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Integrazione dell'Islam nell'ordinamento costituzionale italiano

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Academic year: 2021

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I

INDICE SOMMARIO

CAPITOLO I: LE FONTI NAZIONALI

1. La Costituzione ... 1.1. (Segue) Artt. 2 e 3 della Costituzione ... 1.2. (Segue) Artt. 19 e 20 della Costituzione ... 2. Le fonti concordatarie ... 2.1. Art. 7 della Costituzione ... 2.2. Il sistema delle intese e l’articolo 8 della Costituzione ... 2.2.1. Esempi di bilateralità incompiuta ... a) La Consulta per l’Islam italiano ... b) La Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione ... c) La Dichiarazione di intenti per la federazione dell’Islam italiano ... d) Il disegno di Legge sulla libertà religiosa ...

CAPITOLO II: LE FONTI ISLAMICHE

1. La Shari’a e Fiqh ... 2. Il Corano ... 3. La Sunnah ... 4. L’Igma o consenso ... 5. Il Qiyas o procedimento analogico ... 6. La consuetudine ... 7. Le scuole giuridiche ufficiali ...

CAPITOLO III: PRINCIPI COSTITUZIONALI

1.Premessa ... 2. L’Islam è compatibile con i principi che fondano la democrazia? ...

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II 2.1. Democrazia “illiberale” ... 2.2. Democrazia “liberale” ... 2.2.1. Articolo 2 Cost. ... 2.2.2. Articolo 3 Cost. ... 2.2.3. Articolo 11 Cost. ... 2.2.4. Il principio di laicità ... 2.2.4.1. La laicità privata, pubblica e l’appartenenza religiosa ... 2.2.4.2. Il senso giuridico della laicità ... 2.2.4.3. Simboli religiosi: il crocifisso nelle scuole ... 3. Conclusioni ... 3.1. L’Islam e il principio democratico ... 3.2. L’Islam e i diritti dell’uomo ... 3.3. L’Islam e il principio di uguaglianza ... 3.4. L’Islam e la guerra ... 3.5. L’Islam e il principio di laicità ... 3.6. Islamofobia ... 3.7. L’Occidente come malattia dell’Islam ...

CAPITOLO IV: LA LIBERTA’ RELIGIOSA

1. Premessa ... 2. L’Art. 19 Cost.: la libertà religiosa individuale ... 3. L’Art. 8 Cost.: la libertà religiosa collettiva ... 4. Ambiti in cui si esplica la libertà religiosa ... 4.1. Matrimonio ... 4.2. L’educazione dei figli ... 4.3. La scuola ... 4.4. Il lavoro ... 5. La tutela penale del sentimento religioso ...

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III

CAPITOLO V: LA DISPARITA’ TRA UOMO E DONNA 1. Premessa ... 2. Il diritto di famiglia ... 2.1. Il matrimonio islamico ... 2.1.1. I soggetti ... 2.1.2. Formazione del consenso ... 2.1.3. L’oggetto del contratto ... 2.1.4. I rapporti fra i coniugi ... 2.1.5. Lo scioglimento del matrimonio ... 2.2. L’educazione dei figli ... 2.3. La poligamia ... 2.4. Il matrimonio islamo-cristiano ... 3. Le mutilazioni genitali femminili ... 3.1. L’ordinamento italiano di fronte al tema delle mutilazioni genitali femminili ... 4. Il velo nell’Islam ...

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INTRODUZIONE

L’argomento che ho scelto di trattare per la stesura della mia tesi si incentra sull’integrazione dell’Islam all’interno dell’ordinamento costituzionale italiano. L’intenzione e la voglia di affrontare un tema così delicato, e se vogliamo anche molto attuale, nasce soprattutto dalla curiosità di comprendere un popolo così differente dal nostro per storia, politica, cultura e religione.

Fino a qualche anno fa la realtà musulmana, portatrice delle sue radicali diversità, era un fatto lontano, poco percepito nel nostro Paese, e ogni ragionamento restava confinato fuori dall’Europa; con l’aumento del flusso di immigrazione proveniente da tutta l’Africa centro-settentrionale, invece, il problema delle differenze di religione, di cultura e politica si è riflettuto anche nei Paesi Europei, e quindi anche in Italia.

La curiosità, infatti, nasce proprio in funzione di questo fenomeno migratorio che porta a chiederci, sempre più spesso, se una cultura così differente dalla nostra, possa trovare un proprio spazio, una propria dimensione nel nostro ordinamento, senza snaturare quelle che sono le nostre tradizioni, i nostri traguardi, soprattutto in tema di diritti umani, raggiunti nel corso della storia nel mondo occidentale e che rappresentano il nostro Paese.

Per poter dare una risposta a tale quesito, e cioè se sia possibile una qualche forma di integrazione nel nostro Paese, sono partita dall’analisi delle fonti nazionali, facendo particolare riferimento alla nostra Carta Costituzionale. In essa troviamo, infatti, una serie di articoli (art. 2-3-7-8-19-20) posti a tutela dell’individuo,

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inteso nella sua totalità senza distinzioni di sesso, razza, religione. Dopodiché ho analizzato le fonti o radici del diritto islamico, che, come noteremo più avanti, hanno un’origine divina e, in alcuni casi, orale.

Dopo aver affrontato il quadro delle fonti mi sono spinta verso quelle che ritenevo fossero le problematiche e le differenze maggiormente emblematiche tra il nostro Paese e il mondo musulmano: ho analizzato, quindi, il concetto di democrazia, per cercare di capire se i principi che stanno alla base di tale concetto siano esportabili nella dimensione musulmana o se invece, per loro natura, siano destinati ad essere applicati soltanto nella realtà occidentale; infine ho preso in considerazione un altro aspetto fondamentale del diritto musulmano che lascia molte perplessità a noi europei, e cioè il diritto di famiglia, evidenziandone gli istituti principali e soffermandomi sulle disparità che ancora oggi regnano tra il genere maschile e quello femminile.

Queste differenze hanno provocato e provocano tutt’ora molti pregiudizi da parte dell’Occidente, anche, e soprattutto, a causa dei molteplici attentati terroristici rivendicati da una parte di musulmani radicali. Tuttavia ritengo che alla base di tale diffidenza, di tale pregiudizio e discriminazione verso lo straniero vi sia l’ignoranza, la poca conoscenza del diverso, che oggi è il genere musulmano, ma che domani potrebbe essere identificato in qualunque altro soggetto diverso da noi. Credo, infatti, che la miglior arma per combattere il pregiudizio sia la conoscenza, lo studio di tutti gli istituti che caratterizzano un popolo per poterne capire la mentalità e per poterla rispettare.

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RINGRAZIAMENTI

Desidero ricordare tutti coloro che mi hanno aiutato nella stesura della mia tesi con suggerimenti, critiche ed osservazioni: a loro va la mia gratitudine, anche se a me spetta la responsabilità per ogni errore contenuto in questa tesi.

Ringrazio anzitutto il prof. Roberto Romboli, Relatore: senza il suo supporto e la sua guida sapiente questa tesi non esisterebbe. Un ringraziamento particolare va ai colleghi ed agli amici che mi hanno incoraggiato o che hanno speso parte del loro tempo per leggere e discutere con me le bozze del lavoro.

Vorrei infine fare un ringraziamento speciale alle persone a me più care come i miei amici, la mia famiglia e soprattutto il mio fidanzato, ai quali questo lavoro è dedicato.

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CAPITOLO I

LE FONTI NAZIONALI

1. LA COSTITUZIONE

Il testo costituzionale rappresenta la base di partenza per analizzare l’argomento di questa tesi, e cioè per affrontare il tema dell’integrazione dell’islam nel nostro ordinamento costituzionale. Si dovrà partire dalle fonti del diritto italiano e islamico che hanno un diretto riferimento alla libertà religiosa per arrivare ad affrontare le problematiche inerenti a questo fenomeno che negli ultimi anni è particolarmente diffuso in tutta l’Europa. La fonte del diritto per eccellenza è, infatti, la Costituzione repubblicana che è entrata in vigore nel 1948 in seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale: essa è un documento di notevole importanza sotto diversi profili. Innanzitutto sancisce l’inizio della Repubblica sostituendo la precedente monarchia e il regime totalitario ma, soprattutto è il primo documento giuridico che viene elaborato attraverso un procedimento democratico. L’Assemblea Costituente fu, infatti, il primo Parlamento italiano eletto a suffragio universale e vide il concorso attivo delle forze politiche dell’epoca, tra cui anche quelle di ispirazione cattolica che nel passato erano state escluse dalla vita politica. L’elaborazione del testo costituzionale fu un compito delicato perché con esso si dovevano gettare le basi per la costruzione di uno Stato di diritto : è per questo motivo che i membri dell’Assemblea dettero vita ad un testo “ rigido”,e cioè che poteva essere modificato solo attraverso una procedura

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speciale, togliendo la facoltà al Parlamento di poterlo modificare attraverso semplici leggi ordinarie;allo stesso modo si impediva al governo di modificarlo mediante propri decreti.1 Questa

qualità, detta rigidità della Costituzione,rende la attuale carta costituzionale diversa dal precedente statuto albertino che non prevedeva modalità apposite di protezione e che rientrava tra le costituzioni modificabili tramite atti normativi del parlamento e del governo: era così definito “flessibile”.Inoltre , un altro elemento a protezione del testo costituzionale è l’istituzione di un apposito organo giurisdizionale destinato a proteggerla attraverso il controllo di costituzionalità: la Corte Costituzionale. Questa rigidità riguarda i cosiddetti “Principi fondamentali” espressi nei primi 12 articoli della Costituzione. Spesso si è parlato di Costituzione di compromesso per indicare la collaborazione che ha portato i deputati a mettersi d’accordo su un programma comune. Proprio la memoria dell’Olocausto ,delle stragi,dell’impazzimento collettivo,indusse i deputati a scrivere la Carta costituzionale cercando al di là di ogni interesse e strategia particolare, un consenso comune: quindi si può dire che la Costituzione italiana ha potuto assumere l’impronta di uno spirito universale e trans temporale2. La Costituzione

doveva soddisfare le seguenti esigenze: per prima cosa doveva riconoscere la precedenza sostanziale alla persona umana( intesa nella completezza dei valori e dei suoi bisogni non solo materiali,ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di questo a servizio di quella; poi doveva

1 P. Consorti, La Costituzione repubblicana e la religione, in Diritto e

religione, Laterza, 2010.

2 G. de Vergottini, La Costituzione, in Diritto Costituzionale, Cedam, 2008.

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riconoscere ad un tempo la necessaria socialità di tutte le persone le quali sono destinate a completarsi a vicenda,mediante reciproca solidarietà economica e spirituale;infine doveva affermare sia l’esistenza di diritti fondamentali delle persone, sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato. Il fattore religioso appare quindi in tutta la sua forza come elemento inseparabile dal tessuto costituzionale, in quanto appartiene alla persona umana e alla sua condizione sociale. La libertà religiosa non è più importante di altre, ma bisogna riconoscere che siccome tocca aspetti intimi della persona e del suo modo di essere si incontra ogni volta che si ha a che fare con le libertà personali. La libertà di religione si pone un po’ come la” madre di tutte le libertà”,soprattutto se si tiene presente che essa include la libertà di coscienza e non si limita a consentire solo la libertà di credere3.

1.1 (SEGUE) ARTT. 2 E 3 DELLA COSTITUZIONE

La norma costituzionale che fa diretto riferimento alla libertà religiosa individuale è l’articolo 19, che però va visto in relazione ad altre norme costituzionali: l’articolo 2 e l’articolo 3. In primo luogo ci soffermiamo sull’articolo 2 che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (“la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di

3 P. Consorti, la Costituzione repubblicana e la religione, in Diritto e

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solidarietà politica, economica e sociale). Quando si parla di diritti inviolabili si parla di particolari diritti che qualificano la forma politica che il costituente ha scelto. I diritti inviolabili sono diritti “positivi”, cioè disciplinati dalla attuale costituzione come atto voluto dai costituenti. Dato che non ci sono dubbi sul fatto che la libertà religiosa sia un diritto inviolabile ,questo significa che esso non è riducibile da parte del legislatore ordinario né può essere limitato attraverso provvedimenti governativi o giudiziari,e nemmeno ristretto mediante l’esercizio di atti di autonomia privata:la libertà religiosa non può essere oggetto di rinuncia o transazione,infatti dal punto di vista privatistico potremmo dire che è un diritto indisponibile4.

In secondo luogo troviamo l’art 3 che contiene una duplice affermazione: l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e il divieto di regimi giuridici discriminatori (“ tutti i cittadini…sono eguali davanti alla legge,senza distinzioni di sesso,razza,di lingua,di religione,di opinioni politiche,di condizioni personali e sociali” art.3,1 comma relativo al principio di eguaglianza formale)nonché il richiamo alla dignità sociale e al proposito di assicurare eguaglianza sostanziale di fatto che consenta un pieno godimento dei diritti(“ è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che,limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,economica e sociale del Paese 2 comma, relativo al

4 P. Consorti, Nella Costituzione italiana, in Diritto e religione, Laterza, 2010.

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principio di eguaglianza sostanziale)5.Come si evince dal testo

del 1 comma dell’articolo 3 viene espressamente menzionata la religione fra gli elementi che non possono essere presi come pretesto per giustificare eventuali deroghe. Da questo punto di vista l’articolo 19 contiene una garanzia più ampia dell’art.3 perché la tutela della libertà religiosa riguarda tutti e non solo i cittadini. In rapporto al principio di eguaglianza il fattore religioso entra in rilievo, nel testo costituzionale, a tre differenti livelli:il primo è quello che attiene all’eguaglianza giuridica o formale (come suddetto), posta al 1 comma dell’art.3. L’articolo in questione rappresenta uno degli elementi fondamentali che segnano, nel senso della continuità, il passaggio dallo Stato liberale ottocentesco all’odierno Stato di democrazia pluralista. Difatti il principio dell’eguaglianza giuridica, continua a svolgere, nell’ordinamento vigente, la sua originaria funzione di garantire a tutti pari opportunità nell’esprimere le proprie capacità. In particolare, nella formula di cui al 1 comma dell’art.3, il principio è rafforzato con una serie di specificazioni poste come limiti assoluti delle pubbliche funzioni, che si pongono in un rapporto di differenziazione rispetto al principio stesso. Tra queste, fa spicco la differenza di credo religioso che, nonostante l’Italia non abbia vissuto in prima persona con il moto della riforma protestante (sec. XVI) i rispettivi laceramenti civili, sociali e politici, si poneva come un particolare problema per la tutela delle minoranze esigue. A differenza del diritto di libertà religiosa che si pone come un principio assoluto, il divieto di discriminazione per motivi religiosi risulta invece un

5 G. de Vergottini, Il principio costituzionale di eguaglianza. L’articolo 3, in

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principio relativo: innanzi tutto perché, come ho già detto esso è riferito solo ai cittadini, con evidente esclusione degli stranieri (per i quali dispone l’art.10) e con discussa estensione della garanzia agli enti, siano essi dotati o meno di personalità giuridica. In secondo luogo il principio in esame opera nel senso del divieto di trattare giuridicamente in maniera differenziata situazioni di fatto uguali, o in maniera uguale situazioni diverse, tenendo conto che solo un criterio di ragionevolezza può giustificare deroghe alla norma. Così la Corte costituzionale ha ritenuto in contrasto con l’art.3 le norme di cui al R.D.30 ottobre 1930, n.1731, che prevedevano l’appartenenza necessaria degli ebrei alle comunità israelitiche e la relativa sottoposizione ad una peculiare disciplina giuridica, soprattutto per quanto attiene agli obblighi di contribuzione. Ancora, la Corte costituzionale ha ritenuto illegittima la legge del 3 maggio 1956, n.392, per la quale i religiosi che prestano lavoro alle dipendenze di enti ecclesiastici erano sottratti alle assicurazioni sociali obbligatorie, affermando l’irrilevanza dello status di religioso. Viceversa la giurisprudenza costituzionale ha ribadito che la differenziazione operata dal legislatore penale fra religione cattolica ed altre religioni non viola l’art.3 Cost., dal momento che tale differenziazione corrisponde alla valutazione fatta dal legislatore. L’eguaglianza formale può subire deroghe o limitazioni ad opera della stessa Costituzione, come nel caso della differenziazione di trattamento giuridico fra cittadini per motivi di religione in relazione al regime matrimoniale concordatario che non configura una violazione del principio di eguaglianza perché trattasi di una discriminazione consentita da un’altra norma costituzionale, cioè il 2 comma dell’art.7 Cost.

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L’art.3 pone anche, nel suo 2 comma, il principio di eguaglianza sostanziale o eguaglianza sociale, che pone come compito della Repubblica quello di rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, limitandone la libertà e l’eguaglianza. Rapportando il 2 comma dell’art.3 Cost. agli artt. 2 e 19, si è notato che dato il fondamento pluralistico ed insieme personalistico della Costituzione, il pieno sviluppo della persona umana è un interesse che lo Stato deve perseguire attraverso la sua legislazione in ogni campo, quindi anche in quello religioso, ma in questo caso non direttamente, ma mediante le confessioni religiose, e sempre nel rispetto della libertà religiosa di ognuno. Tipica applicazione di questo principio si ha nei casi di assistenza spirituale nelle cosiddette “istituzioni totalizzanti” (forze armate, ospedali, case di cura), cioè in quelle istituzioni nelle quali i cittadini si vengono a trovare, per ragioni di carattere naturale, in situazioni di “soggezione speciale”, che limitano la loro libertà personale e di conseguenza anche il loro libero accesso alle istituzioni confessionali. In questi casi è necessario l’intervento dello Stato per rendere possibile il soddisfacimento dei bisogni religiosi attraverso servizi di assistenza spirituale assicurati dalle varie confessioni religiose, ed eventualmente a carico dello Stato. Un secondo livello al quale entra in rilievo il principio di eguaglianza in rapporto al fattore religioso è quello delle confessioni religiose. La Costituzione non definisce le confessioni religiose:fra le tante definizioni datene, la più adeguata sembra essere quella che considera,sul piano giuridico,come confessioni religiose quelle “comunità sociali stabili dotate o no di organizzazione e

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formazione propria e aventi una propria ed originale concezione del mondo,basata sull’esistenza di un Essere trascendente,in rapporto con gli uomini”.La disposizione costituzionale rilevante in questa prospettiva è quella contenuta nel 1 comma dell’art.8, per la quale tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Questa disposizione riguarda tutte le confessioni religiose e quindi quella cattolica e quelle acattoliche. La funzione della norma è quella di garantire a tutte le confessioni religiose, senza eccezioni, gli stessi spazi di libertà; ovvero, di garantire a ciascuna le stesse opportunità. Questa norma non intende disporre un’eguale disciplina giuridica per tutte le confessioni religiose, e questo ha urtato con le tradizioni storiche del popolo italiano che sono segnate da una religione assolutamente dominante. Si è visto, infatti, come nel corso del tempo le confessioni religiose di minoranza siano progressivamente passate dalla rivendicazione del diritto di eguaglianza, cioè ad un trattamento giuridico paritario rispetto alla religione di maggioranza, alla rivendicazione del diritto alla diversità, vale adire ad un trattamento giuridico che tenga conto dell’identità di ciascuna confessione religiosa, salvaguardandone i caratteri originali. L’ultimo livello al quale entra in rilievo il principio di eguaglianza in rapporto al fattore religioso, è quello delle associazioni ed istituzioni religiose. Si tratta di entità distinte rispetto alle confessioni religiose, anche perché “contribuiscono a costituire la complessa struttura della confessione ed in essa sono inquadrate”. Al riguardo l’art.20 cost. dispone che “il carattere ecclesiastico e il fine di religione e culto di un’associazione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua

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costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”. Ci potremmo chiedere se l’art.20 cost. mentre vieta che per le associazioni e le istituzioni in questione si istauri un regime deteriore rispetto a quello riservato dal diritto comune agli enti, possa per converso consentire un regime più favorevole. In realtà norme speciali di favore per questi enti ecclesiastici non sembrano essere escluse; ciò nonostante la garanzia posta dall’art.20 cost. riguarda sia gli enti forniti di personalità giuridica sia quelli che sono sforniti,non distinguendo la norma in esame fra enti riconosciuti o meno6.

1.2 (SEGUE) ARTT. 19 E 20 DELLA COSTITUZIONE

L’articolo 19 della Costituzione rappresenta un altro riferimento normativo fondamentale per analizzare in modo accurato il fattore religioso. In questa sede indicherò il contenuto dell’articolo ma riprenderò l’argomento in modo specifico più avanti nell’esposizione della materia. L’articolo 19 afferma la libertà di professione di una fede religiosa sia in forma individuale che in forma associata. La libertà comprende quella di propaganda e quindi di svolgere opera di proselitismo e quella di esercitare il culto religioso in privato e in pubblico,con il solo limite che non si tratti di riti contrari al buon costume;comprende anche il diritto di non professare alcuna fede religiosa7. Per quanto riguarda il limite previsto

dall’articolo 19 della Costituzione si concorda sul fatto che il

6 G. Dalla Torre, Fattore religioso e principio costituzionale di uguaglianza, in Il fattore religioso nella Costituzione, Giappichelli, 2003.

7 G. de Vergottini, La libertà religiosa (articolo 19), in Diritto

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concetto di buon costume coincida con quello previsto all’articolo 21 e per il quale sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni che siano ad esso contrarie. Per alcuni Autori l’identificazione con la morale sessuale non è sufficiente ad esaurire il limite del buon costume,il cui concetto va esteso “alla salvaguardia di tutti quei dettami scaturenti dal costume e dalla coscienza sociale della civiltà italiana odierna”, con la conseguenza che esso comprende “sia il rispetto della persona umana nei suoi cosiddetti diritti personalissimi, sia quello per gli organi,le istituzioni e gli ordinamenti pubblici statali,sia infine quello per i vari istituti previsti nella loro esistenza e funzionamento dell’ordinamento medesimo”(D’Avack). In ogni caso, prescindendo dalle interpretazioni del buon costume, resta fermo che nella concreta celebrazione del rito non può darsi luogo a manifestazioni e atti contrari al pudore sessuale, o a manifestazioni ingiuriose nei confronti di persone o di istituzioni statali. Detto questo, occorre tener presente che ogniqualvolta un’autorità confessionale intenda procedere ad una cerimonia religiosa al di fuori dei propri templi (una processione in una via pubblica o in uno stadio) ne deve dare previa informativa alle autorità competenti per averne le debite autorizzazioni e per concordare tragitti e tempi della cerimonia perché siano rispondenti alle esigenze urbanistiche e di viabilità. Questi oneri, inevitabili per qualsiasi attività che incida sulla vita collettiva,non costituiscono limiti all’esercizio della libertà di culto,ma sono condizioni per il corretto funzionamento del sistema8. Altro essenziale diritto connesso alla libertà religiosa è

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quello di diffondere il proprio pensiero, e messaggio, in materia religiosa, farne propaganda, e quindi cercare di convincere gli altri ad aderirvi, facendo attività di proselitismo. Questi argomenti saranno ripresi nel dettaglio nel capitolo 3 dove affronterò interamente il tema della libertà religiosa. Un altro articolo da prendere in considerazione è il 20 della Costituzione che stabilisce che “il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di un’associazione o di un’istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni altra forma di attività”. Come già accennato la presente disposizione mira a garantire in modo particolare la facoltà dei singoli e delle confessioni religiose di dar vita a enti esponenziali: ad associazioni e ad istituzioni aventi “carattere ecclesiastico” è fine di religione o di culto”. Questi enti non potranno essere discriminati in più dal legislatore, rispetto ad associazioni ed istituzioni di diritto comune,anche perché una legislazione che prevedesse speciali limitazioni sarebbe in contrasto proprio con le norme sulla libertà religiosa e con quelle degli art.2 e 3. La norma in questione tutela associazioni ed istituzioni aventi carattere ecclesiastico e fine di religione e di culto:occorre però precisare che quando si parla di associazione a carattere ecclesiastico ci si riferisce in modo esclusivo agli enti della Chiesa cattolica,mentre gli enti delle confessioni acattoliche sono garantiti in quanto rientrano fra quelli con fine di religione o di culto9.

Giappichelli, 2010.

9 F. Finocchiaro, Confessioni religiose e libertà religiosa nella Costituzione, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, 1985

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15 2.LE FONTI CONCORDATARIE

2.1. ARTICOLO 7 DELLA COSTITUZIONE

L’articolo 7 della Costituzione è collocato fra le norme che contengono, per definizione del costituente, anche se in modo non esclusivo, i principi fondamentali della Repubblica. L’articolo detta disposizioni le quali si raccordano a due diversi ambiti costituzionali: quello della libertà religiosa e quello dei rapporti fra lo Stato e gli altri ordinamenti giuridici10. Esso

stabilisce che “lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani (1 comma); i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni consensuali dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale” (2 comma). L’importanza di questo articolo emerge soprattutto con riferimento al primo capoverso, che fissa il principio di separazione degli ordini: questa distinzione non tocca solo i rapporti tra Stato e Chiesa, ma si estende a tutta la materia delle relazioni fra diritto e religione. In ogni caso dobbiamo constatare che manca una definizione chiara di quali siano i rispettivi ordini ,anche se la prospettiva costituzionale resta sempre quella dell’indipendenza reciproca e di esclusione di intromissioni dell’uno nell’ordine dell’altra.11 Il primo

capoverso dell’articolo 7 Cost. attiene espressamente al modo in cui lo Stato e la Chiesa definiscono i loro rapporti, e non a come

10 F. Finocchiaro, Confessioni religiose e libertà religiosa nella Costituzione, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, 1985.

11 P. Consorti, Il sistema sei rapporti fra Stato e confessioni religiose, in

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lo Stato debba trattare materie religiose:si limita a dichiarare che tali rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi (e dalle modificazioni consensuali). Quest’ultimi però non regolano solo i rapporti,ma anche altre materie,per cui lo Stato è come se avesse voluto dichiararsi incompetente di fronte a tali materie affrontate nei Patti, autolimitando la propria capacità legislativa.12 Quando si parla di Patti Lateranensi si vuole

indicare gli accordi stipulati tra lo Stato italiano e la Santa Sede l’11 febbraio del 1929 nei locali di Palazzo Laterano, che era l’antica sede dei papi e cattedrale di Roma. I Patti Lateranensi si compongono di due documenti; il Trattato e il Concordato. Il primo è un vero e proprio documento internazionale, con cui la Santa Sede negozia alcuni aspetti dei suoi rapporti “temporali” con lo Stato italiano; mentre il secondo è uno strumento di diritto internazionale con cui la Chiesa cattolica, tramite la Santa Sede, regola con gli Stati singole materie sulle quali entrambi mostrino interesse a raggiungere una comune definizione: le cosiddette materie miste. Prima dei Patti Lateranensi i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa erano fortemente compromessi a causa della soppressione del potere temporale dei papi attraverso le guerre risorgimentali, infatti dal 1870 la Chiesa smise di riconoscere lo Stato italiano e il Papa si considerava prigioniero dello Stato italiano. La conciliazione avvenne con la concessione di un nuovo Stato simbolico sul quale il Papa tuttora esercita la sovranità temporale: lo Stato Città del Vaticano. Dall’articolo 7 si nota subito che le eventuali modificazioni dei Patti, accettate dalle due Parti, non richiedono il procedimento di revisione costituzionale. Questo argomento è

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stato oggetto di numerosi dibattiti dottrinali che può essere riassunto in tre indirizzi interpretativi:La prima tesi,presto affermatasi e rimasta a lungo dominante è solitamente definita della “costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi”.Gli autori partirono da due elementi per elaborarla e cioè dal fatto che l’articol7 menziona espressamente i Patti Lateranensi e non si riferisce ad un generico regime pattizio, e dal fatto che ,letto al contrario, il secondo comma dello stesso prevede che le modifiche unilaterali dei Patti possono essere deliberate solo con procedimento di revisione costituzionale. Si è poi osservato che nel nostro ordinamento non vi è norma modificabile con procedimento di revisione costituzionale che non sia vera e propria norma costituzionale. Se ciò fosse vero, allora i Patti lateranensi avrebbero lo stesso valore e la stessa efficacia che avrebbero se fossero state incluse nella carta costituzionale e le norme pattizie avrebbero cambiato la loro natura giuridica acquisendo la stessa forza delle norme costituzionali. Seguendo questo ragionamento, le norme concordatarie, in quanto

disposizioni speciali rispetto alle norme costituzionali che per

natura hanno carattere generale, finirebbero per prevalere su queste ultime assurgendo ad un carattere “supercostituzionale”. Questo orientamento è prevalso per i primi anni ma non è riuscito ad affermarsi in modo definitivo perché non ha superato alcune obiezioni e critiche radicali come la modifica dei Patti con procedimento ordinario laddove sia presente il consenso delle Parti. Si è formato così, un secondo orientamento per il quale con l’articolo 7 è stato costituzionalizzato il principio

concordatario, e/o pattizio, nel senso che lo Stato si sarebbe

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oggetto dei rapporti con la Chiesa cattolica, così come individuate dai Patti Lateranensi. Il vincolo dell’articolo 7 è diretto, secondo questa interpretazione, esclusivamente al legislatore, il quale sarebbe impegnato per dettato costituzionale a non tornare più ad una legislazione unilaterale separatista. In questo modo l’articolo 7 non influirebbe sulla gerarchia delle fonti e non altererebbe la natura giuridica delle norme pattizie, le quali resterebbero a tutti gli effetti norme ordinarie e quindi assoggettabili al sindacato di costituzionalità. Al di là di queste interpretazioni, la conclusione è quella di riconoscere che con il richiamo all’articolo 7 è stata garantita ai Patti del 1929 un’area di specialità nell’ordinamento, ma si è affermato che lo Stato non poteva concedere alle norme pattizie prevalenza integrale sui principi costituzionali, essendo questi i nuovi principi cardini dell’ordinamento statuale. Si è introdotto, in sostanza, un criterio flessibile di valutazione del rapporto tra Concordato e Costituzione lasciando che sia l’interprete ad individuare di volta in volta il punto di equilibrio tra i principi e gli interessi in conflitto. A questo orientamento compromissorio si è ispirata la Corte Costituzionale nel 1971 quando ha modificato l’interpretazione dell’articolo7 e ha ridefinito i rapporti tra norme di derivazione pattizia e norme costituzionali. La sentenza n. 30, del 24 febbraio-1 marzo 1971, della Corte costituzionale ha affrontato sinteticamente la questione ed ha enunciato due postulati: in primo luogo ha affermato che l’articolo7 della Costituzione ha innovato dal punto di vista giuridica sia la posizione dei Patti nell’ordinamento sia rispetto alla situazione preesistente, ed ha in questo senso prodotto diritto. Essa ha fornito le norme di derivazione pattizia di una

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capacità di resistenza alle norme costituzionali, tranne che non si tratti di principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Laddove si constati un contrasto tra norma concordataria e principi supremi dell’ordinamento, sarà la prima a venir meno e a poter essere caducata tramite le procedure di legittimità costituzionale. Quando, invece, il contrasto si palesi con una norma costituzionale che non integra un principio supremo, la relativa disposizione concordataria resisterà con forza eguale a quella delle leggi costituzionali. Quindi la sentenza della corte ha introdotto una differenziazione tra norme costituzionali, affermando che quelle che esprimono principi supremi dell’ordinamento costituzionale prevalgono alle norme di derivazione pattizia, collocando queste ultime ad un livello superiore alle norme ordinarie ed analogo a quelle costituzionali. La dottrina ha cercato di definire l’area di incidenza dei principi supremi individuandoli tra quelli che ispirano la Costituzione nel suo complesso, cioè qualificanti e basilari come i precetti contenuti negli articoli 1,2 e 3 primo comma della Costituzione. Essi rientrano in un ambito estremamente ristretto ,costituito da quei principi che hanno priorità e non identificabili con singole norme,ma sono dedotti dalla vita dell’ordinamento, e devono intendersi come super

principi che dovrebbero rappresentare elementi essenziali della

struttura del regime costituito che la Corte, via via andrà precisando13. Questo limite dei principi supremi è stato più

volte rivisitato e ha portato alla modifica dei Patti stessi che è avvenuta il 18 febbraio 1984. A Villa Madama è stato così

13 C. Cardia, Costituzione, libertà religiosa, sistema delle fonti, in Manuale

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stipulato il “nuovo concordato” tuttora in vigore. Dal punto di vista formale appare come una modifica consensuale agli Accordi del 1929,ma sotto il profilo sostanziale ha introdotto innovazioni di grande portata tanto che il suo contenuto appare molto diverso:innanzitutto le materie trattate non sono le stesse; l’istituzione cattolica di riferimento per regolare i rapporti futuri cessa di essere la Santa Sede e diventa la Conferenza episcopale italiana; il concordato non esaurisce più il quadro dei rapporti con la controparte ma, in forza del principio di collaborazione fra Stato e Chiesa,rinvia a successive intese che hanno il compito di definire nel dettaglio sia materie individuate nell’accordo principale sia altre non precisate. È nato così un cosiddetto

“concordato continuo” che si sostituisce a quello del 1929. Date le

novità introdotte, parte della dottrina aveva ritenuto che fosse cessata la copertura costituzionale che l’art 7 riservava ai Patti Lateranensi affermando che più che una modifica consensuale fosse un vero e proprio concordato. L’idea che però è prevalsa è quella che l’Accordo del 1984 godesse della stessa protezione costituzionale concessa al concordato del 1929 per cui oggi quando parliamo di Patti lateranensi ci si riferisce al Trattato del 1929 più l’accordo di Villa Madama. Questa vicenda mostra la necessità costituzionalmente prevista affinché i rapporti con la Chiesa cattolica non siano definiti in maniera unilaterale, ma che siano concordati con la controparte.

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2.2 IL SISTEMA DELLE INTESE E L’ARTICOLO 8 DELLA COSTITUZIONE

Abbiamo già analizzato nel paragrafo precedente come il principio di bilateralità si estende alla Chiesa cattolica grazie ai Patti Lateranensi e alle successive riforme degli stessi. L’articolo 8, precisamente al 3 comma, della Costituzione estende tale principio alle confessioni religiose diverse da quella cattolica, stabilendo che i rapporti dello Stato con esse siano regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. L’articolo 8 cost. recita:” tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”. Il primo comma dell’articolo qui considerato dichiara che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge, riferendosi appunto a tutte le confessioni religiose e perciò anche alla Chiesa cattolica. Al secondo comma, invece, vengono menzionate le confessioni religiose diverse da quella cattolica e anche in questa sede, come per l’articolo 7 non viene data una definizione di queste, ma si presuppone la nozione che né da l’ordinamento canonico e l’esperienza sociale. Un dato implicito del noma costituzionale è che una confessione religiosa è un gruppo sociale con fine religioso ma anche qui si sono avuti non pochi problemi sul concetto di “gruppo” e di “fine religioso”. La definizione che viene ritenuta più idonea e che rispecchia tutte le caratteristiche è quella che indica come confessione religiosa

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tutti i gruppi sociali organizzati e non ,che siano portatori di una propria concezione del mondo:è questo ciò che le differenzia da semplici associazioni religiose,che invece,non hanno una propria originale concezione del mondo ma la traggono da principi fondamentali ai quali si ispirano14. Questo però non è

sufficiente, poiché la confessione di cui si sta parlando deve essere religiosa, cioè la comunità, che fa propria una fede trascendente, deve esternarla attraverso riti ed atti di culto, diretti a manifestare l’adorazione verso l’eccellenza di quest’Essere supremo, al quale la comunità si sente legata. Il terzo comma dell’articolo 8, come già detto richiama il concetto delle intese: esso può considerarsi, dal punto di vista procedimentale, lo strumento regolatore di tutti i rapporti tra lo Stato e Chiese. La ragione politica della norma costituzionale è quella di avvicinare attraverso l’istituto delle intese la condizione giuridica dei culti acattolici a quella della Chiesa di Roma. La ratio è sicuramente risarcitoria nei confronti di quelle confessioni che in un passato anche recente hanno subito limiti e discriminazioni. Le Intese sono differenti dal Concordato perché le prime non hanno precedenti nella tradizione italiana e anche la loro utilizzazione fino all’attuazione dell’articolo 8 è stata astratta. Inoltre il fatto che il Concordato vanta una precisa configurazione giuridica anche a livello internazionale, ha contribuito ad appannare il ruolo e le funzioni delle Intese. È discutibile l’opinione di coloro che qualificano l’Intesa come un qualsiasi accordo tra la rappresentanza di un culto e un organo amministrativo, avente ad oggetto questioni settoriali. Le Intese

14 F. Finocchiaro, Confessioni religiose e libertà religiosa nella Costituzione, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, 1985.

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di cui all’articolo 8 sono quelle che regolano i rapporti complessivi tra Stato e confessione religiosa, e ad esse possono aggiungersene altre, quando i contraenti manifestino la volontà di collegare l’accordo minore all’Intesa generale. La funzione primaria dell’Intesa è quella di modificare la condizione giuridica della confessione religiosa nell’ambito ordinamentale, emancipandola dalla legislazione unilaterale statale per farla concorrere ad un negoziato diretto a definire un regime pattizio compiuto. Così qualificata, l’Intesa può qualificarsi come strumento tipico, e speciale, di negoziazione legislativa capace di dar vita ad un sistema normativo di relazioni bilaterali. Alcuni autori ponevano le Intese fuori dal mondo del diritto, qualificandole come meri atti politici, o assimilandoli ai contratti collettivi del lavoro. Ovviamente è indubbio che l’Intesa abbia un valore politico perché investe la responsabilità dell’Esecutivo sia all’atto della scelta di trattare con una determinata confessione, sia nel corso del negoziato e sino alla sua conclusione. Ma la qualificazione che ad essa compete discende direttamente dal disposto costituzionale che subordina la legittimità costituzionale della legge regolatrice dei rapporti tra Stato e confessione religiosa alla sua conformità all’Intesa. Quest’ultima, pertanto, è destinata a svolgere un ruolo non soltanto nel procedimento di formazione della legge, ma anche in sede di eventuale sindacato di legittimità costituzionale che potrà avere ad oggetto la conformità del testo legislativo con il testo pattizio. Le più consistenti analogie tra l’articolo 7 e articolo 8 della Costituzione si rinvengono nel raccordo tra legge e Intesa delineato dalla Costituzione stessa. La stipulazione dell’Intesa pone il culto interessato in una condizione di attesa, e

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di aspettativa, perché l’accordo venga tradotto in legge. A differenza del Concordato che comporta una responsabilità internazionale del Governo, l’Intesa non può essere garantita se non sul piano interno, anche se la presentazione del disegno di legge di approvazione dell’intesa integra un vero e proprio obbligo costituzionale del Governo, e grava sui governi successivi in caso di interruzione della legislatura. Con la presentazione del disegno di legge, il principio di bilateralità influenza l’attività delle assemblee legislative:il testo può essere approvato o respinto sulla base delle valutazioni che emergeranno dall’iter parlamentare, ma non può essere emendato in modo tale da risultare difforme rispetto al testo pattuito. Eventuali modifiche o la mancata accettazione di alcune parti del disegno di legge, impediscono l’approvazione del testo nel suo complesso, e costituiscono indirizzo politico al Governo perché riapra il negoziato con la rappresentanza confessionale al fine di concordare le opportune varianti da sottoporre ulteriormente alla valutazione del potere legislativo. L’articolo 8 della Costituzione prevede che la legge sia su base di Intesa ed attenua in qualche modo il vincolo di conformità, che potrebbe non essere integrale quanto piuttosto sostanziale. Il principio di bilateralità diviene massimamente operante dopo l’approvazione della legge:le disposizioni di questa non sono modificabili unilateralmente dal legislatore,ma possono essere revisionate solo con un nuovo negoziato,e quindi sostituite da altra legge su base di Intesa.15Lo Stato ha iniziato a praticare

pienamente la bilateralità solo dopo aver posto mano alla

15 C. Cardia, Costituzione, libertà religiosa, sistema delle fonti in Manuale di

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riforma del concordato del 1929: dopo l’accordo di Villa Madama si è dato seguito alle intese con le confessioni religiose acattoliche. La prima è stata l’Intesa Valdese, elaborata prima delle altre ed entrata in vigore nel 1984 che presenta affinità con il nuovo concordato ed esprime la volontà della confessione religiosa di raggiungere una condizione il più possibile simile a quella della Chiesa cattolica, con particolare riferimento al sistema di finanziamento pubblico. Per raggiungere l’Intesa con la Chiesa Valdese è stata eseguita una procedura paraconcordataria:due delegazioni contrapposte si sono incontrate, hanno raggiunto l’accordo,il Governo lo ha sottoscritto e ha presentato il disegno di legge di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione dell’Intesa, infine votato dal Parlamento senza che questo potesse proporre modifiche,come avviene per tutte le leggi di ratifica e di esecuzione di trattati internazionali.16

2.2.1 ESEMPI DI BILATERALITA’ INCOMPIUTA a) LA CONSULTA PER L’ISLAM ITALIANO

Il lento scorrere del tempo negli ultimi anni ha consolidato sempre di più la presenza degli immigrati in Italia lasciando risalire in superficie tutte le loro esigenze, una parte delle quali è indubbiamente composta da richieste connesse a comportamenti, comandi e divieti aventi natura religiosa, nonostante il legislatore abbia scelto di privilegiare

16 P. Consorti, Il sistema dei rapporti fra Stato e confessioni religiose in

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un’immigrazione di breve periodo e non la ricerca di una vera e propria integrazione dei nuovi venuti. Difatti gli sforzi più intensi di elaborazione teorica e normativa sono stati indirizzati anziché verso il perfezionamento della legislazione relativa alla permanenza degli immigrati nel nostro Paese, verso la regolamentazione dell’entrata e dell’uscita dai confini nazionali. In questo contesto è risultato sempre più difficile occuparsi dell’identità religiosa degli immigrati, e di tutti gli interessi che ad essa sono strettamente collegati. In proposito ci troviamo ad analizzare il caso dell’Islam italiano. Quest’ultimo da tempo rivendica l’accesso a tutta una serie di diritti e facoltà che l’ordinamento riconosce già ad altre confessioni. Queste richieste non hanno ancora trovato accoglimento perché lo strumento che l’ordinamento utilizza per regolamentarle,ovvero l’Intesa,risulta difficilmente applicabile nei confronti di questa confessione per diverse ragioni17. Una delle fondamentali

motivazioni sta nel fatto che la composizione dell’islam italiano non è unitaria, questa infatti almeno nella sua componente sunnita è priva di una gerarchia responsabile nei confronti degli aderenti alla confessione e capace di prendere decisioni impegnative per la generalità dei fedeli. Nell’Islam non manca soltanto una leadership; infatti è la stessa attività di culto a svolgersi senza soggetti investiti formalmente di un ruolo di guida. Questa religione ,pur” tendendo a dominare con precetti positivi minuziosissimi tutte le manifestazioni della vita dei credenti,anche in quegli ambiti che potrebbero apparire i più lontani dal campo della religione,ignora l’esistenza di una chiesa

17 N. Fiorita, L’Islam in Italia, in L’Islam spiegato ai miei studenti, Firenze, University Press, 2010.

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gerarchicamente organizzata e composta di persone rivestite di particolari caratteri sacramentali e al cui vertice stia un capo supremo,moderatore dell’organismo ecclesiastico e autorità docente di ultima istanza in materia di dogma,di rito e di diritto”.In realtà quello che viene definito –clero musulmano- è l’insieme degli addetti alle funzioni delle moschee del quale può far parte qualsiasi musulmano idoneo per coscienza,non per particolare investitura o ordinazione sacerdotale. L’Islam, piuttosto, ha visto la nascita di un” corpo di dottori della Legge(‘ulema), di teologi giuristi (fucata) guardiani dell’ortodossia e incaricati dell’applicazione della Legge religiosa(sharia): questi soggetti hanno costituito, nel corso della storia islamica, un corpo di professionisti della religione, la cui sfera d’azione è giunta a ricoprire anche la sfera giuridica. A questo punto occorre descrivere brevemente le realtà associative nate tra i musulmani presenti nel Paese, per evidenziarne le caratteristiche salienti, le relazioni intrecciate con le istituzioni civili e l’alta litigiosità che caratterizza i rapporti tra le stesse associazioni. Una prima aggregazione di rilievo, probabilmente la più radicata socialmente, è costituita dall’Unione delle Comunità e delle organizzazioni Islamiche in Italia(UCOII), nata nel 1990 dalla presenza in Italia di studenti provenienti dal Medio Oriente, adottando un modello utilizzato per istituire formazioni analoghe anche in altri Paesi, come in Francia e in Belgio. La dottrina generalmente attribuisce all’UCOII un legame con i Fratelli Musulmani, un’organizzazione fondamentalista, che sviluppa una concezione essenzialmente comunitaria dell’Islam, e che è nata con l’ambizione di rappresentare l’Islam nel suo complesso anche se ciò si è rivelato

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un obiettivo irraggiungibile e impossibile. L’UCOII ha fin da subito coltivato il progetto di un’intesa con lo Stato italiano, tanto da presentare una bozza per questo scopo. Tra i suoi obiettivi ci sono:la costruzione di un ambiente islamico puro in un contesto non musulmano e a tal fine propone una relativa separatezza della Comunità islamica all’interno della società italiana e intende negoziare collettivamente uno statuto derogatorio che consenta il riconoscimento più ampio possibile del corpus delle regole giuridiche islamiche. Più risalente è il Centro Islamico Culturale d’Italia, unica realtà ad essere stata finora eretta in un ente morale con decreto del Presidente della Repubblica. Il Centro, fondatore e custode della grande Moschea di Roma, si ritiene che rappresenti l’Islam degli Stati, e cioè che si faccia interprete degli interessi dei musulmani in Italia solo mediatamente, attraverso un’organizzazione che esprime direttamente la volontà dei Paesi islamici più influenti economicamente e politicamente. Il centro sconta nella sua attività un duplice ordine di difficoltà: da un lato, l’insofferenza dei musulmani presenti in Italia verso un controllo di matrice statale; dall’altro l’alta conflittualità tra le componenti nazionali del Centro, polarizzate nello scontro tra il Marocco e l’Arabia Saudita, che punta ad influenzare il Centro grazie al suo decisivo potere economico. Nonostante l’intenzione del Centro di raggiungere un’Intesa, esso non ha mai proposto una bozza in questo senso. Di segno opposto al Centro Islamico è la Comunità Religiosa Islamica italiana (COREIS) composta da cittadini italiani convertiti all’islam. Con la bozza di Intesa che ha presentato, la COREIS non intende negoziare con la Repubblica un particolare statuto di cittadinanza per i

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musulmani poiché ritiene che questo sia unico per tutti i cittadini e non vada definito su basi religiose, quindi si pone in via alternativa all’UCOII che invece punta a ritagliare spazi di autonomia per la comunità islamica in Italia. Ugualmente imperniata attorno ad alcune figure di italiani convertiti è l’Associazione musulmani italiani(AMI), che dopo aver acquistato una certa visibilità con la presentazione della bozza d’intesa con lo Stato italiano, ha attenuato la propria presenza nel panorama nazionale. In questi organismi finora brevemente descritti, che interpretano le varie tendenze dell’islam sunnita, i rapporti sono generalmente tesi: essi tendono a proporsi quali unici rappresentanti dell’Islam presente in Italia e le ragioni sono di vario genere, dal maggiore radicamento sociale, alla compatibilità con la società e l’ordinamento italiano. L’opportunità di concludere un’intesa ai sensi dell’articolo 8 cost., terzo comma con un’aggregazione soltanto appare altamente discutibile poiché nessuna delle realtà elencate può dirsi rappresentare una parte consistente dell’islam italiano: neppure l’UCOII, che afferma di controllare il 90% delle Moschee presenti nel Paese. Inoltre si deve tener conto che la maggioranza dei musulmani non frequenta il mondo delle moschee e dell’associazionismo e non si sente da esso rappresentata.18 In Italia,infatti, come nel resto dell’Europa,non

vive un Islam unitario,unico e ben definito,ma coesistono un Islam delle moschee,un Islam degli Stati,un Islam sunnita,un islam sciita:aggettivazioni che rimandano a letture differenti del messaggio religioso,ma anche ad impostazioni contrapposte

18 A. Pin, L’Islam e i rapporti con lo Stato italiano, in Laicità e Islam

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come abbiamo precedentemente visto. Questo corpo così composito, e in costante mutamento, ha partorito nei primi anni novanta tre bozze di intesa che sono state ignorate dal Governo italiano ma che restano a disposizione di ogni studioso. Solo nel 2005 comincia a dispiegarsi una strategia governativa riconoscibile nei confronti dei musulmani, e precisamente con la decisione assunta del ministro dell’Interno Pisanu di istituire una Consulta Islamica. Quest’ultima è composta da membri di nomina ministeriale ed è chiamata a svolgere, come indica il nome stesso, una funzione meramente consultiva. Essa è stata istituita il 10 settembre del 2005 con un Decreto ministeriale che ha suscitato moltissimi dubbi di costituzionalità, sia sotto il profilo della competenza-posto che i rapporti con le confessioni religiose rientrano tra le prerogative del Consiglio dei ministri-sia sotto il profilo del rispetto dell’autonomia delle confessioni religiose (articolo 8,2 comma della Costituzione), e ancor più in generale, della laicità dello stato. La Consulta nasceva con l’obiettivo di selezionare una rappresentanza islamica per via statale e ciò risultava inaccettabile, se non altro perché non segnava un ritorno complessivo verso antichi modelli ma rispolverava un vecchio abito per adattarlo al solo Islam, con buona pace del principio di autonomia confessionale ma anche del principio di eguale libertà tra le confessioni religiose. La strada intrapresa da Pisanu lasciava però apprezzare la sensatezza con cui questa operazione veniva estesa a tutte le componenti dell’Islam,coinvolgendo sia gli interlocutori più scomodi che quelli più malleabili.19

19 N. Fiorita, L’Islam in Italia, in L’Islam spiegato ai miei studenti, Firenze University Press, 2010.

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b) LA CARTA DEI VALORI DELLA CITTADINANZA E DELL’INTEGRAZIONE

L’emanazione della Carta dei Valori della cittadinanza e dell’integrazione è stata opera del ministro dell’Interno Giuliano Amato nell’aprile del 2007 e segna un cambiamento di rotta rispetto agli obiettivi della Consulta, dato che quest’ultima a causa della litigiosità di alcuni dei componenti non ha potuto raggiungere gli obiettivi prefissati nell’ambito dell’integrazione dell’Islam. La Carta dei Valori è un documento che enuncia i principi irrinunciabili che devono essere condivisi da tutti gli immigrati ma che appare indirizzato principalmente al mondo islamico. L’effetto di questo testo, di cui resta ancora oscuro il valore giuridico, è stato quello di spaccare la Consulta islamica e di isolare la maggiore organizzazione nazionale –l’UCOOI- che si rifiuterà di firmare la versione definitiva. L’idea di dare corpo a questo documento nasce da una dichiarazione fatta all’interno della Consulta islamica da un esponente dell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia, il quale, riferendosi alla condizione dei Palestinesi era preoccupato che potesse ripetersi un olocausto a loro danno. Con tale affermazione egli aveva messo in dubbio l’irripetibilità dell’Olocausto, considerato un valore indiscutibile. Per questo motivo si rese necessario adottare un documento che indicasse i valori irrinunciabili che devono essere condivisi per prendere parte ad un dialogo con lo Stato. La Carta dei Valori rispondeva anche alla necessità di prendere una posizione in merito alla questione dell’infibulazione e al tema della condizione della donna. Nella sostanza la Carta riprende e precisa principi già

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presenti nella Costituzione italiana e in altri documenti europei: si presenta come un mero atto interno, al quale i funzionari devono ispirasi nell’esercizio delle attribuzioni che coinvolgano relazioni con le comunità religiose e degli immigrati. Tuttavia anche se risulta priva di un peso giuridico effettivo,essa ha assunto un ruolo politico e culturale significativo se si pensa che molti prefetti hanno chiesto nelle diverse province di sottoscrivere la Carta come condizione per mantenere attivi i canali di incontro e confronto20.

c) LA DICHIARAZIONE DI INTENTI PER LA FEDERAZIONE DELL’ISLAM ITALIANO

In questo scenario, nel marzo del 2008, si inserisce la Dichiarazione di intenti per la federazione dell’Islam italiano, la cui formazione si avvale del Consiglio scientifico per l’attuazione e la diffusione della Carta dei valori e sancisce la definitiva emarginazione dell’UCOII. Con questo documento i rappresentanti di alcune organizzazioni islamiche presenti in Italia dichiarano di voler dar vita ad una struttura federativa che aggreghi i musulmani che vivono in Italia e che si riconoscano nei principi della Costituzione e della Carta dei Valori. Nelle intenzioni governative la costituzione di una federazione islamica avrebbe fatto nascere un soggetto unitario, dotato di uno statuto a prova di conformità costituzionale in grado di avviare la trattativa dell’intesa. In questo modo, però il Governo tradirebbe l’impegno assunto con le confessioni religiose a non

20 P. Consorti, Il sistema dei rapporti fra Stato e confessioni religiose, in

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ingerirsi nelle loro vicende interne. Tuttavia la nascita di una federazione prospetterebbe la soluzione di due questioni fondamentali: in particolare la qualificazione degli “imam” e la regolamentazione dei luoghi di culto. Tali questioni sono particolarmente complesse: per quanto riguarda l’Imam, egli è solo colui che guida la preghiera e la vita religiosa nella comunità. Sono soggetti sprovvisti di una consacrazione e la loro autorità si fonda sul consenso dei fedeli. In tal senso la Dichiarazione di intenti sancisce il principio della trasparenza nella formazione degli imam, scelti a volte senza i requisiti necessari per svolgere le loro funzioni in una società laica e pluralista come quella italiana. La federazione in conclusione qualora riuscisse a realizzare il suo progetto potrebbe rappresentare la prima tappa di una strada percorribile non solo per definire la regolamentazione del culto musulmano e per raggiungere l’eventuale traguardo dell’intesa con lo Stato ai sensi dell’articolo 8,3 comma della costituzione,ma anche per creare una forza aggregante volta a sensibilizzare il mondo musulmano italiano ed orientarlo verso la ricerca di un’identità confessionale tendenzialmente unitaria e moderata21.

d) IL DISEGNO DI LEGGE SULLA LIBERTA’ RELIGIOSA

Abbiamo già visto la mancata discussione parlamentare delle intese stipulate dal governo quindi adesso ci resta da analizzare la faticosa preparazione di una legge comune, ovvero non

21 Commento di P. Fantelli, La dichiarazione di intenti per la federazione

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bilaterale, sulla libertà religiosa che consisterebbe nella riforma della legge sui culti ammessi del 1929 che ormai sembra essere iniziata da qualche decennio fra alti e bassi senza mai giungere ad una soluzione. Questa riforma mira ad offrire un quadro generale della disciplina della regolamentazione dei rapporti con le confessioni religiose. Innanzitutto è doveroso premettere una critica di fondo, basata sul fatto che si voglia regolare con una legge unilaterale la materia dei rapporti fra Stato e confessioni religiose, assecondando l’idea che il cuore del problema stia nella fissazione di regole che disciplinino i rapporti con le istituzioni religiose, e non nella garanzia delle libertà. Inoltre per adesso molte soluzioni ricordano troppo da vicino la legge sui culti ammessi del 1929: tale schema è apprezzato dalle presenze tradizionali, ma non affronta i problemi che nascono dall’evoluzione multiculturale della società e della irreversibile presenza multi religiosa. Apertamente discriminatoria appare, ad esempio, la scelta di riservare i rapporti con la Repubblica esclusivamente alle confessioni religiose riconosciute, specie se si considera che il riconoscimento è un filtro non previsto dalla Costituzione. Per superare l’impasse delle discussioni dannose basterebbe accogliere intanto un’antica proposta,emanando subito una legge di un solo articolo “ la Legge del 24 giugno 1929,n.1159 è abrogata”22.

22 P. Consorti, Il disegno di legge sulla libertà religiosa, in Diritto e

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CAPITOLO II

LE FONTI ISLAMICHE

1. LA SHARI’A E FIQH

Il diffuso interesse nei confronti del diritto islamico è determinato dall’incrocio del fenomeno migratorio e il succedersi di quei laceranti avvenimenti che hanno bagnato di sangue e odio il panorama internazionale all’alba di questo nuovo millennio. Accanto a tutto ciò gioca, però un ruolo significativo anche la rinascita stessa di questo diritto, ovvero la rinnovata applicazione delle regole di origine confessionale che è indotta dalla crisi dei sistemi nazionali che si erano aperti alla occidentalizzazione e che oggi ripropongono in tutto o in parte il diritto musulmano classico al proprio interno.23 Quando si

parla di “diritto musulmano” o “diritto islamico “si può fare riferimento a tre diverse accezioni: a) come traduzione, in mancanza di un esatto corrispondente, dell’arabo Fiqh, che designa quella parte della legge religiosa, la Shari’a, che regola l’attività esterna del credente verso Dio, verso se stesso e verso gli altri. Il fiqh come vedremo più avanti è molto di più e molto di meno di quello che noi chiamiamo “diritto”: di più ,in quanto vi rientrano le regole del rituale religioso e i precetti morali; di meno, perché ne restano escluse aree del diritto, quali la dottrina dello Stato e l’amministrazione della cosa pubblica; b) come estratto di quelle parti del fiqh che sono veramente giuridiche, arricchite di quelle parti del diritto pubblico, estranee al fiqh ,che

23 N. Fiorita, Le fonti del diritto islamico, in L’Islam spiegato ai miei

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i giuristi musulmani identificano con il termine siyasa; c) come, soprattutto in epoca coloniale, il diritto vigente presso i musulmani di una data regione e comprendente non solo quelle parti del fiqh classico non cadute in desuetudine, ma anche il diritto locale consuetudinario, non necessariamente legato all’islamismo. Il diritto musulmano nasce e si afferma con la nascita e l’affermazione dell’Islam, termine che designa la religione monoteistica fondata da Maometto (morto nel 632 d.C.), ma anche il sistema politico, sociale e culturale che ad essa intimamente si riconnette. La ripartizione dell’islam in sistema religioso, sistema politico e giuridico è un adattamento, secondo criteri laico-occidentali, di una realtà che dal punto di vista interno si presenta come unitaria: l’Islam è ,infatti, per i musulmani un unicum dogmatico, morale, rituale, giuridico, in cui non ha alcun senso distinguere la sfera giuridica da quella morale perché entrambe trovano le proprie fonti nella Shari’a, in quella lex divina, rivelata, sulla quale tra poco ci soffermeremo.24

Tra le caratteristiche maggiormente peculiari dell’Islam vanno segnalate sia la mancanza di un’autorità centrale che l’assenza di soggetti che svolgono il ruolo che altre confessioni religiose attribuiscono al clero. Per quanto riguarda il primo punto, esso determina come logica conseguenza, che nella storia l’islam non abbia mai riconosciuto ad un determinato soggetto un ruolo di vertice assoluto né il potere di fornire un’interpretazione ortodossa della verità: proprio per questa ragione l’Islam dei nostri giorni è attraversato da una fortissima conflittualità interna che si riflette nell’interpretazione del diritto islamico e

24 F. Castro, La shari’a, il Fiqh e le fonti del diritto, in Il modello islamico, Giappichelli (collana Sistemi giuridici comparati), 2007.

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che genera la proliferazione di nuove letture del testo sacro. L’Islam attuale si spezzetta continuamente in tante piccole minoranze che agevolano la diffusione di correnti dottrinali di ogni tipo e che produce enormi difficoltà per gli Stati occidentali, che sono chiamati a governare una massiccia presenza musulmana all’interno dei propri confini. Per quanto riguarda ,invece, la scelta di questa confessione religiosa di strutturarsi prescindendo dalla creazione di un ceto preposto a svolgere stabilmente determinate attività spirituali e a trasmettere il messaggio religioso, va notato come l’assenza di figure immediatamente riconducibili nell’immaginario collettivo alla qualifica di ministro di culto non esclude che operi nelle società islamiche tutta una serie di soggetti che si occupano di assolvere alcune delicate funzioni ,come guidare alla preghiera (imam) o fornire precetti che regolino la vita della comunità dei credenti (ulama).25 Abbiamo accennato precedentemente che

oggi il sistema di diritto islamico appare connotato da un diritto apicale comune e superiore a quello dei singoli stati islamici: gli stati islamici sono quelli che riconoscono la primazia della

shari’a e dei principi islamici. Ci sono stati che, pur avendo di

fatto la maggioranza della popolazione musulmana, non sono islamici nel senso anzidetto, come il Senegal o come la Turchia. Gli stati islamici hanno in comune l’islam, che è religione ma anche cultura, società e insieme giuridico di insieme giuridici, pur se non ordinamento. Si tratta di stati confessionali, e nel caso dell’Iran di stato teocratico, che pur seguendo una diversa configurazione della shari’a, cioè quella sciita, può essere

25 N. Fiorita, Il diritto islamico, in L’Islam spiegato ai miei studenti, Firenze University Press, 2010.

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