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Le Vacanze Intelligenti Il Film

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Academic year: 2022

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Le Vacanze Intelligenti – Il Film

È il 1978, si è appena conclusa la 38° Biennale “Dalla Natura all’Arte, dall’Arte alla Natura”;

quest’edizione traeva spunto da una massima di Kandinkij: “Grande astrazione, grande realismo” e vedeva la direzione del Padiglione Centrale affidata ad Achille Bonito Oliva.

Una Biennale, quella del 1978, come sempre molto discussa, che aveva consacrato le correnti neoastrattiste, concettuali, poveriste e iperrealiste condannate da una buona parte della critica nostrana come troppo lontane dal gusto del cittadino medio, e che l’Albertone nazionale utilizza come fulcro narrativo del suo film “Le Vacanze Intelligenti”, episodio del film collettivo “Dove vai in vacanza?” (gli altri due sono “Sarò tutta per te” di Mauro Bolognini e “Si, Buana” di Luciano Salce).

Il film narra la storia di due fruttivendoli romani, Remo ed Augusta Proietti, che decidono, per la prima volta, di farsi organizzare le vacanze estive dai tre figli prossimi alla laurea, Pasquina, Romolina e Cesare. I tre rampolli, forti della loro cultura superiore, programmano un vero e proprio tour de force fra visite a musei, tombe etrusche, concerti di musica contemporanea e vista alla Biennale di Venezia. Il tutto condito da un regime dietetico ferreo imposto dal loro figlio Cesare, futuro medico. Inoltre, al loro ritorno, Remo e Augusta sanno anche che troveranno un nuovo modernissimo arredamento che sostituirà quello vecchio e rassicurante, ma bollato come antiquato dai loro figli.

Leggi anche:

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“Vacanze romane” – Il Film

Audrey e Marcello, icone di stile e di eleganza nel mondo

La Grande Abbuffata – Il Film

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L

’ o p e r a

“ 2

° Soluzione d’immortalità (L’universo è immobile)” – 1972 di Gino De Dominicis

In questo gustoso ed esilarante mediometraggio Alberto Sordi fa, a proposito di arte contemporanea, un duplice ed esplicito riferimento, il primo all’artista italiano Gino De Dominicis, che aveva esposto nella Biennale del ’72, il secondo alla scultura iperrealista, soprattutto americana, come quella di Duane Hanson e John De Andrea (quest’ultimo aveva esposto proprio nella Biennale del

’78).

Il primo divertito omaggio è ad un’opera che il geniale e controverso artista italiano Gino De Dominicis aveva esposto alla Biennale di Venezia del 1972. L’opera in questione, “2° Soluzione d’immortalità (L’universo è immobile)”, era in pratica una performance del signor Paolo Rosa, un giovane affetto dalla sindrome di Down, che sedeva immobile in un angolo dello stand espositivo nel quale un cubo invisibile, una palla congelata al momento del rimbalzo ed una pietra colta nell’attimo prima di muoversi simboleggiavano i temi cari all’artista: l’immortalità del corpo, il mistero della creazione, la nascita dell’universo, il significato ultimo dell’esistenza delle cose.

L

’ o p e r a S i t t i n

g Woman – (1972) di John De Andrea

Il secondo omaggio è alla scultura iperrealista: le opere di Hanson e De Andrea erano cosi perfette che nei musei dove essi esponevano veniva chiesto agli inservienti di controllare, prima della chiusura, che tutte le sculture fossero davvero tali, onde evitare di rinchiudere dei visitatori

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nell’edificio.

Eccezionale esempio di scultore iperrealista, il californiano (di origine italiana) John De Andrea prediligeva i nudi femminili proprio per scatenare nell’osservatore una naturale attrazione fisica per le forme sinuose dei suoi soggetti. Un’attrazione che immediatamente lasciava spazio ad un sentimento di sinistra irrequietudine, poiché l’estremo realismo del soggetto, la sensualità delle sue forme e la loro immobilità inducono a pensare di trovarsi di fronte a un cadavere. L’iperrealismo di De Andrea, in altre parole, sconfina in quel delicatissimo territorio della nostra conoscenza in cui desideri erotici e istinti vitali si scontrano e si fondono con il mistero angoscioso della morte.

PER APPROFONDIRE:

Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema

Sordi condensa questi due omaggi nella famosa scena in cui la moglie Augusta (l’attrice Anna Longhi), sedutasi su di una sedia, viene scambiata per un’opera vivente e valutata addirittura per la cifra di 18 milioni di lire.

Come si è detto, fulcro narrativo del film è la visita nei locali e negli spazi della 38° Biennale, nei quali il regista riesce a girare a manifestazione appena conclusa, con gran parte delle opere ancora allestite ed esposte.

Molto divertente è anche la partecipazione dei due vacanzieri al concerto di musica contemporanea, dove Remo e Augusta non riescono a capire quando e se il concerto è iniziato e finito.

Attore, regista, sceneggiatore, autore di chiara matrice popolare, Alberto Sordi affida a questo breve film una critica aspra e feroce a tutta la classe media tipica degli anni ’70, che, complice il boom economico e l’accesso agli studi superiori, ma pure all’aria di contestazione e rivoluzione che si respirava, decide di rompere totalmente con il passato, distruggendo il brutto ma anche il bello che le generazioni passate, quella dei loro genitori, avevano costruito. Il regista mette in risalto anche la spocchia culturale del cosiddetto pubblico colto (oggi li chiameremmo radical chic), che non perde occasione per far sentire i nostri eroi inadeguati e fuori posto.

Rientrati a casa dopo le estenuanti “vacanze intelligenti”, i nostri beniamini si ritrovano in una casa completamente rivoluzionata, con arredamenti minimalisti e ultramoderni e un gruppo di pittoreschi amici dei loro figli. Ed è proprio durante la cena che le tensioni createsi fra genitori e figli vengono meno davanti ad un abbondante piatto di spaghetti.

Sordi decide di utilizzare il cibo, ma ancor più il rito della cena, del consumo dello stesso intorno ad un tavolo, come metafora, sintesi, riflessione e conclusione ottimista dell’intero film, infatti fa dire a Remo: “…però lo vedi che alla fine l’hanno capito pure loro, però ci devono arriva’ da soli. Lo vedi come so’ i giovani, rompono, sfasciano, buttano quello che è vecchio, quello che è antico, poi piano

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piano s’accorgono da loro che era meglio quello che ce stava prima”.

E forse queste parole dovrebbero interessare anche gli artisti contemporanei che, prima di stupire, sconvolgere, mostrare ed anche vendere le proprie opere dovrebbero concepirle, innanzitutto, per quello che le opere sono in sé: un media, un mezzo o un canale per comunicare un messaggio, un concetto o un’idea. L’arte è prima d’ogni cosa comunicazione, ed infatti l’uomo delle caverne non sapeva cosa fosse la scrittura, eppure ci ha lasciato incredibili pitture rupestri.

Fondi ad Arte

Christian Zorico (160)

Parlare di arte e allo stesso tempo ricercare profitti, rendimenti, rivalutazione del capitale rapprensenta la realtà di una particolare categoria di fondi di investimento: i fondi che investono appunto in opere d’arte.

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Cercherò subito di soffermarmi su alcuni punti che connotano questa particolare categoria di fondi al fine di poter guardare con occhio più critico alle motivazioni che spingono gli investitori ad allocare una parte della loro ricchezza in arte e poter offrire un “quadro” più realistico sulle reali opportunità e su eventuali punti critici.

Innanzittutto l’investitore che si approccia a tale tipologia di fondi deve necessariamente prendere coscienza che si tratta di un investimento a medio/lungo termine (in genere dai 5 ai 10 anni). Si tratta di un tempo tecnico che permette al gestore/esperto d’arte del fondo di poter “costruire” il portafoglio, acquisendo opere d’arte nella fase iniziale di lancio del fondo per poi provvedere alla vendita (e realizzazione di profitti sperando in un prezzo di vendita più alto) nella seconda parte di vita del fondo. D’altro canto però il cliente che ha comprato una quota del fondo deve essere convinto e soprattutto accettare un periodo di attesa mediamente lungo prima che possa ritornare in possesso delle quote sottoscritte. Più avanti guarderemo a questo punto insieme alla illiquidità dell’investimento stesso in ottica più ampia.

Ma veniamo, ora, al punto del grado di liquidità di un tale investimento: essenzialmente legato alla natura stessa delle opere d’arte, caratterizzate da un mercato poco liquido e non regolamentato, un fondo che investe in arte sia essa moderna o antica, generalemente non prevede rimborsi di capitale durante il periodo di investimento.

Inoltre i fondi che investono in arte generalmente sono fondi chiusi, ossia non permettono, terminato il periodo iniziale di sottoscrizione, di raccogliere altro capitale. La piena fiducia nel gestore del fondo d’arte si concretizza nel fatto che all’inizio nessun investitore conosce esattamente le opere che andranno a comporre il portafoglio e soprattutto l’attività di acquisto è finalizzata alla successiva vendita con l’obiettivo della piena liquidabilitä del fondo stesso allo scadere del periodo di tempo concordato, fatto salve ulteriori dilazioni di tempo.

A n d y W a r h

ol, “Dollar Sign”, 1981

Alcuni fondi infine offrono la possibilità ai propri clienti, durante il periodo di investimento nel fondo, di usufruire delle opere d’arte e poterle esporre nelle loro abitazioni cosi come ad eventi pubblici.

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Contratti di garanzia e assicurazioni certificano e tutelano gli altri investitori; è questo di fatto un elemento fondamentale nella scelta di un fondo rispetto ad un altro.

Se infatti è vero che si tratta di investimenti poco liquidi (che dovrebbero offrire un rendimento annuo superiore al 10% considerando alcuni fondi partiti per esempio nel 2009), è anche vero che le motivazioni che spingono gli investitori a prediligere questa forma di investimento fanno capo ad elementi di natura economica ma anche piu’ prettamente di natura edonistica.

Da un lato infatti inserire in una classica allocazione di portafloglio (che vede differenziarsi in azioni, obbligazioni, valute, metalli preziosi) anche un fondo che investe in arte, rappresenta un’alternativa alla protezione del proprio capitale. I cultori dell’arte giustamente fanno riferimento alla esclusivitä e scarsezza delle stesse opere d’arte, che dovrebbero garantire una valorizzazione poco volatile nel tempo e una rivalutazione sempre crescente. In pratica, dovrebbero assolvere alla funzione di remuneare l’investitore almeno per il costo della vita, come qualsiasi altro bene durevole (per esempio le case e i metalli preziosi).

F o r t h e l o v e o f

God, in italiano

Per l’amor di Dio, è una scultura prodotta nel 2007 dall’artista contemporaneo inglese Damien Hirst.

Ci sono stati ovviamente momenti storici in cui le transazioni in opere d’arte sono crollate, segnalando pertanto un minore appetito per l’asset class, ma al tempo stesso come facevamo notare prima, ci sono variabili in gioco che contribuiscono comunque a rendere attraente l’idea di investimento. Si possiede una quota del fondo ma ci si assicura di poter esporre alcune opere d’arte nei propri appartamenti. Segno distintivo di una ricchezza che a volte vive per essere ostentata, o semplicemente goduta nel proprio intimo. L’interesse per le opere d’arte rappresenta comunque una ricchezza in essere. Alimenta un mercato, offre la possibilità a diversi operatori del settore di poter lavorare, rende più fruibile la stessa arte consentendo di creare un supporto unico, quello dell’accessibilità e del passaggio di proprietà.

In un contesto dove siamo “inondati” da liquidità proveniente dalle banche centrali, paradossalmente, la liquidità in circolazione sta diminuendo; le asset class piu tradizionali

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(obbligazioni e azioni per esempio) diventano sempre più dei trades concentrati e ci sono sempre meno potenziali acquirenti nel caso di una vendita improvvisa. In questo scenario detenere quote di investimento in asset class come quella dell’arte, non facilmente liquidabile per definizione, rappresenta un ulteriore rischio ma al tempo stesso una sorta di protezione per quella tipologia di investitori che ha un approccio al mercato davvero di lungo periodo. L’arte ha fatto morire molti pittori in situazioni di forte indigenza; dopo la morte è arrivato per loro il successo e le quotazioni dei quadri sono lievitate. Un modo diverso di parafrasare l’enunciato di John Maynard Keynes: “In the long run we are all dead”.

Per maggiori informazioni:

Sotheby’s

Rai Cultura “Arte e Design”

Master in Economia e Management

dell’Arte e dei Beni Culturali del Il Sole 24 Ore: l’arte di promuovere l’arte

Ivan Zorico (280)

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L’Italia è un paese che basa la sua struttura socio- economica su quella che viene definita la piccola e media impresa. Questo tessuto imprenditoriale, insieme alla qualità della nostra manodopera ed alla creatività, caratterizza il nostro paese e ci rende riconoscibile nel resto del mondo. Ma, dobbiamo pur dirlo, non siamo un paese di grandi Compagnie Multinazionali, di certo non siamo possessori di importanti riserve naturali come gas e petrolio, ed il costo della nostra manodopera (soprattutto in alcuni settori specifici) ci rende poco competitivi nel confronto con i paesi emergenti.

Ed allora qual è la nostra vera risorsa economica? A cosa viene associata l’immagine del nostro paese all’estero? Cosa ci rende davvero unici?

A tutte queste domande vi è una sola risposta. La nostra vera e grande risorsa, quella che già in un altro contesto ho definito il nostro “oro nero” è, senza dubbio, la Cultura. Ed una risorsa senza fine.

Una risorsa capace di attrarre ogni anno milioni di visitatori trascinati nel nostro paese dal fascino della nostra storia e da un patrimonio culturale senza eguali. Basti pensare che l’Italia detiene il primato dei siti riconosciuti dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità. Ma senza voler scomodare gli importanti monumenti e le grandi opere, pensiamo soltanto agli stili architettonici presenti nelle nostre città, ai colori dei centri storici ed agli innumerevoli vicoli che trasudano storia, e capirete in un lampo che abbiamo la fortuna di camminare in un grande museo a cielo aperto.Sarà quindi chiaro a tutti che siamo di fronte ad un’offerta immensa, capace di generare grandissimi ritorni economici.

Giusto si; almeno sulla carta! Già perché un paio di anni fa fece scalpore la notizia che, da solo, il Louvre di Parigi incassava di più di tutti i musei pubblici italiani.

So che state pensando: “assurdo”! Ed è quello che penso anche io. Ma, se avete imparato a conoscere la linea editoriale di questo giornale, saprete anche che vi sto portando per mano ad una soluzione. Non certo l’unica, ma ad una ampiamente percorribile si. Infatti laddove ci sono degli spazi da riempire è più facile imporsi come innovatori. È più facile farsi riconoscere come talentuosi.

Ed è più facile affermarsi come professionisti in grado di fare la differenza e di creare valore aggiunto con il proprio operato. Immagino che adesso starete pensando: “Ok, belle parole. Ma, banalmente, come si fa?”. La risposta anche qui viene semplice. Bisogna attrezzarsi e strutturarsi acquisendo conoscenze e competenze capaci di fare la differenza, di migliorare le capacità personali e di dare gli strumenti per confrontarsi e distinguersi all’interno del mercato del lavoro.

Proprio per questi motivi, abbiamo deciso di portare alla vostra conoscenza uno strumento formativo capace di creare un collegamento immediato tra mondo accademico e quello professionale. Sto parlando del Master full time in “Economia e Management dell’Arte e dei Beni Culturali” promosso

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dalla Business School de “Il Sole 24 ORE” che, forte della sua grande tradizione in campo economico, ha confezionato un percorso formativo multidisciplinare contenente moduli tecnici e moduli mirati allo conoscenza del patrimonio culturale.

Quindi abbiamo posto alcune domande direttamente al team che segue la formulazione e l’erogazione del corso, per poter meglio inquadrare questo percorso didattico ed i suoi possibili sbocchi occupazionali.

Sulla base dell’esperienza pluriennale della Business School de “Il Sole 24 ORE”, riuscite a tracciare una fotografia del mondo dell’Arte in Italia? Quali sono le potenzialità di crescita?

Per quanto riguarda l’Italia, alcuni dati contenuti nel Rapporto 2014 Fondazione Symbola e Unioncamere parlano chiaro: l’intera filiera collegata al comparto culturale è stimata per un valore di 214 miliardi. Le imprese del sistema produttivo culturale, nel nostro paese sono 443.458; la ricchezza prodotta ammonta a 80 miliardi di euro e dà lavoro a 1,4 milioni di persone.

Inoltre il contesto italiano sta vivendo in questo periodo profondi cambiamenti dettati dalla riforma Franceschini che ha avviato un rinnovamento “rivoluzionario” a livello ministeriale e museale: i più importanti musei italiani, così come quelli statali diffusi sul territorio, saranno infatti completamente riorganizzati, aprendo prospettive occupazionali importanti.

Un altro aspetto da sottolineare è quello dell’autoimprenditoria: il settore ha bisogno infatti di idee e servizi innovativi. C’è spazio infatti per nuove realtà di start-up culturali, che rispondano alle nuove esigenze del mercato.

Siete giunti alla 8a edizione del Master full time. Come si è evoluta l’offerta didattica rispetto alle precedenti?

Anno dopo anno nel Master full time Economia e Management dell’Arte e dei Beni Culturali abbiamo cercato di attualizzare la preparazione fornita ai nostri studenti in relazione ai diversi moduli affrontati, provando ad inquadrare il più possibile le figure professionali richieste dal mercato del lavoro. Reputiamo molto importante fornire le conoscenze giuridiche, fiscali ed economiche di grande rilevanza per operare professionalmente nel settore. Altro aspetto da non dimenticare è quello legato all’innovazione tecnologica e al digitale.

In ogni edizione svolgiamo, poi, con il diretto coinvolgimento di aziende o istituzioni del settore, project work che permettano agli studenti della Business School di confrontarsi direttamente con

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tematiche d’attualità, misurarsi con professionisti a cui proporre idee e soluzioni.

Spazi importanti sono poi dedicati a focus sull’attualità, sull’andamento del mercato e sul mutamento istituzionale del settore.

Il percorso formativo proposto rivela una chiara trasversalità della didattica: credete sia il vero valore aggiunto del Master? È il reale oggetto di interesse per quelle aziende o enti che ricercano nuovi collaboratori in Italia come all’estero?

Sicuramente un aspetto che caratterizza il Master è la mappatura del settore che cerchiamo di rendere completa, per offrire una visione d’insieme su un ambito complesso e vasto: dal mercato dell’arte al settore museale, dall’organizzazione di un evento alle strategie di marketing e comunicazione culturale senza trascurare strumenti e tecniche di fundraising. Un altro importante focus è quello dedicato alla valorizzazione territoriale e al turismo culturale.

In questo modo gli studenti acquisiscono una preparazione completa e multidisciplinare, in modo da creare dei profili “spendibili” a 360 gradi nel settore.

Alla preparazione economico-manageriale giovano senz’altro conoscenze linguistiche e apertura internazionale del cv. Per questo le strutture dimostrano sempre molto interesse nei confronti di candidati in uscita dal nostro Master full time con una specializzazione di questo tipo.

Si dice che i Master sono una finestra che affaccia sul mondo del lavoro. Che percentuali di placement sono registrate al termine dell’esperienza curriculare?

Lo confermiamo. Tutti i nostri partecipanti vengono inseriti in stage al termine del percorso formativo in aula: lo stage è infatti incluso nella formazione del Master full time. Abbiamo un tasso di conferma trasversale a tutti i Master full time della Business School, successivamente allo stage curriculare, che è intorno al 90%. Per quanto riguarda nello specifico il Master full time Economia e Management dell’arte e dei beni culturali, i dati ad oggi relativi all’ultima aula che abbiamo diplomato si attestano intorno al 75% di occupazione.

La Business School e il Club Alumni24 supportano gli studenti con segnalazioni di posizioni aperte e un servizio placement continuo.

Che ruolo ha lo studio dei nuovi canali comunicativi e della multimedialità per la preparazione di questa figura professionale?

Molto importante. A questo proposito infatti i partecipanti del Master sono coinvolti nella creazione del blog.

Gli studenti, dopo una formazione specifica sugli strumenti e le caratteristiche del web e dei

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linguaggi digitali, si mettono direttamente alla prova redigendo articoli e creando contenuti che vengono costantemente caricati online e aggiornati. Viene così “monitorato” online ciò che accade in aula e fuori, con ritratti e interviste ai personaggi coinvolti, e agli eventi in corso.

Per concludere si può affermare, senza paura di essere smentiti, che nel mondo c’è molta richiesta di Italia e che ci sono molti spazi da riempire. Che ormai anche gli stili di vita nella società sono

cambiati. Che le persone sono alla ricerca della conoscenza e del bello. Che sta crescendo sempre più la voglia di volersi circondare di cultura. E che quindi bisogna farsi trovare pronti per intercettare questo trend. Ma si deve anche affermare che la sola preparazione, anche quella meglio erogata, a volte oggi non basta. Bisogna incoraggiare la nostra anima imprenditoriale e spronarla a superare quei limiti culturali che ci vedono attendere il classico (ma quanto mai sempre più improbabile) posto di lavoro da dipendente. E questo sia se si voglia intraprendere un percorso da lavoratore autonomo ma, soprattutto, se si ci si trova ad operare all’interno di una organizzazione.

Perché quello che tutte le aziende e i datori di lavoro cercano oggi è proprio la capacità di porsi degli obiettivi e seguirli in maniera autonoma. Competenza, questa, non molto pubblicizzata ma capace di incidere fortemente sullo sviluppo del proprio percorso professionale.

Per maggiori informazioni:

Master full time Economia e Management dell’Arte e dei Beni Culturali

Project Cycle Management e Fund Raising

Raffaello Castellano (377)

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Fu verso la fine dell’ottobre del 2014 che nacque l’idea di organizzare una serie di workshop sul “Marketing Culturale”, durante uno degli appuntamenti dell’iniziativa Expo Grottaglie e Dintorni, all’interno della sala conferenze del Castello Episcopio.

L’amico e organizzatore dell’evento, Massimo Giusto, ed il sottoscritto, attorniati da alcuni importanti intellettuali e poeti, tra i quali Silvana Pasanisi, Bartolo Benegiano e Franco Silvestri, cominciarono a parlare di economia della cultura.

Le domande che ci ponemmo furono queste:

Come fare fronte, in tempi di crisi come questi, alla crescente domanda di cultura che da più parti arriva?

Dove possono le associazioni di volontariato, di promozione sociale e culturali trovare i soldi per progettare, organizzare e promuovere tutte quelle iniziative che rappresentano la vivacità, ma pure l’identità più profonda di un luogo?

Come barcamenarsi in un mondo dove, fra tagli alla cultura, pareggi di bilancio, patti di stabilità e attività commerciali che falliscono quotidianamente i migliori e più motivati operatori culturali e le associazioni più propositive si trovano nell’impossibilità di realizzare qualsivoglia iniziativa?

Come ci riporta il rapporto 2014 “Io sono Cultura – L’Italia della qualità e della bellezza sfida la Crisi”, pubblicato da Fondazione Symbola ed Unioncamere, il Sistema Produttivo Culturale Italiano, con le sue 443.458 imprese (il 7,3% dell’economia italiana), i suoi 1,5 milioni di occupati (pari al 6,2% dell’economia italiana) e gli 80 miliardi di ricavi, pari al 5,7% del PIL, rappresenta un settore non solo strategico, ma pure nevralgico e strutturale di una qualsivoglia ripresa economica.

La domanda, allora come oggi, è: cosa devono fare le associazioni culturali, di volontariato e di promozione sociale per attrarre investimenti in un settore che produce ricavi superiori a quello automobilistico?

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R a p p o r t o 2 0 1 4

Io sono Cultura – L’Italia della qualità e della bellezza sfida la Crisi”. Pubblicato d a F o n d a z i o n e S y m b o l a e d Unioncamere.

L’evento formativo “Project Cycle Management e Fund Raising – Progettazione Strategica e Sostenibilità Finanziaria per realizzare la mission delle Organizzazioni di Volontariato”

nasce per dare risposte concrete alle domande che noi ci ponemmo allora e che molte associazioni ed operatori culturali si pongono quotidianamente.

Il workshop si svolgerà in due incontri successivi:

Venerdì 10 aprile dalle ore 16.00 alle ore 20.00 presso la Sala Convegni del Castello Episcopio di

GROTTAGLIE (TA). Ingresso gratuito.

Sabato 11 aprile dalle ore 09.00 alle ore 13.00 e dalle ore 15.30 alle ore 19.30 presso il Laboratorio

Urbano MEDITERRANEO, via Trento (accanto all’Ufficio Postale), SAN GIORGIO JONICO (TA).

Ingresso gratuito con prenotazione.

Il progetto ha intercettato l’interesse di diverse organizzazioni del settore, in primis quella di Luigi Caretta, Presidente provinciale dell’ACSI di Taranto (associazione organizzatrice) e dell’A.T.S.

Urban Blue ACSI Laboratorio Urbano Mediterraneo di San Giorgio Jonico, ed ha visto la collaborazione delle Associazioni ERIS, Prometeo Video Lab. e Centro Soccorso Mare di Taranto ed il patrocinio dei Comuni di San Giorgio Jonico e Grottaglie e dell’Istituto d’Istruzione Professionale I.I.P. di Taranto.

Diversi gli attori, fra associazioni e attività commerciali e professionali, che hanno voluto sostenere l’iniziativa, tra cui l’APS SocialeNetwork, l’Associazione Menti Urbane, la Proloco di Grottaglie, il Centro Servizi Volontariato di Taranto, il Panificio San Giorgio, il Bar – Caffetteria Barbapapà, l’Antica Trattoria Al Castello, il B&B Al Castello (tutte di San Giorgio Jonico) e il Laboratorio Analisi Burano e Santilio di Grottaglie. Main Sponsor dell’iniziativa è l’azienda CISA spa di Massafra, Mediapartner del progetto, il mensile on-line di Comunicazione, Marketing e Social Media, Smart Marketing.

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Come concludere, infine?

Le parole più ispirate che ho trovato sono quelle del filosofo britannico Herbert Spencer, che disse:

“Lo scopo supremo della formazione culturale non è l’erudizione, ma l’azione”; ed infatti questo evento formativo è una vera e propria chiamata all’azione, per reagire con vigore e fiducia ad una crisi che è grave ma non senza speranza. La cultura può essere l’arma giusta per sconfiggerla, ed una volta tanto non ce lo dice, o chiede, l’Europa, ma lo dicono i numeri di questo comparto, e quelli, si sa, non si possono contestare.

La Via della Bellezza

Diego Durante (15)

“…la prima bellezza sarà quella che avremo costruito tra di noi”

È abbastanza difficile fornire una corretta spiegazione su cosa sia la bellezza. Perché la bellezza può avere diverse sfumature, diversi significati, in diversi ambiti: artistico, filosofico, scientifico. Sarebbe piuttosto opportuno intraprendere un cammino che porti a scoprire quale possa essere la via della bellezza nelle sue diverse sfumature. E a farci percorrere questa strada non sarà la voce diretta di un pittore o di uno scultore, bensì di una persona che ha fatto dell’arte un evento “open air”. Emilio Donnarumma, Presidente della costituenda associazione “La via della bellezza”, progetto ambizioso che nasce a Sant’Anastasia, cittadina vesuviana ai

piedi del Monte Somma e promosso dall’Associazione focus Focolari e Lucincittà. Emilio, ex segretario comunale e con una sensibilità all’arte e alla bellezza fuori dal comune, porta nel palcoscenico della sua città, una mostra di grandi tele dell’artista internazionale Michel Pochet: una sorta di viaggio pluricromatico tra volti, luoghi e santuari dipinti dal pittore e poeta francese, viaggiatore cosmopolita, su materiali poveri come ampie lenzuola.

“L’intento – spiega Donnarumma – è quello di riscoprire il valore della bellezza non tanto in senso

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estetico, quanto come bisogno umano primario. Tutti possiamo diventare operai della bellezza, un diritto di ciascuno, che mi piacerebbe veder realizzato nel mio paese. Lo dimostra bene con le sue opere Michel Pochet, artista che da anni ha colto la valenza di una ricerca nutrita di accoglienza, dialogo, relazione tra creature e creato. Non a caso i suoi quadri nascono sempre da esperienze di viaggio e di incontro che sono insieme estetiche e spirituali”(da un’intervista de IL MATTINO, 9/9/2014). E allora ci affidiamo a lui per fare questo viaggio nella bellezza.

Emilio, cosa è il progetto: “La via della Bellezza?”

Anni fa ho ascoltato Michel Pochet, pittore, che parlava della Bellezza come bisogno primario dell’uomo. Sentivo che questa realtà mi apparteneva. Da allora, pur non essendo un artista, ho cercato di essere un operaio della bellezza. Negli ultimi anni ho intrapreso un mio viaggio nel bello organizzando quattro eventi a casa mia con circa 80 ospiti (il sindaco, i colleghi di lavoro, il mio dentista…. sempre gli stessi ….nessuno è mai mancato ad un appuntamento): la bellezza con le opere di Roberto Cipollone, nei dolci tradizionali di Napoli, nel balletto di Liliana Cosi e con le pitture di Michel Pochet. Avverto sempre che la bellezza può attirare tutti e può avere un suo valore sociale. La passione per le cose belle, l’amore per il mio Paese e il desiderio di incarnazione e, non ultima, la spinta ad uscire fuori mi hanno convinto, non certo senza un superamento della mia timidezza, ad organizzare un evento. Ho pensato di iniziare

con le grandi tele di Michel. La strada dove abito poteva essere – ed è stata – la via della bellezza almeno per un giorno. Ho invitato alcune persone – aventi la mia stessa sensibilità – a condividere questo progetto. Quasi tutti hanno sposato l’idea.

Ho detto loro che il mio desiderio era quello sperimentare, come gruppo, innanzitutto tra noi, la vera Bellezza. Nella misura in cui avremmo vissuto tale realtà gli altri avrebbero colto la Bellezza nell’evento. Anche se l’evento fosse andato male – ma non è stato così- saremmo stati (parole di tanti) contenti abbastanza per l’esperienza di famiglia, sereno dialogo, coinvolgimento emotivo, arricchimento artistico e fraternità costruita in questi mesi ( tanti i momenti conviviali a casa dell’uno e dell’altro).

Chi è Michel Pochet, e perché hai deciso di dare eco proprio alle sue opere?

Da anni conosco Michel e le sue opere: un vero e proprio viaggio, un itinerario tra volti, luoghi e santuari. Come dice lui stesso dice: “Il pellegrinaggio della bellezza, richiede pazienza e perseveranza, fino a quando un bel giorno scopri che il maggiore santuario della bellezza era davanti alla porta di casa tua, bastava guardare nella direzione giusta”. I suoi quadri nascono da esperienze estetiche e spirituali: frammenti dell’anima impressi velocemente su un taccuino o dipinti in ginocchio sulla sabbia, al buio, in un piccolo acquerello, per appuntare quella voce interiore che parla. Michel rielabora in più versioni lo stesso soggetto: lo medita, lo purifica, affinché possa cadere il superfluo e rimanere solo l’essenziale; e non torna indietro, ma penetra nella contemplazione di quella bellezza che ha percepito e che ha bisogno del silenzio per poter parlare. I suoi dipinti, spesso di grandi dimensioni, realizzati su materiali umili, quotidiani – tele, lenzuoli, pannelli- sembrano entrare nella realtà dell’osservatore, toccarlo, parlare con lui. La tecnica scaturisce da un dialogo

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continuo fra segno e colore: il colore è denso, materico, fuoriesce dalla tela, diviene parola, i segni sono simboli antichi e nuovi che vivono nello spazio. Ho comprato una sua opera: una montagna di colore e nero e spicchi di cielo blu cobalto. Un’emozione fortissima. Mi ricordava un’immagine impressa nei miei occhi agli inizi del mio lavoro. Quando scendevo giù dai monti, all’imbrunire, non sapevo se era il cielo che faceva da contorno alla montagna o la montagna al cielo. Dopo circa 20 anni ho comprato il quadro. Ho letto vari scritti di Michel sul valore sociale dell’arte. A parole non so esprimermi ma ne condividevo il contenuto. In fondo anche io nel mio piccolo, con gli eventi a casa mia, avevo dato Bellezza ai miei ospiti. E parlo del periodo in cui Napoli viveva un momento difficile a causa dei rifiuti. Nel ristrutturare la mia casa – moderna – ho pensato che essa potesse accogliere tanti amici. E di fatto è così. L’armonia della casa, l’ospitalità – un dolcetto, i fiori, la musica – mettono a proprio agio l’ospite e facilitano il rapporto.

Quali sono gli eventi che organizzi con l’associazione “La via della bellezza”?

Da un lato all’altro dei lampioni di Via Roma di Sant’Anastasia, paese in cui vivo, sono state appese le tele di Michel; altre tele ai balconi. Sui balconi luci per illuminare la strada e luci per illuminare, di sbieco, le tele. Musica di sottofondo. Il programma è con 4 violinisti che raccontano ai bambini – seduti per terra – della musica. Poi in un altro angolo un palchetto su cui un attore del Teatro di Corte di Carpi, accompagnato da un chitarrista, leggeva brani sulla Bellezza; a “leggere” i tesori nascosti nelle tele.

Dall’altro lato della strada, ormai all’imbrunire, 15 minuti di danza classica: momento molto suggestivo.

Al termine, il concerto di piano di Paolo Vergari e il tamburellista (francese) Carlo Rizzo:

strepitosi!!Tanti complimenti: dalla persona umile, da quello più colto, dal barista, dall’esperto di musica e…!

Michel, una presenza discreta ma attenta, era davvero felice.Anche il giorno dopo sono arrivati alcuni messaggi: è stata un’occasione ricca di tanti aspetti…, sembrava di essere in un paese diverso…, è stata la dimostrazione che c’è qualcuno che vuole davvero bene al nostro Paese…, promozione della cultura…, sembrava di essere in un’isola…,

C o m u n e d i S

ant’Anastasia – Piazza Trivio

grazie dei meravigliosi momenti di autentica partecipazione che hai saputo regalare ai nostri bambini (il presidente dell’associazione dei bambini autistici)….E ancora: Mi è sembrata una gran

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bella festa popolare, nel senso di popolo, che ha aggregato grandi e piccoli in scioltezza, senza rigidità né formalismi: prova ne è la partecipazione fluida per strada, dai balconi, dentro e fuori dei bar e dei cortili delle case. Il metodo che mi sembra aver funzionato alla grande: cooperazione gioiosa, partecipazione (dal basso e dall’alto…in tutti i sensi).Infine i genitori di un bambino autistico che avevamo incluso nell’organizzare la degustazione ci hanno scritto:

E’ “bastato” lo sguardo aperto alla Bellezza per poter realizzare una piccola meraviglia: Tommaso ha vissuto l’esperienza di essere parte di una Comunità che, riconoscendolo e riconoscendogli un ruolo, gli ha permesso, per un giorno, di rompere quel filtro di separazione che lo rende invisibile alla vita sociale. Tutti ci hanno stimolato ad andare avanti e a non attendere un anno per il prossimo evento.

Perché è importante comunicare e valorizzare l’arte?

L’arte di per se è diffusiva, contagia. Penso che la Bellezza sia anche nelle cose brutte se esse siano espressione di uno stato d’animo, di una sensazione di un parlare di se. E poi attraverso l’arte si può comunicare il senso della vita e si fornisce una chiave di lettura personale sull’essenza della vita di ognuno di noi. Accogliere l’arte fa bene! Le prime volte che facevo vacanze a Ravello (luogo suggestivo della costiera amalfitana) ho chiesto ad un mio amico se voleva vedere lo spettacolo di danza classica del New York City Ballet. Lui, penso, non aveva mai visto spettacoli di un certo livello.

Ha accettato l’invito e al termine dello spettacolo era “toccato”. Aveva sperimentato, penso, anche senza capire di balletto, la Bellezza.Non so se ho reso l’idea.

Emilio, un’ultima domanda. Cosa è per te la bellezza?

Penso di aver risposto già un pochino con quanto innanzi detto.

Ma riporto questo brano letto non so dove.

Mi viene in mente il Diario di Etty Hillesum (Adelphi), quella singolare ragazza che, nell’Olanda invasa dai nazisti – sebbene credente a modo suo in modo poco convenzionale –, riscopriva in sé l’ebraica volontà di vivere. Le pagine del suo diario diventarono così un irriducibile inno alla vita, mentre tutto intorno si sgretolava, puzzava di morte.

Lei, nonostante non avesse quasi più soldi per procurarsi cibo, comprava dei fiori: «Molti mi dicono:

“Come puoi pensare ancora ai fiori, di questi tempi”. Ieri sera, dopo quella lunga camminata nella pioggia, e con quella vescica sotto il piede, sono ancora andata a cercare un carretto che vendesse fiori e così sono arrivata a casa con un gran mazzo di rose. Ed eccole lì, reali quanto tutta la miseria vissuta in un intero giorno».

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Anch’io, quando ho passato tempi non facili, mi sono ricordato di Etty. Come lei, ho comprato un mazzetto di fiori freschi. Da mettere lì in un vaso all’ingresso, una bandiera, un ostinato proclama alla vita. Perché senza bellezza e poesia, anche della più economica, la vita diventa irreparabilmente angusta. Nella comune atmosfera, i fiori di Etty continuano a diffondere luce. A noi raccogliere il suo sì alla novità della vita, per riscoprire, nonostante il marciume attorno, la responsabilità di testimoniare che tutto è tremendamente bello.

Spesso vivo tale esperienza!

ISIS: ADESSO BASTA!

Ivan Zorico (280)

Adesso basta! Cos’altro deve accadere prima che una voce unanime si alzi e gridi tutto il suo dissenso contro quello che sta accadendo?

Tanti e troppi sono i massacri e le nefandezze a cui stiamo assistendo.

I fatti di Francia (di cui abbiamo già parlato), gli omicidi efferati a cui assistiamo (filmati di uomini bruciati e poi fatti circolare in rete per vile propaganda), bambini utilizzati come killer o trasformati in bombe con i piedi e, ancora, l’opera di distruzione compiuta ai danni di importantissimi siti archeologici. Per non contare, ovviamente, lo stato di terrore e di morte che ormai da tempo aleggia (per usare un eufemismo) sui territori occupati dall’ISIS.

Molte delle azioni portate avanti dai fondamentalisti islamici hanno un obiettivo molto chiaro, per quanto deprecabile: alzare il tiro sulla guerra di religione. Ne è appunto un chiaro esempio l’imboscata eseguita ai danni dei giornalisti della rivista satirica Charlie Hebdo, “rei” di aver

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esercitato il loro diritto di fare satira prendendo come protagonista il profeta Maometto.

Ma, la distruzione delle opere d’arte non ha neanche questa assurda motivazione. È un mero ed insensato crimine di guerra. Certo si rifanno, come ovvio (per loro) che sia, ad una visione estremistica dell’Islam, che prevede la distruzione delle statue, dei santuari e di tutti quegli oggetti di culto non riconducibili a Dio.

In pochi giorni, infatti, i fondamentalisti islamici hanno preso d’assalto il museo di Mosul, distruggendo molti inestimabili reperti e trafugandone degli altri. Solo dopo aver assistito alle riprese video dell’assalto (messo in rete su twitter dagli stessi fondamentalisti) si è scoperto che, a parziale consolazione, alcune di quelle statue distrutte erano solo delle copie in gesso e che le originali sono custodite nel museo di Baghdad.

Inoltre, i jihadisti dell’ISIS, non hanno risparmiato neanche le antiche rovine della capitale assira Nimrud.

In questa occasione addirittura le ruspe hanno preso il posto di picconi e martelli, strumenti usati appunto per la devastazione avvenuta a Mosul.

E, in ultimo, la medesima sorte è toccata ai resti della città di Hatra, fondata nel III secolo a.C.

dalla dinastia dei Seleucidi.

Magari vi starete chiedendo: “ma la legge musulmana non predica tutto questo?”

Niente affatto! Basti pensare che quei siti archeologici erano lì da centinaia e centinaia di anni, ed a nessuno era mai venuto in mente di compiere quelle barbarie.

Quindi, qui, il problema è un altro. C’è il chiaro intento di distruggere l’arte per distruggere la storia. C’è il chiaro intento di distruggere il patrimonio culturale per cancellare la cultura di un popolo. C’è il chiaro intento di distruggere la civiltà, così per come ci era stata tramandata, per crearne un’altra: la loro.

Se ben ricordate, già nel 2001, uno scempio della medesima portata fu realizzato dai talebani sulle statue giganti di Buddha a Bamiyan. In quell’occasione si disse che l’operazione fu condotta così velocemente che non ci fu modo, per la comunità internazionale, di intervenire. Ma nei casi odierni

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le cose si sono svolte diversamente. Era ben chiaro cosa sarebbe successo, ma nulla è stato fatto. Mi verrebbe da pensare (male) che se invece dei siti archeologici fossero stati attaccati dei pozzi petroliferi, la comunità internazionale sarebbe stata più tempestiva nello schierarsi unanimemente a “difesa quei popoli sottomessi”. Ma sin quando si parla di

“arte”, allora ci si può permettere di uscire con dichiarazioni di sdegno, a cui non segue (però) nulla di realmente concreto.

E questo perché si sottovaluta il valore del patrimonio culturale: è l’eredità del nostro comune passato di esseri umani; esseri umani che hanno percorso epoche, civiltà e paesi, che rappresentano la nostra identità di oggi, la nostra storia. Così facendo è come se ad un uomo adulto venissero tolti, ad ogni monumento abbattuto, dei ricordi della propria infanzia e via via, monumento dopo monumento, tutti gli altri ricordi sino ad arrivare a non averne più. Ed un uomo senza storia e senza passato è un uomo che non ha futuro.

E allora, adesso basta! Cos’altro deve accadere prima che una voce unanime si alzi e gridi tutto il suo dissenso contro quello che sta accadendo?

Signori e signore, benvenuti a Museica:

l’irriverente museo di Caparezza

Maddalena D'Amicis (72)

Le foto dell’articolo sono quelle della “Prima data del MUSEICA TOUR II di Caparezza a Taranto il 28 Febbraio 2015″, realizzate da Vincenzo Cuomo

(vincenzocuomo83@hotmail.com) de L’A 50 millimetri.

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Riparte da Taranto, dopo una breve tournée in Europa e l’esperienza negli USA, il Museica Tour di Michele Salvemini, in arte Caparezza, ispirato all’omonimo album e che gli è valso il Disco di Platino, il Premio Tenco ed il Onestage Award come miglior artista italiano alternative.

Museica, particolare neologismo coniato dall’artista per indicare il suo personalissimo museo, l’insieme delle sue opere migliori, in questo caso, opere musicali che si ascoltano con gli occhi, parafrasando le sue parole alla presentazione del tanto atteso disco, dopo l’uscita nel 2011 de “Il sogno eretico”.

Museica altro non è che la fusione di tre parole: Museo, Sei e Musica.

Il sesto disco di Caparezza, il suo Museo, il luogo dove sono raccolti oggetti d’arte ma anche veri e proprio pezzi di vita vissuta al suono di quel complesso ritmico-espressivo che sono i suoi versi ed i suoi accostamenti melodici.

Ogni brano ispirato ad un’opera d’arte, offre un punto di riflessione, sull’opera, sulla musica ma soprattutto sul mondo contemporaneo usato a pretesto per denunciare una situazione attuale, o semplicemente per raccontarlo, sempre sopra le righe ed alla maniera irriverente del rapper molfettese.

È proprio questa maniera poco convenzionale di raccontare e dipingere a suo modo la contemporaneità, che ha portato Caparezza ad essere un punto di riferimento per molti giovani italiani che puntualmente affollano i palazzetti e cantano le sue canzoni a squarciagola, e così è stato anche a Taranto.

La cosa che subito salta all’occhio apprestandosi ad un Pala Mazzola gremito di gente, è che il

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cantante non sia amato soltanto da giovani e giovanissimi, ma che ci si trova di fronte a gente di tutte le età e di tutti i tipi, a dimostrazione, che registri lessicali senza filtri, ritmi incalzanti, ritornelli tormentone, siano solo alcune delle caratteristiche che fanno di Caparezza, un musicista sui generis che utilizza la musica sicuramente per spettacolarizzare ma soprattutto per lanciare messaggi sociali, trasversali a tutte le generazioni ed a tutte le classi.

Museica è molto più di un concerto, è un avvincente viaggio, una sorta di visita guidata all’interno del mondo di Caparezza, attraverso le passioni, le riflessioni e quella particolare ironia che da sempre lo contraddistingue, anche quando parla di

temi scottanti come i disastri ambientali della nostra terra, anche quando utilizza il mito greco di Sisifo per descrivere la travagliata vita degli operai tarantini e dedicargli la sua “Eroe”.

Caparezza infatti, ha utilizzato molte volte la sua musica, naturalmente internazionale nelle sonorità ma locale nei temi seppur universali, per denunciare la situazione tarantina anche in tempi in cui il tema ambientale non era così tanto sentito dalla cittadinanza, stabilendo con i tarantini, un legame profondo e sentito.

Lo fa nel 2008 col brano “Vieni a ballare in Puglia”, lo fa partecipando al Concerto del Primo Maggio a Taranto, lo fa anche questa volta, scherzando con i dipinti del famoso artista barlettano Giuseppe De Nittis, durante il suo concerto, ed il pubblico, lo

ricambia con affetto e partecipazione.

Difficile riuscire a raccontare ed a definire tutte le emozioni che il rapper pugliese riesce a suscitare durante la sua performance, perché definirla solo un concerto, sarebbe semplicistico, essa è infatti, un singolare accostamento di luci, suoni, immagini, colori ed esilaranti scenette tragicomiche che non smettono mai di far riflettere.

La spettacolare scenografia, essa stessa arte contemporanea, è fatta di imitazioni di opere d’arte,

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pianoforti che si aprono come dei libri, musicisti che suonano circondati da cornici di legno come se facessero essi stessi parte del museo, pezzi di quella vita che Caparezza tenta di raccontare attraverso la sua arte e l’arte dei suoi pittori preferiti.

Al centro c’è lui, con la sua singolare ironia fulminante, che prende in giro tutti e non risparmia nessuno, nemmeno se stesso, trascina lo spettatore nel suo paese delle meraviglie, in cui il tempo e lo spazio, non esistono più, in cui il tempo è scandito dagli orologi deformati di Dalì e la prospettiva è quella di Giotto.

Intanto sul palco, le epoche storiche si mischiano e s’intrecciano insieme ad azzeccati travestimenti, diventano macchie su una tela che l’artista imbratta, improvvisando una vera e propria performance d’arte contemporanea, il cui risultato sono schizzi di colore su un

quadro che poi verrà donato ad un fortunato tra il pubblico.

Nessuno viene risparmiato dalla sua satira graffiante, nemmeno Mirò e persino Hitler, mentre, compaiono enormi carte da gioco che si muovono a ritmo di musica e Capa canta “Teste di Modì”, sbeffeggiando il mondo dei mass media ed il pubblico si scalda con “Non me lo posso permettere”, canzone di denuncia sulla situazione italiana.

Nel frattempo, la metafisica di De Chirico è diventata uno spot pubblicitario sul Wellness ed un egocentrico Endy Warhol dà lezioni di Pop.

Caparezza stesso, dice d’amare l’arte che dissacra ed esso stesso diventa veicolo di quest’arte dissacrante, così ci si trova a constatare che la Gioconda ha i baffi, come nel dipinto di Duchamp, e la vita di Van Gogh diventa spunto per descrivere i giovani d’oggi, intanto ripudia la guerra parlando

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di Dadaismo, e “Comunque Dada”, ci ricorda sempre che l’arte non ha “Nessuna Razza”.

Si esce un po’ frastornati dal suo mondo denso di concetti, luci e suoni psichedelici, risate, balli sfrenati e citazioni colte, con l’impressione che per una volta, si è andati appresso al bianconiglio nel museo delle meraviglie di Caparezza, per una volta, si è provato ad assaggiare la pillola rossa di Morpheus e si è riusciti a vedere attraverso i suoi occhi e le sue canzoni, il mondo, com’è e come dovrebbe essere.

È sicuramente Caparezza il grillo parlante della musica italiana, quel pensiero scomodo a cui non vorremmo dare credito, quella coscienza che narcotizziamo tra social network e serate mondane, che a volte ci sussurra all’orecchio ed altre volte urla e si dimena su un palco ricordandoci sempre che “la maggior parte delle cose che animano questa Terra sono frutto di violenze, per sfuggire all’inquietudine di vivere si cerca di costruire una realtà parallela, si crea un mondo ideale; l’arte è salvifica, rende poetico il mondo”.

Un'opera di arte urbana per trasmettere e condividere (anche l'arte stessa). Il

fenomeno del Dead Drop.

Simona De Bartolomeo (84)

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L’arte è solo un quadro in una galleria? Gli ultimi decenni ci hanno mostrato come il mondo dell’arte oggi non si avvalga più soltanto di dipinti e sculture, ma si esprima attraverso modalità sempre nuove e diverse, utilizzando strumenti talvolta molto lontani dall’ambito artistico. Questo è il caso dell’artista concettuale tedesco Aram Bartholl, che lega il suo modo di fare arte al mondo del virtuale.

Sono famose le sue opere “Forgot your password?”, un libro di otto volumi in cui sono state trascritte, in ordine alfabetico, milioni di password rubate dal portale LinkedIn e “Map”, l’installazione di enormi segnaposto di Google Maps, posizionati al centro di diverse città del mondo.

Aram Bartholl, che con le sue opere vuole mostrare quanto sia semplice fondere lo spazio pubblico con quello privato, ha dato vita ad un’altra opera di street art, che sta assumendo proporzioni vastissime. E’ il fenomeno del “Dead Drop” (metodo con cui le spie si scambiavano oggetti, lasciati in luoghi pubblici, senza mai incontrarsi), che consiste nell’inserire nei muri delle chiavette usb fissate con il cemento.

L’obiettivo dell’artista è permettere a chiunque di scambiare e condividere informazioni in maniera totalmente anonima, senza il vincolo della connessione internet, in uno spazio pubblico, gratuitamente.

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Da allora possiamo veder sbucare pen drive dai muri di numerose città, da New York (dove è nato il progetto) a Parigi, da Sydney a Roma. Il Dead Drop, in continua espansione, ha l’obiettivo di permettere a chiunque di lasciare la propria traccia, di condividere il proprio vissuto con qualsiasi persona pronta a ricevere queste informazioni. La mossa da fare è semplicemente collegare il portatile alla chiavetta, curiosare, lasciare e prendere ciò che ci piace, dalla musica alle immagini, dalle poesie ai video.

Nel campo delle arti può essere un mezzo veloce ed innovativo per far conoscere le proprie opere e magari intercettare qualcuno interessato ad investire sul talento. Un’interpretazione possibile è anche quella di tramandare ai posteri qualcosa che riguardi la nostra epoca, una sorta di reperto 2.0.

Sicuramente questa libera condivisione è un’idea incredibile, ma comporta anche dei rischi, come il danneggiamento fisico della pen drive, la cancellazione di tutti i dati presenti al suo interno o, il peggiore, l’inserimento di un virus con l’obiettivo di infettare tutti i portatili o smartphone che si collegheranno successivamente.

Qual è il futuro di questo metodo di file sharing non possiamo saperlo, ma sicuramente ha portato un cambiamento nel modo di cercare e trasmettere informazioni, che non avviene più soltanto nella propria stanza, ma per le strade di tutto il mondo.

Sito internet Aram Bartholl www.datenform.de

Vincenzo Calò - Il Libro

Raffaello Castellano (377)

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Cosa rende unica una vita? Cosa rende straordinaria ed al tempo stesso profondamente connessa al suo territorio, alla sua comunità, un’esistenza?

Ed ancora, può la vita di un singolo uomo, per quanto anticonformista e illuminata, scandire i passaggi, ma anche il paesaggio, di una cittadina?

Sappiamo, dai nostri studi scolastici, che la storia è quasi sempre scritta intorno alla vita di uomini straordinari che, per caso, per volontà o per destino si sono trovati nel posto giusto ed al momento giusto, perché la loro cifra segreta, la loro personalità, la loro particolare individualità potessero emergere e manifestarsi con tutta la forza che le erano proprie.

Ma anche se tutte le pre-condizioni e condizioni si presentano al momento e nel luogo giusto, anche se l’uomo, l’individuo chiamato a farsi portatore ed esempio per la sua comunità e per le generazioni future fosse capace e fortunato oltre misura, per conoscere la vita e la storia di questi uomini occorre l’opera fondamentale ed imprescindibile di un tipo particolare di scrittore: il biografo.

Il libro “Vincenzo Calò”, recentemente pubblicato per i tipi della Scorpione Editrice di Taranto, ci fa capire quanto importante e particolare sia il legame che unisce il biografo al personaggio che si vuole descrivere.

Da una parte, infatti, abbiamo Vincenzo Calò, che è stato un famoso e stimatissimo medico ed imprenditore grottagliese, nato nel 1861, all’indomani dell’Unità d’Italia, e morto nel 1933, nel momento in cui il Fascismo imperava nella mente e nel cuore di un’intera nazione.

Dall’altra abbiamo il biografo Roberto Burano (classe 1948), un biologo ed operatore culturale, sempre grottagliese, che decide di consegnarci, attraverso uno scrupoloso lavoro di ricerca e scrittura, la figura di un uomo che seppe amalgamare nella sua vita il suo lavoro, le sue passioni e il suo impegno civile come pochi altri.

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G r o t t a g l

ie – Parco della Rimembranza e Villa Calò Cartolina del 1932 – Ed. Piergianni Davide – Grottaglie (Collezione Antonio Rombone

Per farci conoscere la vita e l’opera del suo protagonista il Burano decide di presentarcelo attraverso i sogni e i ricordi degli ultimi giorni della sua vita.

L’autore immagina che al Calò, attraverso i sogni, facciano visita tutti i personaggi fondamentali della sua vita, che, come in una sorta di “Canto di Natale” dickensiano, ma positivo e non punitivo come l’originale, lo accompagnano nelle tappe fondamentali della sua esistenza.

Scopriamo allora che, oltre ad essere un medico quasi taumaturgico, Vincenzo Calò fu un imprenditore illuminato che seppe trasformare ed innovare la lavorazione, i temi e gli stili della Ceramica Grottagliese, rendendo più moderne, meccanizzate e tecnologiche le botteghe artigiane, oltre a farle diventare posti più salubri per chi vi operava, eliminando, via, via che il progresso tecnologico avanzava, le sostanze e le lavorazioni nocive.

Fu il primo a concepire e dotare i laboratori ceramici di una sorta di sala espositiva interna che potesse ospitare i visitatori e gli acquirenti: oggi noi li chiamiamo show room.

Attraverso la sua fabbrica Manifatture Calò non solo diede nuovo slancio all’economia cittadina e provinciale, ma capì, prima di tutti, il bisogno della promozione e del marketing territoriale. Se infatti oggi la Ceramica Tradizionale di Grottaglie è storicizzata e rinomata lo si deve proprio al Calò, che attraverso cospicue donazioni di pezzi e testimonianze al Museo della Ceramica di Faenza favorì e promosse questo processo.

In ultimo scopriamo che si deve al Calò l’importante apporto di innovazione, che permise il passaggio della “Regia Scuola di Ceramica”, ancora legata a pratiche manuali ed artigianali, alla

“Regia Scuola d’Arte”, promuovendo collaborazioni con altre scuole e tradizioni ceramiste italiane, trasformandola in un vero centro di ricerca e sperimentazione artistica. Nel 1934 un regio decreto dedicherà proprio a Vincenzo Calò la scuola che aveva diretto per oltre 20 anni, e che poi sarebbe diventata prima Istituto Statale d’Arte e poi Liceo Artistico, annoverando nel tempo docenti e studenti che sono diventati artisti di fama non solo nazionale.

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S c u o l a d

Arte Vincenzo Calò

Cosa altro dire? Forse solo un’altra cosa: mai come oggi assistiamo alla glorificazione di personaggi che diventano famosi e noti solo a causa di una forte esposizione mediatica. Siamo forse il primo Pese al mondo per “perdita di memoria collettiva”, dimenticando la nostra storia comune, i nostri eroi, i nostri veri e grandi personaggi, siamo impreparati ad affrontare le sfide del futuro.

La figura di Vincenzo Calò, che fece per Grottaglie quello che Adriano Olivetti fece per Ivrea, non deve assolutamente essere dimenticata.

Se in Italia non torneremo, tutti, nessuno escluso, a “ricordare” la nostra storia per capirne la lezione e coglierne i suggerimenti non riusciremo non dico a realizzare, ma nemmeno a progettare il nostro futuro. Giriamo distrattamente per strade e piazze che portano nomi illustri di personaggi a noi sconosciuti, ai quali fortunatamente scrittori ispirati come Roberto Burano riconsegnano dignità e notorietà; a noi lettori il compito e la responsabilità di rendere questa dignità e notorietà più o meno ampia e duratura.

Quando un'opera d’arte assume valore nella relazione.

Armando De Vincentiis (26)

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T h e P h y s i

cal Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (1991) di Damien Hirst

Una delle domande fondamentali che si pone uno psicologo è se un’opera d’arte ha un valore intrinseco indipendente dal resto del mondo o se assume un significato e, soprattutto, un valore in base al contesto, all’aspettativa di un osservatore o in base ad una dinamica relazionale tra l’artista ed i suoi estimatori. Nell’arte classica c’è un dato oggettivamente incontrovertibile: non è da tutti realizzare determinate opere indipendentemente dal gusto di un osservatore (provate a cimentarvi con un blocco di marmo per riprodurre la Pietà). Nell’arte contemporanea ci sono altri fattori che determinano il valore di un opera che, almeno in apparenza, sembra alla portata di tutti. Per meglio intenderci dove si vuole arrivare, un esperimento al quale ho partecipato, quando ero studente, darà meglio l’idea. Durante una lezione

V a s i l i j V a s i l

’evič Kandinskij (1866 – 1944)

all’Università di Psicologia La Sapienza di Roma il professore di psicologia generale ci presentò una sorta di scarabocchio al quale avremmo dovuto dare un punteggio sul grado di allegria che questo avrebbe suscitato in noi studenti. Ci fu una votazione, oltre ai commenti sulla bruttezza di questo scarabocchio e sulla sua inconsistenza. Terminato il punteggio il docente ci presentò un critico d’arte che commentò l’Opera: “si tratta dell’Allegria di Kandinskij, realizzata in un periodo di grande fertilità creativa dell’autore.

Infatti nello scarabocchio era possibile intravedere (sempre dopo la spiegazione e forse

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suggestionati da questa) coriandoli, festoni e bozze di sorrisi. Al termine l’esperimento prevedeva un’ulteriore votazione sempre sul grado di allegria che questa suscitava. Il punteggio si elevò vertiginosamente, così come i giudizi estetici degli studenti, che si trasformarono da “un orrendo scarabocchio” ad “un’opera davvero significativa”. Pensate che delusione quando il professore ci disse che non esisteva nessuna Allegria di Kandinskij e che il critico altro non era che un suo assistente spacciatosi come esperto dopo aver realizzato lo scarabocchio. Questo è un esperimento che ci evidenzia come

F o n t a n a ( 1 9 1

7) di Marcel Duchamp

l’autorità di un’osservazione così come l’autorevolezza, seppur inventata, di una creazione possa determinare il valore di un’opera d’arte. Un inutile e, ad essere sinceri, orrendo scarabocchio, si trasforma, magicamente, in un’opera degna di contemplazione solo perché qualcuno ci ha detto che è di autorevole provenienza.

Ecco dove si voleva arrivare, al valore di certa arte contemporanea, quelle realizzazioni che sono apprezzate non certo per la loro qualità intrinseca o per l’oggettiva difficoltà nel saperle realizzare, ma che sono contornate da quell’alone di “bellezza” che si alimenta solo ed esclusivamente in virtù dell’autore e all’importanza che ad esso un individuo un gruppo o un’intera comunità attribuisce.

Ecco, dal mio punto di vista, una dimensione poco considerata di certa arte contemporanea è la sua valenza relazionale. Quest’ultima rappresenta un elemento fondamentale che fa capolino in ogni processo umano, dove la convinzione radicata che esista un valore intrinseco alle

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B i d i b i d o b i d i b

oo (1996) di Maurizio Cattelan

cose, indipendentemente dall’osservatore, deve lasciar spazio al significato relazionale delle stesse.

Se non ci fosse questa dimensione, certa arte contemporanea, probabilmente, non avrebbe la valenza che oggi assume. Come pensate che possa reggere l’Orinatoio di Duchamp alla critica?

Filosofi e critici hanno voluto vederci di tutto in esso, ma era solo un orinatoio! Non per nulla Piero Manzoni è andato oltre lo stesso Duchamp ed è riuscito a far ospitare in numerosi musei del mondo la sua Merda d’Artista.

Lungi dall’idea di porre limiti alla creazione artistica e di elevare ad opera qualsiasi cosa, e considerando che la creatività è rappresentata anche dalla capacità di saper collocare un oggetto in altri contesti e dare la suggestione di nuovi significati, non si può prescindere dall’aspetto relazionale e dal fatto che la creazione artistica è un’opera che si costruisce in due: il cervello di chi la realizza ed il cervello di chi la interpreta.

Biopic: un’altra maniera di raccontare l’arte.

Simona De Bartolomeo (84)

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Nel vasto mondo del cinema i generi in cui possiamo imbatterci consultando la programmazione di una qualsiasi sala cinematografica sono molteplici, ma negli ultimi anni un genere si sta facendo strada ricevendo premi e seminando seguaci in tutto il mondo. Parliamo del Biopic , termine nato dalla contrazione di

“biographic ” e ” picture “, film biografico, in italiano.

Numerosi registi portano sul grande schermo le vite di personaggi che hanno segnato la storia, come scienziati, uomini di potere, musicisti, sportivi e scrittori. Ampio spazio, in questo vasto genere, viene dato soprattutto agli artisti ed, in particolare, ai pittori.

La settima arte porta in auge la vita, spesso travagliata, dei più grandi maestri dell’arte figurativa, narrandone le vicende personali e sentimentali, che spesso si fondono in un unico racconto con la nascita delle loro più famose opere d’arte.

Uno dei primi biopic dedicato ad un artista è di un regista italiano, Goffredo Alessandrini, che nel 1941 girò “Caravaggio, il pittore maledetto” ,

raccontando il rapporto del pittore barocco Michelangelo Merisi da Caravaggio con la città di Roma, fino agli ultimi giorni della sua sregolata vita.

Dedicato a un maestro della pittura del XX secolo, è il film del 1996, diretto da James Ivory,

“Surviving Picasso” , incentrato sulle numerose avventure sentimentali dell’artista spagnolo Pablo Picasso, interpretato da Anthony Hopkins.

Protagonista del film di Julian Schnabel del 1996, è il writer-pittore statunitense Jean-Michel Basquiat, uno dei più importanti esponenti del graffitismo americano. Il film intitolato, appunto,

“Basquiat ”, presenta il ritratto dell’artista metropolitano che insieme a Keith Haring portò i graffiti

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dalle strade alle gallerie d’arte. Nel film troviamo David Bowie nel ruolo di Andy Warhol, il massimo esponente della pop art. Warhol, data la sua notevole importanza nel mondo dell’arte, trova spazio anche in un altro film, intitolato “Factory Girl” (2006), diretto da George Hickenlooper, basato sulla vita di Edie Sedgwick, la musa ispiratrice del pittore pop.

La pittrice italiana Artemisia Gentileschi è la protagonista del film del 1998 di Agnes Merlet,

“Artemisia, passione estrema”, storia della donna che sfidò numerosi pregiudizi per inseguire la sua ispirazione artistica, in un’epoca in cui non era facile per una donna affermarsi come pittrice.

Sempre ad una donna è dedicato uno dei biopic più apprezzati, “Frida” (2002), della regista Julie Taymor, che ha portato sullo schermo le sofferenze fisiche e sentimentali della straordinaria pittrice messicana Frida Kahlo, famosa anche per il suo costante impegno politico.

Il pittore e scultore Amedeo Modigliani è al centro del film “I colori dell’anima – Modigliani”, pellicola del 2004, diretta da Mick Davis, che narra la vita dell’artista celebre per i suoi ritratti femminili caratterizzati da volti stilizzati e colli

lunghi e sottili, soffermandosi sulla grande rivalità con Pablo Picasso.

Al pittore austriaco Gustav Klimt, uno dei massimi esponenti dell’Art Nouveau, è dedicato l’omonimo film “Klimt” (2006) del regista Raoul Ruiz. All’attore John Malkovich è affidata l’interpretazione dell’artista che destò scandalo per il carattere erotico della sua pittura.

“Big eyes” (2014), uscito da pochi mesi al cinema , è l’ultimo film di Tim Burton, in cui racconta la storia di Margaret Keane, la pittrice che ama dipingere bambini dagli occhi enormi. Margaret fu vittima del marito Walter, che la costrinse a dipingere numerosi quadri spacciandoli per opere sue, ma dopo il divorzio lei svelò l’inganno.

L’artista che maggiormente ricorre nel mondo del cinema è il pittore surrealista Salvador Dalì . A lui sono stati dedicati lungometraggi, documentari e la ragione va trovata nel fatto che nella sua vita si

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è dedicato egli stesso al cinema, con sue opere, ma anche collaborando con registi come Luis Buñuel e Alfred Hitchcock. Uno splendido omaggio quello di Woody Allen nel film “Midnight in Paris”

(2011), dove il protagonista incontra Dalì seduto in un bar, in un’epoca dall’atmosfera magica.

Il genere del biopic probabilmente è destinato a continuare il suo successo di ncritica e botteghino, perché è un modo diverso e piacevole per conoscere periodi storici ed i loro personaggi più importanti.

I libri di scuola ci raccontano gli avvenimenti, ma un film può aprirci la mente a numerose interpretazioni.

La ragazza con l’orecchino di perla: perché è un capolavoro dell'arte contemporanea

Jessica Palese (23)

Era il 1999 quando Tracy Chevalier pubblicava “La ragazza con l’orecchino di perla”, romanzo che salvava dalla polvere un’opera del pittore olandese Jan Vermeer e incuriosiva lettori di tutti il mondo con l’avvincente storia della sua realizzazione. Olio su tela del 1655, ritrae una fanciulla col capo adornato da un inusuale turbante, composto da una fascia azzurra e un drappo giallo. Labbra rosse carnose e

dischiuse, occhi grandi e vivi. Nella penombra del collo, una grossa perla brilla al suo lobo.

Acquistato all’asta nel 1881 per poco più due fiorini, era stato infine donato al Museo Mauritshuis de L’Aia come lascito testamentario ed era rimasto sconosciuto ai più fino all’uscita del romanzo. Il successo letterario si è poi trasformato in una pellicola diretta da Peter Webber che ha riempito le sale con milioni di spettatori, consacrandola definitivamente icona senza tempo, capolavoro artistico

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e mass mediatico.

Un risultato figlio dei nostri tempi, in cui si avverte il bisogno di nuovi eroi ed esempi di reale

“bellezza”, pregni di storia e cultura. Sempre più spesso i nuovi miti nascono dalle pagine di un libro, dalla magia del grande schermo o dall’espressione creativa di artisti fortemente comunicativi.

La suggestiva leggenda raccontata da Tracy Chevalier prima, e da Peter Webber poi, ha quindi contribuito a creare un’aura di mistero, fascino e curiosità intorno a quello sguardo innocentemente languido, rendendo La ragazza col turbante un capolavoro dell’arte contemporanea, nonostante si tratti di un’opera del XVII secolo. Dall’esplosivo successo letterario e cinematografico la piccola tela viaggia tra i più importanti musei del mondo per

lasciarsi ammirare da curiosi e appassionati. L’opera è arrivata anche in Italia, data in prestito alla città di Bologna per una mostra che ha registrato 342.626 visitatori, rendendola l’opera più vista del 2014.

Sgarbi aveva commentato la notizia del prestito museale definendo il capolavoro vermeeriano semplicemente “un archetipo”. Qualcosa che come tutti i grandi capolavori c’è già, che ci appartiene,

ma che abbiamo bisogno di avvicinare, affidare allo sguardo e “ritrovare”, così da dargli concretezza. Recarsi ad ammirare un’opera è un modo per restituirle valore psicologico e spirituale, qualcosa che va quindi oltre la valutazione monetaria, storica o comunicativa.

La ragazza con l’orecchino di perla è uno di quei casi in cui il dipinto racconta se stesso, privando l’artista del suo ruolo principale di comunicatore. “Alcuni

quadri vanno per conto loro, – diceva Sgarbi – diventano persone autonome: questa non è di Vermeer. È dell’umanità, è dentro di te”. Dichiarava provocatoriamente

“inutile”, sopportare lunghe code per andarla ad ammirare, poiché, a suo dire “non è il corpo materiale dell’opera a colpirci, ma la sua immagine, il suo simulacro”. Se così fosse, basterebbe una riproduzione, in fin dei conti. La ragazza col turbante è allora un capolavoro o un’operazione di marketing? Da sempre l’arte nutre gli animi con un connubio di bellezza e mistero. Che la fanciulla del Nord sia massima espressione artistica o semplice fenomeno di costume è indiscussa la sua capacità di incantare e avvicinare all’arte appassionati e curiosi. Contribuisce a

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