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Giuseppe Godino - Apprendimento: ripetizione vs cambiamento

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Academic year: 2022

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Indice

1. APPRENDERE E CONOSCERE NEI CONTESTI ORGANIZZATIVI ... 3

2. PRATICHE RIFLESSIVE A SUPPORTO DELL’APPRENDIMENTO ... 7

3. CAMBIAMENTO: DEFINIZIONE E MODELLI ... 10

4. LE RESISTENZE AL CAMBIAMENTO ... 12

BIBLIOGRAFIA ... 15

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1. Apprendere e conoscere nei contesti organizzativi

Un primo rilevante contributo ai processi di produzione e gestione della conoscenza e all’apprendere nelle organizzazioni è riconducibile agli studi di sociologia delle organizzazioni e di sociologia della conoscenza, centrati sul costrutto di pratica come insieme coerente di attività culturalmente situate e mediate dal linguaggio e dalle tecnologie da esse generati.

L’idea di fondo, che riconfigura il discorso sul rapporto tra conoscenza e organizzazioni e genera differenziate conversazioni all’interno di una molteplicità di comunità professionali (accademici, manager, operatori di diversi ambiti di ricerca e applicazione), risiede nella strutturale rilevanza attribuita al conoscere in pratica.

Esso può rappresentare un’esperienza del significato, intesa come processo di negoziazione all’interno di un sistema di azione, mediante la capacità di combinare partecipazione a esso (fatta di interazioni e transizioni attraverso cui definiamo le condizioni di reciprocità e di impegno) e reificazione.

Gherardi (2006) individua un framework teorico-concettuale che ha costituito lo sfondo per lo sviluppo del discorso sulla pratica e della conversazione scientifica inerente a un approccio all’apprendimento e alla conoscenza organizzativa basata sul sapere pratico: Esso comprende riferimenti:

• All’Activity Theory (Engestrom,2015), che enfatizza gli aspetti sociali, materiali, simbolici per mezzo dei quali prende forma e si espande un sistema di attività, per cui, attraverso un procedere tra ordine e disordine, i corsi di azione costruiscono e ricostruiscono i propri oggetti e il significato a essi attribuito.

• All’Actor- Network Theory (Law,1992), centrata sulla configurazione di ecologie relazionali che danno vita ai processi di traslazione e traduzione in pratica del reciproco rapporto tra conoscenza e azione.

• Alla teoria dell’apprendimento situato (Lave, Wenger, 1991) e del connesso costrutto di comunità di pratica, come campo di traiettorie possibili in cui si apprende attraverso i

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processi del conoscere in azione, partecipando alla circolazione e allo scambio di repertori condivisi e all’attraversamento delle zone di confine, attribuendo senso e significato a eventi e situazioni, costruendo mondi possibili riconosciuti come sufficientemente legittimati e comprensibili.

• Ai workplace studies (Luff, Hindmarsh, Heat, 2000), in cui lavoro e azione sono socialmente organizzati a partire dall’interazione tra soggetti, oggetti e tecnologie, generando pratiche di lavoro in quanto attività sociali, cognitivamente distribuite e mediate dall’uso di artefatti.

• All’approccio culturale ed estetico, che valorizza non solo le dimensioni simboliche e di significato connesse e incorporate negli oggetti e nelle pratiche, ma anche la sensorialità del nostro conoscere l’organizzazione, attraverso un sentire che coinvolge la nostra corporeità e la nostra peculiare attribuzione soggettiva di senso.

Le pratiche lavorative vengono, in tale ottica, rappresentate come sistemi di azione sufficientemente stabili e condivisi che tengono insieme persone, strumenti in uso, culture di riferimento, conoscenze situate e diffuse, a partire da convergenze provvisorie e interazioni precarie, generate dai processi che acquistano progressiva durata e consistenza temporale.

La conoscenza si produce e circola all’interno di tali campi di pratiche, attraverso connessioni in azione che collegano e danno ordine provvisorio ad attività dalle forme mutevoli;

ad artefatti, oggetti, conversazioni e discorsi; ad aspetti individuali, gruppali, oppure legati a culture organizzate diffuse.

Apprendere e conoscere nei contesti organizzativi si articola in due passaggi successivi:

• Dal conoscere in pratica al conoscere una pratica, facendo attenzione ai processi attraverso i quali la conoscenza pratica si istituzionalizza.

• Arrivare ad una conoscenza organizzativa come tessitura dell’apprendere nei luoghi di lavoro; le pratiche diventano una occasione per l’intreccio delle molteplici forme dell’organizzazione, dell’apprendere e del conoscere in azione.

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Gherardi (2006) identifica tre caratteristiche delle pratiche situate che i soggetti impiegano per conferire significato e riconoscibilità sociale al loro sistema di azione, valorizzando le dimensioni di conoscenza tacita incorporata, sedimentata e depositata nelle pratiche che la condividono.

• La prima caratteristica si riferisce alla dimensione “indessicale”, che in semiotica e linguistica corrisponde alle espressioni che risultano comprensibili a partire dal concreto contesto in cui sono prodotte e usate, ciò equivale a cogliere significati impliciti che sostengono la reciproca comprensione dei soggetti all’interno dei loro contesti di azione e le modalità delle negoziazioni che su tali significati sono costantemente attivate. Rapportarsi a una conoscenza concepita come tacita e situata comporta la necessità di approssimare i criteri con i quali essa è scambiata e usata, di intercettare e comprendere le modalità attraverso le quali i soggetti costruiscono un loro “ordine di vita”, cioè come essi, in diverse, mutevoli e concrete circostanze organizzano, riconoscono usano e danno compimento a ciò che considerano intellegibile e ordinario nel perseguire la loro azione.

• La seconda caratteristica individuata è quella dell’accountability, inerente alla capacità dei partecipanti alle pratiche situate di offrire motivi, argomentazioni e spiegazioni, di rendere le loro pratiche osservabili e dicidibili, comunicabili, ostensibili e rintracciabili, esprimendo ciò che nel contesto è dato per scontato. Si tratta anche dell’accesso a criteri e regole, ad account che rendono evidenti le modalità di riconoscimento di un dato contesto, di certi comportamenti in rapporto a definiti tipi di azione.

• La terza caratteristica delle pratiche situate è la reflexivity, da intendere come processo che interroga i modelli attraverso i quali i soggetti conferiscono significato alla realtà e lo rendono accessibile ad altri, contribuendo in tal modo a costruire il proprio ambiente organizzativo, relazionandosi con gli altri e dando forma al loro modo di operare e di essere al mondo.

Proprio su queste dimensioni di tessitura sociale che si fonda l’emergente prospettiva di gestire le conoscenze e dell’apprendere nei contesti organizzativi e di lavoro, connessa all’attivazione di opportuni momenti di azione riflessiva.

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A fronte di una concezione delle organizzazioni come campi di pratiche, attorno alle quali si coagulano appartenenze e si sviluppano esperienze di produzione di senso, di condivisione di emozioni, di formazione di linguaggi, di produzione e diffusione/ circolazione della conoscenza, si configura un’idea di apprendimento locale, funzionale alla promozione dell’attitudine dei soggetti ad apprendere a partire dalla riflessione sulle pratiche concrete della loro vita lavorativa.

Un apprendere che vede uno spostamento di enfasi dalla prospettiva cognitiva a quella sociale, in quanto mobilita non solamente processi mentali di trattamento ed elaborazione di dati e informazioni, ma sollecita il coinvolgimento e l’attivazione di condizioni di contesto; avviene non esclusivamente nella mente delle persone, ma anche distribuito all’interno di traiettorie di partecipazione; coinvolge non solo i singoli individui, ma insegna una comunità di soggetti; usa il linguaggio non solo come mezzo per trasmettere le conoscenze codificate, ma anche e soprattutto quale strumento di transazione e azione nel mondo sociale di riferimento; si produce non tanto attraverso la messa a disposizione di codici predefiniti per l’azione, quanto mediante la condivisione di artefatti e traslazioni in cui la conoscenza è incorporata.

La rottura di rappresentazioni diffuse e convenzionali dell’apprendimento come prevalente passaggio di conoscenza, opportunamente disposta in forma e fonti di memoria, dall’esterno alla mente del destinatario, che provvede poi a depositarla e immagazzinarla in modo da renderla accessibili e riutilizzabile, implica il superamento della separazione tra luoghi e momenti deputati all’apprendimento e quelli connessi ad altre attività, così come della connessa visione dell’apprendimento come attività principalmente individuale.

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2. Pratiche riflessive a supporto dell’apprendimento

Il rapporto tra apprendimento, conoscenza e competenze operativa passa attraverso l’esercizio di una riflessività che si configura sempre più come pratica e sostegno di quelle emergenze di soggettività che gli attuali scenari, potentemente sollecitano.

La nozione di pratica riflessiva ha una lunga tradizione e può essere ricordata alla connessione postulata da Dewey (1938) tra il pensiero (inteso come funzione adattiva che si traduce in una costante tensione di ricerca) e l’azione (in cui si inscrivono le strutture di conoscenza emergenti dall’indagine). L’indagine come riflessione sulle proprie azioni e sulle loro conseguenze viene ripresa e sviluppata, con un’impronta più esplicitamente costruttivista, nell’immagine di professionista riflessivo elaborata da Schon (1983). Muovendo da una forte connotazione euristica, l’autore promuove un superamento delle forme strettamente tecniche del pensiero razionale e problem-driven, legittimando una forte valenza attribuita alle conoscenze connesse alle pratiche professionali. È infatti attraverso un processo di “riflessione nel corso dell’azione” che i professionisti riescono a cavarsela anche in situazioni divergenti, caratterizzate da incertezza, instabilità, unicità e conflitto di valori. Le caratteristiche specifiche delle attività, situate all’interno di un contesto organizzativo, possono così essere utilizzate come repertori per ulteriori sviluppi professionali.

La riflessione nel corso dell’azione è un’attività volta all’organizzazione complessiva dell’esperienza e alla costruzione di una relazione con il mondo esterno, attraverso cui le persone attribuiscono significati alle situazioni che incontrano nella pratica professionale all’interno di specifici contesti sociali, istituzionali, di comunità professionale. I processi di apprendimento e di conoscenza emergerebbero quindi da costanti attività di scambio, dialogo e negoziazione sociale, attraverso le quali gli attori raccordano le azioni che compiono alle motivazioni che le hanno originate, cercando di attribuire loro un senso.

La connessione tra contesti sociali, in cui i soggetti sono collocati, e assunzione della riflessività, come processo continuo, viene in proposito suggerita da Giddens (1994): la riflessività costituisce una funzione critica che consente l’uso di informazioni e conoscenze attraverso l’analisi

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e la riformulazione delle pratiche in atto negli specifici contesti, valorizzando il ruolo degli attori sociali e organizzativi come soggetti capaci di decisioni autonome e portati a mettere in discussione le premesse su cui si fondano i sistemi ai quali essi stessi partecipano. Di qui il costrutto di doppia riflessività, a significare da un lato la riflessione critica su assetti e sistemi socialmente costruiti, dall’altro il contributo proattivo alla costruzione del proprio ambiente.

Alcuni autori propongono oggi un’evoluzione in senso critico del costrutto di riflessività.

Di qui la proposta di una distinzione che evidenzia la duplice natura della riflessività: in quanto reflection e self-reflection, essa si caratterizza come operazione cognitiva di rispecchiamento, in cui le dimensioni del sé e le pratiche sociali e professionali diventano oggetti di una possibile osservazione.

In quanto reflexive practice o self-reflexivity essa esplora la costruzione stessa del sé come qualcosa che si trasforma ed evolve continuamente e interroga i modi in cui gli stessi attori sociali contribuiscono alla costruzione delle realtà organizzative e delle pratiche sociali. Si parla in questo caso di pratical reflexivity come di un apprendere dall’esperienza, inteso non come tecnica di riflessione dell’esperienza, ma come costante processo di interrogazione su come costruiamo un senso condiviso con altri.

Una riflessività strettamente collegata alle pratiche è espressa nel costrutto di organizing reflection, che supera la privatezza di una pratica riflessiva individuale, limitata a un’attività di problem solving, per valorizzare le dimensioni strutturali e organizzative del suo effettivo esercizio.

La riflessione organizzativa enfatizza gli aspetti socialmente situati, relazionali, politici e di processo collettivo propri della pratica riflessiva, mettendo l’accento sull’impossibilità di disancorare la riflessione dai microcontesti sociali e organizzativi in cui si realizzano e si riproducono i corsi di azione. Di qui una rilettura e reinterpretazione critica di alcuni tradizionali assunti, a favore di uno spostamento di attenzione dagli aspetti individuali, cognitivi e di messa in ordine delle situazioni verso quelli dialogici, relazionali e collettivi.

Accompagnare tali processi di lavoro con le persone attraverso un’analisi delle loro pratiche richiede l’adozione di un orientamento proprio della ricerca-azione partecipata, nella

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prospettiva di promuovere nuove conoscenze e riflessioni sulle esperienze di lavoro attraverso il coinvolgimento dei soggetti, accettando la sfida di una co-costruzione di conoscenza all’interno delle situazioni organizzative.

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3. Cambiamento: definizione e modelli

Il cambiamento nelle organizzazioni è un atto deliberato caratterizzato da un passaggio o da una transizione nel tempo da uno stato presente a uno stato futuro (Qagliano,1990).

Lo stato presente è caratterizzato dall’insorgenza di una situazione di funzionamento problematico che interferisce con la stabilità o con il miglioramento della prestazione dell’organizzazione, di contro lo stato futuro rappresenta la situazione auspicata in cui l’organizzazione riacquista la sua stabilità oppure raggiunge il livello di prestazione atteso mediante l’introduzione di una o più innovazioni, superando così criticità relative ad aspetti tecnici (obiettivi, compiti, strumenti, risorse, ecc.) o ad aspetti sociali (attori organizzativi e insieme delle relazioni interindividuali). Il cambiamento è quindi un intervento volto ad affrontare un problema o una situazione critica, agendo sul sistema tecnico o sociale.

Per George e Jones (2002) il cambiamento organizzativo può essere definito come il

“movimento di un’organizzazione dal presente stato a uno stato futuro/desiderato per aumentare la sua efficacia”.

Da queste definizioni si deduce che per cambiamento organizzativo si intende un mutamento pianificato e deliberato compiuto per modificare il funzionamento del sistema organizzativo. In questo atto intenzionale si combinano capacità diagnostica e abilità tecnica dell’agente di cambiamento (cioè colui che promuove e gestisce il cambiamento). Molti studiosi sostengono che si possa parlare correttamente di cambiamento organizzativo esclusivamente quando questo è pianificato.

Quando si verificano mutamenti non pianificati all’interno del contesto organizzativo, non si può parlare di vero e proprio cambiamento: il cambiamento accidentale, quindi non pianificato, accade spontaneamente e in modo casuale e non rimane che minimizzare le conseguenze negative e massimizzare, per quanto possibile, ogni ottenibile beneficio.

Il cambiamento pianificato è invece il risultato di uno specifico sforzo da parte di agenti di cambiamento ed è la risposta alla percezione di una discrepanza, in termini di prestazione, tra uno

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stato desiderato e lo stato presente; questo “scarto” può rappresentare un effettivo problema da affrontare, oppure un’opportunità da esplorare.

Il modello di Lussier

Lussier (1996) propone un modello di cambiamento composto da cinque fasi, che mettono in evidenza più puntualmente gli aspetti gestionali del cambiamento:

• Prima fase, definire il cambiamento, chiarire se l’obiettivo del cambiamento è diretto agli aspetti strutturali, tecnologici e sociali.

• Seconda fase, identificare le resistenze del cambiamento, comprendere la fonte e l’intensità delle resistenze messe in atto dagli attori organizzativi.

• Terza fase, pianificare il cambiamento, progettare e sostenere il cambiamento garantendo la supervisione.

• Quarta fase, promuovere il cambiamento, attraverso la divulgazione del bisogno e della necessità del cambiamento sulle persone.

• Quinta fase, controllare il cambiamento, accertarsi se sesso sia attivato e mantenuto nel tempo.

Il modello sistemico

L’approccio sistemico è basato sull’assunto che ogni tipo di cambiamento, sia esso di grande o di piccole proporzioni, può avere un impatto a “cascata” all’interno dell’organizzazione intesa come sistema composto da parti in stretta interazione tra loro: il cambiamento in una qualsiasi delle sue parti provoca modifiche in tutte le altre. Questo modello prevede l’azione di tre componenti;

• Input, fa riferimento alla missione e alla visione dell’organizzazione; ogni cambiamento, infatti, deve essere coerente con esse e derivare rigorosamente da un piano strategico.

• Gli oggetti del cambiamento, rappresentano gli aspetti dell’organizzazione che possono essere “oggetto di mutamento”.

• Gli output, costituiscono i risultati attesi del processo di cambiamento. Il raggiungimento di tali risultati dipende strettamente dal piano strategico adottato e dalla strategia scelta.

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4. Le resistenze al cambiamento

Si può parlare di fallimento nel processo di cambiamento quando l’organizzazione non cambia nella direzione desiderata, cambia parzialmente o cambia per poi ritornare nella posizione originaria. Considerando il potenziale impatto negativo del fallimento, la comprensione dei fenomeni che si oppongono al cambiamento o che mantengono la stabilità è di fondamentale importanza per l’organizzazione.

Non sempre un’azione di cambiamento è ben accetta e sostenuta dai membri dell’organizzazione. Il termine di “resistenza al cambiamento” è frequentemente utilizzato nei contributi teorici e di ricerca in tema di cambiamento organizzativo, solitamente in relazione agli effetti che il cambiamento stesso genera negli attori organizzativi.

La dimensione difensiva è un aspetto sempre presente nelle organizzazioni, è dunque di fondamentale importanza non sottovalutare le dimensioni soggettive, emotive e relazionali del comportamento organizzativo, soprattutto quando si parla di cambiamento. Quest’ultimo, infatti, non può essere analizzato esclusivamente come un evento desiderabile e un’opportunità di sviluppo, ma anche come elemento di rifiuto, di negazione e di difesa, determinando, in alcuni casi, una diminuzione della soddisfazione lavorativa. Accettare un cambiamento non è cosa da poco, implica infatti una volontà vera di farsi coinvolgere nel processo e di impegnarsi in esso.

Il cambiamento genera negli attori organizzativi una gamma di emozioni che vanno dalla completa accettazione e dal supporto attivo al completo rifiuto, che porta in alcuni casi, all’abbandono dell’organizzazione. È evidente l’importanza di diagnosticare e gestire, nell’ambito di un processo di cambiamento, le resistenze, siano esse individuali o di gruppo, le emozioni associate: frustrazione, rabbia, timore, ansia ecc., sono alcune delle intense emozioni che i dipendenti possono sperimentare quando si confrontano con un cambiamento organizzativo.

Comprendere ed elaborate queste emozioni durante il processo di cambiamento costituisce una strategia vincente per gestire il cambiamento stesso. Analizzare le resistenze definibili come gli atteggiamenti e i comportamenti individuali e di gruppo che riflettono la mancanza di supporto

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nei confronti del mutamento in atto, riconoscendo che la dimensione difensiva, nella maggior parte dei casi, è un fatto fisiologico, poiché presenta una normale reazione a una situazione che sta mutando: lasciare il conosciuto per ciò che non si conosce, può rappresentare un’esperienza faticosa, che comporta l’abbandono di schemi persistenti e l’adozione di nuovi, comportamenti, valori, norme e stili di vita.

Le resistenze individuali

Possiamo caratterizzare le resistenze individuali da:

• L’incertezza e l’insicurezza per il nuovo. Gli individui tendono a resistere al cambiamento quando percepiscono una minaccia alla propria sicurezza e a ciò che sarà di loro nel futuro. Cambiare le consuete attività lavorative, abbandonare il proprio ruolo all’interno dell’organizzazione, essere trasferiti in altre funzioni percepite come meno prestigiose rappresentano alcuni timori che si attivano di fronte ad un cambiamento, anche se quest’ultimo è riconosciuto come affettivamente necessario per la sopravvivenza dell’azienda.

• La selezione percettiva delle informazioni. Gli individui hanno la tendenza a selezionare le informazioni coerenti con le loro opinioni e gli schemi consolidati e utilizzati abitualmente. Si attivano resistenze quando il cambiamento minaccia queste credenze.

• Le abitudini. Il cambiamento può creare situazioni poco prevedibili in grado di mettere in discussione la routine, gli schemi mentali individuali e i comportamenti consolidati.

Le resistenze di gruppo

Le dinamiche legate al potere e ai confini, la struttura e la cultura organizzativa rappresentano le principali fonti di resistenza attivate dal gruppo ad azioni di cambiamento. Nello specifico:

• Le dinamiche legate al potere e ai conflitti. Quando il cambiamento è percepito come occasione per conferire maggiore potere ad alcuni individui a discapito di altri, si possono attivare forti resistenze di opposizione e ostruzionismo.

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• La struttura e la cultura organizzativa. Una struttura organizzativa burocratica e centralizzata da una suddivisione rigida di ruoli e procedure, risulta maggiormente resistente ai tentativi di cambiamento.

Per fronteggiare in modo strategico le resistenze è fondamentale individuarne l’origine, distinguendo le manifestazioni e le conseguenze. È importante, inoltre, saper individuare le resistenze nei confronti del cambiamento in sé piuttosto che nei confronti delle strategie messe in atto per attuarlo, ed infine, nei confronti degli attori che lo promuovono e lo attuano. Per minimizzare le resistenze è necessario informare i dipendenti sui possibili vantaggi, cercando di ridurre e contenere gli svantaggi e i rischi percepiti.

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Bibliografia

• Gherardi S, (2006), Organizational Knowledge: the Texture of Workplace

Learning. Blackwell Publishing, Cambride, Ma.

• Argentero P., Cortese C. G. (2018), Psicologia delle organizzazioni. Raffaello Cortina. Milano. pag. 75-106.

• Argentero P., Cortese C. G. (2018), Psicologia delle organizzazioni. Raffaello

Cortina. Milano. pag. 301-325.

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