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3. Il martirio : storia, teologia, prassi, letteratura. Alcuni aspetti

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Introduzione al capitolo terzo.

Il terzo capitolo è suddiviso in due parti: la prima, di carattere più generale, è dedicata a delineare alcuni aspetti fondanti della teologia del martirio e delle caratteristiche narratologiche che la letteratura martiriale assume nel corso del tempo dal II al V secolo, la seconda affronta lo studio di alcuni testi afferenti al genere delle Passioni epiche onde esplicitarne le linee strutturali portanti, sia dal punto di vista dell’esortazione morale e della trasmissione del messaggio edificante che da quello stilistico- retorico, con particolare riguardo al tessuto lessicale. Più specificamente, nei primi paragrafi viene tracciata in sintesi la storia del concetto di martirio: come e quando si verificano i primi casi di morte cruenta a motivo della fede durante le persecuzioni, in quali zone dell’Impero esse si presentano con maggiore frequenza in relazione alle regioni di più antica e radicata cristianizzazione, quando si inizia ad usare con sistematicità il termine

“martire” e come esso si differenzi dal più tenue “confessore”. In seconda istanza, viene passata in rassegna la letteratura neotestamentaria: dai Vangeli sinottici alla produzione giovannea e a quella paolina, attraverso la lettura e l’esame dei passi che contengono menzione specifica della questione della testimonianza e della partecipazione al mistero pasquale attraverso l’adesione alla Passione di Cristo. In particolare si cerca di evidenziare in questo contesto la novità rappresentata dal cristianesimo rispetto alla tradizione giudaica precedente (dei Maccabei e della letteratura maccaibica) e al concetto pagano dell’eroismo e dell’apoteosi. Oltre alle fonti scritturistiche in senso stretto, sono vagliate anche le prime testimonianze scritte prodotte dalle Chiese coinvolte nei processi e nelle condanne, relative a figure percepite da subito come paradigmatiche e sublimi, quale quella del vescovo Policarpo o dei cristiani di Lione e di Vienne.

Esaurita la sezione dedicata alla definizione teologica ed etica del

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martirio, l’argomentazione procede attraverso l’illustrazione di quelle che sono le modalità consuete di rappresentazione delle figure dei martiri e del contesto giudiziario: dagli Acta alle Passiones, vengono individuati i topoi narrativi che si ripetono nelle varie testimonianze e che assumono valore pregnante in relazione agli intenti apologetici della comunicazione. Si delinea così il valore, nel quadro dei racconti prodotti, della presenza dei correligionari, il ruolo che in essi assume invece la folla dei pagani, le caratterizzazioni standard con cui si designano i persecutori, dagli inquirenti ai carnefici in senso stretto, il significato di un progressivo intensificarsi delle presenze diaboliche e della diversa natura con cui vengono raffigurate dai cronisti. In questo senso diventa poi interessante notare il complesso delle variazioni e delle permanenze che esistono rispetto al mondo dell’immaginario pagano, ovvero come la nequizia e la malvagità siano di nuova connotazione rispetto a come esse appaiano negli antagonisti della letteratura classica e come le virtù eroiche dei protagonisti positivi siano invece in parte debitrici a quello stesso contesto, fatta salva una maggiore complessità ideologica che sta al loro fondo. Il primo testo che viene esaminato allo scopo di illustrare praticamente il quadro teorico sino a questo punto delineato è la Passio di Eufemia di Calcedonia, nella versione riportata dagli Acta Sanctorum, con buona probabilità risalente al secolo V. Si tratta di un documento di discreto valore esemplificativo sotto molteplici aspetti; il primo requisito che esso possiede è la significatività storica: il culto di questa santa martire, nato in Oriente assai precocemente, si diffonde con velocità nel mondo occidentale grazie ai lavori conciliari del quarto evento ecclesiale ecumenico, e si sedimenta con forza nell’immaginario e nella devozione popolare del Mediterraneo, come testimonia la particolare vicenda di Aquileia e la dinamica rocambolesca della traslazione delle reliquie. Dal punto di vista più propriamente letterario, il testo si caratterizza per una struttura complessa: un

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sistema dei personaggi di tipo corale e piuttosto diversificato, l’abbondanza della componente prodigiosa e miracolistica che non indulge tuttavia a particolari grotteschi o oltremodo cruenti, l’equilibrio tra la parte narrativa e quella dialogica, la presenza di motivi didattici e parenetici di derivazione scritturistica e patristica, l’enfatizzazione del motivo della castità e l’insistenza sulla mascolinizzazione spirituale della santa. I testi che dopo questo sono sottoposti ad esame, preliminarmente inquadrati dal punto di vista storico, sono stati scelti perché simili nella sostanza spirituale ma diversi nella caratterizzazione dei personaggi: ognuno di essi ruota infatti intorno alla presenza di una santa vedova, che va incontro al martirio in modo solitario oppure ai propri figli e che assume un profilo proprio e specifico in base al rilievo che dall’apologista viene dato al motivo della continenza e della castità, nonché della cura parentale. Tali testimonianze sono sottoposte a disamina critica attraverso un lavoro di decodifica e di analisi che solo in misura molto ridotta può contare su contributi precedenti, sia per quanto afferisce all’ambito strettamente filologico che per quanto attinge all’agiografia, e i risultati ottenuti devono perciò essere intesi e recepiti come il frutto di un’indagine condotta di prima mano. Lo studio effettuato rileva che una maggiore attenzione agli elementi della castitas e dell’amore materno non coincide necessariamente con la maggiore popolarità della figura della martire e del culto di essa, e che spesso il motivo della maternità viene elogiato più di quello dell’astinenza sessuale, secondo l’uso di stilemi che richiamano da vicino l’ambito devozionale mariano. Più i figli assumono un peso cospicuo, più cogente diventa la componente che potremmo definire matronale, sia che la donna sia configurata come la maestra spirituale della prole, come nel caso di Felicita e Sinforosa, sia che ella diventi dipendente dal proprio figlio e a lui subordinata anche nell’ambito della fede, come stanno a testimoniare le figure di Giulitta ed Anzia.

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Nel mutare della prospettiva non è ininfluente, come si vedrà, la cronologia: i testi recenziori privilegiano l’ottica maschile, coerentemente al profilarsi della normalizzazione delle gerarchie ecclesiastiche, mentre quelli più antichi esaltano il motivo dell’eroismo femminile, pur attraverso modalità assimilative al paradigma dei santi uomini.

3. Il martirio : storia, teologia, prassi, letteratura. Alcuni aspetti

“Il martire è un testimone di Dio, di Cristo, dell’uomo redento, della Chiesa”.

W. Rordorf, in Martirio e Testimonianza, in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», 8, 1972, pp. 239.

3.1. Una premessa: l’identificazione del martire nella Chiesa antica1.

Già dai primi anni di vita la comunità cristiana suscitò intorno a sé l’ostilità degli ambienti circostanti, come testimoniato da alcuni dei libri neotestamentari: a Gerusalemme, luogo della Passione, Pietro fu più volte imprigionato ed uno dei leaders del gruppo degli Ellenisti, Stefano, subì la lapidazione (Atti, 7, 54- 60). In modo violento cadde anche il discepolo Giacomo, ucciso durante una campagna persecutoria successiva voluta da Erode Agrippa (Atti 12, 2). La riflessione sul senso spirituale e teologico da dare alla morte cruenta dei fedeli è dunque, di necessità, precocissima, e trova larga espressione nelle pagine di Paolo in diverse occasioni: in II Corinzi, Colossesi, II Timoteo, le uccisioni dei cristiani sono considerate motivo di gloria e segno del giusto giudizio divino, che darà gioia a

1 Sulla questione generale dell’identificazione dei martiri e sulla comparsa e l’uso del lessico specifico legato al martirio, cfr. S. Beutler, Martyreō, martyria, martyrion, martys, «DENT», II, pp. 285- 301; E. Zocca, Sacrificio e martirio nella letteratura agiografica del II e del III secolo in «Annali di Storia dell’esegesi», 18, 2001, 1, pp. 281- 306.

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chi è considerato degno. La teologia cristiana del martirio affonda tuttavia le sue radici nel giudaismo: i punti di discontinuità certamente esistenti tra l’una e l’altra concezione non inficiano il fatto, innegabile, che “without Maccabees and without Daniel a Christian theology of martyrdom would scarcely have been thinkable”2. Cronologicamente le prime riflessioni del monoteismo sul valore religioso della testimonianza cruenta risalgono dunque al periodo della persecuzione di Antioco IV Epifane di Siria, svoltasi tra 175 e 164 a.C,3. durante la quale comparve il libro di Daniele. L’autore, facente parte di un gruppo noto come quello degli “iniziati” o dei “saggi”, confeziona un vaticinio ex eventu facendo notare che egli conosce gli avvenimenti verificatisi all’indomani della seconda campagna in Egitto di Antioco del 168, interrotta dal console romano C. Popilio Lenate. Nel corso dei capitoli 11 e 124 egli si dice convinto che Dio, unico, vero padrone della storia, ristabilirà il diritto e la giustizia in risposta all’arroganza del re e che, contemporaneamente, risusciterà coloro che sono morti durante la persecuzione, la cui scomparsa ha comunque svolto una funzione purificatrice nei confronti dei correligionari sopravvissuti.

Questi uomini godranno di una particolare distinzione nell’avverarsi

2 Cfr. W.H.C. Frend, Martyrdom and persecution in the early churc. A study of a conflict from Maccabees to Donatus, Oxford, 1965, p. 65. Significative, sui rapporti di parentela esistenti in senso lato tra giudaismo e cristianesimo le parole di Daniel Boyarin, Morire per Dio, cit., pag. 17: “Come molti gemelli, il giudaismo e il cristianesimo non costituirono mai due identità separate. Come fratelli abbastanza vicini sono stati rivali, hanno imparato l’uno dall’altro, combattuto tra loro e forse anche talvolta si sono amati: Esaù, il maggiore, soppiantato in un modo o nell’altro da Giacobbe, il più giovane, che lo ha nutrito. Se il più giovane ha nutrito il più anziano, in molti modi il più anziano ha nutrito il più giovane. Almeno per i primi tre secoli della loro vita comune, il giudaismo e il cristianesimo, in tutti i loro aspetti, fecero parte di una complessa famiglia religiosa, genelli nel ventre, contendendo l’uno all’altro l’identità e la primogenitura, ma condividendo in modo considerevole lo stesso cibo spirituale”.

3 Per le questioni storiche cfr. K. Bringmann, Hellenistiche Reform und Religionsverfolgung in Judäa. Eine Untersuchung zur jüdish- hellenistischen Geschicte (175- 163 v. Chr.), Groningen, 1983. Sulla persecuzione come occasione di riflessione sulla morte violenta del fedele, si veda invece W.H.C. Frend, The persecutions: some links between Judaism and the Early Church, «The Journal of Ecclesiastical History», 9, 1958, pp. 141- 158.

4 Cfr. Liber Danielis 11, 29-36.40- 45; 12, 1-4. Biblia Hebraica, ed. R. Kittel, Stuttgart, 1951 (settima ed.), pp. 1281- 1282.

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della salvezza escatologica che segnerà l’inizio dell’era nuova, e saranno testimoni della punizione inflitta ai loro persecutori, che saranno umiliati e dovranno inchinarsi di fronte a coloro che poco prima hanno vilipeso. Dal libro dei Maccabei discende un altro concetto fondante della teologia del martirio: il valore pedagogico della sofferenza,5 un motivo che diventerà centrale nella riflessione cristiana a partire dalla seconda metà del II secolo. All’interno dei capitoli 6 e 76 Eleazaro è dipinto come il campione della perseveranza, che avrebbe potuto, in verità, salvare la propria vita ma sceglie di andare incontro alla morte per esaltare il valore della propria convinzione religiosa, certo di poter essere compreso dagli altri membri della comunità. La sua è una morte espiatoria, un sacrificio sostitutivo che purifica il popolo ed è quindi da considerarsi una vittoria sul tiranno persecutore7. Secondo l’autore, che rappresenta se stesso come un filosofo, la sofferenza è kairoèv pedagogico del popolo giudaico: attraverso di essa i martiri danno autenticità ai loro atteggiamenti di resistenza e, contemporaneamente, insegnano agli altri a percorrere la stessa strada tramite l’esempio concreto. Come premio per i testimoni, in questo caso ci troviamo di fronte non alla descrizione della risurrezione, bensì alla conferma dell’immortalità dell’anima. La ricompensa consiste cioè in una vita eterna e felice presso Dio e i padri. Fatti salvi questi due precedenti, è indubbio che una vera e propria spiritualità del martirio si inizia tuttavia a delineare

5 Cfr. su questo punto P. A. O’ Hagan, The martyr in the fourth book of Maccabees,

«Studii Biblici Franciscani Liber Annuus», 24, 1974, pp. 94- 120; D. F. Winslow, Maccabean martyrs: early christian attitudes, «Judaism», 23, 1974, pp. 78- 86.

6 Cfr. Liber II Maccabaeorum 6, 12-17; 30-31; 7, 7-9, 30-41; ed. W. Kappler- R.

Hanhart, Septuaginta, auctoritate Societatis Litterarum Gottingensis editum, IX, 2, 1976², pp. 71- 75; 77-78.

7 Per uno studio sul remotissimo sfondo storico, si può vedere il coinciso, sempre valido E. Bickermann, Der Gott der Makkabaër, Leiden, 1934; ed. inglese The God of Maccabees, Oxford, 1979.

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solo con il vescovo di Antiochia Ignazio8. Egli fu arrestato come cristiano sotto l’imperatore Traiano e condannato ad bestias tra 110 e 118. Nel viaggio che lo conduceva dalla Siria a Roma, scrisse sette lettere9 che sono una vibrante confessione di fede e di amore verso Gesù Cristo10 e, nel contempo, una fonte preziosa per la vita della Chiesa delle origini. Ignazio si configura come teologo che è testimone, come pastore che diviene discepolo. Persuaso della verità dell’incarnazione del Verbo, egli desidera essere discepolo vero del Signore, sottolineando più volte che se Cristo ha sofferto per noi, essere associati alla sua passione è occasione favorevole e indilazionabile per poter essere veramente seguaci di Cristo stesso.

Come nella visibilità della carne del Signore si manifesta la salvifica presenza divina, così nel destino di sofferenza del martire si scorge la comunione di destino con il Salvatore. La necessità del patire è motivata dalla forma crucis che l’amore divino ha assunto per la salvezza della famiglia umana,11 e accolta con gioia: Ignazio, incatenato per il nome del Signore Gesù, non avverte il peso angosciante di una salvezza da conquistare, ma si abbandona fiducioso alla volontà divina; da qui derivano le sue espressioni appassionate, quella “mistica del martirio” che compare principalmente nella Lettera

8 Per uno sguardo complessivo sul valore della personalità di Ignazio, cfr. H.

Paulsen, Studien zur Theologie des Ignatius von Antiochien, Göttingen, 1978, pp.

180- 187.

9 Sull’autenticità delle sette epistole di Ignazio ritenute originali, si può vedere: W.

Bauer- H. Paulsen, Die Briefe des Ignatius von Antiochia und der Brief des Polykarp von Smyrna, «HNT», 18, 2, 1985³.

10 Scrive F. Bergamelli: “Nelle lettere, in uno stile originalissimo, semplice e denso, spoglio e rigurgitante, insofferente delle regole grammaticali, in frasi talvolta sincopate fino ad essere dure e oscure, talaltra esuberanti di fastosità e di accumuli soverchianti, sembra scorrere un torrente di fuoco”. (L’unione a Cristo in Ignazio di Antiochia, in S. Felici (ed.), Cristologia e catechesi patristica, Roma, 1980, I, pp.

73- 109, qui p. 75).

11 Sul tema in generale, cfr. L. Padovese, Lo scandalo della croce. La polemica anticristiana nei primi secoli, Bologna, 2004².

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ai Romani12 In essa il vescovo prega i suoi seguaci di non tentare alcuna opposizione per consentirgli di bere, finalmente, lo stesso calice di Cristo. Il suo desiderio di martirio si radica nella volontà di raggiungere una dimensione celata agli occhi degli uomini: si tratta di conseguire la perla nascosta nel campo, l’unico possesso pieno e appagante, che solo l’amore ardente del discepolo può scorgere con chiarezza. E’ indicativo il fatto che la volontà di andare incontro alla morte non sia compresa neppure dai correligionari, perché ciò non è dovuto né ad uno sforzo individualistico di perfezione personale- è infatti la comunità ecclesiale l’ambito in cui l’anelito al martirio trova la sua radice13- né ad una resa incondizionata al mondo da parte dei Romani. Ciò che rende distanti le posizioni di Ignazio da quelle dei suoi fratelli è l’incapacità di questi di cogliere la logica del “momento opportuno”, di entrare nella prospettiva del kairoév; l’amore dei Romani non sa misurarsi, cioè, sull’occasione del martirio quale vocazione dall’alto. Nelle pagine della lettera, la condanna a morte espressa in ragione della fede religiosa non appare tanto come l’occasione più estrema di santificazione quanto, piuttosto, come l’agognato e ambìto raggiungimento di una meta cui il fedele si è lungamente preparato; non un mezzo tra gli altri, ma l’unico mezzo possibile per imitare Cristo. Agli occhi del vescovo, il martirio è l’avvenimento supremo per mezzo del quale il cristiano conferma la sua confessione di fede, esso stesso configurandosi come messaggio.

Si tratta di un premio riservato da Dio, una grazia che si compie nell’ordine della redenzione e che fa assumere alla morte il ruolo di un processo di trasformazione: destinato all’esecuzione, Ignazio è frumento di Dio e diventa pane di Cristo, in modo comparabile con

12 Per un’analisi approfondita del testo della lettera, cfr. T. Nadeau- Lacour, Le martyre comme “célébration la plus solennelle de l’évangile de la vie”, in «Antr»., 13, 1997, pp. 297- 316.

13 Cfr. su questo aspetto M. Laracy, Cross and Church in the spirituality of Ignatius of Antioch, «American ecclesiastical review», 67, 1973, pp. 387- 392.

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l’eucarestia, nella quale Cristo stesso comunica la propria vita. Come il grano deve essere macinato per divenire farina, così il martire deve entrare nella morte per poter diventare “offerta sacrificale” gradita a Dio14. L’atteggiamento del vescovo fece sì che già presso gli immediati successori, in modo del tutto nuovo, la fine subita da lui e dalle vittime sottoposte ad un destino simile fosse tenuta in altissima considerazione, tanto che nella lettera ai Filippesi, composta dopo la morte di Ignazio, Policarpo di Smirne nomina il suo collega defunto e i compagni di prigionia di questi “immagini del vero amore” e

“portatori di sante catene, diadema dei veri eletti di Dio e di nostro Signore”15. Il termine “martirio”, nell’accezione comune di sacrificio della vita accettato per professare il credo cristiano, non è tuttavia ancora presente nell’uso del vescovo di Antiochia: nelle sue prime comparse esso indica generalmente la testimonianza che il fedele, durante la sua attività missionaria, rendeva alla vita e alla predicazione di Gesù, una testimonianza che poteva anche spingersi fino alla morte, ma che non coincideva necessariamente con questa, e che poteva intendersi anche in relazione alle procedure giudiziarie. Il significato specifico diviene usuale solo a partire dalla Passione dei martiri di Lione e di Vienne (BHG 1573). Si tratta di una lettera anonima redatta in un greco letterario da un testimone anonimo dei fatti svoltisi nella Gallia meridionale nel 177, ovvero di un superstite della persecuzione che inviò un’epistola ai suoi fratelli di Asia e di Frigia per informarli di ciò che era avvenuto poco tempo prima. Il legame esistente tra Lione e Smirne è tra l’altro attestato da Ireneo, secondo vescovo della città gallica dopo Potino, il quale era in relazione con il collega della

14 Scrive P. Bouyer: “Si potrebbe senza alcuna forzatura esplicitare il pensiero d’Ignazio dicendo che l’eucarestia, nutrendoci del Cristo risorto, ci associa alla sua passione, e più particolarmente all’a!gaéph che ne è l’anima; reciprocamente il martirio, realizzando nella nostra vita la perfezione dell’a!gaéph, conferisce tutta la sua realtà a questa associazione del Christus passus effettuata dall’eucarestia e rivela alla fine in noi la presenza del Cristo risorto”. (La spiritualità dei Padri, cit., p. 63).

15 Cfr. Policarpo di Smirne, Filippesi 1,1, (248, 8-10 Fischer).

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città asiatica, Policarpo, a sua volta discepolo di Giovanni dal tempo del passaggio di questi ad Efeso. La lettera è giunta a noi per via indiretta, tramite la Storia Ecclesiastica di Eusebio (HE 5,1,2), che ne riporta ampi stralci all’interno del libro IV, congiuntamente ad un’altra epistola scritta dai martiri stessi ed indirizzata ad Eleutero, vescovo di Roma, la quale fu affidata per il recapito ad Ireneo. In essa prevale la forma narrativa, dettata sia dalla particolare enfasi che l’autore dà alla descrizione dei supplizi inflitti ai prigionieri, sia dalla necessità di raccontare, in uno spazio abbastanza breve, le vicende di numerosi martiri, svoltesi in un lasso di tempo relativamente lungo.

Questo tipo di impianto e la presenza assai limitata di espressioni in forma diretta contribuiscono a rendere il racconto perspicuo: nella primavera del 177 la comunità cristiana di Lione subì un difficile periodo di messa al bando, sfociata in un vero e proprio pogrom.

L’istruttoria giudiziaria fu condotta personalmente dal governatore della provincia, che di fronte alle resistenze dei fedeli tratti in arresto si rivolse all’imperatore Marco Aurelio, ricevendone in risposta l’ordine di giustiziare tramite decapitazione tutti coloro che non avessero abiurato. Le uccisioni ebbero luogo nell’agosto di quello stesso anno. Eusebio sottolinea come i martiri non si inorgoglisserio, preferendo riservare il titolo di martire a Cristo. Viene sottolineata, in particolare, la loro fermezza nella carità, la benevolenza verso i carnefici e la comprensione nei confronti di coloro che avevano apostatato. Gli uomini e le donne coinvolte nella persecuzione furono comunque pienamente consapevoli dell’autorevolezza spirituale conseguita a motivo del loro comportamento, tanto da concepire le lettere indirizzate alle comunità d’Asia e di Roma per esprimere il loro giudizio sulle teorie montaniste, che in quel tempo si stavano diffondendo. Eusebio trasmette solo nove nomi di martiri (Potino, Attalo, Alessandro, Santo, Maturo, Blandina, Biblide, Alcibiade, Pontico), ma la lista originale- conservata dal traduttore latino di

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Eusebio, Rufino, all’inizio del secolo V- comprende quarantotto nomi, che si credono normalmente corrispondere a trentotto individui, data la diffusione dei doppi e tripli nomi nella pratica onomastica orientale.

Nel momento in cui Eusebio precisa che i cristiani condannati e sottoposti a tortura rifiutavano di essere chiamati martiri, sia perché temevano ancora di cedere, sia perché ritenevano che tale etichetta spettasse solo a Cristo, testimone fedele e veritiero, precisa anche che da parte loro essi si ritenevano umili confessori, cioè persone che avevano confessato la fede senza essere arrivati alla morte. Tale distinzione rimarrà “formulare” a partire dal terzo secolo: così sono martires coloro che hanno perso la vita, confessores coloro che hanno proclamato la fede davanti ad un tribunale, senza essere però giunti al sacrificio estremo16. Il termine “martire” è già impiegato in questa funzione negli Atti dei Martiri Scillitani, la quale dimostra come l’uso di tale titolo fosse adottato precocemente nel latino ecclesiastico. Il documento a noi giunto è un compendio, scritto in latino, dei protocolli giudiziari relativi al processo celebrato il 17 luglio del 180 a Cartagine contro dodici membri (Sperato, Narzale, Citino, Veturio, Felice, Acillino, Letanzio, Gennara, Vestina, Donata e Seconda) della comunità cristiana di Scillium, in Numidia. Da pochi mesi si era insediato come imperatore Commodo, ma l’episodio di persecuzione si può di fatto ritenere un seguito delle campagne anticristiane svoltesi sotto il predecessore Marco Aurelio, quando la fede si era già diffusa da un cinquantennio nell’Africa proconsolare, arrivando ad interessare anche i piccoli centri. Si tratta di una composizione molto breve, che riporta in sostanza il colloquio tenutosi tra il magistrato inquirente, il

16 La distinzione che viene citata nella Passione dei martiri di Lione e Vienne può essere messa in parallelo con quella stabilita all’interno del Pastore di Erma: qui, in modo più sottile, vengono differenziati coloro che hanno sofferto (il verbo usato è paéscein, usato al participio aoristo) e coloro che non hanno sofferto ma hanno patito tribolazioni (qlibeéntev). Cfr. Pastor Hermae, visio III, 1, 4-2,2. Sulla questione in generale, si puo vedere il contributo piuttosto agile di M. Lods, Le rôle publique et la position politique des confesseurs et des martyrs dans l’Église ancienne, «Positions luthériennes», 26, 1978, pp. 211- 233.

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proconsole Saturnino, e i cristiani, in particolare Sperato, che detiene tra essi il ruolo di leadership. In essa si legge: “Nartzalus dixit: «hodie martyres in caelis sumus»” (Pass. Scill. 15; 88, 26 Musurillo). Il pieno sviluppo della terminologia martirologica della testimonianza è rappresentato, tuttavia, dal Martirio di Policarpo. Si tratta di un racconto giunto sottoforma di lettera inviata dalla Chiesa di Smirne, di cui l’uomo era vescovo, a quella di Filomelio, un villaggio della Frigia sulla strada per Efeso, che aveva fatto richiesta di un racconto particolareggiato del martirio. Policarpo era una personalità religiosa senz’altro illustre, avendo contribuito in modo decisivo al confronto con la Chiesa di Roma circa la questione della data della celebrazione della Pasqua. Egli infatti andò a Roma nel 154 in qualità di delegato della Chiesa di Asia per parlare con Papa Aniceto II. Il problema che si poneva era se celebrare tale evento il 14 di Nisan, come i Giudei, o se adeguarsi al calendario occidentale, poiché in Oriente la prassi ecclesiastica era rimasta fedele alle usanze ebraiche. Proprio al ritorno da Roma il vescovo di Smirne fu martirizzato, sotto il regno di Antonino Pio, in una data compresa tra il 155 ed 17717. Il redattore del Martirio segue Policarpo nel suo allontanarsi dalla città, in seguito alle insistenze dei suoi fedeli, per non essere catturato, nel suo arresto, nel suo trasporto in città, mettendo in luce il suo coraggioso atteggiamento dinanzi al proconsole durante il processo svoltosi nello stadio, per poi descriverne l’eroica morte sul rogo. Dal punto di vista storico e liturgico, ciò che di interessante emerge dal documento è la conflittualità che viene registrata tra giudei e cristiani (ad esempio, viene più volte ribadito il ruolo di sobillatori delle autorità romane avuto dagli ebrei) e la nascita della venerazione per i resti mortali del martire. Dal punto di vista retorico, letterario e teologico insieme, è

17Sulla questione della data la critica non offre un parere unanime; cfr. C. Burini, Policarpo di Smirne. Lettera ai Filippesi. Martirio, Bologna 1998, pag. 98; R.

Cacitti, Grande Sabato. Il contesto pasquale quarto decimano nella formazione della teologia del martirio, Milano, 1994, pp. 10- 38.

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invece notevole il tentativo fatto dall’autore di assimilare perfettamente lo svolgersi del giudizio e delle sofferenze di Policarpo a quelle di Cristo18. La ricostruzione del racconto infatti ricalca quello della Passione secondo il quarto Vangelo. Gesù è visto come il vero martire, l’Agnello sgozzato, glorificato e vittorioso, dell’Apocalisse, e la Pasqua assume il carattere di luogo del martirio, in quanto associazione della morte del perseguitato alla sua celebrazione. Non a caso, il dies natalis di Policarpo viene definito “grande sabato”, perché la comunità smirnea voleva specificare in modo forte ed esplicito l’immediata corrispondenza tra la morte del martire e la realtà escatologica da quella inaugurata. Il martire, in altre parole, non si limita ad imitare la parole o il gesto di Cristo, ma si rende partecipe dell’azione archetipicamente compiuta da Questi: si può dunque parlare di koinwniéa privilegiata con il Redentore, in particolare con la sua immagine di sofferente19. Per la prima volta nella letteratura conservata della Chiesa antica, la terminologia martirologica della testimonianza è usata nel senso tecnico che è per noi familiare:

maértuv è il testimone che muore a causa della sua fede; marturei%n è morire a causa della propria fede; marturiéa o martuérion è questa stessa sofferenza e morte. Tale lessico specifico è stato in seguito d’uso corrente più che il termine confessore, anche perché si esitava, talvolta, sul termine da applicare a quei prigionieri la cui morte era

18 Oltre ai contributi già citati, cfr. anche B. Dehandschutter, The martyrium Polycarpi: a century of research, «ANRW» II. 27.1.1993, pp. 485- 522; W.R.

Schoedel, Polycarp of Smyrna and Ignatius of Antioch, ibidem, pp. 272- 358; A.

Zani, La semantica della regalità di Cristo nel Martirio di Policarpo, in La funzione regale di Cristo e dei cristiani, «Quaderni teologici del seminario di Brescia», Brescia, 1997, pp. 77- 100.

19 “Sul rogo, divenuto per lui altare, Policarpo offre se stesso al Signore Dio onnipotente ma, al tempo stesso, consacra, insieme al suo, ogni martirio quale partecipazione, in realtà e non in figura, alla passione del Figlio di Dio, al calice di Cristo. Egli, immolato sul rogo, è compartecipe della stessa croce di Cristo; egli accomuna, in maniera piena e definitiva, la sua morte a quella del Figlio di Dio;

incontra finalmente Cristo ed entra in comunione con lui” (Burini, cit., p. 154).

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imminente20. La gerarchia del martirio all’interno della storia della salvezza si mantenne, tuttavia, sempre chiaramente espressa, ed anzi sempre più precisamente indicata con il progredire degli anni e con il fiorire degli scritti apologetici. E’ ad esempio significativo il fatto che nel Dialogo con Trifone Giustino affermi in modo esplicito il fatto che i martiri debbano essere considerati direttamente discendenti, in senso spirituale, dai profeti, ma nel contempo superiori a questi, anche a quelli che sono stati uccisi a motivo del loro carisma. Nel testo la tradizione dell’assassinio dei saggi dell’Antico Testamento occupa largo spazio,21 ed è affrontata con accenti particolarmente polemici nei confronti dei giudei, coerentemente all’indirizzo ideologico già proprio dell’evangelista Matteo, che Giustino riprende in modo scoperto. Il profeta è descritto come un saggio perseverante: egli contempla la verità e parla di ciò che ha visto e compreso per concessione divina, ma il martire lo supera, realizzando pienamente tale visione di verità con il corpo, con l’intera esperienza della sua umanità. In altre parole, ciò a cui il profeta si avvicina solo con il pensiero, viene sperimentato nella carne dal martire. Nell’Antico Testamento il profeta parla in nome di Dio, proclama pubblicamente la sua volontà ed invita il popolo all’ascolto della parola del Signore, alla fede nell’alleanza, alla conversione di vita. Nel Nuovo Testamento la sua figura viene sostituita da quella dell’apostolo, che si configura come il messaggero inviato da Cristo, testimone oculare della sua morte e risurrezione, ministro del suo regno e dispensatore dei misteri di Dio. Egli non rappresenta ancora, però, la perfezione spirituale: con il Martirio di Policarpo e la Lettera delle Chiese di Lione e Vienne questa viene infatti individuata nei martiri, ovvero in

20 Cfr. H. A. M. Hoppenbrouwners, Recherches sur la terminologie du martyre de Tertullien à Lactance, «Latinitas Christianorum Primaeva», 15, Nijmegen, 1961.

21 Cfr. O. H. Steck, Israel und gewaltsame Geschick der Propheten, Untersuchungen zur Überlieferung des deuteronomistischen Geschichtsbildes im Alten Testament, Spätjudentum und Urchristentum, «Wissenschaftliche Monographien zum Alten und Neuen Testament», 23, Neukirchen- Vluyn, 1967.

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coloro che muoiono confessando il Signore e che sono, per questo, i testimoni più qualificati di Cristo secondo la Chiesa.

Dopo i primi contributi- i documenti antichi che sono contemporanei alla proliferazione delle condanne dei giusti, sottoposti a morte durante le persecuzioni romane- la riflessione classica sul martirio, ovvero la sua traduzione manualistica, viene svolta da Tommaso di Aquino. In Summa Theologiae II- II, q. 12422 esso viene inquadrato nel contesto della virtù della fortitudo. Questa viene considerata come la prima delle virtù morali che hanno come oggetto la passione, ed è definita come quella che sottomette l’appettito alla ragione in tutto ciò che si riferisce alla vita e alla morte. Tommaso espone preliminarmente la sua tesi, secondo la quale il martirio deve essere considerato un atto di virtù perché ad esso è associata una beatitudine (cfr. Mt, 5, 10). Esso è atto di verità e giustizia, dal momento che chi vi è sottoposto permane in tali due disposizioni contro l’assalto dei persecutori, ed è sostenuto e sublimato in ogni momento del suo svolgimento dalla carità. Questa ne è infatti il primo e principale movente, ne rende possibile la realizzazione comandandone l’atto e ne costituisce il vero vincolo di perfezione, poiché è solo tramite la carità che l’uomo può affrontare la prova suprema di rinunciare a quanto di più prezioso possiede, ovvero il dono della vita23. Il martirio è inoltre un atto di obbedienza perfetta, sull’esempio di Cristo che fu obbediente fino alla morte di croce (cfr. Fil. 2,8). L’Aquinate specifica in modo esplicito che la morte è necessaria perché ci sia martirio; la testimonianza della fede avviene infatti anche allo stato precedente di cattura, imprigionamento e tortura, ma finchè rimane la vita corporale

22 L’edizione consultata è la seguente: Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Cinisello Balsamo, 1988². I cinque articoli di cui si compone la riflessione intorno al martirio sono: 1. Utrum martyrium sit actus virtutis; 2. Utrum martyrium sit actus fortitudinis; 3. Utrum martyrium sit actus maximae perfectionis; 4 Utrum mors sit de ratione martyrii (de poena martyrii); 5. Utrum sola fides sit causa martyrii (de causa martyrii).

23 Cfr. B. Mondin, «Martirio», in Id., Dizionario enciclopedico del pensiero di san Tommaso d’Aquino, Bologna, 2000², pag. 416.

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l’uomo non può dimostrare compiutamente il disprezzo dei beni presenti a beneficio di quelli futuri e invisibili. L’architettura tommasiana assume un valore fondamentale: mentre i Padri precedenti scrivono in un’epoca in cui ancora infuriano le persecuzioni, ed hanno prevalentemente lo scopo di tramandare la memoria di ciò che è stato, la riflessione contentuta in Summa theologiae diventa volontà di sistematizzare, di inquadrare la questione del martirio nell’ambito della teologia e dell’ecclesiologia, dandole un ruolo chiaro nell’edificio della scienza sacra, all’interno di una quaestio di cui non solo si cerca di dare una definizione esatta, ma anche di indagare le cause e gli effetti, l’estensione e il grado di perfezione. Tommaso attua così una sintesi efficace tra la tradizione del pensiero greco sulla virtù e quello cristiano sull’agape. Il progresso che egli fa segnare in questo senso è quello di aver spostato l’attenzione dalla pena alla causa: non è più centrale il dato oggettivo della persecuzione, bensì quello della motivazione, ovvero dei meccanismi spirituali che portano al martirio, sostanzialmente identificati con uno slancio di carità, il più genuino ed ardente. Superata la questione della definizione, la presenza dei martiri diviene un potente mezzo di coesione all’interno della Chiesa, e uno strumento efficacissimo di evangelizzazione e di ammaestramento alla fede. Il culto, che, come visto, già nel Martirio di Policarpo viene incoraggiato e giustificato, si configurò sin dagli esordi come un segno polisemantico e polifunzionale. Esso ebbe innanzitutto una finalità apologetica, che faceva del martire un testimone di fronte al mondo pagano, e, in secundis, assunse la funzione ecclesiastica- tutt’ora presente- tesa all’edificazione della Chiesa, dovuta al fatto che il martire è per i fratelli esempio di coraggio e di fede, che le sue parole sono ricordate come provenienti direttamente da Dio e che egli invia messaggi alle comunità cristiane, in modo diretto o indirettamente tramite gli Acta riguardanti la sua morte. Il martirio ha però anche una grande forza

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mistica, che coopera all’edificazione del corpo ecclesiale di Cristo, poiché il martire è in seno alla Chiesa un segno della presenza divina e un pegno che rassicura i credenti circa la fedeltà di Dio alle promesse fatte. Un ultimo, importante compito del martire è infine legato alla missione che egli assume in vista della realizzazione del Regno: esso non solo attesta la realtà permanente dell’azione di Dio nella Chiesa, ma diventa anche precursore della parusìa, segno visibile del giudizio ultimo.

Nella spiritualità della Chiesa antica, infatti, l’ideale del martirio fu uno dei riferimenti più importanti soprattutto poiché il battesimo nel sangue veniva considerato l’unico mezzo certo di raggiungere direttamente Dio senza dover attendere la resurrezione dei corpi. In quest’ottica il martire cristiano non era diverso dall’eroe pagano,24 tanto da divenire oggetto particolare di devozione, al primo posto della gerarchia carismatica dei fedeli in Cristo. Parimenti a quanto accadeva per gli eroi pagani, inoltre, l’anniversario della morte dei martiri veniva celebrato non solo da familiari ed amici ma da tutta la comunità riunita25. Questo atteggiamento di devozione post mortem, a differenza di quanto accadeva per gli eroi, era d’altronde il naturale prolungamento di una particolare cura ed attenzione che i gruppi di fedeli presenti nel luogo in cui avvenivano l’arresto e la condanna iniziava a nutrire, come visto, già dagli ultimi momenti di vita dei cristiani imprigionati. I confessori venivano assistiti materialmente e spiritualmente dai fratelli nella fede, in modo speciale dai diaconi.

Due di essi, Terzo e Pomponio, ottenero, ad esempio, che Perpetua potesse allattare il suo bambino, e che i compagni fossero trasferiti per qualche tempo in un luogo più areato ove si potesse respirare

24 Cfr. J. S. Lasso De La Vega, Heroe griego y santo cristiano, Madrid, 1962, trad.

it., Eroe greco e santo cristiano, Brescia, 1968.

25 Cfr. E. Paoli, La santificazione e la celebrazione del tempo: agiografia e liturgia, in «Sentimento del tempo e periodizzazione della storia del Medioevo. Atti del XXXVI Convegno storico internazionale (Todi, 10- 12 ottobre 1989)», Spoleto, 2000, pp. 213- 232.

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meglio,26e Origene, ancora giovane, si distinse nel servizio ai martiri di Alessandria d’Egitto durante la persecuzione di Settimio Severo27. Il vescovo di quella città, Dionigi, al tempo della persecuzione di Valeriano segnalò l’esempio di alcuni sacerdoti che affrontarono il pericolo pur di assistere i confessori o di seppellire i martiri,28 e Cipriano si preoccupava di raccomandare al clero l’esercizio fattivo della carità, anche con elargizioni di denaro, verso coloro arrestati a motivo della fede29.

3.2. Il valore del martirio nella letteratura neotestamentaria.

Si è visto che il lessico relativo all’ambito della martirologia e la definizione concettuale dei suoi termini si sviluppano a partire da alcuni documenti che costituiscono, di fatto, l’esordio della letteratura agiografica e che muovono i loro passi da alcune realtà ecclesiali vicine ai luoghi delle persecuzioni, mosse dalla volontà di creare una sorta di “rete” tra Chiese sorelle attraverso la condivisione del ricordo e la testimonianza. Se è vero però che il marturiéon diventa oggetto specifico di riflessione a partire da questa realtà storica, è altrettanto evidente che esso è testimoniato nella prassi a partire dalla letteratura neotestamentaria, in particolare in quella posteriore ai Vangeli, avente come archetipo il racconto della Passione. In questo contesto, la materia sinottica si distingue da quella giovannea, e tutta si segnala per la non sistematicità dell’argomentazione teologica e la presenza cursoria, in essa, di quella semantica della testimonianza destinata poi ad evolversi e a fissarsi nelle forme successive, dotata però di un’importanza decisiva rispetto all’influenza esercitata sui redattori delle Passioni e degli Atti, proprio a motivo della sua autorevolezza.

Si cercherà, pertanto, di dare una lettura critica degli elementi

26 Passione di Perpetua e Felicita, III.

27 Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, VI, 3, 3, 4

28 Eusebio di Cesarea, cit., VII, 11, 24- 25.

29 Cipriano, Lettera 5, I, 2.

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linguistici e metacognitivi specifici reperibili all’interno di questo vasto orizzonte, allo scopo di individuare con chiarezza il background culturale dei cronisti di cui si è parlato sopra.

- Il valore della “testimonianza” negli autori dei Vangeli sinottici.

Quando gli evangelisti scrivono, alcuni cristiani hanno già versato il loro sangue per rimanere fedeli a Gesù Cristo: Stefano è morto per lapidazione, Giacomo è caduto sotto la spada dei persecutori, Paolo è stato decapitato a Roma e lì Pietro è finito sulla croce. Alla luce di questi eventi, nei Vangeli è dunque contenuta una riflessione su tutti quegli avvertimenti che Gesù aveva dato nel corso della sua vita terrena, ovvero i loghia sulle persecuzioni future dei discepoli, ma anche su ciò che la comunità cristiana aveva iniziato a sperimentare sulla propria pelle. A ciò si deve premettere, per comprendere a pieno quanto espresso in ciascuno dei documenti presi in esame, che tutta la teologia biblica della testimonianza si fonda in larga parte sulla tradizione maccaibica30. All’interno dei sinottici la semantica del martirio subisce, da Marco a Luca, un certo grado di evoluzione, nel senso di una maggiore connotazione dei termini. Nel Vangelo di Matteo il gruppo marturei%n, martuérion, maértuv, ha quasi sempre una valenza giuridica, nel senso di una testimonianza o una prova che può dimostrare o documentare un fatto o una verità; non è mai esplicitata l’idea del soffrire o del morire in connessione con tali termini. Concettualmente, l’orizzonte della prova inizia tuttavia a delinearsi: più di Marco, Matteo si interessa infatti della persecuzione che subiscono gli apostoli di Gesù a causa della predicazione (cfr.

30 Su questo aspetto cfr. M. De Jonge, Jesus’ death for others and the death of the Maccabean martyrs, in T. Baarda et al. (edd.), Text and testimony, «Essays on New Testament and apocriphal literature in honour of A.F.J. Klijn», Kampen, 1988, pp.

142- 151.

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tutto il passo Mt 10, 17-22);31 per questo motivo egli non passa sotto silenzio la “vocazione al martirio” propria di ogni cristiano (Mt 16, 24- 28) né l’afflizione che deve procedere la fine del mondo (Mt 24,9). Sebbene Matteo non usi ancora il verbo nel senso di morire per Cristo, il contesto giudiziario che esprime prove a carico o a discarico dovette tuttavia porre il linguaggio cristiano in una situazione nuova nel momento in cui i discepoli di Gesù furono consegnati ai tribunali ebraici, flagellati nelle sinagoghe e condotti davanti ai governatori a motivo della loro fede. Il Vangelo di Marco dà centralità alla questione della croce: ad essa è rivolto fin dall’inizio il cammino che Gesù compie dalla Galilea a Gerusalemme,32 e diviene esplicito nel racconto il fatto che quanto Egli subirà da parte degli avversari, comprese le minacce di morte, rende perspicua la sua obbediente accettazione e prepara i discepoli a questo destino. Marco di preferenza usa il termine marturiéa a proposito dei testimoni mendaci che tentano di deporre contro Gesù di fronte al pretorio (cfr. Mc 14, 55-59). D’altra parte, lo stesso Marco identifica come martuérion contro gli avversari del Vangelo la polvere che i predicatori missionari dovranno scuotersi da sotto i sandali ogni volta che troveranno ostilità o resistenza ai loro insegnamenti nei villaggi visitati. Nel libro di Luca si legge come intento fondamentale quello di spiegare come Gesù sia diretto decisamente verso Gerusalemme, luogo della sua morte infamante sul patibolo della croce, ma anche luogo della totale e definitiva sconfitta della morte stessa, da Lui attuata con la potenza della resurrezione33. A partire da 9, 51 la missione intera del Cristo viene presentata come un viaggio- salita verso Gerusalemme, e si

31 Cfr. A questo proposito J. Dupont, La persécution comme situation missionarie (Marc 13, 9- 11), in Die Kirche des Anfangs, «Festschrift für H. Schürmann», Freiburg- Basel- Wien, 1978, pp. 97- 114; Leipzig, 1977.

32 Cfr. E. Manicardi, Il cammino di Gesù nel Vangelo di Marco, Schema narrativo e tema cristologico, Roma, 1981.

33 Cfr. B. E. Beck, Imitatio Christi and the Lucan Passion narrative, in W. Horbury- B. McNeil (edd.), Suffering and martyrdom in the New Testament, Cambridge, 1981, pp. 28- 47.

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prospetta come la Chiesa debba ricalcare questo cammino determinato verso la propria Gerusalemme, dove anch’essa troverà, dopo la sofferenza, la propria rinascita. A proposito del lessico della testimonianza, in Luca si trovano alcune importanti novità linguistiche34. Caratteristico di questo evangelista è infatti l’uso del termine maérturev per identificare coloro che sono testimoni della realizzazione, in Gesù, del messianismo ebraico espresso nelle Scritture, del fatto che Egli sia morto e risorto e perdoni i peccati di chi si converte. L’ampliamento semantico non è di lieve entità, poiché dall’ambito estremamente giuridico si passa a quello spirituale. La progressione attuata diventa ancora più evidente negli Atti: in generale è infatti presente in questo libro la chiara consapevolezza del fatto che la comunità cristiana nel suo complesso è chiamata alla marturiéa di Gesù,35 e che incontra e sperimenta l’opposizione ed il rifiuto che il messaggio del Cristo morto e risorto suscita sia nell’ambito giudaico che in quello pagano36. Stefano viene definito maértuv nel senso già non più generico di “testimone” ma in quello specifico di chi dà la propria vita per la testimonianza37. Ciò emerge con sempre maggiore evidenza nella seconda parte del libro, dove diventa prevalente la figura di Paolo, tanto che la seconda parte degli Atti nel suo complesso è stata chiamata addirittura proprio un “libro su Paolo”38. In lui Luca esplicita il concetto di come la marturiéa sia compito specifico prima

34 Cfr. R. Filippini, Per una teologia lucana della testimonianza. Un’indagine nel libro degli Atti degli Apostoli, in P. Ciardella- M. Gronchi (edd.), Testimonianza e verità. Un approccio interdisciplinare, Roma, 2000, pp. 101- 118.

35 Cfr. A. Bottino, La testimonianza nel libro degli Atti, in R. Fabris (ed.), La parola di Dio cresceva (At 12, 24). Scritti in onore di Carlo Maria Martini nel suo 70ºcompleanno, Bologna, 1988, pp. 321- 343.

36 Su questo aspetto cfr. G. Betori, Perseguitati a causa del Nome. Strutture dei racconti di persecuzione in Atti 1, 12- 8, 4, «Analecta Biblica», 97, Roma, 1981.

37 Cfr. A. Barbi, Il martirio di Stefano (At 6, 8-15; 7, 55- 8, 3), in «PSV», 32, 1996, pp. 143- 157; M. E. Boismard, Le martyre d’Etienne. Actes 6,8- 8,2, in «RSR», 69, 1981, pp. 181- 194.

38 Cfr. B. Prete, La testimonianza dei dodici e la testimonianza di Paolo negli Atti degli Apostoli, in E. Franco (ed.), Mysterium Regni, ministerium Verbi (Mc 4,11; At 6,4). Scritti in onore di mons. Vittorio Fusco, Bologna, 2000, pp. 529- 553.

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del collegio dei dodici,39 poi di chi, accolta la buona notizia, si pone a sua volta come apostolo, destinato alla diakoniéa tou% loégou. Con il termine maérturev, sempre al plurale, vengono dunque identificati i testimoni oculari della risurrezione di Gesù e del messianismo attuato nella sua persona, ovvero gli Apostoli (Atti, 1,8; 2, 32; 3,15; 4, 33;

13,31), ma nel corso del libro, Luca arricchisce di particolari la definizione di “testimone” circostanziandola sempre più precisamente:

il maértuv è un discepolo che può testimoniare di aver conosciuto Gesù da quando incominciò a predicare dopo il battesimo al Giordano e di averlo visto risorto (Atti 1,22); è colui che si sente eletto da un disegno particolare di Dio per essere vissuto con Cristo, aver mangiato e bevuto con Lui dopo la sua resurrezione (Atti 10, 41). Oltre a riferirsi in modo privilegiato ai Dodici, Luca indica e implica quindi anche il dono dello Spirito ed un ufficio speciale nella Chiesa40. Stefano e la sua tragica fine fungono da ulteriore criterio guida: se è vero che l’esperienza apostolica è vista come un momento unico di grande entusiasmo, sostenuto dal dono carismatico della fede, è anche vero che quando un credente riesce a dare testimonianza del suo vissuto spirituale a costo della vita, diventa egli pure un testimone privilegiato, il cui prestigio può essere considerato del tutto analogo a quello degli Apostoli. Colui che rende l’anima a Dio per la sua fede in Cristo dopo un processo di condanna, continua il mistero apostolico ed è un successore dei Dodici nel vero senso del termine.

39 Cfr. J. Zumstein, L’apôtre comme martyr dans les actes de Luc. Essai de lecture globale, «Revue de Théologie et de Philosophie», 112, 1980, pp. 371- 390.

40 “Gli apostoli sono servi (dou%loi) del Signore; il loro compito è un servizio (diakonia); il servizio consiste nell’essere testimoni (maérturev)” G. Betori, Affidati alla Parola. Ricerche sull’opera di Luca, Bologna, 2003, pag. 202.

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• Il valore della testimonianza nel quarto Vangelo.

Alla letteratura giovannea spetta un posto del tutto originale. Per quanto riguarda il quarto Vangelo, quello dei segni e dell’ora, è indubbia la posizione centrale che occupa in esso la teologia dell’incarnazione: ne è infatti il nucleo tematico fondante l’immolazione di Gesù quale nuovo Agnello pasquale, manifestazione dell’amore del Padre per il mondo e della sua gloria41. Il cuore dell’annuncio giovanneo consiste dunque nell’espressione di fede verso Il Figlio unigenito, che è venuto per fare la volontà del Padre e per offrire la sua vita affinchè chiunque creda in lui abbia la vita eterna42. All’interno del libro riscontriamo un uso significativo dei termini maértuv e martuéria, i quali non possiedono il significato teorico tradizionale, ma offrono comunque importanti indicazioni a livello teologico sul tema della sofferenza e della testimonianza.

Emerge innanzitutto, coerentemente a quanto detto, che la prima e fondamentale martuéria è quella di Gesù che testimonia il suo rapporto assoluto con il Padre e che, attraverso tale azione, apre all’uomo la possibilità di essere accolto in questa relazione d’amore.

La Sua particolarissima testimonianza non può essere disgiunta da quella dei discepoli che, sostenuti dallo Spirito, sono chiamati a renderla di fronte al mondo incredulo e ostile, che tende a rifiutare chiunque non appartenga ad esso. Il paradosso che deriva da una tale malevolenza è il processo subito da Gesù, che, imputato del tutto innocente, si trasforma in giudice dei propri accusatori. La marturiéa del Cristo culmina così nell’offerta volontaria della propria vita, per comunicare l’esistenza che Egli ha presso il Padre; questo sacrificio è il fondamento su cui anche i Dodici sono chiamati ad immolare loro

41 Cfr. X. Léon- Dufour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, Cinisello Balsamo, 1988- 1996.

42 Cfr. a tale proposito B. Maggioni, La vita nel Vangelo di Giovanni, «PSV», 5, 1982, pp. 127- 146.

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stessi per il Maestro, come Pietro, che si lascia docilmente condurre ad una morte glorificatrice di Dio43. All’interno del capitolo tre, Giovanni sottolinea come la testimonianza di Gesù si qualifichi per ciò che Egli rivela rispetto a quanto “visto” ed “udito” nel Padre, rispetto al quale è in un atteggiamento di ascolto obbediente: non uno stato di distaccata contemplazione o di fedele registrazione delle parole da Lui pronunciate, bensì attivo coinvolgimento nell’attività vivificatrice di Dio compiuta attraverso lo Spirito. Così l’evangelista sottolinea che la testimonianza non è l’esposizione di un verbale di stampo burocratico, ma la gioiosa accoglienza di una realtà che dona se stessa, e che si definisce in senso pneumatologico: è lo Spirito che genera il Figlio a fondare la possibilità e lo spazio della testimonianza.

Cielo e terra vengono così dipinti non come due realtà ontologiche in opposizione tra di loro, ma come due entità in relazione, in opposizione “dinamica”: l’Unigenito che viene dall’alto dà infatti la possibilità a tutti gli uomini di diventare figli di Dio e dunque di partecipare alla sfera celeste seppure appartenenti a quella mondana.

Se vi fosse un’incomunicabilità radicale, un conflitto di senso metafisico tra cielo e terra, non si darebbe infatti nessuna testimonianza di salvezza, ma solo un giudizio di condanna, a ribadire la tragica, insuperabile distanza tra l’alto e il basso. Ascoltare la parola di Gesù e credere nel Padre che lo ha mandato equivale ad un unico e medesimo movimento, che consente il passaggio dalla morte alla vita.

Questa viene comunicata agli uomini, ma in modo tale da non imporsi, poiché deve essere lasciata alla libera accoglienza. In contrapposizione alla missione salvifica della testimonianza di Gesù, troviamo in Giovanni la consapevolezza di un movimento contrario di odio radicale verso la sua predicazione, che viene discusso all’interno

43 Cfr. F. Macrei, Dalla presunzione all’amore: la sequela di Pietro nel Vangelo di Giovanni, «ASP», 49, 2002, pp. 519- 534.

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del capitolo quindici44. Il brano evoca un problema contingente, quello dell’espulsione dalla sinagoga, che comportava una messa al bando della società, ma si allarga poi ad una considerazione più generale: il mondo ama ciò che gli è proprio, toè i!dion, e per questo non può amare né Cristo né i suoi discepoli, che Egli ha eletto dal mondo ma che ad esso non appartengono perché posseggono un’essenza celeste.

La persecuzione che incombe su di loro è a causa del nome di Gesù,45 nella sua identità essenziale e missione di salvezza, ed è in una tale dimensione che viene promesso lo Spirito come mezzo unico di testimonianza della Verità coram mundo e contra mundum46. La decisione di uccidere il Messia avviene durante la festa della dedicazione; il contrasto radicale tra la prospettiva del mondo e quella divina è dunque espressa nella decisione delle massime autorità religiose di Israele, a corollario dello scontro tra Gesù e i Giudei che è raccontato lungo tutto il libro. I discorsi catechetici che anche nell’ultima parte del Vangelo vengono inseriti sono perciò formulati da Giovanni come risposta alle polemiche sorte con la teologia ebraica, tesi perlopiù a sciogliere i dubbi circa l’autentica identità di Gesù di Nazareth. Nell’esplicitare tali contenuti, il quarto evangelista stabilisce un parallelismo prolungato tra il Battista, ultimo profeta del mondo ebraico, e il Cristo: Giovanni è maértuv del fatto che Gesù è la Luce, che è più grande di lui, che esisteva prima di lui, che ha ricevuto il dono dello Spirito e che perciò è il Figlio di Dio, il Messia nei confronti del quale egli deve fungere solo da precursore. In tale contesto Giovanni stesso è il testimone della verità perché riconosce e

44 Cfr. B. Lindars, The persecutions of Christians in John 15: 18- 16: 4 a, in. W.

Horbury, B. Mc Neil (edd.), cit., pp. 48- 69.,

45 Cfr. J. P. M. Sweet, Maintaining the testimony of Jesus: the suffering of Christians in the Revelation of John, in W. Horbury, B. McNeil (edd.), cit., pp. 101- 117.

46 “Il Paraclito rappresenta la presenza di Gesù in mezzo agli uomini; e nell’odiare i discepoli che sono la dimora del Paraclito, il mondo cerca di contrastare la continua presenza di Gesù sulla terra. In virtù della presenza in essi del Paraclito, i discepoli rappresentano Gesù contra mundum”. R. E. Brown, Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, Assisi, 1979, pag. 843.

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si sottomette alla messianicità di Cristo. Si può perciò concludere che nel quarto Vangelo la testimonianza è connotata come un dire quel che si conosce e attestare quello che si è visto non solo per Gesù, ma per ogni uomo di buona volontà. In questo senso, accanto a quella del Battista vengono poi ricordate altre “testimonianze” specifiche, come le “prove” della Scrittura (Gv. 5, 39), il sangue e l’acqua usciti dal costato di Cristo crocifisso (Gv. 19, 35), e l’attività letteraria dello stesso Giovanni (Gv. 21, 24). Queste hanno funzione teologica ed insieme apologetica, perché sono richiamate per indurre gli uomini a credere che Gesù è il figlio di Dio.

In sintesi, l’elemento di spicco della teologia giovannea è l’insistenza sulla testimonianza del Padre, ovvero sull’autocoscienza di Gesù che assicura di essere stato inviato da Dio e di essere uguale a Lui, l’affermazione di una compenetrazione tra Cristo e Dio che chiude il discorso teologico. Questa stessa certezza interiore posseduta da Gesù dà il via, nella vita del fedele, ad un nuovo tipo di esperienza spirituale: la comunicazione dello stesso convincimento da parte dello Spirito. La rassicurazione da Esso donata al credente circa la persona del Cristo significa attestare, al di là di ogni umano dubbio interiore, che la persona del Messia merita una totale e fiduciosa adesione, resa incrollabile proprio a motivo della martuéria offerta dallo Spirito.

• Il valore della testimonianza nelle lettere paoline

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Il luogo sorgivo dell’intera teologia paolina è la croce di Cristo, manifestazione paradossale e sconvolgente della grandezza di Dio47. Il senso fondante di tutta l’epistolografia è l’esortazione alla sua accoglienza e ad un coinvolgimento esistenziale personale, che si faccia sempre più profondo ed intimo48. A determinare questo orientamento concorse certamente l’esperienza sulla via di Damasco, narrata per ben tre volte negli Atti degli Apostoli, ma influisce in maniera ancora più decisiva anche l’eccesso proprio della croce, il suo essere radicalmente impensabile. Paolo condivideva il sentire giudaico, che provava repulsione ed orrore per un Messia crocifisso, poiché l’infelix lignum49 era pena riservata allo schiavo50, infamante secondo una tradizione condivisa anche dal mondo romano. Ma tale impensabilità era sentita da lui proprio come la più verace certificazione che l’evangelo non è un’artificiosa invenzione umana, ma l’irruzione nella storia di una logica che viene da fuori, dall’incontro con la trascendenza abissale di Dio, capace di ribaltare l’infamia del legno di maledizione in un messaggio di speranza mai prima udito51. Nel momento in cui- agli occhi dei pagani- sembra cioè che la morte abbia avuto la vittoria, la risurrezione del Cristo trionfa su ogni apparente sconfitta. La croce diviene così per Paolo kriésiv, poichè essa agisce come discrimine fra quanti si perdono e quanti si

47 Cfr. A. Pitta, Lo “scandalo della croce” e il centro della predicazione di Paolo,

«CredOg», 24, 2004, 143, pp. 35- 45; R. Penna, Logos paolino della croce e sapienza umana (1 Cor 1, 18- 2, 16), in I. Sanna, (ed.), Il sapere teologico e il suo metodo. Teologia, ermeneutica e verità, Bologna, 1993, pp. 233- 255; Ch. Reynier, Le langage de la croix dans le corpus paulinien, in J. Schlosser (ed.), «Paul de Tarse. Congrès de l’ACFEB (Strasbourg, 1995)», Paris, 1996, pp. 361- 373.

48 Com’è noto, e come si avrà modo di ribadire anche nelle pagine seguenti, l’immagine usata per indicare lo sforzo del credente verso la conquista del premio eterno è quella agonistica. Sul tema si può leggere, per un’introduzione generale: V.

C. Pfitzner, Paul and the agôn motif. Traditional athletic imagery in the Pauline literature, «Novum Testamentum», Supplementum 16, Leiden, 1967.

49 Cfr. Seneca, Epistola 101, 14 in Id., Ad Lucilium epistulae morales, II, a cura di L.

D. Reynolds, Oxford, 1965, pag. 424.

50 “Et nomen ipsum crucis adsit non modo a corpore civium romanorum sed etiam a cogitatione, oculis, auribus”, Cicerone, Pro Rabirio perduellionis reo ad Quirites oratio 4, 16 in Id., Orationes, IV, a cura di A. C. Clark, Oxford, 1909.

51 Cfr. G. Barbaglio, Il pensare dell’apostolo Paolo, Bologna, 2004, pag. 120.

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