• Non ci sono risultati.

Il lessico dei colori in Eschilo: simbolismi e sinestesie

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Il lessico dei colori in Eschilo: simbolismi e sinestesie"

Copied!
154
0
0

Testo completo

(1)

DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

Corso di Laurea in Filologia e Storia dell’Antichità

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

Il Lessico dei Colori in Eschilo:

Simbolismi e Sinestesie

CANDIDATO

RELATORE

Martina Bramato

Chiar.ma Prof.ssa Maria Bertagna

CONTRORELATORE

Chiar.ma Prof.ssa Maria Michela Sassi

(2)

INDICE

Premessa I

Introduzione V

Parte prima. La “teoria dei colori” dai Presocratici ai giorni nostri

1. Il colore nel mondo greco: la storia della questionein epoca moderna

1.1 Lo status quaestionis 1

1.2 Goethe versus Newton 2 1.3 L’inizio canonico della questione (1858) nel quadro delle teorie evoluzionistiche 3 1.4 Lo sviluppo della questione: il XX secolo tra darwinismo e relativismo 4 1.5 L’indirizzo degli studi sulla questione oggi 8 2. Il colore nel mondo greco: le teorie sul colore fra i Presocratici e Aristotele

2.1 I colori come espressione del sensibile e l’importanza di luce e oscurità 10 2.2 Democrito e la struttura quantitativa della realtà sensibile 15

2.3 Platone e la visione dei colori 16

2.4 Aristotele, Teofrasto e il De coloribus 19 Parte seconda. Il lessico dei colori in Eschilo

3. I colori di Eschilo: l’impiego del lessico cromatico afferente all’area del bianco/luminoso

3.1 La formazione del valore semantico dei termini greci di colore 28 3.2 Il lessico cromatico eschileo afferente all’area della luce

(a) Λευκός 32 (b) Ἀργός 34

(3)

(c) Ξανθός /ξουθός 35

3.3 Luce e colore 38

3.4 Luce, colore e movimento 44

3.5 L’interferenza colore-suono: il caso di ξουθός in Ag. 1142 47 4. I colori di Eschilo: l’impiego del lessico cromatico afferente all’area del nero

4.1 Il lessico cromatico eschileo afferente all’area cromatica del “nero-scuro”

(a) Μέλας 54

(b) Κελαινός 55

(c) Differenze tra μέλας e κελαινός 55

(d) Termini “minori” (δνοφερός, κνεφαῖος, ἐρεμνός) 57 4.2 L’ἐναντιότης. Metafore, simbolismi e colori 58 4.3 Lana bianca e pelle scura: il caso delle Danaidi 60 4.4 Il giorno e la notte: il resoconto di Salamina 69 4.5 Dèi celesti e dèi Inferi: il caso delle Erinni/ Eumenidi 74 5. Cap. 5. I colori di Eschilo: l’impiego del lessico cromatico afferente all’area del rosso

5.1 Il lessico cromatico afferente all’area del “rosso-viola”

(a) ̓Ερυθρός 93

(b) Φοινός, δαφοινός , φοίνιος, φοῖνιξ 94

(c) Ἁλουργής 95

(d) Πορφύρεος 96

(e) Raffronti tra φοῖνιξ e πορφύρεος 101

5.2 La “porpora”: valore “sinistro” e collegamento con la tecnica 103 5.3 Le Eumenidi: ἐρυθρὸν πέλανον di 265 e la scena finale del dramma 118

(4)

Conclusioni 127

Bibliografia 129

(5)

Parte prima.

(6)

1

Cap. 1. Il colore nel mondo greco: la storia della questione in epoca moderna

1.1 Lo status quaestionis

Prima di intraprendere l’analisi dei termini e delle definizioni di colore nelle tragedie di Eschilo mi pare opportuno tracciare un quadro delle interpretazioni date delle percezioni del colore nel mondo greco, interpretazioni che si avvalgono, con produttivo intreccio, di considerazioni fisiche, fisiologiche, cognitive, linguistiche e letterarie1.

L’uso dei termini di colore nei poeti greci appare difficilmente comprensibile per chi, come noi, è abituato a denominazioni che individuano più nettamente le tinte. Infatti, la nostra nomenclatura relativa al colore è andata organizzandosi in un sistema astratto di riferimento e in una struttura coerente di per sé, indipendentemente dalle cose2; per il lessico greco dei colori, come vedremo,

non è stato esattamente così. Per questo motivo, occorrerebbe ribaltare il nostro punto di vista sulla percezione cromatica se vogliamo comprendere quella antica senza cadere nell’errore (come è stato fatto) di giudicarla manchevole. Alla luce di ciò va considerato il fatto che solo raramente i tentativi di trasposizione nelle nostre lingue moderne riescono a cogliere le notazioni di colore della lingua greca. Per fare solo un esempio, il più famoso: in Omero il mare non è mai descritto da un termine che possa suggerire una tonalità blu-azzurra; è stellato, di ferro, di bronzo, di porpora o del color del vino, mai blu. Sull’impiego dei termini di colore nei poeti greci si è discusso animatamente a partire dai primi decenni del XIX secolo; il problema pare biforcarsi in due direzioni che possiedono, peraltro, punti in comune: quella della terminologia e quella della percezione.

Ripercorriamo le tappe più salienti della storia della questione.

1 Per queste prime pagine si veda in particolare Sassi1994, pp. 281-302, e Beta-Sassi 2001, pp. 9-23.

(7)

2 1.2 Goethe versus Newton

Il problema della percezione e della terminologia dei colori nell’ambito della poesia greca sembra essere stato sollevato inizialmente da Goethe nella sua Farbenlehre, pubblicata nel 18103. Nell’opera, Goethe prende le distanze dalle

conclusioni di Newton (che noi ancora oggi accettiamo), il quale nell’Ottica (1704) aveva ricondotto l’esperienza del colore a un dato fisico, ossia all’associazione da parte dell’osservatore della percezione cromatica a un fascio di luce che colpisce l’organo visivo4. L’autore della Farbenlehre, invece, si sente

piuttosto in sintonia con il modo “soggettivo” di intendere il colore dei Greci: la visione è un’esperienza psicologica tout court; bianco e nero sono dei colori a tutti gli effetti (non la somma di tutti – il primo – né la loro totale assenza – il secondo – come sostiene Newton) posti ai poli della gamma cromatica, dalla cui variabile mescolanza nascono le diverse tinte; fattore fondamentale nel processo visivo è la luce che, presente nell’occhio stesso e in interazione con quella esterna, causa il fenomeno della percezione5. Tale presa di posizione

antinewtoniana non ebbe certamente seguito, tuttavia la Teoria dei colori contiene delle interessanti osservazioni sulla “mobilità” e l’“oscillazione” del vocabolario cromatico dei Greci, destinate ad essere riprese dagli studi successivi. Tale carattere “mobile” (come lo intende Goethe) si traduce nell’impossibilità di distinguere nettamente le varie aree cromatiche nella terminologia greca (un’opinione che possiamo condividere anche noi, ma che dipende esclusivamente dal nostro modo di intendere il colore) che, a sua volta, fa desumere all’autore della Farbenlehre che i Greci non avessero molto

3 Il contributo di Goethe consiste di fatto in un’ampia e meditata scelta di passi che esemplificano, a suo dire, le principali riflessioni sul colore dagli antichi fino all’età a lui contemporanea.

4 Cfr. Sassi 2001, p. 12: “secondo Goethe, Newton ha ridotto l’esperienza del colore a un arido dato fisico, togliendogli l’incanto della soggettività”.

5 Cfr. Sassi 1994, pp. 283 sgg.: “da un’analisi acuta dell’uso linguistico, Goethe desume che gli antichi avessero scarso interesse per un’esatta discriminazione delle tinte. (...) Egli nota che i Greci danno particolare importanza all’autonoma attività dell’organo, in quanto dotato di luce che nel processo visivo interagisce con quella esterna. (...) Si colloca su questo sfondo la tendenza antica a derivare i colori da una mescolanza variabile di bianco e nero, trattati come colori essi stessi. Quest’idea si pone agli antipodi di quella newtoniana, dedotta dalla scomposizione prismatica della luce, per cui tutti i colori mescolati producono il bianco: questa è per Goethe un’assurdità che si è abituati a ripetere fiduciosamente ma che è in contrasto con la testimonianza degli occhi”. Per approfondimenti vedi Farulli 1998.

(8)

3

“interesse” nella discriminazione esatta delle tinte. Come vedremo, Goethe coglie nel segno, e in parte anticipa posizioni che verranno riprese successivamente, ma in un clima culturale diverso, quello dell’evoluzionismo, che tuttavia finirà per sminuire il modo di intendere il colore dei Greci, scorgendo in esso un segno di “arretratezza” fisiologica e culturale.

1.3 L’inizio canonico della questione (1858) nel quadro delle teorie evoluzionistiche6

Una facile e sbrigativa soluzione al problema sembra essere fornita dall’impostazione evoluzionistica che caratterizza l’indirizzo degli studi sulla questione fino alla fine del XIX secolo. Questa corrente di pensiero, che vede la sua canonica affermazione a partire dal 1859 (anno di pubblicazione di On the Origin of Species di Charles Darwin), circola in realtà dai primi decenni del secolo in una temperie già evoluzionista, che vede in ogni momento culturale un’evoluzione dal semplice al complesso, dal povero al ricco, da un meno a un più. In questo clima, infatti, va collocata l’opera di William Gladstone, Studies on Homer, pubblicata nel 1858, che rappresenta un punto di svolta e quello che viene considerato l’“inizio canonico” della storia della questione. Nel capitolo del suo lavoro che si intitola “Homer’s Perceptions and Use of Colour”, Gladstone rileva sin da subito la scarsezza e l’indefinitezza del lessico cromatico greco in Omero ed elenca quelli che definisce i suoi “segni di immaturità”7. I punti su cui

lo studioso nutre delle perplessità sono molteplici: in particolare egli ritiene (e lo sottolineerà più volte nel corso dell’argomentazione) che il lessico cromatico omerico non tenga conto di tutti i colori prismatici, finendo per soffermarsi sui poli del bianco e del nero, e che ci sia una sorta di “vaghezza” nelle designazioni del verde e del blu (quest’ultimo aspetto fa giungere Gladstone alla

6 Per la rassegna di vedute critiche che segue ho consultato Irwin 1974, pp. 3 sgg.; Sassi 1994, pp. 281 sgg.; Beta-Sassi 2001, pp. 9 sgg.; Bradley 2009, pp. 12 sgg. Grand-Clément 2011, pp. 11 sgg.

7 Gladstone 1858, p.458: “among the signs of immaturity which I have mentioned, the following are found in the poems of Homer: I. The paucity of his colours. II. The use of the same word to denote not only different hues or tints of the same colour, but colours which, according to us, are essentially different. III. The description of the same object under epithtes of colour fundamentally disagreeing one from the other. IV. The vast predominance of theh most crude and elemental forms of colour, black and white, over every other, and the decided tendency to treat other colours as simply intermediate modes between these extremes”.

(9)

4

conclusione che l’organo della vista in Omero non sia sviluppato come il nostro8

ma tenda a non percepire distintamente le varie tinte e ad essere, invece, spiccatamente sensibile alla luce). Una quindicina di anni dopo, il linguista Lazarus Geiger nella sua opera Zur Entwicklungsgeschichte der Menschheit del 1871 si assesta sulle medesime posizioni, dichiarando l’immaturità della visione cromatica dei Greci che, ai tempi di Omero, sarebbero stati in grado di percepire pienamente solo bianco, nero e rosso, e parzialmente verde e blu. Pochi anni dopo, nel 1877, lo stesso giudizio è ripreso dall’oftalmologo Hugo Magnus nel suo lavoro Die geschichtliche Entwicklung des Farbensinnes. Secondo Magnus il grado di funzionalità della retina nella percezione cromatica segue un processo evolutivo, per cui in un’epoca come quella dei Greci, sentita come relativamente “primitiva”, vengono percepiti i colori più ricchi di luce (bianco, rosso e giallo), mentre solo progressivamente, in epoche successive, la retina diventa in grado di cogliere anche i colori di intensità luminosa più debole (verde, blu, viola). Per parecchi anni, fino alle soglie del nuovo secolo, la critica rimane ferma su posizioni di stampo darwinista.

1.4 Lo sviluppo della questione: il XX secolo tra darwinismo e relativismo

Un lieve cambio di rotta si verifica a cavallo tra XIX e XX secolo con il progressivo (ma non totale!) abbandono del paradigma evoluzionistico: non si parla quasi più di anomalia fisiologica della percezione, ma avanza un nuovo atteggiamento improntato al relativismo, che investe in particolare l’antropologia e la linguistica. Nel 1879 il filosofo svizzero Anton Marty pubblica la sua opera sullo sviluppo storico del senso del colore (Die Frage nach der geschichtlichen Entwicklung des Farbensinnes), nella quale sostiene che i dati che gli studiosi (analizzando soprattutto l’epos omerico) considerano segno di una “scarsa abilità percettiva” degli antichi Greci non possono essere spiegati in termini darwiniani, ma anzi vanno ricollegati a esigenze poetiche che niente

8 Vedi Gladstone 1858, p. 457: “the facility with which we discriminate colour in all its marked forms is probably the result of traditional aptitude, since we seem to find, as we go far backward in human history, that the faculty is less and less mature”, e anche pp. 495-6: ”we are to learn that the perceptions so easy and familiar to us are the results of a slow traditionary growth in knowledge and in the training of the human organ, which commenced long before we took our place in the succession of mankind”.

(10)

5

hanno a che vedere con carenze fisiologiche. Negli stessi anni anche la psicologia comparata conferma questa tesi: Grant Allen nel suo studio del 1879 (The Colour Sense: Its Origin and Development. An Essay in Comparative Psycology), sulla base di un questionario sottoposto a popolazioni “primitive” e funzionale a indagare il loro sistema linguistico e percettivo, finisce per negare che esistano popoli fisiologicamente incapaci di distinguere i colori. Gli studi di Marty e di Allen paiono così arginare, almeno in parte, l’impostazione darwinista del problema.

Nel XX secolo – dopo la breve parentesi dell’analisi di Wolfgang Schultz (Das Farbenempfindungssystem der Hellenen 1904), che pone l’accento sull’anomalia della visione dei Greci, considerandoli addirittura “ciechi” ad alcune tinte (in primo luogo il blu) – l’indagine si sposta dal versante fisiologico a quello linguistico, e viene affrontato più efficacemente il problema della terminologia cromatica dei Greci. In un clima generale di relativo arretramento degli studi evoluzionistici si sono fatti strada, fra i filologi, forti dubbi sulla possibilità di trattare i modi dell’aggettivazione poetica come il riflesso meccanico di uno stato percettivo. Parallelamente anche la linguistica, abbandonata una concezione della lingua come organismo biologicamente determinato, porta sempre più l’accento sul condizionamento che le strutture linguistiche esercitano sul pensiero, favorendo o inibendo la distinzione fra i concetti e il loro ordinamento.

Prima di citare alcuni degli studi che si muovono su questa linea, avverto l’esigenza di fare un brevissimo accenno al sistema dei colori elaborato da Albert Henry Munsell proprio all’inizio del XX secolo (1905) e preso a modello dalle più recenti teorie sul colore. In base a tale sistema, i colori sono definiti a partire da tre coordinate dimensionali, ovvero la tonalità (Hue), la luminosità (Value) e la saturazione (Chroma). La tonalità del colore indica la posizione di questo nello spettro, la luminosità misura il grado di luce o oscurità della tonalità, infine la saturazione descrive l’intensità della tonalità. In base a tale sistema, gli studi novecenteschi hanno messo in evidenza la tendenza della lingua greca a preferire l’aspetto quantitativo delle notazioni cromatiche (la luminosità e la saturazione di Munsell) a quello qualitativo (la tonalità). Per

(11)

6

primo Maurice Platnauer, in un articolo del 1921 (Greek Colour-Perception), pur non citando apertamente il sistema di Munsell, accenna alla probabilità che la terminologia greca non esprima il colore nel significato che ha per noi (appunto la tonalità), ma solo l’effetto di maggiore o minore luminosità (il Value nel sistema di Munsell) prodotto dalla superficie di un oggetto9. Successivamente

anche Rita D’Avino10 esplorando la questione dal punto di vista etimologico,

sottolinea (come Platnauer) l’importanza del fattore “luminosità”: le radici da cui si originano i termini cromatici greci hanno un valore nettamente luministico, oltre che un referente concreto di partenza (sarebbe questo a veicolare in un secondo momento l’aspetto qualitativo del termine cromatico). In questo lavoro ritorna per certi versi (anche se solo dal punto di vista linguistico e non percettivo) un atteggiamento di stampo evoluzionistico: una lingua che appare dominata dal dato sensibile piuttosto che da quello logico-razionale (come sembra in questo caso quella greca) viene definita dalla D’Avino una lingua di “popoli primitivi”11. Parallelamente, proprio in questi anni (1969), viene

formulato uno schema evolutivo comune al vocabolario cromatico di ogni linguaggio ad opera dei due linguisti Brent Berlin e Paul Kay (Basic Color Terms. Their Universality and Evolution). Questi ultimi, analizzando ben 98 lingue, giungono a formulare l’ipotesi di uno schema evolutivo comune al vocabolario cromatico di ogni linguaggio, ricostruendo undici categorie cromatiche fondamentali, che apparirebbero in una sequenza temporale progressiva, articolata in sette stadi12, che potenzialmente si susseguono in questi due ordini

temporali:

9 Platnauer 1921, p. 162: “what seems to have caught the eye and arrested the attention of the Greeks is not so much the qualitative as the quantitative difference between colours”.

10 D’Avino 1958, pp. 99-134 (si tratta di un lavoro da cui ho preso particolarmente spunto, come si vedrà, per la futura analisi della poesia eschilea). In realtà, prima del lavoro della D’Avino, occorre ricordare quello di Alice Kober del 1933 (The use of color Terms in Greek Poets), in cui la studiosa si sforza, tuttavia, di indicare per tutti gli aggettivi di colore la “traduzione esatta”, quasi eludendo il problema più generale, e tralasciando le importanti conclusioni di Munsell. 11 D’Avino 1958, p. 101.

12 Berlin-Kay 1969, p. 104: “first, there exist universally for humans eleven basic perpetual color categories, which serve as the psychophysical referents of the eleven or fewer basic color terms in any language. Second, in the history of a given language, encoding of perceptual categories into basic color terms follows a fixed partial order”.

(12)

7

purple white red green yellow blue brown pink

black orange

grey purple white red yellow green blue brown pink

black orange

grey

Stando a tale schema, nel primo stadio (comune a tutte le lingue) emergono solo bianco e nero, poi, in ordine, emergono rosso (2), verde (3), giallo (4) – o giallo (3) e verde (4) – blu (5) , marrone (6), viola, rosa, arancio e grigio (7). Si tratta di un passo indietro nei confronti del relativismo linguistico, che ha suscitato ovviamente una discussione vivace fra gli addetti ai lavori. Linguisti e antropologi si sono suddivisi nell’adesione o meno alla nuova monumentale opera dei due studiosi, che può apparire come un revival delle spiegazioni evoluzionistiche degli universali.13 I due studiosi collocano il greco nello stadio

IIIb del loro schema evolutivo (caratterizzato dai colori bianco, nero, rosso e giallo o verde). Tuttavia non possiamo essere d’accordo con loro in quanto sappiamo dell’esistenza di termini come πορφύρεος o πολιός, che potrebbero essere ben collocati proprio nell’ultimo stadio individuato da Berlin e Kay14.

Dunque, nonostante l’impegno profuso e la mole di lavoro, l’approccio metodologico dei due linguisti non può dirsi corretto, almeno per quanto riguarda specificamente la nostra indagine: la nomenclatura cromatica greca,

13 Cfr. ad es. Collier 1973, p. 245.

14 Cfr. Raina 2001, pp. 27-8: “da un punto di vista semantico, a smentire alcune idee di povertà lessciale cavalcate da una certa critica di stampo evoluzionistico, si potrebbe dire che il greco copre ampiamente tutta la gamma cromatica da noi individuata, comprese forse le aree del blu e del marrone, a patto che non si vogliano incanalare i vari termini entro un casellario rigido che ponga delle barriere nette impedendo a un lessema di oscillare tra una tonalità e l’altra, e a patto che si facciano dei distinguo sul piano dellal diacronia e su quello dellal diafasia. Innegabilmente, però, alcune aree sono molto più rappresentate di altre”.

(13)

8

infatti, non si lascia rinchiudere nelle strette categorie da essi individuate, data la sua complessità e lo sviluppo diacronico.

1.5 L’indirizzo degli studi sulla questione oggi

Eleanor Irwin nel 1974 utilizza per la prima volta in modo consapevole il sistema di Munsell come modello di riferimento. Nel suo Colour Terms in Greek Poetry, la studiosa esprime la consapevolezza della necessità di reimpostare il problema in termini nuovi, ossia dal punto di vista della percezione psicologica. Riprendendo lo studio di Platnauer e il suo principio della preminenza del fattore “luce” nella definizione del sistema cromatico greco, la Irwin cerca di capire come i Greci percepivano i colori, focalizzando, inoltre, l’attenzione su quella che potremmo definire “sinestesia”, fenomeno che, secondo la studiosa, si riscontra di frequente nell’ambito della percezione cromatica all’interno della poesia greca15. Sulla scia del lavoro della Irwin, gli studi più recenti hanno

intrapreso percorsi nuovi nel tentativo di comprendere meglio l’impiego dei termini di colore per i Greci: in particolare è stata sottolineata la necessità di considerare il ruolo stilistico dell’aggettivo cromatico e le sue funzioni in base al contesto poetico in cui è inserito, mentre si è andata progressivamente consolidando la tendenza a non ricercare una precisa corrispondenza tra terminologia greca del colore e lingue moderne. Quest’ultimo punto è particolarmente importante per noi dal punto di vista metodologico16, in quanto

consono con quel principio relativistico per cui ad ogni cultura appartiene un suo proprio modo di denominare e classificare i dati della percezione sensoriale e, quindi, una specifica “esperienza del colore”.

Per concludere, infine, questa sezione occorre porre un ultimo accento su una via del tutto nuova che gli studi più recenti sembra vogliano intraprendere,

15 Irwin 1974, p. 19: “connected with poetic imagery is the further question of synaesthesia and its implications for our understanding of Greek sense perception”. Dopo aver riportato un verso di A. Pers. 395 (σάλπιγξ δ’ ἀϋτῇ πάντ’ ἐκεῖν’ ἐπέφλεγεν) la studiosa aggiunge: “for the author who does not see the world as the Greek poets saw it, and in particular, does not feel the unity they felt in the perception of the senses, this line clearly involves metaphor”.

16 Sulla questione insistono particolarmente Ferrini 1978; Sassi 1994; Beta-Sassi 2001; Grand-Clément 2011.

(14)

9

ossia quella di collegare il valore cromatico con la corrispettiva tecnologia di produzione17: ciò, vedremo, appare abbastanza chiaro nel caso della porpora,

tuttavia in base a tale impostazione non è da escludere che anche per altre designazioni di colore ci possa essere una relazione col mondo della tecnica (che sia tintura o tecnica dei metalli etc.).

Dunque, tirando le somme del nostro discorso, sento di poter convenire sull’impostazione relativistica degli studi moderni e in particolare sulla necessità, in questi più volte ribadita, di distinguere tra il nostro modo di intendere il colore e quello dei Greci.

(15)

10

Cap. 2. Il colore nel mondo greco: le teorie sul colore fra i Presocratici e Aristotele

Può essere utile (per esigenze di chiarezza e completezza) una rapida indagine sulle principali teorie formulate dai filosofi greci in merito alla natura e alle proprietà del colore. Come vedremo, sin dai filosofi più antichi l’attenzione si concentra sulla polarità luce-ombra e sull’aspetto della notazione luminosa nell’espressione delle varie tinte18.

Come osserva A. Grand-Clément19, noi non disponiamo per il periodo arcaico di

vere e proprie teorie sul colore, tuttavia quello che resta ci permette di ricostruire dei dati abbastanza validi sul modo di intendere la percezione e i colori stessi da parte dei filosofi greci attivi in quel periodo. Se invece consideriamo personalità operanti successivamente, come Democrito, Platone e Aristotele, i dati a nostra disposizione sono molto più consistenti ma non sempre, come vedremo, di facile interpretazione.

2.1 I colori come espressione del sensibile e l’importanza di luce e oscurità Il termine solitamente impiegato per designare in greco la nozione di colore è, a partire dal V secolo a.C., χρῶμα20. Si tratta, in realtà, di un vocabolo dalle

accezioni multiple: può indicare la carnagione, il colore della pelle, la pelle stessa, come pure in ambito retorico il carattere dello stile, o in quello musicale una modificazione. Ciò può indurci a pensare che la nozione di colore possa essere emersa in greco nell’ambito di un forte legame col mondo sensibile: χρῶμα, infatti, è un derivato di χρώς sul tema χρω-, che nella lingua omerica indica la pelle umana e il suo colore, e dal quale derivano anche χρόα/χροιά21,

che, nell’ambito della filosofia arcaica, vengono impiegati per esprimere il

18 Ciò pare teso a confermare la fondatezza degli studi moderni, come illustrato nel paragrafo precedente e come si approfondirà nei capitoli successivi.

19 Grand-Clément 2011, p. 33.

20 Cfr. ad es. Hdt. 2.32, 3.101; Ar. Eq.399, Nu.120; E. Ph.1246; Pl. R.429e.

21 In LSJ il primo significato è: “skin, esp. of the human body, hence the body itself”, mentre subito dopo si legge “superficial appearance of a thing, its colour”.

(16)

11

colore22. Possiamo notare come dalla nozione originaria di “pelle, superficie del

corpo (umano)” si sia passati a intendere, con questi termini, la superficie di un corpo generico, dunque il suo colore23. Una tale intimità linguistica tra pelle e

colore pare risalire all’indoeuropeo, se consideriamo il fatto che, come ci dice D’Avino, manca un vero termine comune per la nozione di colore nelle varie lingue indoeuropee, che l’avrebbero costituito successivamente a partire da termini con valore semantico altro, ricollegato proprio all’idea di “superficie”24.

Se il colore viene, dunque, percepito come un rivestimento degli oggetti, ciò vuol dire che, per i Greci, esso è nelle cose e non può essere percepito al di fuori di esse. In questo modo comprendiamo (e lo spiegheremo meglio in seguito) l’estrema diversità del modo di intendere i colori tra noi e i Greci: se per noi il colore è una sensazione che presuppone un apparato percipiente e capace di elaborare uno stimolo luminoso, per la riflessione greca esso è una qualità delle cose, appartiene ad esse ed è di esse soltanto25.

Detto ciò, iniziamo il nostro breve excursus riguardo le principali teorie formulate dai filosofi greci su natura e proprietà del colore. Partendo dal naturalismo ionico, e considerando personalità come Talete, Anassimandro e Anassimene, potremmo affermare che non sembra che questi abbiano coltivato un grande interesse per il fenomeno del colore, affrontato solo marginalmente nelle loro spiegazioni sulla natura degli astri26. La questione, però, può

22 Cfr. ad es. Arist. Sens. 439a31, in cui χροιά viene presentato come termine della dottrina pitagorica indicante la “superficie”; Anaxag. B 4 D.-K.

23 Cfr. Grand-Clément 2011, p. 34: “la notion de «couleur» intimement liée à celle de «peau» a fini par s’en détacher, conduissant à l’apparition du mot χρῶμα.

24 D’Avino 1958, pp. 100-1: “manca un termine [indoeuropeo] comune per la nozione di ‘colore’, ed esso si forma nelle varie lingue come determinazione di valori semantici più ampi, quali ‘copertura, superficie esterna, pelle’ (scr. varṇa-<*var, ‘coprire’; lat. color, occulere, gr. χρῶμα, χρώς).” Grand-Clément 2011, pp. 33-4 avverte che ci sono testimonianze per poter ammettere che anche le lingue semitiche possiederebbero questo collegamento, e riporta l’esempio dell’egiziano antico: “en Égypte ancienne les termes signifiant ‘couleur’, jwn e jnm, possèdent également le sens de ‘peau’”. Per approfondimenti su quest’ultimo punto vedi Baines 1985, p. 284.

25 Cfr. Ferrini 1999, p. 61: “anche per noi il colore è legato alle caratteristiche della superficie di un oggetto (...), ma in base a motivazioni estranee all’antichità. Siamo inoltre portati a considerarlo anche astraendolo dalle cose, indipendentemente da esse, e a studiarlo in sé. Il legame con le cose è invece prevalente nella concezione greca: ogni colore è il ‘colore di qualche cosa’, oltre a essere quasi il principale modo, certo il più immediato e significativo, in cui essa viene percepita con l’organo della vista.”

(17)

12

diventare interessante quando viene analizzato il fenomeno dell’arcobaleno: Anassimene avrebbe denominato φοινικοῦν un suo colore (13 A 18 D.-K.), al quale poi Senofane avrebbe aggiunto il πορφύρεον e il χλωρόν (21 B 32 D.-K.). Purtroppo riguardo alle teorie sul colore della scuola pitagorica non sappiamo quasi nulla27. Aristotele ci dice che i Pitagorici identificavano colore (χροιά) e

superficie (ἐπιφάνεια)28. Al di là di questo si potrebbe, forse, ricavare qualcosa

dalla loro concezione dell’organizzazione dell’universo: questo poggia sull’equilibrio dei “contrari”, tra i quali compare il binomio luce/oscurità che, trasposto in termini cromatici, potrebbe assimilarsi a quello bianco/nero, λευκόν/μέλαν. Alla luce dei dati scarni di cui disponiamo, potremmo forse azzardarci di attribuire ai Pitagorici almeno la concezione secondo cui il colore, ancorato alla superficie dei corpi, si configura come il risultato di diverse gradazioni di ombra e di luce.

Né di Alcmeone né di Eraclito conserviamo opinioni relative ai colori.

Per quanto riguarda invece Parmenide, nel famoso fr. 8 il filosofo utilizza il termine χρώς nel senso del colore (18 B 8, 38-41 D.-K.):

(...) τῶι πάντ’ ὄνομ’ ἔσται,

ὅσσα βροτοί κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναι τε καὶ οὐχί, καί τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανόν ἀμείβειν. Per esso (l’Essere) saranno nomi

tutte quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere: nascere e perire, essere e non-essere,

cambiare luogo e mutare luminoso colore29.

Si tratta di un frammento importante per noi in quanto, oltre ad enumerare i numerosi attributi dell’essere, rappresenta il primo testo filosofico dove

27 Arist. Metaph. A 8.990a 17 afferma che i Pitagorici non dissero nulla di ἴδιον sugli αἰσθητά. 28 Vedi Arist. Sens. 3, 439a 30: οἱ Πυθαγόρειοι τὴν ἐπιφάνειαν χρόαν ἐκάλουν.

(18)

13

compare la nozione di colore30 (almeno per quanto conosciamo). Come

possiamo vedere, le impressioni cromatiche sono poste da Parmenide in relazione con gli elementi materiali e il loro effetto sull’individuo: i colori sono ricondotti a fenomeni del mondo sensibile, a oggetti dei sensi, manifestazione dell’unico ente realmente esistente che è l’essere. Interessante è per noi anche la riflessione sul dualismo φῶς/σκότος presente all’interno della cosmologia di Parmenide (vedi ad es. il famoso fr. 1, 9sgg.) Vedremo quanto questa polarità resterà importante negli sviluppi successivi del pensiero greco31.

Quanto ad Empedocle d’Agrigento, il filosofo delle quattro “radici”, potremmo affermare che a lui risalga una prima definizione del colore32, come qualcosa

che è percepito dagli occhi attraverso una congruenza fra le particelle che si staccano dagli oggetti e i pori dell’occhio33: secondo la sua teoria della visione,

infatti, gli oggetti emetterebbero degli effluvi (da lui detti ἀπορροαί) costituiti da particelle di acqua e di fuoco in numero variabile che, colpendo l’occhio dell’uomo, producono la percezione (questo dovrebbe valere, dunque, anche per il meccanismo percettivo dei colori). Empedocle rappresenta la nascita delle forme e dei colori di tutte le cose mortali, κιρναμένων εἴδη τε χροῖά τε θνητῶν (21 B 71, 3 D.-K.) attraverso l’opera di “armonizzazione” compiuta da Afrodite. Teofrasto (De sens. 59 = 21 A 69a D.-K.) testimonia una corrispondenza tra due delle “radici” empedoclee e un colore specifico, ovvero tra fuoco e bianco, acqua e nero. Non sappiamo, in realtà, se anche le altre due radici fossero dal

30 Cfr. Sassi 2015, p. 264: “one can find in this text, where color first appears in a philosophical writing, two features which would remain constant in ancient reflections, namely, the emphasis on brilliance with its power to catch the eyes, and the suspicion that color may be, or, worse, be exploited as, a deceitful covering of the truth”. Secondo Sassi, inoltre, Parmenide mostra qui (per la prima volta nel pensiero greco, almeno in base a ciò che conosciamo) la coscienza della soggettività del colore, nonostante questa osservazione resti inserita nel più generale discorso metafisico sull’essere.

31 La simbologia sottesa al binomio luce/ombra e il contrasto a livello cromatico che ne consegue sono fondamentali chiavi di lettura e di interpretazione delle immagini poetiche dei Greci. Lo stesso modo di percepire il colore dei Greci, come vedremo, appare quale gradazione di luce e ombra.

32 Cfr. Sassi 1978, p. 136.

33 Cfr. Plat. Men. 76d = 21 A 92 D.-K.: ἔστιν γὰρ χρόα ἀπορροὴ χρημάτων ὄψει σύμμετροςκαὶαἰσθητός.

(19)

14

filosofo collegate ad altrettanti colori, tuttavia sembra che dalla mescolanza di questi due fondamentali siano derivati, secondo Empedocle, tutti gli altri34.

Per quanto riguarda, invece, Anassagora di Clazomene, di lui conserviamo una descrizione della creazione dell’universo, che si sarebbe formato a partire da una sorta di miscuglio primordiale di “semi”, i quali possiedono tutti i tipi di forme, colori e sapori (46 B 4, 29-32 D.-K.):

τούτων δὲ οὕτως ἐχόντων χρὴ δοκεῖν ἐνεῖναι πολλά τε καὶ παντοῖα ἐν πᾶσι τοῖς συγκρινομένοις καὶ σπέρματα πάντων χρημάτων καὶ ἰδέας παντοίας ἔχοντα καὶ χροιὰς καὶ ἡδονάς.

Stando così le cose, bisogna credere che in tutti gli aggregati vi siano molte cose e di ogni genere, e semi di tutte le cose che hanno forme d’ogni tipo e colori e sapori. I colori (χροιαί) sarebbero, dunque, apparsi in seguito al processo di differenziazione delle cose dal meigma originario che accompagna la creazione del mondo. La loro essenza dipenderebbe dalla predominanza dell’umido o del secco, del caldo o del freddo, della luce o dell’oscurità (secondo il presupposto del πάν ἐν παντί, per cui nulla si presenta, secondo il filosofo, allo stato puro). Secondo Teofrasto (De sens. 59), anche Anassagora avrebbe conferito un posto d’onore al bianco e al nero, ritenuti da lui colori fondamentali, dalla cui mescolanza si sarebbero originati tutti gli altri.

Da questa breve indagine emerge, dunque, il forte impatto simbolico che la coppia ombra-luce (in termini cromatici bianco-nero) esercita sul pensiero greco

34 Vedi 21 B 23 D.-K., in cui Empedocle paragona il mescolarsi dei colori sulla tavolozza del pittore all’armonia divina degli elementi del cosmo. Per approfondimenti vedi Ierodiakonou 2005, pp.1-37, che chiarisce come il numero dei colori primari in Empedocle non sia quattro bensì due, nonostante ciò che il filosofo dica nel fr. 71 e la testimonianza di Aezio (I, 15, 3). La studiosa ritiene fondamentale, invece, la testimonianza di Teofrasto (p.10): “Theophrastus reports that on Empedocles’ view the colour of fire is by nature white and the colour of water is by nature black, without saying nothing about the colour of the other elements, namely earth and air (...). Moreover, when Theophastus discusses Democritus’ theory of four primary colours, he explicity contrasts it with the dominant view of the other philosophers of the period, who treated white and black as the only simple colours (De sens. 79). (...) But this remark would make no sense if Empedocles, with those views Theophrastus is familiar, had already assumed four primary colours. So (...) Theophrastus’ testimony, together with the surviving fragments, suggests that Empedocles talked only of the colour of fire and the colour of water, namely the colours white and black, as the basic colours.”

(20)

15

arcaico, e quanto la presenza dell’uno e dell’altro colore possa condizionare i valori cromatici degli aggregati stessi35.

2.2 Democrito e la struttura quantitativa della realtà sensibile

La maggior parte delle informazioni sulla percezione e la composizione dei colori in Democrito ci è giunta tramite Teofrasto (Sens. 73-82): grazie a lui è possibile ricostruire a grandi linee una sorta di “teoria dei colori” dell’Abderita, che molto probabilmente era contenuta in quel trattato specifico sui colori (Περὶ χροῶν), di cui ci fornisce testimonianza Diogene Laerzio. Egli sembra essere stato il primo ad enunciare la presenza di quattro colori elementari (ἁπλᾶ), ovvero bianco (λευκόν), nero (μέλαν), rosso (ἐρυθρόν) e “verde” (χλωρόν)36. Le

diverse gradazioni di luce che determinano i vari colori si rapportano, secondo Democrito, alla struttura atomica dei corpi stessi (in sostanza la forma e la disposizione degli atomi influenzano il modo in cui gli aggregati riflettono la luce37): ad esempio il bianco è collegato a figure atomiche lisce; il nero si

riconduce a figure atomiche esattamente opposte alle precedenti, che impediscono il passaggio della luce, causando ombreggiature e ruvidezza; il rosso è messo in connessione con figure costituite da grandi atomi, sferici e mobili; infine il verde (in maniera differente dagli altri colori) si compone in base alla posizione e all’ordine della massa solida degli atomi e il vuoto38. L’Abderita,

inoltre, deriva da Empedocle il principio essenziale del prodursi di tutta la varietà dei colori dai pochi iniziali, tuttavia approfondisce questo spunto con

35 Cfr. Sassi 2009, pp. 282-3: “la relation que Anaxagore a établie dans le domaine de la cosmologie entre le couple lumière-obscurité et la détermination de la couleur est significative: cette remarque peut corroborer l’hypothèse qu’Empédocle faisait sienne une relation, qui devait être partagée par toute la Grèce du V siècle, entre la composition des couleurs et le dosage variable de lumière (air-feu) et d’obscurité (eau-terre) dans les agrégats.”

36 Cfr. Sens. 45 sgg e Aёt. I 15, 8 in cui si legge però ὠχρόν al posto di χλωρόν. La correzione in χλωρόν, proposta da Mullach, p. 220, è accettata da Sassi 1978, p. 138 e Struycken 2003, p. 280, ma non si ritrova, ad esempio, nei Vorsokratiker.

37 Cfr. Theoph. Sens. 73 sgg. (che privilegia la forma), Aristot. De gen.et corr. A 2.3 1 6a 1 (che privilegia la disposizione) e Aёt. I 15, 11 (che unifica forma e disposizione). Struycken 2003, p. 278: “Democritus explains colours as a sensory quality which is caused by specific properties, arrangements and combinations of atoms, just like the other sense data: alla perceptions should in the last resort be reducible to the basic attributes and structures of elemental matter as distributed over the void.”

(21)

16

un’ampiezza che non ha riscontro nel predecessore, descrivendo in modo minuziosissimo le varie mescolanze cromatiche e distinguendole in quattro primarie (formate dalla mescolanza di due o tre colori fondamentali) e quattro secondarie (formate dall’unione dei colori fondamentali e dalle mescolanze primarie)39.

Per quanto riguarda la teoria della visione di Democrito, possiamo affermare che la percezione delle varie tinte si realizza, secondo il filosofo, grazie a degli “effluvi” che, dai composti atomici, vanno a colpire l’occhio (Democrito riprenderebbe questa teoria da Empedocle, ma parla di εἴδωλα invece che di ἀπορροαί)40.

La peculiarità della dottrina di Democrito risiede proprio nel fatto che il colore si rapporta ai diversi gradi di rifrazione della luce attraverso le strutture atomiche: si tratta, dunque, dell’applicazione di un “paradigma quantitativo” di spiegazione delle qualità sensibili e dei colori (basato su criteri geometrici quali forma, dimensioni, disposizione degli atomi), che costituisce la più significativa innovazione del filosofo rispetto alla fisica precedente, basata invece su un paradigma di tipo “qualitativo” (ossia sugli elementi e le loro proprietà)41.

2.3 Platone e la visione dei colori

La concezione platonica del colore e la sua percezione, di cui il filosofo tratta molteplici volte all’interno del suo corpus42, deve molto, come vedremo, ad

Empedocle e alla sua teoria degli effluvi. Fattore imprescindibile affinché avvenga la percezione dei colori è, per Platone, la luce del sole, che mette in atto il processo stesso della visione, processo che il filosofo descrive ampiamente soprattutto nel Timeo (45b 2-d 3):

39 Per approfondimenti vedi Sassi 1978, pp. 144 sgg.; Struycken 2003, pp. 273-305, in cui si analizzano in contemporanea “colour mixtures according to Democritus and Plato”.

40 Un recente e interessante studio sulla questione della teoria democritea della visione è quello di Rudolph 2011, pp. 67-83, cui si rimanda per approfondimenti.

41 Cfr. Sassi 2009, p. 287.

42 Si vedano Men. 76d sgg.; Phd. 110b-e; Smp. 211e; R. VI, 500c-501c; VI, 507d-509a; IX 585b-586c; X, 601a-602e; Tht. 153d. Per approfondimenti su questi passi e quelli del Timeo che tratteremo a testo rinvio a Gaiser 1965, pp. 173 sgg.

(22)

17 τῶν δὲ ὀργάνων πρῶτον μὲν φωσφόρα συνετεκτήναντο ὄμματα, τοιᾷδε ἐνδήσαντες αἰτίᾳ. τοῦ πυρὸς ὅσον τὸ μὲν κάειν οὐκ ἔσχε, τὸ δὲ παρέχειν φῶς ἥμερον, οἰκεῖον ἑκάστης ἡμέρας, σῶμα ἐμηχανήσαντο γίγνεσθαι. τὸ γὰρ ἐντὸς ἡμῶν ἀδελφὸν ὂν τούτου πῦρ εἰλικρινὲς ἐποίησαν διὰ τῶν ὀμμάτων ῥεῖν λεῖον καὶ πυκνὸν ὅλον μέν, μάλιστα δὲ τὸ μέσον συμπιλήσαντες τῶν ὀμμάτων, ὥστε τὸ μὲν ἄλλο ὅσον παχύτερον στέγειν πᾶν, τὸ τοιοῦτον δὲ μόνον αὐτὸ καθαρὸν διηθεῖν. ὅταν οὖν μεθημερινὸν ᾖ φῶς περὶ τὸ τῆς ὄψεως ῥεῦμα, τότε ἐκπῖπτον ὅμοιον πρὸς ὅμοιον, συμπαγὲς γενόμενον, ἓν σῶμα οἰκειωθὲν συνέστη κατὰ τὴν τῶν ὀμμάτων εὐθυωρίαν, ὅπῃπερ ἂν ἀντερείδῃ τὸ προσπῖπτον ἔνδοθεν πρὸς ὃ τῶν ἔξω συνέπεσεν. ὁμοιοπαθὲς δὴ δι᾽ ὁμοιότητα πᾶν γενόμενον, ὅτου τε ἂν αὐτό ποτε ἐφάπτηται καὶ ὃ ἂν ἄλλο ἐκείνου, τούτων τὰς κινήσεις διαδιδὸν εἰς ἅπαν τὸ σῶμα μέχρι τῆς ψυχῆς αἴσθησιν παρέσχετο ταύτην ᾗ δὴ ὁρᾶν φαμεν.

E degli organi costituirono [gli dèi] in primo luogo gli occhi che portano la luce, e glieli applicarono nel modo che segue. Quella parte del fuoco che non ha la caratteristica di bruciare, ma che ci offre la mite luce propria di ogni giorno, predispose che diventasse un corpo. Infatti il fuoco puro che è dentro di noi affine a questo lo fece scorrere liscio e denso attraverso gli occhi, comprimendo tutte le parti, ma specialmente la parte di mezzo degli occhi, in modo che trattenesse tutta la parte del fuoco che era più denso, e lasciasse filtrare solamente quello puro. Quando, dunque, vi sia luce diurna intorno a tale corrente del fuoco puro della vista, allora, incontrandosi simile con simile e unendosi insieme, se ne forma un corpo unico e omogeneo nella direzione degli occhi, in quel punto in cui quello che scaturisce dal di dentro si incontra con quello che confluisce dal di fuori. E tutto questo corpo, divenuto capace delle stesse impressioni a causa delle somiglianze delle sue parti, quando tocca qualunque cosa o qualunque cosa tocchi lui, diffondendo i moti di questi per tutto quanto il corpo fino all’anima, fornisce questa sensazione, per la quale noi diciamo di vedere43.

Come possiamo vedere, la percezione sembra aver luogo grazie all’interazione fra il “fuoco visivo interno”, che è un fuoco sottile e puro dentro di noi, e il “fuoco esterno”, quello della luce del giorno e degli oggetti in generale, meno puro e denso di corpuscoli di ogni natura44. Quando il “fuoco esterno”, filtrato

dalla “parte mediana dell’occhio” (la pupilla), incontra quello “interno”, i due

43 La traduzione del Timeo che riporto qui e in seguito è di Reale 2000. 44 Cfr. Fronterotta 2003, pp. 244-5.

(23)

18

fuochi, che sono della stessa natura, costituiscono un “tutto unico”, congiungendosi in un punto della linea che unisce l’oggetto da cui emana il “fuoco esterno” e gli occhi da cui emana il “fuoco interno”. Il movimento che si genera da questo “incontro”, diffondendosi attraverso gli occhi e il corpo, produce, una volta giunto nell’anima, la sensazione della vista45. Dunque, cosa

sono più precisamente i colori? (Ti. 67c 4-d 1):

τέταρτον δὴ λοιπὸν ἔτι γένος ἡμῖν αἰσθητικόν, ὃ διελέσθαι δεῖ συχνὰ ἐν ἑαυτῷ ποικίλματα κεκτημένον, ἃ σύμπαντα μὲν χρόας ἐκαλέσαμεν, φλόγα τῶν σωμάτων ἑκάστων ἀπορρέουσαν, ὄψει σύμμετρα μόρια ἔχουσαν πρὸς αἴσθησιν.

Ci resta ancora un quarto genere di impressioni che riguarda il sensibile e che bisogna specificare, in quanto contiene in sé numerose varietà. Noi abbiamo chiamato queste, nel loro insieme, colori. Questi sono fiamma proveniente dai singoli corpi, che ha particelle proporzionate alla visione, in modo da generare sensazioni.

Per Platone, dunque, il colore consiste essenzialmente in una “fiamma” proveniente dal corpo sensibile. Il rapporto tra le dimensioni delle particelle di fuoco degli effluvi dell’oggetto e quelle del corpo visivo determina il fenomeno cromatico (Tim. 67d-e): se sono della stessa dimensione non causano la percezione, e l’oggetto appare trasparente; se le prime sono più piccole delle seconde l’oggetto appare bianco; se le prime sono più grandi delle seconde l’oggetto appare nero. Per Platone, dunque, i colori cosiddetti fondamentali, ognuno dei quali corrisponde a particelle di fuoco di dimensioni diverse, sono quattro: bianco, nero, rosso e un quarto che il filosofo chiama λαμπρόν, lo “splendente”46. Tutti gli altri sono mescolanze (di particelle di fuoco) di questi

primari.

Dunque, se la teria platonica della visione appare ispirata, come abbiamo visto, a quella di Empedocle, mentre il suo fondamento geometrico-matematico

45 Una simile spiegazione del fenomeno visivo sembra in relazione con quella degli “effluvi” (ἀπορροαί) di Empedocle, citata dallo stesso Platone in Men. 76c-d.

46 Cfr. Tim. 68b: παντοδαπῶν ἐν τῇ κυκήσει ταύτῃ γιγνομένων χρωμάτων, μαρμαρυγὰς μὲν τὸ πάθος προσείπομεν, τὸ δὲ τοῦτο ἀπεργαζόμενον λαμπρόν τε καὶ στίλβον ἐπωνομάσαμεν.

(24)

19

sembra richiamare le teorie di Democrito47, tuttavia occorre sottolineare

l’interesse tutto platonico per la soggettività della visione: il colore stesso, per il filosofo, si configura infatti come una sorta di “impressione” soggettiva48.

2.4 Aristotele, Teofrasto e il De coloribus

La teoria dei colori aristotelica, di cui non si trova trattazione sistematica in un’unica opera (di colori si parla, infatti, nel De Caelo, nei Meteorologica, nel De Sensu, nel De Anima per citarne alcune) non è facile da ricostruire. Per lo Stagirita il colore è una proprietà intrinseca dei corpi e, come tale, inscindibile da essi (Sens. 439a 31-33):

τὸ γὰρ χρῶμα ἢ ἐν τῷ πέρατί ἐστιν ἢ πέρας (διὸ καὶ οἱ Πυθαγόρειοι τὴν ἐπιφάνειαν χρόαν ἐκάλουν)· ἔστι μὲν γὰρ ἐν τῷ τοῦ σώματος πέρατι͵ ἀλλ΄ οὐ τὸ τοῦ σώματος πέρας͵ ἀλλὰ τὴν αὐτὴν φύσιν δεῖ νομίζειν ἥπερ καὶ ἔξω χρωματίζεται͵ ταύτην καὶ ἐντός. Il colore si trova nel limite o è il limite stesso, e perciò i Pitagorici chiamavano colore la superficie visibile. [Il colore], infatti, si trova nel limite del corpo, ma non è il limite stesso del corpo: bisogna pensare che la stessa natura che all’esterno è colorata, lo sia pure all’interno49.

Aristotele torna poi a valorizzare l’opposizione fondamentale di bianco e nero, dalla cui mescolanza si formano le altre tinte50, in particolare: ξανθόν,

φοινικοῦν, ἁλουργόν, πράσινον, κυανοῦν, μέλαν e φαιόν (Sens. 442a 19-25):

47 Sappiamo però che Platone non ha mai fatto esplicitamente menzione del filosofo di Abdera, come ci fa notare, per primo, Diogene Laerzio (III, 25): πρῶτός τε ἀντειρηκὼς σχεδὸν ἅπασι τοῖς πρὸ ἀυτοῦ ζητεῖται διὰ τί μὴ ἐμνημόνευσε Δημοκρίτου. Per approfondimenti sulla questione vedi Bollack 1967, pp. 242 sgg.

48 Sassi 2009, pp. 289-90: “la couleur est présentée comme une ‘impression’ subjective, la variété chromatique germe à partir d’une osmose de réalité physique et physiologique, et l’intérêt pour la sensibilité subjective à la lumière prend décidément le dessus sur celui pour la distinction des teintes”.

49La traduzione del De Sensu che riporto qui e in seguito è di Carbone 2002.

50 La diversa “proporzione” dei colori fondamentali (che Aristotele tuttavia non specifica) è in grado di condizionare la piacevolezza degli altri, cosicché alcune tinte risultano, per così dire, più “armoniche” di altre, in quanto risultato di un rapporto numerico semplice. Cfr. Sens. 439b 32-440a 6: τὰ μὲν γὰρ ἐν ἀριθμοῖς εὐλογίστοις χρώματα͵ καθάπερ ἐκεῖ τὰς συμφωνίας͵ τὰ ἥδιστα τῶν χρωμάτων εἶναι δοκοῦντα͵ οἷον τὸ ἁλουργόν καὶ τὸ φοινικοῦν καὶ ὀλίγ΄ ἄττα τοιαῦτα.

(25)

20

ἑπτὰ γὰρ ἀμφοτέρων εἴδη, ἄν τις τιθῇ, ὥσπερ εὔλογον, τὸ φαιὸν μέλαν τι εἶναι· λείπεται γὰρ τὸ ξανθὸν μὲν τοῦ λευκοῦ εἶναι ὥσπερ τὸ λιπαρὸν τοῦ γλυκέος, τὸ φοινικοῦν δὲ καὶ ἁλουργὸν καὶ πράσινον καὶ κυανοῦν μεταξὺ τοῦ λευκοῦ καὶ μέλανος, τὰ δ΄ ἄλλα μεικτὰ ἐκ τούτων.

Vi sono sette specie degli uni e degli altri [colori e sapori] se si assume, come è ragionevole, che il grigio sia un certo nero: rimane dunque che il giallo e il bianco siano come il grasso e il dolce, il rosso, il porpora, il verde e il blu siano nel mezzo tra bianco e nero, e che gli altri siano mescolanze di questi.

Per quanto riguarda, poi, il meccanismo della percezione visiva, nel De Anima Aristotele afferma nettamente che “ciò che è visibile è colore” (II, 418a 27) : τὸ γὰρ ὁρατόν ἐστι χρῶμα, τοῦτο δ' ἐστὶ τὸ ἐπὶ τοῦ καθ' αὑτὸ ὁρατοῦ· καθ' αὑτὸ δὲ οὐ τῷ λόγῳ, ἀλλ' ὅτι ἐν ἑαυτῷ ἔχει τὸ αἴτιον τοῦ εἶναι ὁρατόν.

Il visibile è in effetti il colore, ed il colore è ciò che si trova sul visibile per sé: dico “per sé” non perché sia visibile per sua essenza, ma perché possiede in se stesso la causa della sua visibilità.

Il colore, dunque, è per Aristotele una qualità imprescindibile dal corpo, corpo che si configura come “visibile per sé”, καθ' αὑτὸ ὁρατόν, proprio in quanto oggetto o superficie colorata51. Alla luce di ciò si deduce che, se il colore è così

fortemente ancorato al corpo e, per questo, sempre presente indipendentemente dal fatto che sia visto o meno, è la luce la condicio sine qua non della percezione visiva (de An. II, 418a31-b2):

πᾶν δὲ χρῶμα κινητικόν ἐστι τοῦ κατ' ἐνέργειαν διαφανοῦς, καὶ τοῦτ' ἐστὶν αὐτοῦ ἡ φύσις· διόπερ οὐχ ὁρατὸν ἄνευ φωτός, ἀλλὰ πᾶν τὸ ἑκάστου χρῶμα ἐν φωτὶ ὁρᾶται. διὸ περὶ φωτὸς πρῶτον λεκτέον τί ἐστιν. ἔστι δή τι διαφανές. διαφανὲς δὲ λέγω ὃ ἔστι μὲν ὁρατόν, οὐ καθ' αὑτὸ δὲ ὁρατὸν ὡς ἁπλῶς εἰπεῖν, ἀλλὰ δι' ἀλλότριον χρῶμα. τοιοῦτον δέ ἐστιν ἀὴρ καὶ ὕδωρ καὶ πολλὰ τῶν στερεῶν· οὐ γὰρ ᾗ ὕδωρ οὐδ' ᾗ ἀὴρ 51 Cfr. Movia 2001, p. 273.

(26)

21 διαφανές, ἀλλ' ὅτι ἔστι τις φύσις ἐνυπάρχουσα ἡ αὐτὴ ἐν τούτοις ἀμφοτέροις καὶ ἐν τῷ ἀϊδίῳ τῷ ἄνω σώματι. φῶς δέ ἐστιν ἡ τούτου ἐνέργεια, τοῦ διαφανοῦς ᾗ διαφανές. δυνάμει δέ, ἐν ᾧ τοῦτ' ἐστί, καὶ τὸ σκότος. τὸ δὲ φῶς οἷον χρῶμά ἐστι τοῦ διαφανοῦς, ὅταν ᾖ ἐντελεχείᾳ διαφανὲς ὑπὸ πυρὸς ἢ τοιούτου οἷον τὸ ἄνω σῶμα· καὶ γὰρ τούτῳ τι ὑπάρχει ἓν καὶ ταὐτόν. τί μὲν οὖν τὸ διαφανὲς καὶ τί τὸ φῶς, εἴρηται, ὅτι οὔτε πῦρ οὔθ' ὅλως σῶμα οὐδ' ἀπορροὴ σώματος οὐδενός (εἴη γὰρ ἂν σῶμά τι καὶ οὕτως), ἀλλὰ πυρὸς ἢ τοιούτου τινὸς παρουσία ἐν τῷ διαφανεῖ.

Ora ogni colore è capace di muovere il trasparente che si trova in atto, e questa è la sua natura. Pertanto il colore non è visibile senza luce, ma ogni colore di ciascuna cosa si vede nella luce. Bisogna perciò dire innanzitutto che cos’è la luce. Esiste dunque qualcosa di trasparente. Chiamo trasparente ciò che è visibile, ma, per esprimermi propriamente, non visibile per sé , bensì per mezzo di un colore estraneo. Tali sono l’aria, l’acqua e molti corpi solidi. Non sono però trasparenti in quanto acqua o aria, ma perché in essi è presente una determinata natura, che è la medesima in entrambi e nel corpo eterno che si trova in alto. La luce è l’atto di questo, ossia del trasparente in quanto trasparente. Dove il trasparente è in potenza, lì c’è il buio. La luce è per così dire il colore del trasparente, quando il trasparente è in atto per l’azione del fuoco o di qualcosa di simile al corpo che sta in alto, poiché anche questo possiede la stessa e medesima caratteristica. Che cosa dunque sia il trasparente e che cosa sia la luce s’è detto: la luce non è fuoco né, in generale, un corpo né un’emanazione di alcun corpo (giacché anche in questo caso sarebbe un corpo), ma è la presenza del fuoco (o di qualcosa di simile) nel trasparente.

Come leggiamo, Aristotele pare respingere la natura per così dire ignea della luce e dell’occhio, sostenuta invece dai suoi predecessori52. Per lo Stagirita, la

luce è l’atto del trasparente: attraverso un corpo indeterminato διαφανές appunto, quale l’aria o l’acqua, che faccia da medium tra l’oggetto e l’osservatore, è permesso al colore di attualizzare la capacità dell’occhio di accoglierne la forma. In altre parole: tale medium diventa diafano in atto a patto che ci sia luce e, “mosso” dall’oggetto colorato, ne garantisce la percezione.

52 Aristotele, e come lui Teofrasto, rigetta fermamente quelle teorie sulla percezione visiva, sostenute da Empedocle, Platone e Democrito, che tendono a identificare la capacità di vedere con il fuoco e, in particolare, rigetta quella concezione “ignea” dell’occhio sulla quale esse si basano. Per approfondimenti si veda Aguirre 2012, pp. 89-106.

(27)

22

Teofrasto, successore di Aristotele, è stato autore di un importante lavoro dossografico, il De Sensibus, nel quale ha catalogato con senso critico le posizioni dei filosofi precedenti anche, tra le altre cose, in materia di percezione e teoria del colore. Secondo alcuni53 sarebbe proprio Teofrasto l’autore (o

almeno la mente che sta dietro) del trattato anonimo De coloribus, l’unica opera antica esclusivamente dedicata al colore che ci è giunta e attribuita erroneamente ad Aristotele. Le ipotesi avanzate circa il possibile autore si basano su confronti lessicali e dottrinali, ma la questione resta aperta e apparentemente lontana da una soluzione definitiva (all’interno del Peripato va comunque cercato l’anonimo autore del trattato)54. Nell’operetta l’anonimo

considera colori “semplici” (ἁπλᾶ) bianco, giallo e nero (dalla mescolanza dei quali nascono tutti gli altri) e li associa ai quattro elementi fondamentali (791a 1-12): Ἁπλᾶ τῶν χρωμάτων ἐστὶν ὅσα τοῖς στοιχείοις συνακολουθεῖ, οἷον πυρὶ καὶ ἀέρι καὶ ὕδατι καὶ γῇ. ἀὴρ μὲν γὰρ καὶ ὕδωρ καθ’ ἑαυτὰ τῇ φύσει λευκά, τὸ δὲ πῦρ καὶ ὁ ἥλιος ξανθά. καὶ ἡ γῆ δ’ ἐστὶ φύσει λευκή, παρὰ δὲ τὴν βαφὴν πολύχρους φαίνεται. δῆλον δ’ ἐπὶ τῆς τέφρας τοῦτ’ ἐστίν· ἐκκαυθέντος γὰρ τοῦ τὴν βαφὴν πεποιηκότος ὑγροῦ λευκὴ γίνεται, οὐ παντελῶς δὲ διὰ τὸ τῷ καπνῷ βεβάφθαι μέλανι ὄντι. διὸ καὶ ἡ κονία ξανθὴ γίνεται, τοῦ φλογοειδοῦς καὶ μέλανος ἐπιχρώζοντος τὸ ὕδωρ. τὸ δὲ μέλαν χρῶμα συνακολουθεῖ τοῖς στοιχείοις εἰς ἄλληλα μεταβαλλόντων. τὰ δ’ ἄλλα ἐκ τούτων εὐσύνοπτα τῇ μίξει κεραννυμένων ἀλλήλοις γίνεται.

Semplici sono quei colori che sono associati agli elementi, cioè il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra: l’aria e l’acqua sono di per sé bianche per natura, il fuoco e il sole sono gialli. Anche la terra è bianca di natura, ma appare di vari colori perché viene tinta. Se ne ha la prova nel caso della cenere: bruciata e dissolta la parte umida che determina la sua

53 La questione circa il probabile autore dell’operetta affonda le sue radici in epoca umanistica, quando si è iniziato a dubitare della paternità aristotelica del De Coloribus. Alcuni dotti del ‘500 (ad es. Simone Porzio 1549) pensarono, infatti, di attribuirlo proprio a Teofrasto. In epoca moderna, Schneider, includendo nella sua edizione di Teofrasto (1818) anche il De Coloribus, sembra dare per scontato la paternità teofrastea del trattato. Anche Goethe, che traduce l’operetta nella parte storica della sua Farbenlehre, sembra propendere per una attribuzione ad Aristotele o a Teofrasto. Più recentemente la paternità teofrastea torna in auge con Gottschalk 1964, che, tuttavia, dichiara prudentemente l’impossibilità di stabilirne la certezza assoluta. 54 Cfr. Ferrini 1999, p. 12: “l’individuazione di un preciso autore ha un’importanza relativa; possiamo infatti collocare il trattato in un ambito culturale sufficientemente definito (l’attività del Peripato) e anche in un ambito cronologico abbastanza circoscritto (il primo Ellenismo)”.

(28)

23

tinta, la cenere diventa bianca, ma non completamente, perché è tinta dal fumo, che è nero. Per questo, anche la liscivia diventa gialla, poiché il rosso della fiamma e il nero colorano l’acqua. Il colore nero si associa agli elementi, quando essi si trasformano gli uni negli altri. Gli altri colori derivano da questi, come si può vedere facilmente, attraverso la combinazione e la mescolanza dell’uno con l’altro55.

Siamo di fronte all’incipit del trattato. Come si può notare, viene sottolineata con forza e chiarezza l’associazione tra elementi e colore, il quale viene indagato così come appare nelle cose e nei fenomeni. Il punto fermo su cui ruota l’opera è proprio questo: ciascun colore è una proprietà intrinseca e inerente a ciascun elemento, come affermava anche Aristotele. I colori “semplici” (primari li chiameremmo noi) sono, dunque, tre e collegati agli elementi in quanto tali e agli elementi che mutano: il giallo si associa al fuoco e al sole; il bianco all’aria, all’acqua e alla terra; il nero agli elementi visti nel loro trasformarsi. Da questi colori “semplici”, immediatamente collegati agli elementi, derivano tutti gli altri secondo il principio della mescolanza. Il nostro autore presenta, inoltre, una spiegazione particolarmente eclettica della natura dei colori, legata a tre cause concomitanti: la luce (atmosferica e dell’occhio); il mezzo attraverso cui la luce appare; la superficie dei corpi che riflette la luce. A ciò va aggiunto il recupero del principio delle emanazioni materiali (che Aristotele aveva rigettato e Teofrasto in parte rivalutato): ciò che raggiunge l’occhio è un miscuglio di emanazioni dell’oggetto e di luce56. Sulla base di

quest’argomento nessun colore percepito può dirsi puro, per cui tutti gli oggetti appaiono in una forma mista e contaminata (793b 12-794a 2):

τῶν δὲ χρωμάτων οὐδὲν ὁρῶμεν εἰλικρινὲς οἷόν ἐστιν, ἀλλὰ πάντα κεκραμένα ἐν ἑτέροις· καὶ γὰρ ἂν μηδενὶ τῶν ἄλλων, ταῖς γε τοῦ φωτὸς αὐγαῖς καὶ ταῖς σκιαῖς κεραννύμενα ἀλλοῖα, καὶ οὐχ οἷά ἐστι, φαίνεται. διὸ καὶ τὰ ἐν σκιᾷ θεωρούμενα καὶ ἐν φωτὶ καὶ ἡλίῳ, καὶ σκληρᾷ αὐγῇ ἢ μαλακῇ, καὶ κατὰ τὰς ἐγκλίσεις οὕτως ἢ οὕτως ἔχοντι, καὶ κατὰ τὰς ἄλλας διαφοράς, ἀλλοῖα φαίνεται. (...) τὸ γὰρ φῶς ὅταν προσπεσὸν ὑπό τινων χρωσθῇ, καὶ γένηται φοινικιοῦν ἢ ποῶδες, καὶ τὸ ἀνακλασθὲν προσπέσῃ πρὸς ἕτερόν τι χρῶμα, πάλιν ὑπ᾽ ἐκείνου κεραννύμενον ἄλλην τινὰ λαμβάνει

55 La traduzione del De coloribus che riporto qui e in seguito è quella di Ferrini 1999. 56 Cfr. Sassi 2009, p. 294.

(29)

24 τοῦ χρώματος κρᾶσιν. καὶ τοῦτο πάσχον συνεχῶς μὲν οὐκ αἰσθητῶς δὲ ἐνίοτε παραγίνεται πρὸς τὰς ὄψεις ἐκ πολλῶν μὲν κεκραμένον χρωμάτων, ἑνὸς δέ τινος τῶν μάλιστα ἐπικρατούντων ποιοῦν τὴν αἴσθησιν. ὥστε ἐκ τριῶν εἶναι τὰς χρόας ἁπάσας μεμιγμένας, τοῦ φωτός, καὶ δι᾽ ὧν φαίνεται τὸ φῶς, οἷον τοῦ τε ὕδατος καὶ τοῦ ἀέρος, καὶ τρίτου τῶν ὑποκειμένων χρωμάτων, ἀφ᾽ ὧν ἀνακλᾶσθαι συμβαίνει τὸ φῶς.

Non vediamo nessun colore nella sua purezza, quale è realmente, ma tutti mescolati con altri: e anche quando non siano mescolati con un altro colore, lo sono almeno con i raggi della luce e con le ombre; così appaiono diversi, e non come sono in realtà. È per l’identico motivo che ci appaiono di diverso colore gli stessi oggetti se osservati nell’ombra, nella luce, quando c’è il sole, sotto una luce intensa o tenue, secondo le inclinazioni e le diverse posizioni, e altri differenti fattori. (...) La luce infatti, quando, cadendo su qualcosa, ne è colorata, e diventa per esempio rossa o verde erba, e poi il riflesso cade su un altro colore, allora, conseguentemente a questo nuovo mescolarsi, assume una diversa mescolanza cromatica. Subendo queste continue ma impercettibili modificazioni, la luce arriva talvolta agli occhi già mescolata di molti colori, ma in modo da determinare, tra i colori prevalenti, la percezione di uno solo. (...) In conclusione tutti i colori sono una combinazione di tre componenti: della luce, del mezzo attraverso cui essa si vede, per esempio l’acqua o l’aria, e, infine, dei colori base, dai quali è riflessa la luce.

La luce è, dunque, una variabile importante su cui l’autore pone particolare attenzione senza però soffermarsi quasi mai sulla sua natura o funzione in rapporto alla visione. Egli esamina piuttosto gli effetti della luce, la sua decisiva influenza sul prodursi e manifestarsi dei colori, di cui essa è una componente fondamentale. Esponendo un oggetto a una certa angolazione di luce e variandone la quantità, intensità e incidenza si può modificare anche solo temporaneamente un colore (792a 10-24):

διὸ τὸ μέλαν καὶ σκιερὸν τῷ φωτὶ μιγνύμενον φοινικοῦν. τὸ γὰρ μέλαν μιγνύμενον τῷ τε τοῦ ἡλίου καὶ τῷ ἀπὸ τοῦ πυρὸς φωτὶ θεωροῦμεν ἀεὶ γιγνόμενον φοινικοῦν, καὶ τὰ μέλανα πυρωθέντα πάντα εἰς χρῶμα μεταβάλλοντα φοινικοῦν· αἵ τε γὰρ καπνώδεις φλόγες καὶ οἱ ἄνθρακες, ὅταν ὦσι διακεκαυμένοι, φαίνονται χρῶμα ἔχοντες φοινικοῦν. τὸ δ᾽ ἁλουργὲς εὐανθὲς μὲν γίνεται καὶ λαμπρόν, ὅταν τῷ μετρίῳ λευκῷ καὶ σκιερῷ κραθῶσιν ἀσθενεῖς αἱ τοῦ ἡλίου αὐγαί. διὸ καὶ περὶ ἀνατολὰς καὶ δύσεις ὁ ἀὴρ

Riferimenti

Documenti correlati

Conosciuto per essere il colore che spinge all’acquisto, è considerato molto aggressivo quindi meglio non esagerare. Associato a raffinatezza, eleganza e lusso, viene utilizzato

1 Che il γελοῖον fosse strumento ammesso in àmbito oratorio è noto, come conferma Arist. 1419b περὶ δὲ τῶν γελοίων, ἐπειδή τινα δοκεῖ χρῆσιν ἔχειν ἐν τοῖς

Il prodotto non contiene sostanze classificate pericolose per la salute o per l'ambiente ai sensi delle disposizioni del Regolamento (UE) 1272/2008 (CLP) (e successive modifiche

Smalto murale acrilico all’acqua, a finitura lucida, supercoprente e con film resistente alla muffa, per pareti interne e totalmente smacchiabile. Conforme a quanto previsto

Le normative in materia di acque idonee al consumo umano impongono che in caso di acque non preconfezionate e mesciute al momento abbiano sul contenitore (bottiglia o caraffa)

Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, l’industria chimica tedesca inventò due nuovi pigmenti sintetici rossi: il rosso cadmio, che era il colore del vermiglio naturale, e

Converte l’immagine il cui nome del file è passato come argomento al programma da immagine a colori a immagine in bianco e nero.. Il tipo di rappresentazione non cambia

L’abaco delle simbologie è di fatto una proposta indicativa che analizza, in ambito di Db topografico multiprecisione, le ipotesi di rappresentazione sia in bianco e nero sia a