordinaria pluralità di costruzioni mitologiche che, se pur muovendosi all’interno di un universo di divinità riconoscibili da tutti i greci, rendono possibile ad ogni città di selezionare o di accentuare elementi particolari in grado di caratterizzarne la propria specificità anche sul piano religioso.

Attraverso l’enorme repertorio di racconti mitologici tramandati oralmente poteva così trovare espressione una ricca varietà di diverse visioni del mondo e del rapporto della divinità con l’essere umano, tanto da costruire una religiosità priva di un carattere rigido e costrittivo che lasciava potenzialmente spazio di libertà al sorgere di altre riflessioni, altri ragionamenti o procedimenti d’astrazione comunque indipendenti dai miti stessi. Molti studiosi hanno fatto notare che gli dèi cantati da Omero, sono più che altro «oggetto di poesia, non sono né davvero credibili, né davvero maestosi», al punto che «è stato scritto che non esiste poema meno religioso dell’Iliade». La concezione della divinità che traspare dalle pagine omeriche è quanto di meno religioso abbia prodotto la letteratura antica. Le figure degli dèi possiedono caratteristiche particolarmente umane, ne assumono virtù e debolezze, e differiscono dagli uomini unicamente per l’attributo dell’immortalità e per alcuni poteri da supereroi. Essi sono altresì trattati dall’autore con insolita irriverenza e se si vuole trovare nell’Iliade o nell’Odissea un aspetto più vicino al sentimento religioso moderno, bisogna rivolgersi ad entità più oscure, come il fato o la necessità, al cui potere anche gli dèi stessi sono soggetti. Le pretese del mito, in effetti, erano molto meno forti e vincolanti rispetto alle religioni moderne sul piano delle credenze, delle concezioni del mondo e del ruolo dell’essere umano.

Già all’epoca, inoltre, alcuni filosofi parlano apertamente del sussistere di una religione popolare e superstiziosa a cui continuano a credere le classi popolari, ed al contempo di un diverso concetto del divino di stampo filosofico, estremamente variegato e complesso a cui invece sarebbero giunte le classi più colte e meno credulone. Oltretutto, anche quando numerosi filosofi vennero accusati e processati per empietà, a causa della loro sostanziale professione di negazione del pantheon degli dei tradizionali, ciò venne fatto in base alla supposta pericolosità etica e politica di queste dottrine, le quali erano ritenute in grado di minare alla

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base quella sorta di religione civica che costituiva uno dei maggiori collanti sociali delle varie città greche. Nonostante la relativa semplicità delle prime teorie esposte, ad esempio da parte dei presocratici, la nascita della filosofia rappresenta un progressivo abbandono del modo di pensare dell’antichità, caratterizzato dalla credenza nel mito, costituendo i primi passi del pensiero razionale che ha finito per rappresentare una delle maggiori radici della cultura occidentale. E’ stato, infatti, in «questo mondo senza centro» e «senza déi forti» che sia lo spazio pubblico che quello mentale ed individuale si sono progressivamente aperti per partorire ed accogliere «un altro pensiero»: quello filosofico e scientifico28.

La filosofia come disciplina: Come ha sostenuto Anthony Kenny, vicedirettore dell’Università di Oxford ed uno dei maggiori storici della filosofia contemporanei, la filosofia è la disciplina più difficile da catalogare, poiché essa presenta enormi somiglianze tanto con le scienze quanto con le arti. Nel primo caso, la vicinanza è riscontrabile perché nell’infinito spazio del pensiero umano sono possibili delle scoperte come quelle scientifiche. Il filosofo, inoltre, proprio come lo scienziato, «è animato dalla sensazione di appartenere ad un’impresa intellettuale continua, cooperativa e cumulativa». Nel secondo caso, invece, perché, nell’ambito delle arti, le opere classiche, o quelle che hanno rappresentato una conquista indiscussa nella biblioteca della conoscenza umana, «non soffrono del passare del tempo», così come le grandi costruzioni speculative dei filosofi, le cui riflessioni non perdono mai la propria bruciante attualità riguardo all’indagine dell’uomo su se stesso o sul mondo che lo circonda. In un certo senso, la filosofia, così come la scienza, l’arte o la religione, rappresenta semplicemente una metodologia fra le altre, la cui caratteristica di base è quella di fondarsi su presupposti eminentemente razionali e sul solo utilizzo del pensiero, ed attraverso cui l’essere umano si rapporta con il mondo circostante, o con l’universo, con sé stesso o con la propria realtà mentale, e cerca di comprenderli, di afferrarli e di spiegarli. Tuttavia, pur essendoci «del vero in entrambi questi modi di rendere conto del sapere filosofico», riguardo cioè all’identificazione della filosofia come scienza o come arte, a ben vedere, la filosofia non può compiutamente definirsi né l’una né l’altra, e le somiglianze si fermano qui. La filosofia, infatti, non è propriamente una scienza, né un’arte, poiché in ambito filosofico «non è

28 C. Rovelli, Che cos’è la scienza, cit., p. 99.

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questione di conoscenza, ma di comprensione; vale a dire, dell’organizzazione di ciò che è saputo».

A differenza delle scienze cosiddette dure, essa non può fondarsi su esperimenti di laboratorio e sull’osservazione, ma solo sul pensiero e, diversamente della matematica, non possiede un metodo standard di dimostrazione. La filosofia si sviluppa solo di fronte alle questioni ed ai problemi che la mente umana si pone, si fa attraverso l’elaborazione di posizioni e di idee e l’emergere di argomenti per confutarle, si manifesta nel dibattito o nella discussione, o nell’intelletto individuale tramite quel ragionamento che arricchisce e connette i nostri concetti. Oltretutto, a differenza della scienza dei fisici, degli astronomi, dei medici o dei linguisti, la filosofia è costretta a perseguire gli stessi obiettivi che un tempo avevano già arrovellato le menti di Democrito o di Platone, utilizzando esclusivamente i medesimi metodi che essi avevano a loro disposizione ed, in tal senso, essa rappresenta una disciplina che trascende qualsiasi dimensione spazio-temporale e che accomuna l’intera storia dell’umanità all’interno di quell’infinito spazio d’indagine e di possibilità costituito dalla mente umana. Per certi aspetti, si può però pensare alla filosofia come «il grembo o la levatrice delle scienze stesse», dato che nel corso dei secoli è proprio dal suo ventre che, per «scissione», si sono generate tante delle discipline a noi oggi famigliari, come la psicologia, l’astronomia, la fisica, la teologia o l’antropologia, che tuttavia continuano ad intrecciare le proprie strade ancora adesso con il pensiero filosofico 29.

Forse, più vicino di ogni altro nella definizione della filosofia come disciplina, è giunto Aristotele, uno dei maggiori maestri della speculazione filosofica di ogni tempo, che la definì come la regina delle scienze poiché, come spiega nella Metafisica, è «corretto chiamare la filosofia scienza della verità» 30. Per Aristotele, la filosofia, intesa come metafisica, possiede una differenza sostanziale rispetto a tutte le altre scienze, perché mentre queste si limitano a prendere in considerazione solo degli spaccati della realtà o dell’essere, come ad esempio la fisica che si occupa della materia o l’astronomia degli astri, la filosofia sola si dedica alla realtà o all’essere in generale, ambendo a studiarli in quanto tali. In altre parole, mentre tutte le altre scienze devono dare per scontati fin dalle premesse i propri principi di base, la filosofia bisogna che «non solo conosca ciò che deriva dai principi, ma anche che colga il vero per quanto riguarda i principi stessi» 31. In questi termini, poiché tutte le scienze implicano la realtà o l’essere,

29 Anthony Kenny, Nuova storia della filosofia occidentale. Filosofia antica, Einaudi, Torino 2012, p. IX-XXX.

30 Aristotele, La metafisica, a cura di Carlo Augusto Viano, UTET, Torino 2010, p. 230.

31 Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di Claudio Mazzarelli, Bompiani, Milano 2011, p. 239.

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allo stesso modo, occupandosi solo di un frammento del tutto, esse presuppongono così anche la filosofia, che invece studia la realtà in generale. Per questo essa diviene la regina del sapere, dato che il suo campo di studio è proprio il tutto ed essa come disciplina si configura come l’«anima unificatrice ed organizzatrice delle scienze, in quanto studia il loro comune fondamento» 32.

− Filosofia e Religione. Le strade di filosofia e religione si sono incrociate fin dalla nascita del pensiero filosofico nell’antica Grecia e la loro relazione non è sempre stata idilliaca, anzi, molto spesso, nel corso dei secoli successivi, i rapporti fra questi due prodotti del pensiero umano sono stati fin troppo turbolenti e conflittuali. Per chi, come Hegel, ha voluto vedere nella filosofia la strada maestra di comprensione della ragione che sta alla base della realtà ed il dispiegarsi dello spirito e, quindi, di Dio, nel mondo; si è contrapposto chi, come Feuerbach, ha salutato la storia della filosofia come un processo di progressiva emancipazione dell’uomo dall’infanzia a cui lo costringeva la religione. Tuttavia, una così ampia divergenza di opinioni è quasi strutturale se si prendono in considerazione le domande a cui filosofia e religione provano da secoli a fornire delle risposte. Come sostiene magistralmente Pascal, infatti, la contrapposizione deriva dal fatto che chi possiede la fede è in generale mentalmente predisposto a vedere in ogni aspetto del reale i segni della presenza di Dio, mentre chi non crede, al contrario, tenderà a notare la scarsità delle prove della sua esistenza. In realtà, in epoca classica, filosofia e religione, pur palesando già di per sé dei procedimenti metodologici di base profondamente difformi, sembrano per molti aspetti quasi amalgamarsi, se pur in modo alquanto confuso. Alcuni dei primi filosofi, ad esempio, partoriscono dottrine le cui conseguenze logiche porterebbero ad una sorta di negazione del pantheon mitologico o addirittura criticano ferocemente le superstizioni correnti, salvo poi mostrarsi rispettosi verso la religione tradizionale ed il fondamentale valore civico che questa ricopriva notoriamente nell’ambito della cultura ellenica. La teologia, ossia quel termine che ha designato «dapprima la conoscenza relativa agli dei, e poi la scienza di Dio e delle cose divine» 33, aveva, da un lato, assunto un posto d’onore nel sistema aristotelico delle scienze, ma, dall’altro, era intesa dal grande filosofo come «un miscuglio di astronomia e di filosofia della religione». Sulla base di questo modello, in seguito, i dotti cristiani ed islamici che s’ispiravano ad Aristotele, «vi

32 Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Il Nuovo. Protagonisti e testi della filosofia, vol. 1A, Paravia, Varese 2006, p. 300.

33 Teologia, in AA. VV., Le Garzantine, Filosofia, cit, p. 1138.

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aggiunsero poi elementi tratti dalla dottrina dei loro libri sacri», fino alle soglie del XIII secolo, quando Tommaso d’Aquino «operò una precisa distinzione fra teologia naturale e teologia rivelata», determinando in tal modo una prima grande «scissione», poiché «dall’agenda filosofica vennero così eliminati i richiami alla Rivelazione», almeno fino alla cesura della riforma protestante prima, e dell’Illuminismo poi 34.

L’età ellenistica, caratterizzata dalla progressiva perdita d’importanza della civiltà greca a favore di quella romana, presenta una serie di espressioni filosofiche variegate e complesse in cui confluiscono il fascino e le tendenze tratte da diverse culture di stampo religioso. Con l’avvento del cristianesimo ed il presentarsi delle prime crepe che porteranno alla disgregazione dell’Impero Romano, la filosofia «si trova a fare i conti non più solo con esigenze e interessi religiosi, ma con un sistema dottrinale che si va costruendo in maniera organica e che la vede anzitutto come un nemico da distruggere». E’ significativo che Paolo di Tarso, nella Lettera ai Colossesi, ebbe a rivolgersi alle prime comunità cristiane con l’ammonimento «a non far[si] ingannare con la filosofia», ovvero mediante il ragionamento. Molti dei primi pensatori cristiani vedono la filosofia come «la somma della “saggezza di vita” pagana», come il cuore del pensiero da cui si diramano tutte le eresie e quindi come una tradizione culturale da eliminare dalla faccia della terra. A questa prima fase di feroce polemica, però, «segue un atteggiamento diverso» determinato dalla presa di coscienza che l’immenso patrimonio della cultura filosofica che ha dominato il pensiero del mondo antico e che, al contrario del cristianesimo, è stato edificato sulla conoscenza e sul rigore del corretto ragionamento e non sulla mera credenza, non può essere cancellato con un battito di ciglia. I padri della Chiesa come Clemente Alessandrino, perciò, comprendono che se non possono eliminare la filosofia, possono però servirsene «per convertire i pagani» e per rendere più complessi ed articolati dal punto di vista concettuale i contenuti piuttosto semplici ed elementari della dottrina cristiana 35.

Nell’epoca medievale, quando il cristianesimo aveva finito per permeare tutti gli aspetti dell’esistenza umana, da quelli spirituali a quelli temporali, la filosofia divenne una disciplina subordinata alla religione, tanto che si parlava apertamente di ancella della teologia, ovvero di serva della fede. Quest’ultima, infatti, era ritenuta il solo atteggiamento spirituale ed intellettuale possibile in merito al rapporto dell’uomo con

34 A. Kenny, Nuova storia della filosofia, cit., p. XXII.

35 Filosofia, in AA. VV., Le Garzantine, Filosofia, cit, p. 382-388.

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