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L’eredità del colonialismo eurocentrico: Sottomissione e manipolazione nella storia dei Nativi Americani

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I

L’eredità del colonialismo eurocentrico:

Sottomissione e manipolazione nella storia dei Nativi Americani

Prima di entrare all’interno delle dinamiche dell’era coloniale dell’America settentrionale e poter analizzare e comprendere la storia dei Nativi Americani, è opportuno affrontare la questione dell’etnocentrismo coloniale, da cui infine derivò una prospettiva autoriale impegnatasi nello studio e nelle ricostruzioni del delicato e complesso scenario storico americano. Uno scenario caratterizzato da una serie di dinamiche basate su un opprimente reticolo di connessioni, contraddistinte soprattutto dal deplorevole rapporto di dominio-sottomissione che legò tragicamente gli etnocentrici invasori europei e i popoli dei Nativi Americani, “the true owners of the land.”

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Popoli, una volta padroni e sovrani indiscussi e indisturbati, divenuti vittime della travolgente e spietata furia coloniale, la quale raggiunse il suo apice con la società euroamericana.

Potrebbe apparire superfluo dire che sia fondamentale osservare ed esaminare il fluire e l’evolversi degli eventi storici coloniali - come d’altronde richiede necessariamente l’opera storiografica in generale, in modo da non infrangere almeno l’etica professionale

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- da una prospettiva quanto più obiettiva possibile. Solo in tal modo, infatti, la collettività a cui venga poi proposto questo o quell’altro testo potrebbe

1Vine Deloria Jr., Custer Died for Your Sins: An Indian Manifesto, Norman, University of Oklahoma Press, 1988, p. 174.

2Cfr. Fixico, Donald, L., “Ethics and Responsibilities in Writing American Indian History”, American Indian Quarterly, 20, 1, 1996, p. 33.

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conoscere la veridicità di quei fatti e capirne appieno i reali sviluppi. Eppure questa precisazione risulta d’essenziale importanza poiché troppo spesso la tradizione storico- letteraria occidentale, ossia euroamericana, ha propinato alla collettività realtà distorte e manipolate riguardo l’intero processo coloniale, già a partire dal tardo XIX secolo.

Questa tradizione fu in ampia parte palesemente faziosa poiché fermamente eurocentrica, dato che l’etnocentrismo europeo è stato un concetto insito nella mentalità coloniale sin dai suoi albori. Motivo per cui si analizzeranno le caratteristiche, ovvero idee e teorie religiose, (pseudo)scientifiche e anche economiche che lo hanno alimentato, per apprendere gli sviluppi coloniali che determinò fino a divenire un robusto pilastro ideologico della società dominante, convinta della sua superiorità.

Questa ideologia in ambito storico-letterario ha operato oscurando, ignorando e sminuendo deliberatamente il peso delle drammatiche conseguenze sociali, politiche, e culturali riversatesi sulle comunità dei Nativi Americani, e denigrando, manipolando o escludendo i contributi delle Native Voices. Tale questione, delicata e molto controversa, ha immancabilmente infervorato il disappunto degli studiosi nativi, e dei non-nativi moralmente e professionalmente integri e obiettivi, impegnati all’unisono per far emergere la veridicità di quel doloroso passato dandone testimonianza e ricchezza conoscitiva proprio attraverso le Native Voices: ovvero attivisti, scrittori e studiosi, intervenuti per rendere giustizia e riesumare la dignità di tutti quei popoli a cui non era mai stato riconosciuto nulla, e per molto tempo nemmeno l’umanità, in quanto inizialmente “Indians were [considered] wild animals to be hunted and skinned.”

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Un processo di risveglio e ribellione iniziato alla fine degli anni ‘60 del XX secolo in cui “the popular emergence of the Native voice has been called the ‘Native

3Vine Deloria Jr., op. cit., 1988, pp. 6-7.

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American Literary Renaissance’.”

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Questo periodo, distintosi per l’epico attivismo socio-politico-culturale nativo, avrebbe poi risollevato le sorti di questi popoli, in cui uno dei dibattiti fondamentali tra gli esponenti nativi e quelli della tradizione euroamericana si è concentrato a lungo sull’ovvia questione di “chi e come” scrivere e/o insegnare la storia dei Nativi Americani, dato che sventuratamente “Indian history mainly has been perceived from a white perspective, based on the idea that ‘the conquerors write the history’.”

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Questioni energicamente argomentate da scrittori, attivisti, storici e accademici nativi tra cui, ad esempio, Elizabeth Cook-Lynn (Crow Creek Lakota) e Vine Deloria Jr. (Standing Rock Sioux).

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Questi personaggi di notevole spessore hanno focalizzato l’attenzione sulla immeritata collocazione marginale riservata ai Nativi da parte della tradizione, che li ha solitamente definiti

“‘pawns’ in the making of American History”

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, rendendoli dunque insignificanti e invisibili agli occhi del mondo; mentre altri come Simon J. Ortiz (Acoma Pueblo) e Donald L. Fixico (Shawnee, Sac & Fox, Muscogee Creek and Seminole) hanno anche insistito sulla questione della lotta per la sopravvivenza e per l’identità nativa messe a repentaglio dall’imperialismo euroamericano.

A tal proposito l’analisi di questo capitolo illustrerà l’andamento di quelle funeste relazioni tra colonizers e colonized rette dal pervasivo etnocentrismo europeo contro cui le Native Voices si sono opposte strenuamente scardinando definitivamente la monolitica tradizione eurocentrica.

4Cfr. Cook-Lynn, Elizabeth, “How Scholarship Defames the Native Voice... and Why”, Wicazo Sa Review, 15, 2, Fall 2000, p. 79.

5Cfr. Fixico, op. cit., p. 30.

6Tra gli storici nativi autorevoli nel panorama culturale, e utilizzati nel corso della tesi, emergono Jack Forbes, R. David Edmunds, Donald A. Grinde, Donald Fixico, Vine Deloria, Jr. Altri storici, a loro volta impegnati nel discorso etnocentrico (ethnocriticism), sono Riding In, Trafzer, Thornton. Per ulteriori informazioni si consulti: Krupat, Arnold, “American Histories, Native American Narratives”, Early American Literature, 30, 2, 1995, pp. 165-174.

7Cfr. Fixico, op. cit., p. 33.

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1.1 Aspetti di un etnocentrismo ferreo e corrosivo, cardine dei rapporti coloniali

Alla base della storia dei Nativi Americani, che metterà in rilievo gli avvenimenti di cui sono stati vittime, vi è un aspetto, fondamentale per la narrazione di questa storia, a cui occorre volgere l’attenzione, ossia al concetto dell’etnocentrismo europeo: ha inciso negativamente nel rapporto tra bianchi e Nativi, e di conseguenza nella creazione di una tradizione storico-letteraria occidentale che è risultata insensibile oltre che fortemente ignorante riguardo i Nativi Americani. Questi ultimi, infatti, furono collocati per secoli sulla soglia dell’invisibilità, pagando ingiustamente lo scotto della loro diversità a causa di una società fortemente eurocentrica, ovvero superba, cieca e intollerante.

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In effetti, l’etnocentrismo dei coloni europei fu alla base di tutti quegli atteggiamenti che soggiogarono i Nativi Americani durante la tragica era coloniale essendo stato, come vedremo nel corso della tesi, “one of the most important factors leading to the destruction of American Indian […] system, [especially because of] the invading Europeans’ ethnocentric belief that their own Christian cultures offered the only legitimate path to the ‘good life’.”

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Per comprendere, dunque, pienamente le problematiche, le ostilità, le ingiustizie e le controversie che i Nativi dovettero affrontare è utile definire il concetto di eurocentrismo: pilastro ideologico nella cultura dei bianchi.

Generalmente per eurocentrismo si intende “la tendenza a considerare, soprattutto in passato, l’Europa come centro politico, culturale ed economico del

8Deloria, op. cit., 1988, p.12.

9Cfr. Stein, Wayne J., “American Indian Education”, in Morrison, Dane (ed.), American Indian Studies:

An Interdisciplinary Approach to Contemporary Issues, New York, Peter Lang Publishing, Inc., 1997, p.

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mondo, specialmente in fatto di direzione della grande politica mondiale.”

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La definizione serve a chiarire che ciò che si manifestava in terra nativa, guerre e tensioni tra le potenze europee in continua competizione sul suolo americano e tra queste e i Nativi Americani, era il riflesso delle concezioni, delle credenze e di tutto ciò che accadeva nel teatro sociale, politico, economico e culturale dell’Europa del tempo.

Inoltre occorre evidenziare il fatto che per molto tempo il mondo, per gli europei, era semplicemente l’Europa, e sebbene presentasse delle differenze al suo interno (identificabili con i confini nazionali e le variazioni linguistiche delle loro lingue indo- europee) condivideva gli stessi presupposti culturali. Ogni popolazione europea presentava una società patriarcale, individualista, legata a una tradizione religiosa cristiana oltreché, successivamente, proto-industriale (e capitalista); quindi, nell’insieme, gli europei avevano un’immagine omogenea e compatta della loro civiltà. Proprio per questa loro peculiare omogeneità collisero con le civiltà dei Nativi, profondamente diverse esteriormente e interiormente, che costituivano un mondo fondamentalmente eterogeneo caratterizzato cioè da un normale pluralismo culturale.

Ce ne delinea il profilo lo storico Donald Fixico:

Tribal communities are built on an infrastructure of interrelated societies and roles, such as clans, leaders, warriors, medicinal persons, and others. An important part of this network is the community’s relationships with the flora, fauna, and metaphysical spirituality. This network is based on a sociocultural understanding of a religious nature.

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Nelle comunità tribali, caratterizzate da concezioni di vita e valori profondi e puri era tipico, ad esempio, il rispetto per il mondo che li circondava, in ogni sua forma,

10Definizione del termine eurocentrismo consultato nel dizionario Treccani in http://www.treccani.it/vocabolario/eurocentrismo (ultimo accesso: 15/01/15).

11Cfr. Fixico, op. cit., 1996, p. 21.

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e l’impegno a evitare qualsiasi tipo di spreco o di sfruttamento; proprio perché “the aborigines had kinship ties that included the land, plants, and animals, as well as human beings.”

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Al contrario presso gli europei, per esempio, il concetto di rispetto per la terra era del tutto assente: dato che si trattava di società (proto)capitaliste e consumiste, l’arricchimento individuale primeggiava su qualsiasi altro valore ed era strettamente connesso con lo sfruttamento sia umano sia territoriale. Civiltà diametralmente opposte, la cui diversità-peculiarità, come si approfondirà, non fu mai compresa e accettata dagli europei.

Tuttavia una definizione che permette di inquadrare e capire, almeno in linea di massima, le relazioni e l’atmosfera coloniali, viene fornita dall’analisi del termine etnocentrismo, di cui l’eurocentrismo è esempio particolare. L’etnocentrismo

[…] tells us that the term refers to the view of things in which one’s own group is the center of everything, and all others are scaled with reference to it. [...]

Each group nourishes its own pride and vanity, boasts itself superior, exalts its own divinities and looks with contempt on outsider.

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E ancora:

To maintain its superior position, the dominant group must destroy the out- group’s competitive spirit by undermining its collective pride and consciousness, or so modifying them that they fit the interests of the dominant group. […] The dominant group’s belief in its own superiority produces, and indeed encourages, inferiority complexes in subordinate out-groups.

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12Cfr. Stanfield, John H., “The Ethnocentric Basis of Social Science Knowledge Production”, Review of Research in Education, 12, 1985, pp. 397-8. (Mio corsivo).

13Cfr. Swartz, Marc, J., “Negative Ethnocentrism”, The Journal of Conflict Resolution, 5, 1, 1961, p. 75.

14Cfr. Stanfield, op. cit., 1985, p. 395.

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Queste definizioni che rendono perfettamente l’idea dell’atteggiamento dei coloni europei, indubbiamente superbo, nei confronti delle popolazioni native sin dagli inizi coloniali.

La loro superbia - indissolubilmente legata ad un’irrefrenabile avidità che aveva innescato e alimentato l’opera di esplorazione e sfruttamento dell’America e degli autoctoni - si doveva innanzitutto ad una visione filosofica e religiosa maturata nel vecchio continente, che sosteneva con convinzione la superiorità della civiltà europea rispetto a quelle extraeuropee perché cristiana; motivo per cui i coloni si arrogarono, senza scrupoli, il diritto di spadroneggiare sul suolo americano instaurando un brutale rapporto di dominio-sottomissione. Più precisamente, l’auto- proclamazione della superiorità europea in terra nativa si era palesata sulla base della medesima convinzione avanzata generalmente in passato nei confronti di tutte le popolazioni indigene semplicemente perché pagane, e considerate pertanto barbare e inferiori.

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In questa situazione, il Cristianesimo

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“endorsed and advocated the rape of the North American continent, and her representatives have done their utmost to contribute to this process ever since.”

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In effetti, come ampiamente argomentato da Vine Deloria, uno dei problemi maggiori per il mondo nativo furono proprio i missionari cristiani, concentratisi apparentemente più su una missione espansionistica e quindi materialistica (costruzione di case, chiese e monumenti), che religiosa. D’altro

15Un’atavica convinzione che risaliva dal lontano medioevo, epoca in cui i crociati avevano combattuto contro i pagani in nome del Cristianesimo per estirpare ogni malevole traccia del loro sacrilego paganesimo,difendere l’indiscusso prestigio del Cristianesimo e ampliare i confini di quest’ultimo. Una lotta che per propagare la (loro) vera religione aveva ovviamente sottratto i diritti e la sovranità dei popoli pagani. Cfr. Lujan, Carol Chiago and Adams, Gordon, “U.S. Colonization of American Indian Justice: A brief History”, Wicazo Sa Review, 19, 2, Fall 2004, p. 9.

16La prevaricazione del Cristianesimo sulle religioni indigene ha spesso prodotto la fusione tra questo e le religioni indigene (che hanno cercato in ogni modo di preservare i lori culti), creando un terzo tipo di religione. Cfr. Shonle, Ruth, “The Christianizing Process among Preliterate Peoples”, The Journal of Religion, 4, 3, 1924, pp. 261-280. Un’imposizione di cui i Nativi si sono liberati dopo secoli, recuperando completamente i propri credi. Cfr: Talbot, Steve, “Spiritual Genocide: The Denial of American Indian Religious Freedom, from Conquest to 1934”, Wicazo Sa Review, 21, 2, 2006, pp. 7-39.

17Deloria, op. cit., 1988, p. 30.

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canto, la chiesa per “salvare l’anima” dei Nativi, quali blasfemi pagani, distrusse l’integrità delle culture autoctone imponendo il Cristianesimo nelle varie denominazioni e in contrasto fra loro,

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e vietando i credi indigeni.

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Da premettere che il ruolo del Cristianesimo nell’evoluzione della società occidentale in quel nuovo mondo, come componente di una cultura sincretica, avrebbe poi contribuito solo a peggiorare la posizione dei Nativi, in quanto “Protestant settlers’ anti-Catholic prejudices added venom to their racism.”

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Un esempio illuminante che espone la differenza tra la religione cristiana e quella degli autoctoni (the Great Spirit) ci viene offerto dai ricordi autobiografici di Zitkala-Sa (Dakota Sioux), tra i primi esponenti della letteratura nativa americana dell’inizio del XX secolo. In “Why I am Pagan” (1902), la scrittrice giustifica il rifiuto della religione cristiana, descrivendosi molto più devota rispetto a quegli indiani convertiti che lei definisce “distorted shadows” (104). Inoltre rifugiandosi spesso in mezzo alla natura da cui trae conforto, sottolinea il forte legame e l’armonia esistente tra sé e “the loving Mystery” (101) che la circonda. Aspetti e sensazioni che non riscontra nell’approccio e nell’insegnamento del Cristianesimo: è proprio dalla conoscenza delle forze naturali che, nonostante frequenti una scuola gestita da

18“Thus one reservation would be assigned to the Roman Catholics, one to the Lutherans, one to the Methodists, and one to the Episcopalians. Other churches were prohibited from entry on a reservation once it had been assigned to a particular church and could enter only with permission from the other church. […] Missionary work [moreover] concentrated on such glamorous exploits as stealing sheep from another missionary’s fold rather than the de-paganization which had characterized the early mission work.” Cfr. Deloria, op. cit., 1988, pp. 106, 110.

19Cfr. Ibidem, pp. 101-2. Si determinò così uno dei classici conflitti tra quei due mondi, i Nativi e le religioni dei bianchi (predominantemente protestanti): “Missionaries on the North American continent came to preach and stayed to rule. Or at least prepared the way for others to conquer and exploit. […] Missionaries did more to open up the West than any other group, but in doing so they increased the possibility of exploitation of the people they purported to save. Land acquisition and missionary work always went hand in hand in American history. While the thrust of Christian missions was to save the individual Indian, its result was to shatter Indian societies and destroy the cohesiveness of the Indian communities.” Si veda anche capitolo 2 (nota 89).

20Cfr. Murphy, Lucy Eldersveld, “Native American Women’s History: Tribes, Leadership, and Colonialism”, Journal of Women’s History, 17, 4, 2005, p. 127.

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missionari, trova la sicurezza necessaria per respingerlo. Un rifiuto che fa presagire anche quello nei confronti di tutto il sistema imperialista euroamericano:

I greet the solemn-faced “native preacher” whom I find awaiting me. [...] He began: “Every holy day [Sunday] I look about our little God’s house, and not seeing you there, I am disappointed. This is why I come to-day. [...] Cousin, I was taught long years ago by kind missionaries to read the holy book. These godly men taught me also the folly of our old beliefs. There is one God who gives reward or punishment to the race of dead men. In the upper region the Christian dead are gathered in unceasing song and prayer. In the deep pit below, the sinful ones dance in torturing flames. Think upon these things, my cousin, and choose now to avoid the after-doom of hell fire!” Then followed a long silence. [...] Still I would not forget that the pale-faced missionary and the hoodooed aborigine are both God’s creatures, though small indeed their own conceptions of Infinite Love. A wee child toddling in a wonder world, I prefer to their dogma my excursions into the natural gardens where the voice of the Great Spirit is heard in the twittering of birds, the rippling of mighty waters, and the sweet breathing of flowers. If this is Paganism, then at present, at least, I am a Pagan.

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In alcune delle storie raccolte in Simple Songs di Vickie Sears (Cherokee), la questione del Cristianesimo viene affrontata, invece, da una prospettiva a noi più contemporanea, con approcci differenti e spesso esprimendo una contrapposizione- rifiuto di esso.

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In “A Fact of Light”, la protagonista, Meta, che ha provato differenti religioni e alla fine ha lasciato di nuovo la chiesa, sostiene semplicemente che “Faith was strictly an internal matter. They were all right. They were all wrong.”

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Tale conclusione la lascia sostanzialmente insoddisfatta e le fa detestare la vita, poiché non risolve il bisogno di spiritualità che le viene dalla sua metà nativa e nemmeno la

“separazione” tipica del pensiero occidentale che influisce su di lei. Dunque, decide di

21Zitkala-Sa, American Indian Stories, Washington, Hayworth Publishing House, 1921, pp. 105-7.

Reperibile in: https://archive.org/stream/americanindianst1921zitk#page/n11/mode/2up (ultimo accesso 15/05/15). (Mio corsivo).

22Il tema della religione viene affrontato anche in: “Katie’s Flight” (questione della morte- resurrezione); “Keeping Sacred Secrets” (rito funebre); “Flower Spirits” (comunicazione con i morti).

Cfr. Herzog, Kristin, “Simple Songs by Vickie Sears”, MELUS, 19, 4, Ethnic Women Writers, 1994, p. 148.

23Vickie Sears, Simple Songs, Ithaca, New York, Firebrand Books, 1990, p. 35.

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focalizzarsi solo sulle manifestazioni (fisiche) divine nel mondo.

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In un primo momento il paganesimo aveva negato ai Nativi il riconoscimento di ogni traccia di umanità; motivo per cui i coloni li avevano sfruttati a lungo come schiavi-bestie

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per depredare i ricchi territori indigeni. Tuttavia nel corso del XIX secolo un ulteriore e cospicuo vantaggio all’orizzonte, che avrebbe condotto i coloni verso l’usurpazione legalizzata delle terre indigene, aveva immediatamente ribaltato questa considerazione, ben sintetizzata da Deloria:

Animals could be herded together on a piece of land, but they could not sell it.

Therefore it took no time at all to discover that Indians were really people and should have the right to sell their lands. Land was the means of recognizing the Indian as a human being. It was the method whereby land could be stolen legally and not blatantly.

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E ancora:

Land has been the basis on which racial relations have been defined ever since the first settlers got off the boat. Minority groups, denominated as such, have always been victims of economic forces rather than beneficiaries of the lofty ideals proclaimed in the Constitution and elsewhere. […] Humanity, at least on this continent, has been subject to the whims of the marketplace.

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Quindi, in realtà l’acquisizione della loro umanità non rappresentò un cambiamento positivo da cui i Nativi poterono trarre un significativo vantaggio per se stessi. Questo riconoscimento servì solo per raggirarli con uno stratagemma ideato precedentemente dalla chiesa, la Doctrine of Discovery, a cui i coloni si appellarono impudentemente.

Secondo questa dottrina, qualsiasi nazione europea che avesse scoperto un territorio

24Cfr. Herzog, op. cit., 1994, p. 148.

25“Many Americans were enslaved, not only by the Spaniards and Portuguese but also by the Dutch, French and British. In the young United States, Native Americans could still be held as slaves in spite of the new constitution with its Bill of Rights.” Cfr. Forbes, Jack, D., “The Use of Racial and Ethnic Terms in America: Management by Manipulation”, Wicazo Sa Review, 11, 2, Autumn, 1995, p. 59.

26Deloria, op. cit., 1988, p. 7. (Mio corsivo).

27Cfr. Ibidem, p. 178.

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indigeno avrebbe potuto esercitare dei diritti, nonostante gli autoctoni vivessero nelle loro terre da tempo immemore.

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In effetti, come specificato da Deloria:

Discovery negated the rights of the Indian tribes to sovereignty and equality among the nations of the world. It took away their title to their land and gave them the right only to sell. And they had to sell it to the European nation that had discovered their land. […] This was the doctrine of the Western world which was applied to the New World and endorsed as the will of God by the Christian churches of Western Europe.

29

Quindi paradossalmente le tribù conservavano il loro minuscolo diritto di vivere nelle loro terre fin quando non avrebbero deciso di cederle “volontariamente” attraverso un accordo formale con gli USA.

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Inoltre, questa dottrina fu corroborata anche dal concetto di proprietà privata della terra introdotto dalla cultura europea.

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E poiché in molti casi i Nativi non si adeguarono a tale concetto, secondo i coloni “the Natives owned no property and thus had no right to claim their own territory.”

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Alla Doctrine of Discovery, largamente usata dal governo statunitense

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per l’acquisizione-ruberia dei territori indigeni, seguirono altre teorie non meno deleterie per l’integrità e la sovranità delle comunità native, come quella dell’American

28“This doctrine was formally imported into U.S. law in 1823 by the Supreme Court ruling in Johnson v. M’Intosh.” Cfr. Akers, Donna L., “Decolonizing the Master Narrative: Treaties and Other American Myths”, Wicazo Sa Review, 29, 1, 2014, p. 60. Solo nel XX secolo nacquero le questioni inerenti i reali diritti di proprietà di quelle terre per cui i Nativi si batterono incessantemente. Si consulti: Hendrix, Burke, A., “Memory in Native American Land Claims”, Political Theory, 33, 6, 2005, pp. 768-71.

29Deloria, op. cit., 1988, p. 30.

30Cfr. Akers, op. cit., 2014, p. 59. Si veda il capitolo 2.1.

31“The concept of land as owned property arises out of the European concepts of land as mechanistic, as a commodity in the capitalistic sense of an economic item to be bought and sold on the marketplace. These are notions that did not exist in American Indian cultures who considered land as an organic, communally owned entity, a source of physical survival, but also of spiritual survival. Land as property, then, is a European concept that doesn’t fit well with American Indian cultural concepts.”

Cfr. Stratton, Billy J. and Washburn, Frances, “The Peoplehood Matrix: A New Theory for American Indian Literature”, Wicazo Sa Review, 23, 1, 2008, p. 67.

32Cfr. Stanfield, op. cit., 1985, p. 397.

33Gli Stati Uniti d’America, ovvero la società euroamericana, nacquero nel 1776, in seguito alla guerra che sanciva l’indipendenza dall’Inghilterra e il suo predominio nel continente di fronte alle altre potenze europee. Per ulteriori approfondimenti si veda: Deloria, op. cit., 1988, pp. 29-33.

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Exceptionalism, “a long-held myth that this nation [and its Euroamerican population]

had a divine calling. […] [Because] from the beginning America saw itself as special.

It possessed a strong sense of messianism;” e del correlato Manifest Destiny, “that process by which the United States spread over an entire continent [because of the will of God].”

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Tali concetti furono utilizzati per legittimare di volta in volta la superiorità e autorità euroamericana;

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gettando peraltro le basi per una tradizione storico- letteraria euroamericana irriverente nei confronti dei Nativi e della loro storia.

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Nel frattempo, questo meccanismo lasciava dietro sé, da un lato, un popolo avvilito e tormentato dalle vessazioni coloniali, come ad esempio il dover vivere nelle riserve

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in condizioni di estrema difficoltà, sia da un punto di vista igienico-sanitario sia economico, sventuratamente protrattesi nel tempo:

Many people arriving on a reservation for the first time bemoan the apparent lack of progress being made by the Indians. They are horrified by the poverty and living conditions. […] Oh, if they had only seen these same reservations twenty years ago, they would have known what poverty was.

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D’altro lato, spargeva ceneri e macerie di un territorio sempre più deturpato e impoverito in nome del progresso occidentale e del sistema economico capitalistico che vedeva le terre come un oggetto da usare a proprio piacimento, ignorando che avessero per i Nativi un valore sacro oltre che imprescindibile e prezioso per le loro

34Cfr. Weaver, Jace, “Original Simplicities and Present Complexities: Reinhold Niebuhr, Ethnocentrism, and the Myth of American Exceptionalism”, Journal of the American Academy of Religion, 63, 2, Summer 1995, pp. 232, 234, 237.

35Cfr. Ibidem, p. 244. Per ulteriori approfondimenti si veda anche: Akers, op. cit., 2014, pp. 71-3.

36Cfr. Fixico, op. cit., 1996, p. 33.

37Le riserve rappresentavano striminzite aree dei territori originari in cui i Nativi furono obbligati a vivere a partire dagli anni 30 dell’800, in situazioni di estrema miseria e povertà; spesso in seguito a un’azione di rimozione forzata e ricollocamento in altre aree, affiancati dall’azione sleale degli svariati trattati con cui il governo americano raggirò le nazioni indigene per ottenerne la cessione delle terre (aspetti approfonditi nel prossimo capitolo). Per ulteriori info si consulti: Lujan and Adams, op. cit., 2004, pp. 14-9; Akers, op. cit., 2014, pp. 58-76.

38Deloria, op. cit., 1988, pp. 138-9.

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culture, le loro stesse identità.

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Eventi angosciosi denunciati da molti, tra cui, ad esempio, la scrittrice Laura Tohe (Diné Navajo) che esprime con amarezza: “Western culture has always been destructive to indigenous peoples and to the earth everywhere.”

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In effetti come spesso argomentato dagli storici dopo il revisionismo storico degli anni ‘70 del 900:

European colonists found a “vast virgin continent, populated sparsely by Indians in a primitive state of culture.” […] “The so-called settlement of America was a resettlement, a reoccupation of a land made waste by the diseases and demoralization introduced by the newcomers.”

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La società euroamericana si era avvalsa per giunta dei succitati concetti etnocentrici per discolparsi, esplicitamente, e non, sostenendo che per l’appunto le loro azioni erano state inevitabili: esse rispecchiavano il disegno supremo di Dio (Manifest Destiny), il quale li aveva investiti di quella missione grandiosa e impegnativa. Questo volere supremo fu ben espresso attraverso un’astuta azione propagandistica del governo americano, il quale mirò innanzitutto a convincere l’intera società di quel loro destino, tanto che the “United States lived for a century ‘not only in the illusion but in the reality of [their own] innocency’.”

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Inoltre, il concetto del Manifest Destiny ricomparve nella politica dell’epoca anche per promuovere una missione civilizzatrice, quasi un atto “caritatevole,” che i coloni avrebbero dovuto attuare nei confronti dei Nativi:

It is a great mistake to think the Indian is born an inevitable savage. He is born a blank, like all the rest of us. Left in the surroundings of savagery, he grows to possess a savage language, superstition and life. … Transfer the savage-born

39Cfr. Hendrix, op. cit., 2005, pp. 764-5. Si veda anche capitolo 2 (note 36-38).

40Laura Tohe, No Parole Today, Albuquerque, West End Press, 2005, p. xi.

41Cfr. Jennings, Francis, The Invasion of America: Indians, Colonialism, and the Cant of Conquest (1976), cit. in: Weaver, Jace, op. cit., 1995, p. 237.

42Ivi.

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infant to the surroundings of civilization, and he will grow to possess a civilized language and habit. … The school of Carlisle is an attempt to do this.

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Il messaggio celava la brutale intolleranza coloniale culminata, nella sua battuta finale, in un drammatico processo assimilativo, approfondito nel capitolo 2, ben architettato dagli americani. E questo processo mirava a indottrinare i Nativi, e quindi controllarli, svuotandoli della loro personalità/identità in modo da cancellare la (r)esistenza, e non dovere temere possibili rivendicazioni:

The most reliable statistic prove conclusively that the Indian population […], instead of dying out under the light and contact of civilization, as has been generally supposed, is steadily increasing. […] we should accept the situation and go resolutely to work to make him a safe and useful factor in our body politic. As savage we cannot tolerate him any more than as a half-civilized parasite, wanderer or vagabond. The only alternative left is to fit him by education for civilized life.

44

La lenta scomparsa dei Nativi era già stata espressa ai tempi della cruenta guerra civile (1861-65), durante la quale nelle varie campagne militari ne vennero sterminati moltissimi in applicazione della convinzione che “whether Indians were being cheated by the government or not was irrelevant: ‘It makes no difference. They are Indians, and three-fourths of the people of the United States believe and say that

‘the best Indians are all under ground (sic)’.”

45

Questo principio ha imperato anche nel

43“Henry Richard Pratt at the Nineteenth Annual Conference of Charities and Correction in 1892.” Cfr.

Katanski, Amelia V., Learning to Write “Indian”: The Boarding School Experience and American Indian Literature, Norman, University of Oklahoma Press, 2005, p. 32. Propositi già messi in pratica dai missionari, sebbene con le boarding schools gestite dal governo federale la violenza del regime educativo si acuì. Si consulti: Fisher, Linford D., “Native Americans, Conversion, and Christian Practice in Colonial New England, 1640-1730”, The Harvard Theological Review, 102, 1, 2009, pp. 101-124;

Devens, Carol, “‘If We Get the Girls, We Get the Race’: Missionary Education of Native American Girls”, Journal of World History, 3, 2, 1992, pp. 219-237.

44Ibidem, pp. 3-4; (corsivo mio). Il gruppo dei “Friends of Indian”, apparentemente a favore e a sostegno dei Nativi, si espresse così, nel 1880, con palese delusione in merito alla tanto attesa e sperata scomparsa dei Nativi, i quali riuscirono a sopravvivere alle precarie condizioni di vita e di integrità delle tribù.

45Cfr. Mieder, Wolfgang, “‘The Only Good Indian Is a Dead Indian’: History and Meaning of a Proverbial Stereotype”, The Journal of American Folklore, 106, 419, 1993, p. 41. Concezione a seguito della quale

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XX secolo, alimentato dalla propaganda federale soprattutto in seguito a determinate azioni politiche come il Dawes Act (di cui si parlerà specificamente nel capitolo 2), in base al quale:

Proponents of the act assured the American public that after the reservations were allotted, Indian people would accept their individual land holdings and would be completely assimilated. Native Americans, as a separate and unique ethnic minority group, would essentially disappear. Most Americans accepted this prognosis. Popular images of Indian people as romanticized “vanishing red men” permeated dime novels, popular magazines, and the newly emerging motion picture industry during this period.

46

Questo fenomeno è stato a sua volta combattuto dai Nativi, che hanno affermato la loro presenza e il non essere stati ingurgitati dal sistema eurocentrico (comunque non la maggioranza di essi), riuscendo quindi a combatterlo difendendo e dando continuità al loro mondo, non solo in generale attraverso l’approccio pratico alla scrittura, ma anche letteralmente, così come si legge nelle parole toccanti dello scrittore Simon J.

Ortiz. Da esse emerge anche quel forte legame con il territorio, elemento culturale fondamentale della loro identità, da cui la loro stessa esistenza acquisisce senso e completezza:

We are nowhere else but here. We are here: in this place and in this moment.

Right now, we are not anywhere else. It is important to be conscious of this. It is significant and so important that our very Existence is dependent upon this acknowledgment, realization, agreement, and acceptance. We, as Indigenous

spesso i Nativi, nel corso del XX secolo, si sono ritrovati ad interiorizzazione il loro stato di inferiorità di fronte alla società bianca, che li ha riempiti di bugie (distorsioni storiche), stereotipi e pregiudizi, mortificandoli, disprezzandoli e facendoli vergognare di se stessi. Un fenomeno manifestatosi, quindi, perché privi di un’immagine reale di se stessi con cui potersi confrontare. Per ulteriori info: Morrison, Dane, “In Whose Hands Is the Telling of the Tale?” in Morrison, Dane (ed.), op. cit., 1997, pp. 5-25.

46Edmunds, David R., “Native Americans, New Voices: American Indian History, 1895-1995”, The American Historical Review, 100, 3, Jun., 1995, p. 718. (Mio corsivo). Il Dawes Act or Allotment Act (1887), prevedeva l’assegnazione delle terre indigene, diminuendo ulteriormente i possedimenti dei Nativi: “[...] a new and terribly destructive U.S. policy of destroying the tribal nations themselves through dividing communally held Native lands into individually held small plots of land.” Cfr. Akers, op. cit., 2014, p. 70.

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human peoples, know ourselves within the world we have cultural knowledge of; that is, we know ourselves within the cultural world of the Indigenous tribal communities of which we are members. […] As a result, we are no other cultural human beings but who we are as Indigenous peoples.

47

O in quelle vigorose e orgogliose di Laura Tohe, “superstite” per l’appunto del processo assimilativo teso a eliminare le diversità, la loro Indianness: “A hundred years after [...] we are still here. […] We have not vanished, gone away quietly into the sunset, or assimilated into the mainstream culture the way you envisioned. At least some of us haven’t.”

48

Questo è un passo della lettera idealmente indirizzata proprio al generale Henry Richard Pratt, padre fondatore del sistema educativo delle boarding schools, in risposta a uno dei tanti discorsi in cui il generale espresse il suo pensiero:

“In Indian civilization I am a Baptist, because I believe in immersing the Indians in our civilization, and when we get them under holding them there until they are thoroughly soaked.”

49

L’intolleranza nei confronti del Nativo era una caratteristica inconfutabile della nuova società euroamericana (1776), la quale mostrò sempre più un fare discriminatorio e razzista. Una società opportunista e ingrata: era riuscita a sbaragliare la concorrenza europea servendosi anche dell’aiuto degli stessi guerrieri Nativi, alleanze dimenticate quando le colonie ottennero l’indipendenza dall’Inghilterra, e riutilizzate successivamente all’occorrenza:

[…] before the War of 1812 the United States government hurriedly sent emissaries to the western tribes and tried to force them to choose sides against Great Britain. Again when the life of the small nation was hanging in the balance, the United States was eager to have the support of the Indian tribes.

50

47Cfr. Ortiz, Simon, J., “Indigenous Continuance: Collaboration and Syncretism”, The American Indian Quarterly, 35, 3, 2011, p. 286. (Mio corsivo).

48Laura Tohe, No Parole Today, cit., p. xi.

49Ibidem, p. ix.

50Lo stesso trattamento si ripresentò ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, della guerra in Vietnam e in Iraq. Cfr. Deloria, op. cit., 1988, p. 41.

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Tuttavia, l’atteggiamento ostile e insensibile riservato ai Nativi si evidenziò in un crescendo inarrestabile all’indomani delle teorie dell’evoluzionismo sociale sorte a metà Ottocento, che avrebbero malauguratamente influito drasticamente sulle vite delle popolazioni autoctone.

51

Questo approccio teorico, decisamente eurocentrico, poco dopo si legò alle teorie darwiniane completamente travisate,

52

e da questo connubio nelle prime decadi del Novecento ebbero origine teorie pseudoscientifiche come il “social and economic Darwinism, the survival of the fittest at any cost”

53

a cui fecero seguito opinioni e atteggiamenti razzisti e fortemente discriminatori nei confronti dei Nativi. Queste teorie erano state alimentate certamente dai padri fondatori dell’antropologia euroamericana (tra i primi antropologi riconosciuti come scienziati), secondo cui:

Without literary records neither history nor civilization can be properly said to exist. [Moreover] other achievements of civilization - signs of highly evolved consciousness - include Christianity, industrial advancement, and a state founded on the concept of territory and the ownership of property.

54

Alla prima affermazione si collegava l’idea che, data l’assenza della scrittura presso le culture indigene, e dunque la mancanza di testimonianze scritte, i Nativi fossero per

51Infatti, secondo la visione evoluzionistica classica le varie culture umane erano collocate in differenti stadi evolutivi, poiché la storia della società umana era vista come il prodotto di una sequenza necessaria di stadi di sviluppo sempre più complessi, culminante nella società industriale di metà Ottocento. In questo paradigma teorico i popoli non europei venivano visti come dei fossili viventi di stadi di evoluzione sorpassati dalle popolazioni europee, “clearly, in their own minds, at the height of civilization.” Cfr. Katanski, op. cit., 2005, p. 30.

52Verso la fine dell’Ottocento le teorie di Darwin sulle origini dell’uomo segnarono il trionfo della scienza sulla teologia, divenendo lo stile cognitivo europeo dominante. Si consulti: Stanfield, op.cit., 1985, pp. 391-2. Dall’ambito biologico in cui Darwin effettuò le sue ricerche esse furono poi impiegate per scopi socio-culturali, ossia fondamentalmente a sostegno del colonialismo occidentale,

“costruct[ing] a network of beliefs and theories that confirmed their own racial, social, cultural [white]

superiority.” Cfr. Katanski, op. cit., 2005, p. 30.

53Deloria, op. cit., 1988, p. 176.

54Cfr. Ibidem, p. 31. Per ulteriori dettagli sulle teorie etnologiche americane si veda: Katanski, op. cit., 2005, pp. 30-32.

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giunta dei popoli senza storia.

55

Le idee dell’evoluzionismo sociale regnarono nel pensiero scientifico e popolare americano dalla fine del XIX secolo, e il loro impatto pratico confermava indiscutibilmente l’idea che l’uomo bianco e ogni aspetto della sua civiltà rappresentassero uno standard. In base a questo modello occidentale le popolazioni di Nativi Americani, del tutto prive di quelle caratteristiche, potevano essere “giustamente” giudicate inferiori; e il loro destino si profilava drammatico, come emerge dal pensiero degli etnologi del tempo secondo cui i Nativi “as ‘savage Indians’ could [not] retain a position in American society. [Therefore] the answer always seemed: civilization or death.”

56

Il che significava che la civilizzazione del Nativo appariva l’unico modo per sradicare e cancellare la congenita, peculiare e tanto disdegnata diversità, la sua Indianness.

La diversità del Nativo è stata dunque il motivo principale dell’intolleranza occidentale, sebbene in realtà si possa certamente sostenere che essa non sia mai stata adeguatamente o minimamente conosciuta nella sua complessa e profonda interezza dalla civiltà bianca, la quale si è solo limitata a distruggerla. Questo atteggiamento ostile e pernicioso viene esposto anche da Deloria, il quale sottolinea che per l’appunto

“what the white cannot understand he destroys lest it prove harmful” e continua dicendo che: “the white mythologizes the racial minorities [such as the American Indians] because of his lack of knowledge of them.”

57

In effetti, come vedremo meglio successivamente, la società eurocentrica parla senza cognizione di causa dei Nativi e della loro storia, e, per supplire quelle profonde lacune, costruisce attorno alla figura

55È proprio la convinzione che i Nativi fossero un popolo senza storia uno degli aspetti irrazionali che avrebbero poi costituito, nel XX secolo, una tradizione euroamericana che non solo avrebbe collocato i Nativi in una posizione marginale all’interno della storia dell’America, ma avrebbe rifiutato e screditato la letteratura dei Nativi in cerca di un posto nel panorama storico-letterario americano. Per ulteriori info sugli aspetti che sostennero tale idea si veda: Krupat, op.cit., 1995, pp. 165-74.

56Katanski, op. cit., 2005, p. 31.

57Deloria, op. cit., 1988, p. 195.

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del Nativo dei veri e propri miti; i quali hanno contribuito a produrre una serie di false immagini che hanno perseguitato il Nativo senza tregua accrescendo l’intolleranza nei suoi confronti: stereotipi e pregiudizi. Va da sé che quel disprezzo per la diversità sia stato all’origine delle forme più esasperate di intolleranza sociale e culturale manifestatasi nella storia dei Nativi. Una storia prettamente coloniale, ovvero di sottomissione e controllo, dolorosamente scandita da usurpazione territoriale nonché diniego e sottrazione della sovranità, emarginazione, discriminazione, e dall’assimilazione coercitiva alla cultura euroamericana. Il tutto inaspritosi vertiginosamente tra XIX e XX secolo, epoca in cui la società euroamericana ha tentato crudelmente e in ogni modo, peraltro fallendo per molti aspetti, di americanizzare quel mondo e le culture autoctone, finendo con l’annichilire quei popoli come descritto in un drammatico stralcio di Simon J. Ortiz, in cui spiccano l’afflizione, un senso di impotenza, e la disperazione di un animo tormentato:

[…] the colonization of our land, culture, and community […] is intimately, constantly, and consciously made apparent and known to us because of the colonial language we use all the time, namely, English. […] We cannot help but feel Americanized. That’s too true. No matter how “Indian” we are. No matter how Indigenous we are, we feel Americanized. […] No matter how much or how little we speak our Indigenous languages, we feel Americanized.

No matter what we do to practice our Indigenous traditions and customs and no matter how hard we try to live according to the cultural philosophies of our tribal elders, we still feel Americanized. […] We are in this quandary and dilemma because we are unconsciously and consciously living within colonialism. Because it is the history of colonialism that has circumscribed us and, in a manner of speaking, has determined us, our identity, and our feelings about ourselves.

58

O nelle parole di Laura Tohe che, sebbene possa condividere questa palpabile frustrazione per la violazione della loro “land, culture, and community”, in quanto

58Cfr. Ortiz, Simon, J., Indigenous Continuance, cit., p. 286.

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universale per le culture indigene, ne esprime un altro altrettanto caratteristico di questi popoli, esponendo l’altra faccia della medaglia del colonialismo, ovvero una più che naturale avversione nei confronti dell’Americanness.

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Un sentimento che, d’altro canto, ha prodotto quella spinta in più, necessaria per manifestare la resistenza fiera e coraggiosa a quel processo rovinoso, e all’intero sistema coloniale, riuscendo, infine, ad affermare la loro Indianness, come si illustrerà nel capitolo 3:

Indigenous nations are probably the only Americans that resisted becoming American. […] In the end there are no winners; there are only the victims and the survivors of an inhumane system, whether they are the colonizer or the decolonized.

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Questa voce, come tante all’interno del coro dei Nativi, si espose al mondo per avviare quel processo di ribellione necessario per spezzare le catene del silenzio e della sottomissione.

59L’avversione nutrita nei confronti della società euroamericana si è rafforzata in seguito a un crescente sentimento di unità che ha legato i Nativi nel tempo: “There is not a single tribe that does not burn with resentment over the treatment it has received at the hands of an avowedly Christian nation.” Cfr. Deloria, op. cit., 1988, p. 50. Si veda capitolo 2 (nota 49).

60Laura Tohe, No Parole Today, cit., p. xii.

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1.1.1 Conseguenze del sistema etnocentrico nella vita dei Nativi.

Tra i gravi risvolti che influirono sulla vita dei Nativi, dovuti all’accanito etnocentrismo euroamericano, si scorgono anche emblematici modi di dire, largamente condivisi, che si sostituirono ben presto ai primordiali concetti del “good Indian” o il

“noble savage”, come ad esempio “The Only Good Indian Is a Dead Indian”,

“Civilization or Death to All American Savages”

61

o “Kill the Indian, Save the Man.”

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Dimostrazioni di indubbi intolleranza e disumanità, a riprova del fatto che fondamentalmente la storia dei Nativi Americani è una storia in cui “Indians have been victimized through centuries of land fraud and disease, the manipulation of warriors as mercenaries, the abuse of Indian women, and the capture of Indian children to meet enrollment quotas in boarding schools.”

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A questi dolorosi eventi, nel corso del XX secolo, si sono aggiunti in un susseguirsi inarrestabile i già accennati atteggiamenti razzisti, tendenzialmente orientati non solo al rifiuto ma alla “distruzione” dell’altro.

Tra questi citiamo la sterilizzazione coatta delle donne native,

64

anch’essa alimentata da una serie di pregiudizi inossidabili, inseritisi nell’immaginario comune con offensivi e avvilenti stereotipi costruiti ad hoc dalla società dominante. Se in passato, infatti, il Nativo era considerato un “wild, savage, brutish, or alien enemy in most parts

61“[Where] the word ‘dead’ mean[s] both a literal death and, for those who survived the mass killings, a figurative death, that is, a restricted life on the reservation with little freedom to continue the traditional life-style.” Cfr. Mieder, op. cit., 1993, p. 39.

62Noto motto, proferito da Pratt, che con un “buon” proposito inaugurava l’era civilizzatrice- assimilativa dei Nativi. Si veda: Satterlee, Anita, “The Carlisle Indian Industrial School”, ERIC, 2002, p.3.

63Cfr. Fixico, op. cit., 1996, p. 29.

64Uno dei metodi utilizzati per il “perfezionamento della specie umana” (eugenetica) che negli Stati Uniti prese di mira gruppi di minoranze tra cui le donne native americane. Per visionare alcune testimonianze sugli inganni e le minacce usate contro le donne native per piegare la loro volontà, si consulti: Lawrence, Jane, “The Indian Health Service and the Sterilization of Native American Women”, The American Indian Quarterly, 24, 3, 2000, pp. 400-419.

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of America”

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, soprattutto perché la sua continua (r)esistenza era considerata un ostacolo per il successo dell’azione civilizzatrice, anche in un’epoca (a noi) più contemporanea queste immagini artefatte hanno trovato continuità. Queste distorsioni sono state corroborate, per esempio, attraverso i film e la televisione che hanno sostanzialmente ritratto gli “‘Indians’ as bloodthirsty savages who [were] specialized in slaughtering innocent women and children”

66

; un orientamento su cui venne impostata anche l’educazione prevista per i Nativi, ovviamente di stampo coloniale, attraverso cui venivano plagiati con questi falsi ritratti in modo da creare in essi un profondo senso di repulsione per la loro Indianess, o di paura, o di vergogna, come si illustrerà nel capitolo 2.

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Un esempio che riflette questo orientamento traspare in un racconto di Vickie Sears, “Keeping Sacred Secret”, in cui la protagonista, mixed-blood di 10-11 anni, accoglie le informazioni storiche che si dibattono in classe (una scuola di soli bianchi), con paura per il fatto di essere una nativa; e con rabbia, nei confronti del padre nativo per le bugie che pensa le abbia riferito fino ad allora:

Sixth-grade history class brought discussion of manifest destiny and massacres by Indians. Mary Ann didn’t protest, although she remembered differences in the history her father had taught. She thought her father must have been wrong because books were honest. All the slaughter of the immigrants was written down. She cried, concealed in the cloakroom. Lamented her father’s lies.

Worried that she would be recognized as an Indian. She saw no other dark- skinned children in her school. She looked in other history books. Found it all true. […] Finally she asked her teacher, “Some Indians were good, weren’t they?” “Yes,” came the reply. “The Pilgrims would not have survived without the Indians’ help. But in the westward movement they had to share and they didn’t want to. Also, they didn’t understand that the migrants didn’t want to hurt them. The government wanted to help these people. Reservations were created. […] They could become civilized there. Some people even live on reservation now. It’s best.” Mary Ann swallowed down tears she felt filling her eyes.

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65Cfr. Forbes, The Use of Racial and Ethnic Terms in America, cit., p. 54.

66Cfr. Hoeveler, Diane Long, “Text and Context: Teaching Native American Literature”, The English Journal, 77, 5, Sep. 1988, p. 20.

67Cfr. Satterlee, op. cit., 2002, p. 13.

68Vickie Sears, op. cit., 1990, pp. 18-9.

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Un brano che propone il modus operandi del sistema euroamericano a livello educativo, incurante di provocare nei piccoli Nativi confusione, inquietudine, e un’amarezza tali da sconvolgere il loro essere, fragile e indifeso in quel contesto.

D’altro canto, tra questi spiacevoli prodotti dell’etnocentrismo non può non essere menzionato il più tragico, che probabilmente sintetizza in una sola parola l’intero processo coloniale subito dai Nativi, ossia il genocidio: la manifestazione di una violenta sottomissione psicofisica che ha condotto all’annichilimento di quei popoli, non solo fisico (guerre, massacri, malattie epidemiche) ma anche culturale (usurpazione e assimilazione). Un fenomeno che ha rappresentato uno degli effetti più devastanti e indelebili di quell’intramontabile ideologia occidentale, giacché

“American Indians’ knowledge of [their] historical and continued oppression is experienced as a profound anguish. […] ‘Among Native Americans, the memory of genocide and tribal extinction is a raw unhealing wound, […] a ‘soul wound’.’”

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È indubbio che il razzismo, il genocidio e tutto ciò che comportarono, insieme a molte altre conseguenze sconcertanti del colonialismo etnocentrico, abbiano intaccato e sfaldato la struttura e i capisaldi delle società native; infatti

[…] contemporary American Indian communities struggle with devastating social ills including alcoholism, family violence, incest, sexual assault, fetal- alcohol syndrome, homicide, and suicide at startling rates similar to and sometimes exceeding those of white society.

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Terribili problemi tra i quali l’alcolismo fu la piaga che li distrusse, dal momento che da esso derivarono molti dei comportamenti succitati,

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divenendo, d’altro canto, una

69Cfr. Poupart, Lisa M., “The Familiar Face of Genocide: Internalized Oppression among American Indians”, Hypatia, 18, 2 (Indigenous Women in the Americas), 2003, p. 88. Si veda il capitolo 2.

70Ivi.

71“Strong liquor was first sold to us by the Dutch, and they were blind, they had no eyes, they could not see how much it hurt us. The next people who came were the Swedes, who continued to sell us strong liquor. We love it, so we cannot refuse it. It makes us wild; we do not know what we are doing.

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norma nella maggioranza delle famiglie indigene; e per tale motivo un tema ricorrente dei loro spiacevoli racconti, come riporta Laura Tohe:

My mother used to tell about growing up and how when the men came home intoxicated, the women and children would grab their blankets and run and hide. The next morning they would return to find the men sobered up. Once my younger brother and I ran out the back door and hid in the ditch when we saw headlights coming up the road, because we thought our uncle was coming home drunk.

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E ancora, riguardo quello sfacelo familiare si può leggere dalle sue parole:

Sarah T’s husband shot her at the Tohatchi laundromat while she unloaded the quilts from the pickup truck he waited for her in an arroyo across the highway [ ] then took careful aim

she fell back [ ]

and the blood steamed red all over the rocks

Sarah T’s husband waited until the ambulance had gone then pulled the last bullet on himself in a half-moon light He said he didn’t want to go alone.

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We abuse one another; we throw one another into the fire. ... Through drinking, seven score of our people have been killed. The cask must be sealed, it must be made fast; it must not leak by day or night, in the light or in the dark.” Cfr. First People, Words of Wisdom: http://www.firstpeople.us/FP- Html-Wisdom/Okanicon.html, (ultimo accesso 05/02/2015). Per consultare questo e altri esempi della filosofia e della saggezza, dei pensieri e delle osservazioni su molti aspetti della vita dei Nativi Americani (Chief Joseph, Sitting Bull, Red Cloud, Black Elk, Ohiyesa, e molti altri capi indiani) si consiglia: Louise Mengelkoch, Kent Nerburn (eds.), Native American Wisdom: Classic Wisdom Collections, New World Library, Novato, California, 1993. Inoltre esiste anche un fondamentale problema fisiologico che sta alla base della diffusione dell’alcolismo tra i Nativi Americani. Studi approfonditi sulla questione dell’alcolismo mostrano “a genetic component in the susceptibility to alcoholism. […] Research has identified differences among population groups in the enzyme systems that regulate alcohol metabolism; those differences are thought to account for some cultural differences in drinking patterns. Cfr. Beauvais, Fred, “American Indians and Alcohol”, Alcohol Health

& Research World, 22, 4, 1998, p. 256.

72Cfr. Tohe Laura, “Hwéeldi Bééhániih: Remembering the Long Walk”, Wicazo Sa Review, 22, 1, 2007, p. 80. (Mio corsivo)

73Laura Tohe, No Parole Today, cit., p. 37.

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In questa poesia emerge la follia e la disperazione di un atto, compiuto dall’incapacità di continuare a vivere in condizioni avvilenti in un mondo tanto ostile ed estraneo. Una scelta compiuta frequentemente dai Nativi, perché quel mondo ha spesso concesso loro solo la morte come via di fuga.

Questi seri e gravosi problemi derivarono anche dal fatto che il sistema euroamericano non fu mai sensibile e attento alle esigenze dei Nativi, né diede mai loro la reale opportunità di migliorare la posizione sociale all’interno della società dominante considerandoli e trattandoli alla pari dei cittadini bianchi.

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Le parole di Chief Joseph (Nez Perce), sostengono questa assenza di uguaglianza alla base dei problemi vissuti dai Nativi e dei continui contrasti tra le due società, che non riuscirono mai coesistere: “If the white man wants to live in peace with the Indian, he can live in peace. Treat all men alike. Give them all the same law. Give them all an even chance to live and grow.”

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Da premettere, peraltro, che sin dal principio la società coloniale prima e quella imperialistica euroamericana dopo, non riconobbero mai l’intrinseca organizzazione sociale, politica e culturale dei Nativi, ma al contrario la (s)travolsero per assimilarli alla società patriarcale e capitalista, per aggiustare quelle culture troppo diverse da sé. Tale comportamento arrogante e ottuso condusse le comunità native alla povertà, alle crisi identitarie (smarrimento e alienazione) e alla depressione;

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oltre che

74Cfr. Oliver, Christopher, “The internal colonialism model. What the model has done to the education of Native Americans”, ERIC, 1996, p. 20.

75Cfr. First People, Words of Wisdom: http://www.firstpeople.us/FP-Html-Wisdom/ChiefJoseph.html (ultimo accesso 05/02/2015). Oppure si veda: Mengelkoch and Nerburn (eds.), op. cit., 1993, p. 23.

76Da uno studio condotto negli anni ’80 emergeva che “among the poorest people in the nation, reservation Indians commonly have unemployment rates of more than 50 percent. […] One reason for Indian poverty is that many Native Americans reside on reservations with marginal land that can be farmed only through irrigation. Some 55 percent of the country’s Indian reservations are arid or semi- arid, and about 75 percent of reservation Indians live on that dry land. Many reservations have rivers flowing through them or adjacent to them, yet Indian residents are unable to irrigate because non- Indians have appropriated the legal right to use water from these streams. Potentially valuable Indian resources thus remain unproductive.” Cfr. Hurtado, Albert, L., “Public History and the Native American: Issues in the American West”, Montana: The Magazine of Western History, 40, 1990, p. 64.

Inoltre, come argomenta Susan Miller (Seminole), lo smarrimento è prodotto dalla mancanza di elementi fondamentali della propria cultura in quanto per l’appunto “[…] the side effects of

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a una violenza soprattutto fraterna e fratricida piuttosto che contro il “vero nemico”, l’uomo bianco, tanto che “most violent crimes on the reservation are committed by Indians against Indians.”

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Per i Nativi inserirsi e adattarsi al mondo euroamericano è stato indicibilmente arduo come ci racconta Laura Tohe, la quale si chiede come le generazioni che l’hanno preceduta abbiano potuto affrontare la loro esperienza di vita nella società dominante in situazioni certamente più estenuanti. La sua riflessione sottolinea questa enorme difficoltà non per compiangersi e compatire le generazioni passate, ma per esprimere la loro forza e il loro coraggio connaturati, specie per culture matrilineari (come la sua) in stridente rapporto con quella patriarcale dominante:

As long as I can remember, the Diné (or Navajo, as we are also referred to) women in my life have always shown courage, determination, strength, persistence, and endurance in their own special way. My female relatives lived their lives within the Diné matrilineal culture that valued, honored, and respected them. […] I have children of my own now. I hold a Ph.D., write, and teach in a large Southwestern research university. I live a relatively comfortable life, unlike that of my mother and her generation of Indian women, who were for the most part thrust into a world that required them to know how to fill out job applications and pass a driver’s license test. The world had changed for these women, who were still bound to the traditional ways of living and providing for the family. I imagine my mother now and the daily struggles Indian women from her era had to endure and still endure. I ask myself: How did this previous generation of Diné women do it? How did they survive the hand-to-mouth existence that became more common after boarding schools and the introduction of a monetary system? Tremendous changes took place in the lives of these women, particularly during and after World War II. However, this is not a story about “those poor” Indian women who were assimilated, colonized, Christianized, or victimized. This is a story about how these women cling to the roots of their female lineage despite the many institutional forces imposed on Indian communities and how they continue to survive despite five

colonization include the loss of Indigenous languages and traditions.” Ad esso si lega anche il concetto dell’alienazione causata dal fallimento del processo assimilativo che non preservò l’integrità dell’identità nativa e non riuscì a farli inserire adeguatamente nella società euroamericana, come perfette copie del cittadino bianco. Motivi che spinsero i Nativi a intraprendere un necessario percorso di de-colonizzazione: “a movement to rid the tribes of colonized relations with nation-states and the destructive effects of those relations.” Cfr. Miller, Susan A., “Native Historians Write Back: The Indigenous Paradigm in American Indian Historiography”, Wicazo Sa Review, 24, 1, 2009, pp. 34-8.

77Cfr. Lujan and Adams, op. cit., 2004, p. 13.

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hundred years of colonialism. The Diné women continue to possess the qualities of leadership and strength and continue to endure and ultimately to pass on those qualities to their daughters, even though there is no word for feminism in the Diné language.

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Le difficili situazioni affrontate dai Nativi li hanno impegnati in una costante e ardua impresa di sopravvivenza: ovvero preservare l’identità, la dignità e il proprio patrimonio socio-culturale. Una lotta insita nella vita delle popolazioni native sin dagli albori del colonialismo etnocentrico europeo ed euroamericano. Invece in “Keeping Sacred Secrets” di Vickie Sears, la difficoltà di inserimento nel mondo e nella cultura americana è palese nel disagio vissuto dalla protagonista Mary Ann. Cresciuta dalla nonna e dal padre nativi profondamente amati, alla morte di quest’ultimo viene affidata suo malgrado alla madre bianca (“Ginger Facts: white lady; divorced Daddy and maybe didn’t like him; she’s Catholic; wants me to be Catholic; wants me to stop seeing my other family”

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):

Her father had said that cedar was a medicine and a teacher. If you listened, she would tell you stories. […] “O.K., cedar, tell me what my father would say.

How do I live here?” […] She didn’t hear anything she thought were answers.

She yelled, “I can’t. I don’t know how to do it. She wants me to be something I’m not. Nobody told me how to do that. Damn you, Daddy! Damn you! Damn you!” […] In her head she could hear her grandmother admonishing her in her limited English that women didn’t need to curse because they are already strong people. She screamed at her gradmother. “I don’t care, you old dummy.

You lied to me. You all just went away. You just threw me away!” She sobbed for what seemed a very long time.

80

Il malessere e l’infelicità interiori si placano gradualmente ma, sforzandosi di adattarsi al nuovo ambiente e alla nuova vita, giungono al culmine di fronte al disprezzo della madre, un’estranea che detesta il mondo nativo e l’Indianness della figlia:

78Cfr. Tohe, Laura, “There Is No Word for Feminism in My Language”, Wicazo Sa Review, 15, 2, Native American Literature on the Edge of a New Century, Autumn 2000, pp. 103-4. (Mio corsivo).

79Vickie Sears, op. cit., 1990, p. 11.

80Ivi.

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