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Claude Simon Claude Simon Claude Simon

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Elementi per una poetica di Elementi per una poetica di Elementi per una poetica di Elementi per una poetica di Claude Simon

Claude Simon Claude Simon Claude Simon

Traumatica mancanza di significato Traumatica mancanza di significato Traumatica mancanza di significato Traumatica mancanza di significato

Il presente lavoro è fondato sulla necessità di trovare punti di riferimento nel disordine. Mi chiedo cosa possa offrire, all’uomo, l’esperienza del disordine, e se l’aspirazione ad organizzare il modo in cui la realtà e gli avvenimenti si presentano ai nostri occhi, ci aiuti veramente a comprendere il mondo e a viverlo come un ambiente familiare.

Seguendo il senso comune consideriamo come disordine, in astratto, un’apparenza che riveli la trasgressione di certe regole; in un linguaggio proprio della meccanica, mancanza di funzionalità in un dispositivo; turbamento dell’ordine pubblico, in una prospettiva sociale. Un punto di riferimento è un oggetto che serva a «determinare un orientamento, in senso proprio o figurato». Traduciamo in francese la parola ‘riferimento’ in due modi: genericamente con repère, elemento utile per sistemare un insieme di parti allo scopo di svolgere un lavoro con precisione, o che permetta di localizzare un fenomeno, di riconoscere una cosa in un insieme; seguendo l’apporto dello strutturalismo, con référent, il significato o referente di un’espressione, a cui, nella teoria saussuriana del segno linguistico, è collegato l’elemento formale del significante1.

Le due accezioni con cui il termine ‘riferimento’ può essere inteso sono concettualmente opposte rispetto alla nozione di ‘disordine’. La proprietà di precisione che caratterizza, tra le altre cose, il ‘riferimento’ in quanto elemento per orientarsi in una situazione, non è per niente rilevabile nello sconvolgimento di regole provocato da un contesto di confusione; mentre – secondo un livello anche solo intuitivo di ragionamento - per fissare un significato ad una parola, è necessario che

1 F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Paris, Payot, 1971.

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l’oggetto al quale vogliamo riferirci sia inequivocabilmente uno, in modo tale da poterlo nominare sempre con lo stesso termine, e senza ambiguità che destabilizzino l’assegnazione. Queste considerazioni possono essere valide solo in linea di massima: in realtà sappiamo che, per via del principio di polisemia, una parola può anche essere riferita a più oggetti, mentre il concetto di orientamento acquista tutto il suo valore di stabilità proprio se rapportato in applicazione ad una situazione di confusione da dominare. Fra i due concetti, quindi, è possibile stabilire dei rapporti, ed i romanzi di Claude Simon, in proposito, contengono diversi spunti di riflessione.

L’autore ha sempre fondato l’attività di scrittura su una forte considerazione della polisemia del linguaggio e del disordine con cui gli eventi, nella realtà, si presentano all’esperienza umana, assumendo i due dati di fatto come aspetti divergenti ma complementari di un’esperienza letteraria unica ed inscindibile. In questo senso potremmo pensare che, nei suoi romanzi, la varietà del linguaggio appaia come riflesso del disordine della realtà; ma non è esattamente così. Parlo infatti di analogie, ma anche di differenze, poiché Simon non considera il linguaggio come qualcosa in grado di descrivere il mondo con adeguata semplicità.

Non è scontato che vi sia un rapporto stretto fra le parole e le cose; se un temine può riferirsi a più oggetti, determinando così una visione instabile del significato, in modo analogo gli eventi si susseguono, a volte, nel campo dell’esistenza, con un’incoerenza che li sottrae ad un’interpretazione lineare e rassicurante. D’altro canto, l’instabilità del riferimento pone un’ombra di ambiguità sul problema di comprendere il mondo, in maniera tale che la corrispondenza fra una parola ed un oggetto risulterà un principio solo ideale, mentre in realtà alla discontinuità dell’esperienza umana corrisponderebbe un linguaggio variabile, cangiante, anch’esso discontinuo per quel che riguarda i contenuti di significato, cosicché non potrebbe mai esistere un punto di contatto fra le due dimensioni.

La connessione sfugge, e si dissolve così l’idea ‘corrispondentista’ per cui le parole sono in accordo con i fatti della realtà2. E’ molto eloquente, in proposito, l’icastica citazione di Rilke che costituisce l’epigrafe di Histoire:

Cela nous submerge. Nous l’organisons. Cela tombe en morceaux.

Nous l’organisons de nouveau et tombons nous-mêmes en morceaux.

2 N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, 1961. Il concetto filosofico di corrispondentismo – diffuso, tra l’altro, nella filosofia analitica e neo-empirista a cavallo fra la fine dell’Ottocento e il Novecento - è praticamente identico a ciò che in ambito linguistico viene definito come referenzialismo. In entrambi i casi si indica la connessione fra gli oggetti del mondo e le parole che utilizziamo per indicare essi.

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Esiste qualcosa, nelle parole di Rilke, che frustra la nostra necessità di orientamento; ci avvolge, ci stravolge, fino a farci sentire in pezzi, in frammenti, come la visione del linguaggio e della realtà che stiamo adottando. Naturalmente è spontaneo chiedersi quale sia la causa del misterioso sconvolgimento; ma senza preoccuparci, per il momento, di scoprire il significato della fonte originaria della citazione, apprestiamoci piuttosto a soppesare il suo senso all’interno del testo di Simon. Ci sommerge forse la storia a cui accenna il titolo del romanzo, o l’esperienza caotica della realtà? Nel caso in cui fosse la storia, di quale storia si tratta?

Da individui, siamo comunque coinvolti nel caos di un’entità più grande che assume così un aspetto totalizzante. Il problema è trattato nella scrittura di Simon come una dialettica che coinvolge il piano dell’esistenza in quanto realtà vissuta e la possibilità di raccontare tale dimensione della vita umana. Per ciò sceglierò preliminarmente di affermare che non è la storia a sommergerci, né la realtà, o il linguaggio, ma la questione stessa dell’inconciliabilità fra queste istanze. Vediamo come.

Sin dal titolo, Histoire pone il lettore nelle condizioni di chiedersi quale sia la storia contenuta nel libro che ha fra le mani. Potrebbe trattarsi di un manuale di storia o di un poema sulla storia dell’umanità, della storia di un uomo qualsiasi o di una personalità che ha fatto qualcosa di notevole in qualche periodo storico non ben precisato; i giochi di parole su un termine come histoire e la sovrapposizione di ipotesi sul suo significato in riferimento al titolo di un libro potrebbero continuare all’infinito se, ancora sulla stessa copertina, il titolo ‘Histoire’ non fosse accompagnato dalla sigla ‘roman’. E’ implicito, con questo termine, che Histoire non è un poema epico, né un manuale di storia, ma una narrazione, un récit. Selezionando un significato fra quelli possibili della parola récit3, il lettore sarà subito certo che nel libro viene esposta la narrazione di un avvenimento o una serie di eventi; su una storia che, insomma, ne è il contenuto - nei termini della linguistica, il referente - e che però continua a rimanere misteriosa.

Le incertezze iniziano nuovamente a moltiplicarsi non appena, alla lettura dell’incipit, si presentano due soggetti, precisamente un io narrante seduto ad una finestra e il ramo di un albero che sfiora la medesima finestra: nella frase il ramo non è citato subito tramite il nome che lo denota in lingua francese – il femminile ‘branche’ -, ma la sua presenza nella descrizione è anticipata dal pronome elle. Ci accorgiamo che il pronome si riferisce al termine branche solo dopo che la frase ha indugiato sulla descrizione di foglie illuminate ad intermittenza dai chiaroscuri prodotti da una lampada, e che il termine stesso è direttamente proposto all’interno di una parentesi in cui vengono precisate le sensazioni che l’io narrante prova di fronte alla visione dell’albero. Rendendoci conto, così, di cosa stia parlando il narratore, dobbiamo, però, subito mettere in discussione la nostra scoperta: la frase è interrotta, interviene un ‘a capo’ e, nel paragrafo successivo, continua sempre a

3 G.Genette, Figures III, Paris, Seuil, 1972.

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svolgersi la descrizione di un soggetto al femminile, denotato con il termine elle, che tuttavia non sembra più riferirsi ai rami, ma ad un soggetto evidentemente animato, viste le espressioni che vi si riferiscono – geignardes, ses pièces. È così che le parole di Histoire introducono nella sequenza le anziane donne aristocratiche o alto-borghesi che accompagnano i ricordi d’infanzia dell’io narrante.

Ci troviamo evidentemente in piena ambiguità di linguaggio, e, parafrasando Rilke, cadiamo un’altra volta in pezzi. Oltretutto, questa pagina esprime in modo fulminante l’allontanamento fra il referente e le parole che in una concezione ingenuamente corrispondentista del linguaggio sarebbero ben saldi fra loro. La frase di Claude Simon riproduce questo distacco all’interno del linguaggio, nel rapporto sintagmatico fra le parole, attraverso lo sfruttamento estremo della deissi.

I deittici sono termini del linguaggio fondamentalmente vuoti di senso, che non si riferiscono a nessun oggetto in particolare, e a cui va assegnato un significato solo in dipendenza dal contesto in cui occorrono. In essi vi è un superamento dei limiti della polisemia dei nomi comuni: se, ad esempio, la parola ‘rosa’ può riferirsi ad un fiore come ad un colore ed è collegata a questi due riferimenti già prima dell’uso che possiamo farne nei nostri discorsi, non è così per parole come

‘questo’, ‘quella’, ‘egli’, ‘lì’, le quali non hanno dei sensi definiti ma si riferiscono, in ogni loro occorrenza, all’oggetto, alla persona o al luogo indicati specificamente dalla frase che li contiene. I pronomi personali sono deittici per antonomasia, e l’occorrenza ambigua di elles nel contesto che ho appena descritto è un esempio della varietà di cose a cui possono essere riferiti. Una delle loro funzioni, detta cataforica4, permette di segnalare l’emergenza di un soggetto in una frase prima che il soggetto stesso venga denotato con la parola a cui è riferito. La stessa cosa avviene per i rami e per le anziane signore di Histoire, che sono già presenti nella frase in cui fungono da soggetto, prima ancora di essere direttamente nominati, e in questo modo sono come allontanati dalla percezione che abbiamo di essi; quando sono esplicitamente citati nel testo, noi, come lettori, li teniamo già presenti in quanto oggetti del mondo descritto dal narratore.

A ciò si aggiunge la forzatura dei limiti di ambiguità che l’uso della deissi può permettere: le due operazioni cataforiche appena descritte avvengono col sostegno di un solo pronome, il suddetto elles, che oltre ad essere in sé privo di senso definito, lo diviene anche nel testo, sostenendo, in un’unica, lunga e anomala frase, due nomi diversi.

Penso che questi esempi siano sufficienti per illustrare la forma assunta nella scrittura di Simon dall’idea di una inesorabile inconciliabilità fra il bisogno di raccontare esperienze che spinge un autore ad accingersi al lavoro sulla propria opera, e l’incapacità insita nel linguaggio ad afferrare la realtà. I termini della questione rimandano alla difficoltà di porre una relazione fra la confusione e il bisogno di orientamento, e sono direttamente collegati a due temi fondamentali della letteratura e

4 G. M.Green, Pragmatica, Padova, Muzzio, 1990.

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delle scienze del linguaggio dello scorso secolo: la critica al romanzo realista, e il problema del riferimento.

Durante la prima metà del Novecento molti segnali, in ambito intellettuale, lasciavano intendere che le basi del romanzo ereditate dalla letteratura di Balzac o Stendhal non costituivano più validi strumenti per rappresentare i cambiamenti sociali e il ritmo della vita contemporanea.

Negli anni Venti, in pieno periodo surrealista, le dichiarazioni screditanti di André Breton contro le descrizioni del romanzo ottocentesco, definite come inutili e tediose nel primo manifesto del Surrealismo, avevano preteso di consegnare la scrittura al ritmo della vita e delle inquietudini che il disordine urbano incuteva nell’individuo moderno.

Fra altre tendenze della scrittura posteriori all’esperienza di quella generazione, negli anni Cinquanta, Nathalie Sarraute e Alain Robbe-Grillet osservavano un atteggiamento di insofferenza, da parte di alcuni significativi autori, nei confronti del tradizionale personaggio da romanzo, che si evolve durante il dispiegamento di un intreccio narrativo ed è espressione di un carattere dagli elementi accuratamente ponderati in fase di composizione. I personaggi del romanzo realista, come le storie raccontate, si basano sulla finzione: l’autore sceglie una serie di eventi da raccontare e, in una sorta di fase ideativa, li organizza tramite uno schema, una traccia che, in una fase ulteriore, sarà seguita, ricalcata, nel corso della scrittura, per dare forma al récit, alla narrazione, che in tal modo potremmo considerare come una selezione di eventi da raccontare organizzati già prima del lavoro di scrittura; seguendo un metodo identico, l’autore del romanzo realista inventerebbe i suoi personaggi unendo una serie di caratteristiche, di comportamenti, di tratti morali e fisionomici, sempre nel corso di una fase anteriore alla stesura del testo5.

La lunga gestazione di un’opera come la Recherche di Proust, tuttavia, dimostra quanto un autore possa misconoscere il carattere del personaggio di cui si occupa: Marcel, che cerca di ricomporre episodi passati per valutare la propria identità in rapporto alle influenze del mondo in cui è cresciuto, è un personaggio in continua rielaborazione, che dimostra una complessità psicologica lontana dall’avarizia a tutto tondo del père Goriot di Balzac; la sua complessità riesce a descrivere molto più efficacemente l’inquietudine umana6.

Un autore moderno non si accontenta più di raccontare contenuti predeterminati rispetto al momento della scrittura. Un esempio di questo atteggiamento di sospetto da aggiungere a buon titolo alla Recherche sono i Tropismes che N. Sarraute pubblicò nel ’38: ventiquattro testi brevi in cui non esiste la minima traccia di storia da raccontare, e in cui, piuttosto, la frase indugia su insegne luminose, o frammenti di dialogo fra personaggi che spesso sono indicati solo con dei

5 A.Robbe-Grillet, Pour un nouveau roman, Paris, Éditions de Minuit, 1961.

6 N.Sarraute, L’ère du soupçon, «Les Temps Modernes», n. 52, 1950 ; pubblicato nell’omonima raccolta di saggi, L’ère du soupçon, Paris, Gallimard, 1964.

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pronomi personali. Questo caso precede di gran lunga i romanzi di Simon per la costruzione di strutture dal senso indeterminato e per il tentativo di seguire la mutevolezza della realtà raccogliendo i particolari anche più banali dell’esistenza.

Tornando alle critiche di Breton, c’è da notare che hanno ben poco in comune con le osservazioni di Nathalie Sarraute e Robbe-Grillet; ma al di là dell’analogo spirito di contestazione, entrambi i tipi di intervento puntano, sia pure rivolgendosi contro obiettivi diversi, ad abbozzare spunti di riflessione sulla scrittura cui seguiranno, negli anni successivi, le prove di altri autori rivolte alla rielaborazione di tutte le componenti della struttura di romanzo.

Gli individui anonimi e svuotati di identità dei Tropismes sarebbero stati presto affiancati dagli amorfi Molloy e Malone, a cui Samuel Beckett cambia spesso aspetto, carattere e nome nel corso della narrazione; Robbe-Grillet accentuerà la dimensione di uno sguardo onnivoro rivolto agli oggetti anche più insignificanti, dietro il quale proverà a neutralizzare la figura del narratore onnisciente che nei modelli di Balzac accompagnava il resoconto degli eventi esprimendo giudizi morali e guidando l’interpretazione del lettore; mentre, per quanto riguarda i destini delle provocazioni surrealiste, uno degli scrittori che erano stato coinvolti in quell’avventura, Raymond Queneau, fra gli anni Trenta e Quaranta elabora una forma di sospetto sul fronte del linguaggio, mescolando, in fase di composizione, una lingua letteraria arcaicizzante allo argot e a trascrizioni dello stile parlato, per portare avanti l’idea che il linguaggio ereditato dal passato non era più valido per l’espressione delle nuove inquietudini7.

Il problema fondamentale che attraversa queste poetiche, differenti per molti versi fra loro, è di fare tabula rasa nel rapporto fra il mondo e il linguaggio che fino ad allora ha preteso di rappresentare qualcosa, prima ancora che nel modo di esercitare questa facoltà di rappresentazione attraverso l’attività narrativa. Per cui penso che l’insofferenza verso il romanzo dell’Ottocento osservata dall’autrice dei Tropismes, alla luce di questi dati storici, sia agevolmente traducibile in termini di sospetto generale nei confronti del rapporto di referenza fra le parole e le cose.

Claude Simon pubblica i primi romanzi in questa atmosfera di rinnovamento estetico, e l’assenza di un significato nel testo letterario è proprio una questione da cui nasce la sua scrittura anticonvenzionale. Nelle opere che precedono Histoire la realtà è presentata come costantemente incomprensibile. I protagonisti trascorrono il loro tempo dedicandosi ad attività che non li coinvolgono mai completamente e vi è un continuo pensare, riflettere su eventi che hanno segnato inesorabilmente la loro vita8. Frammenti di ricordi privati o di eventi che coinvolgono intere comunità invadono continuamente l’esistenza e il tentativo di mettere ordine fra quei pensieri risulta

7 G.Picon, Panorama de la nouvelle littérature française, Paris, Gallimard, 1976.

8 S.Doubrovsky, Notes pour la genèse d’une écriture, «Entretiens», n. 31, Rodez, Subervie éditeur, 1972 ; ristampato in Parcours critique. Essais, Paris, Galilée, 1980.

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vano, anzi, è assunto come vano quasi aprioristicamente. Una sorta di dogma dell’inenarrabile contrasta fortemente con la necessità di affrontare la mancanza di leggibilità del mondo, e la successione degli eventi non è guidata da una logica, ma l’individuo non rinuncia ad applicare griglie di lettura all’insensatezza.

La perdita di contatto fra il linguaggio e i significati che esso rappresenta è assunta, nelle parole dei personaggi di Simon, come un’esperienza traumatica, una lesione ricondotta, a partire dal romanzo del 1960, La Route des Flandres, agli effetti psicologici subiti dall’individuo moderno dopo l’esperienza della seconda guerra mondiale. Nel commento ad una lettera del padre sulla distruzione della biblioteca di Lipsia, George, un soldato, personaggio principale dell’opera, dice al commilitone Blum che se l’uomo continua a perpetrare devastazione anche dopo che la storia ha permesso di accumulare una quantità di libri e di pensiero come quella conservata nella biblioteca, se, insomma, la memoria esiste solo per essere calpestata, allora è inutile dolersi per la sparizione di quella riserva di cultura. In fondo è più importante preoccuparsi di altre necessità. Le considerazioni di George si perdono così nell’evocazione di oggetti di uso quotidiano di cui l’uomo ha più bisogno – calze, sapone, cibi in scatola. L’evento dell’esplosione di Lipsia ha colpito la facoltà del protagonista della Route di credere nella cultura, con la sparizione dei libri raccolti nella biblioteca viene liquidato il valore che può avere il racconto dell’esperienza umana. Le parole, in quanto elemento costitutivo del linguaggio e, di conseguenza, dei racconti e dei resoconti contenuti nei libri della biblioteca, perdono la consistenza materiale conferita loro dal mezzo della stampa, dall’inchiostro, dal lavoro di scrittura, e con ciò si disperde parte della loro materialità, del loro essere al mondo.

Le conseguenze apportate alla realtà dalla ‘bomba’ in quanto oggetto di distruzione non si limitano ad un esempio storico considerato nella sua unicità. La devastazione traumatica è anche il motivo per cui, in Histoire, pubblicato sette anni dopo La Route, Charles, lo zio dell’io narrante, suggerisce al nipote che la ricomposizione degli eventi custoditi dai ricordi non è un’attività praticabile con troppa disinvoltura. Charles svolge il suo ragionamento, paradossalmente, proprio nello stesso momento in cui chiede al nipote un racconto riguardo ai fatti osservati durante la partecipazione alle guerriglie urbane di Barcellona nel corso della guerra civile in Spagna e, con tono di rimprovero beffardo, chiede al nipote se, partendo per il fronte, non avesse minimamente pensato al sangue che sarebbe stato cosparso proprio davanti ai suoi occhi. Assistiamo, quindi, ad un'altra occorrenza del tema della guerra in accostamento al problema del riferimento.

Per Charles vivere i conflitti in prima persona non è come leggerne la storia nei libri. La differenza fra la realtà e il resoconto che i manuali scolastici possono farne è come lo scarto di significato che può avere la parola ‘bomba’ (obus) quando intorno a noi tutto salta in aria a causa di

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un’esplosione e ci ritroviamo scaraventati per terra con del fango a sostituire le parole che potrebbero esprimere il nostro scoramento:

... entre le lire dans des livres ou le voir artistiquement représenté dans les musées et le toucher et recevoir les éclaboussures c'est la même différence qui existe entre voir écrit le mot obus et se retrouver d'un instant à l'autre couché cramponné à la terre et la terre elle-même à la place du ciel et l'air lui- même qui dégringole autour de toi comme du ciment brisé des morceaux de vitres, et de la boue et de l'herbe à la place de la langue, et soi-même éparpillé et mélangé à tellement de fragments de nuages, de cailloux, de feu, de noir, de bruit et de silence qu'à ce moment le mot obus ou le mot explosion n'existe pas plus que le mot terre, ou ciel, ou feu, ce qui fait qu'il n'est pas plus possible de raconter ce genre de choses qu'il n'est possible de les éprouver de nouveau après coup, et pourtant tu ne disposes que de mots, alors tout ce que tu peux essayer de faire... »9

Non c’è nessun paragone plausibile fra la realtà vissuta e la rappresentazione che se ne potrebbe fare; è così che nemmeno la più suggestiva riproduzione artistica di un quadro arriverà mai ad esprimere il senso degli eventi. Di essi ci rimangono solo vaghe sensazioni che vorremmo comunicare attraverso l’uso delle parole, ma la disumana, fredda causalità degli effetti della bomba sulla materialità dell’esistenza, non può essere riprodotta dalle parole con lo stesso impatto.

Saltano le strutture logiche che utilizziamo per mettere ordine nelle nostre percezioni del reale tramite l’uso del linguaggio. Nel testo, mentre Charles dice « et pourtant tu ne disposes que de paroles », la frase si interrompe e viene ripresa soltanto dopo una divagazione dell’io narrante su alcuni ricordi che lo legano al laboratorio di enologo di Charles in cui si svolge il dialogo, ad un albero di ciliegio che si trova fuori dalla finestra, e ad un rubinetto dove un tempo Corinne, la figlia di Charles, annaffiava foglie di edera. Alla difficoltà, direi, teorica, che costituisce la disillusione dello zio sulla possibilità di raccontare, si aggiunge la difficoltà di raccontare, a distanza di anni, il dialogo stesso con Charles, visto che nella memoria le immagini si affollano. Ciò provoca un accavallamento di discorsi che si riferiscono a tempi ed eventi diversi, con una conseguente discontinuità nell’allineamento della frase in sequenza sintagmatica continua e articolata. Gli ostacoli alla narrazione sono ben rappresentati nel momento in cui le parole di Charles continuano dopo la digressione:

« ... je veux dire que tout ce que tu peux faire c'est d'essayer de mettre l'un après l'autre des sons qui...

Ferme donc ce volet tu fais entrer la chaleur c'est tout Quand tu regarderais ce robinet cent sept ans ce n'est pas ce qui le fera couler de nouveau10

9 H, p.152. Con la sigla H indicherò le citazioni da Histoire nel corso di tutta la tesi. L’edizione del testo a cui faccio riferimento è la prima, pubblicata presso «Les Éditions de Minuit» nel 1967. Come indico nella bibliografia relativa alle opere di Simon, il romanzo è stato ristampato nel ’73 per la collana «Folio», senza – pare – correzioni o nuovi interventi da parte dell’autore. E’ perciò che adottiamo in questa sede l’edizione originale del testo, utilizzata, del resto, nella maggior parte degli interventi critici sul romanzo.

10 Ibidem, p. 155.

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Puntini di sospensione frenano il procedere della frase con cui Charles vuole esprimere la sua idea e il nipote non è nemmeno tanto attento al discorso, distratto com’è dal rubinetto e dal suo divagare fra i resti eterogenei del passato. La frase è così interrotta di nuovo, stavolta da Charles, che chiede al nipote di chiudere la finestra, aggiungendo che il semplice fatto di guardare il rubinetto dopo decenni in cui non è stato usato, non lo farà funzionare come un tempo. Si tratta, in altri termini di una metafora sull’inutilità dei tentativi di ricostruire il passato tramite l’attività del racconto; in altre parole, viene ribadito che il discorso retrospettivo non ci dà la capacità di rivivere gli eventi.

La tragicità di un impatto esistenziale simile con la degradazione della storia dell’umanità è descritta già da Walter Benjamin in relazione alle devastazioni verificatesi durante la prima guerra mondiale11. Il filosofo legge nei romanzi posteriori al conflitto una diffusa mancanza di comunicazione dell’esperienza. Seguendo le sue coordinate possiamo considerare l’esperienza come ‘vera’ - Erfahrung – o ‘vissuta’ – Erlebnis. L’ultima delle due non lascia traccia nella memoria individuale e collettiva, scorre via, come il flusso indistinto degli eventi, senza apporto di significato per l’uomo. La prima invece è basata su un accumulazione di pensieri riguardo agli eventi vissuti da un uomo, che può generare un insegnamento tramandabile. L’impiego di armi sofisticate ha scaraventato l’uomo in un annichilimento dal quale non è stato possibile trarre insegnamenti. L’individuo assiste alla facilità con cui la vita cessa e non può più scegliere una summa di avvenimenti che ha vissuto e raccoglierla in una narrazione per trarne un senso, poiché è stato allontanato da ogni altra esperienza possibile, da ogni possibilità di svolgere un resoconto qualsiasi e comunicarlo ad un interlocutore. Manca il contatto con la vita che, oltre a scorrere sull’asse irrefrenabile del tempo, fugge via in seguito alla devastazione; e a questa mancanza si aggiunge la caduta dell’illusione culturale che vi sia un rapporto di riferimento fra il linguaggio ed il mondo.

Queste perdite di valori, di presa e dominio sulla realtà, sono rappresentate, a cavallo fra le due guerre mondiali, nella Nausée di Sartre e nel Voyage au bout de la nuit di Céline con modalità espressive che ritroveranno una forte linea di continuità nei romanzi di Simon.

Nei primi capitoli del Voyage, Bardamu si arruola seguendo lo slancio delle sfilate di combattenti in partenza per il fronte che invadono la città. Ciò avviene nella breve introduzione al romanzo. Nei capitoli immediatamente successivi il suo scaglione dell’esercito si allontana dal centro della città, poi dalle abitazioni di periferia, fino al momento in cui non c’è più nessuno ad incitare i soldati e ad acclamarli per il gesto eroico di difesa della Patria che si preparano a compiere. Il tempo è accelerato, ci troviamo dalla città al campo di battaglia nel giro di poche

11 W.Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi,1962, 1995.

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pagine. A questo punto Bardamu pensa che non ci sia più alcun motivo per essere allegri. Cosa fare dell’esperienza sordida in cui adesso si trova scaraventato senza via di uscita? Chi ne leggerà il resoconto trarrà qualche insegnamento?

La proprietà della Erfahrung di veicolare un insegnamento, un principio di saggezza tramandabile, non ha presa. La radice della parola tedesca è la stessa del verbo fahren, che in italiano tradurremmo con ‘andare’, ‘condurre’: in un certo qual modo ‘produrre continuità’, permettere che un’idea si diffonda. Il romanzo di Céline rappresenta sin dal titolo la perdita di questo valore positivo nella mancanza di coordinate della notte in cui l’individuo moderno è stato catapultato. La continuità fra l’esperienza accumulata da chi racconta e il beneficio che ne può trarre chi ascolta o legge - una proprietà che Benjamin chiama ‘consiglio’- manca alle parole di Bardamu, poiché le azioni dei soldati sono prive di interesse, di immaginazione, in quel che fanno non c’è nulla di nuovo o di essenziale da tramandare: «Le colonnel n’avait jamais eu d’imagination lui. Tout son malheur à cet homme était venu de là, le nôtre surtout » 12. L’insensatezza della realtà avvolge, nel resto del romanzo, ogni dimensione della vita di Bardamu, al di là di un trauma post- bellico comunque fortissimo.

La Nausée affronta il problema trasportandolo esclusivamente nel contesto della vita privata del protagonista, senza toccare, almeno in modo esplicito, l’esperienza della guerra: Antoine Roquentin decide di compilare un diario quasi per colmare la distanza fra la vita e le parole con la registrazione pressoché immediata dei momenti anche più banali. La distinzione fra i due tipi di esperienza commentati da Benjamin è ribadita, in questo caso, quasi alla lettera. In una pagina del diario Roquentin annota che nulla di notevole accade nella vita quando ci si trova fra lo scorrere degli eventi, mentre gli stessi momenti acquistano un senso quando sono raccontati, per via del fatto che possiamo osservarli dopo il loro accadimento, quando non fuggono più via nel tempo e possono costituire il materiale per la scelta degli elementi di una storia: la stessa storia in quanto contenuto che dia un motivo all’esercizio di una narrazione, somiglia molto, in questi termini, alla Erfahrung.

La crisi di Roquentin consiste nel voler trovare lo stesso spessore di senso nell’esperienza vissuta:

« J’ai voulu que les moments de ma vie se suivent et s’ordonnent comme ceux d’une vie qu’on se rappelle. Autant vaudrait tenter d’attraper le temps par la queue »13

La poetica e i testi di Simon condividono con la Nausée ed il Voyage la presa di coscienza dell’irripetibilità di un passato inenarrabile. Come Bardamu, George e Charles pensano che all’indomani di un trauma come quello della guerra sia puramente inutile valutare i fatti accaduti; e se il diario costituisce nel romanzo di Sartre una forma di stretto avvicinamento fra il momento della narrazione e i ricordi annotati quasi in presa diretta, Histoire rappresenta un tentativo di

12 L.F.Céline, Voyage au bout de la nuit, Paris, Gallimard, 1952, p. 25.

13 J.P.Sartre, La Nausée, 1938, in Œvres romanesques, Paris, Gallimard, 1981.

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colmare quella distanza con la sperimentazione del monologo interiore, in cui si suppone che un io narrante – lo je che accompagna la doppia catafora dell’incipit - racconti i fatti della sua vita quasi durante il loro svolgimento14. La differenza fra i tre autori consiste però nell’eliminazione in via teorica, da parte di Simon, di quella storia che Céline e Sartre, invece, conservano.

Coerentemente rispetto alla nozione di sospetto introdotta da Nathalie Sarraute, Simon non accetta l’idea di una summa di avvenimenti che l’autore possa collegare preliminarmente fra loro in fase di ideazione per raccontarne lo svolgimento attraverso la scrittura. La stessa idea di summa o storia predeterminata rispetto alla stesura del testo è annoverata da Robbe-Grillet, in un articolo del 1957, fra le nozioni ‘superate’ (périmées) del romanzo tradizionale15; ed esattamente dieci anni dopo, con la pubblicazione di Histoire, la bozza di teoria dell’inenarrabile espressa nelle parole claudicanti di Charles non vorrebbe comunicare altro.

Lo zio cerca di far capire al nipote che l’attività del raccontare è fondata su un’illusione. Ci si convince di fare un resoconto, in realtà si mettono solamente insieme parole scollegate dal loro preteso referente. Pur volendo esercitare la capacità di compiere accostamenti fra le parole, sappiamo che ciò non servirà a nulla. Dei momenti vissuti, trascorsi, non rimangono che vaghe tracce nella memoria, e riprendendo i suggerimenti di George nella Route, potremmo definire la trasmissione della memoria come una battaglia contro mulini a vento. Sullo sfondo di una forma di nichilismo del genere è impossibile accettare la nozione storia per come la stiamo considerando.

Allora è proprio il contenuto della narrazione a cedere e a far vacillare le nostre percezioni come nella frase di Rilke? Ribadirei che è così, ma solo in parte. Alla luce delle ultime osservazioni, la storia è per Simon una categoria vuota e, in quanto tale, può costituire in fase di scrittura una vasta riserva di collegamenti verso una molteplicità di significati, proprio come avviene per i termini deittici. Ciò spiega l’accumulazione eterogenea di ricordi che rapisce l’immaginazione dell’io narrante di Histoire mentre zio Charles vorrebbe parlare d’altro, ma è anche un motivo per identificare il principio chiave che raccoglie le miserie dell’esperienza, divenuta definitivamente inenarrabile, nella vacuità di senso che immerge la storia, e non nella storia di per se stessa.

14 M.Butor, L’usage des pronoms personnels dans le roman, in Répertoire II, Paris, Les Éditions de Minuit, 1964.

15 A.Robbe-Grillet, Sur quelques notions périmées, in Pour un nouveau roman.

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Mutazioni in un approccio omeopatico Mutazioni in un approccio omeopatico Mutazioni in un approccio omeopatico Mutazioni in un approccio omeopatico

Simon forza il limite della polisemia del linguaggio dimostrando che la vacuità di significato di cui sono caratterizzati i deittici può invadere anche il piano semantico di termini che normalmente dispongono di una serie di significati stabiliti. La parola ‘histoire’, in questo senso, diviene il fulcro di un lavoro sul linguaggio e sulle strutture del romanzo, volto a debellare l’illusione della rappresentazione in ogni sua forma.

Il romanzo del ’67, in effetti, contiene tutti i sensi della parola del titolo riguardo ai quali ci siamo interrogati nel paragrafo precedente. Vi è il racconto di una giornata qualunque del protagonista - della vita privata di un uomo - al quale si aggiungono i racconti di vita della madre, Marthe, e di suo fratello, zio Charles, oltre che dei figli di Charles, Corinne e Paul; delle loro vite sono evocati alcuni momenti in modo frammentario e discontinuo, che si sovrappongono ai ricordi di pochi momenti del passato del protagonista: fondamentalmente, il matrimonio con Hélène, e la partecipazione alla guerra civile spagnola. Su quest’ultimo elemento si concentrano i riferimenti alla storia collettiva, ai mezzi di cui disponiamo per tramandarla - i manuali, i saggi di cronaca, i testi antichi - e ad alcune icone della guerra e della rivoluzione: personaggi come Giulio Cesare e Lenin sono citati più o meno esplicitamente nel racconto delle versioni di latino sul De bello gallico a cui il protagonista da ragazzo si applicava svogliatamente con l’aiuto dello zio, nelle descrizioni delle immagini sulle pagine del manuale di storia dedicate alla rivoluzione russa, e nelle citazioni da I dieci giorni che sconvolsero il mondo, il romanzo-cronaca di John Reed sull’Ottobre rosso che il giovane simpatizzante di idee anarchiche avrà divorato partendo per l’avventura di Barcellona. Nel corso di quattrocento pagine, tutte queste tematiche si avvicendano senza mai essere esposte nella loro completezza, in una successione di interruzioni che sembrano volerci indurre a condividere il pessimismo di Charles riguardo al contatto fra le parole e il mondo.

Non sembra facile, per il protagonista, mettere ordine fra i pensieri, e la storia da raccontare, relativizzata in una totale eterogeneità, non contiene nessun insegnamento, visto che non si arriva mai ad una conclusione dei momenti particolari evocati. Assistiamo ai ricordi sulla morte della madre e alla fine della giornata in cui avvengono le evocazioni, ma i personaggi non giungono alla realizzazione dei loro progetti: il tempo trascorre e con esso l’usura logora i corpi, ma anche il desiderio. Marthe vive pochissimi momenti con Henri, il padre del protagonista: dopo il matrimonio, l’uomo viaggia costantemente per via di un lavoro non ben precisato e cade durante la prima guerra mondiale quando il protagonista è ancora in grembo; per cui, Marthe appare come trasognata, distratta, in ogni frammento che le è dedicato, rivolta sempre al pensiero del proprio uomo assente. Analogamente, il protagonista è distratto dai ricordi durante la giornata di Histoire, e

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così appare in alcuni degli stessi ricordi, come abbiamo osservato nella citazione del dialogo con Charles.

Allo svuotamento di senso della storia, si aggiunge così il venir meno dell’individuo rispetto al mondo in cui vive. Del resto, se tutti i personaggi del romanzo hanno un nome, l’identità del protagonista è indicata soltanto dal pronome je, un deittico a tutti gli effetti, tramite cui si ripropone il problema del riferimento.

Il pronome può celare la coesistenza di più istanze coinvolte nell’atto di raccontare gli eventi e i dialoghi del romanzo. Il nipote di Charles, figlio di Marthe ed Henri, che fino ad ora ho denotato come ‘protagonista’ o ‘io narrante’, racconta i momenti che vive in prima persona nell’arco di una giornata, alternandoli ad una frammentaria storia di famiglia di cui in alcuni casi fa parte come personaggio o narratore omodiegetico16; sarebbe comunque l’io narrante del romanzo, se ai suoi racconti non si alternassero spesso altri je non sempre facilmente identificabili.

Nel corso della lettura, l’evocazione di un evento vissuto in prima persona dal protagonista può essere interrotta bruscamente dalla descrizione di una lettera o di un messaggio scritto da Henri o Charles sul retro di una cartolina per Marthe, o dal resoconto di un evento raccontato da Charles sempre in prima persona. In questi casi l’impiego indistinto dello je ci lascia nell’indeterminatezza di senso fin quando non riusciamo a reperire dal contesto particolare qualche elemento che permetta di interpretare senza ambiguità l’uso della deissi. Le cartoline di Henri giungono la maggior parte delle volte da paesi esotici e il suo stile di scrittura è telegrafico e scarno; Charles viaggia per l’Europa, coltiva la passione per la poesia, si reca spesso a Parigi per frequentare l’ambiente artistico della capitale, e tali elementi ci inducono facilmente a pensare che se le cartoline provengono da città del vecchio continente saranno con molta probabilità scritte da lui. Parlo di probabilità poiché non sempre nel testo è riportata la firma di chi scrive.

E’ secondo queste coordinate che l’io narrante di cui ci occupiamo si allinea nella schiera dei

‘semi-individui’ di Nathalie Sarraute e Samuel Beckett. La medesima idea di una dispersione di contenuto che nel testo minaccia questa categoria e quella di storia è espressa da Simon in un’intervista dello stesso anno di pubblicazione del romanzo. L’autore dichiara di aver trovato uno spunto per il titolo consultando il Littré; cita un paio di sensi del termine che lo hanno interessato specificamente; e aggiunge un laconico accenno alla dubbia identità dell’individuo nel campo di un testo letterario:

J’ai trouvé dans le Littré, parmi d’autres acceptions du mot « histoire » : «Dans le langage familier, se dit pour un objet quelconque qu’on ne peut ou on ne veut pas nommer. Exemples : « Montrez-moi cette histoire. » « Elle est tombée si malheureusement qu’on a vu toute son histoire » ... Une chose, on la

16 G.Genette, Figures III, Paris, Seuil ,1972, p. 252.

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cache, on se la cache, on la découvre, on l’avait gommée... Il se pose pour tout romancier une question troublante : qui parle ?17

Ellittiche come la teoria dell’inenarrabile di Charles, le parole di Simon consegnano la categoria di ‘storia’ ad una sorta di definitiva banalizzazione. Una histoire può essere un oggetto qualsiasi, un

‘aggeggio’ non ben precisato; l’attributo ‘quelconque’ conferisce un senso di neutralità al significato del termine, così denudato dai valori formativi ed estetici di memoria storica e letteraria che fino a questo momento abbiamo tenuto presenti. Questa cosa indistinta è stata cancellata (gommée), e allo stesso modo viene cancellata l’identità del narratore, a proposito del quale Simon apre il quesito ‘qui parle?’ lasciandolo privo di risposta.

Una sensazione di pudore, comunque, riveste questa dichiarazione. L’enigmatico narratore e il

‘gingillo’ senza importanza a cui Simon ricorre per rappresentare l’idea di storia che ha in mente, vengono occultati, sono cose di cui non bisogna parlare troppo esplicitamente, (« […] Une chose, on la cache, on se la cache […] »). In questi termini pare che il riferimento sia trattato come avviene per i tabù.

Freud ha spiegato quanto, presso le popolazioni primitive, il nome è immaginato come parte essenziale delle cose18; nel caso dei nomi propri, esprime caratteristiche della personalità di chi lo porta. Per cui, alla morte di qualcuno, vengono adottati determinati accorgimenti per evitare di pronunciare il suo nome. Chi continua a vivere esorcizza l’influsso che l’anima del morto potrebbe esercitare nella dimensione della vita quotidiana mutandone il nome, o sostituendo il proprio nome se è lo stesso del defunto,

Ebbene, l’allontanamento cataforico di una parola dalla nostra percezione immediata nella lettura di una frase e la forzatura dei limiti della polisemia, oltre a farci rendere conto dell’illusione della rappresentazione, sono procedimenti in cui il significato è in ogni caso tenuto presente; come l’animismo dei popoli primitivi è messo a distanza, ma non scompare mai del tutto. E’ proprio in questa chiave, penso, che si potrebbe leggere un paradosso fondamentale della scrittura di Simon.

La rappresentazione è un concetto che viene bandito quasi aprioristicamente, ma il fatto stesso che un romanzo venga pubblicato, che l’autore componga un’opera, ci fa rivalutare il significato che è venuto a mancare alle nostre parole come una forte necessità, una emergenza innegabile.

La storia inenarrabile è tuttavia l’oggetto del discorso di chi la considera tale. Ne è un esempio il paradosso in cui incorre Charles quando cerca di insegnare al nipote che non è possibile tramandare un insegnamento. Tramandare l’idea che non vi sia più nulla da dire è un gesto

17 C.Simon in M.Chapsal, Claude Simon fait mentir le langage, «L’Express», 3-9 avril, 1967, pp.83-84.

18 Sigm.Freud, Totem und Tabu. Eine Übereinstimmungen im Seelenleben der Wilden und der Neurotiker, 1912-13;

Totem e tabù, Torino, Bollati Boringhieri, 1969, 1997.

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circolare, e Charles diviene così una nuova incarnazione di Zenone, che insegnava ai discepoli l’assenza di movimento nella realtà, passeggiando loro lentamente di fronte.

Ogni opera di Simon, quindi - seguendo un’analisi di Doubrovsky quasi contemporanea alla pubblicazione di Histoire - rappresenta il tentativo di colmare il vuoto aperto fra il linguaggio e le cose19, fra la Erfahrung, diremmo noi, e la possibilità di raccontare. L’allontanamento dal riferimento operato tramite l’estremizzazione dell’uso della deissi è complementare, infatti, a frequenti e a volte massicce accumulazioni di parole in cui viene abbozzata la descrizione della complessa molteplicità del mondo reale. Gli oggetti di uso quotidiano che, nella Route, George cita come necessità più importanti rispetto alla cultura spazzata via dalla bomba di Lipsia, invadono lo spazio aperto della vacuità di senso; in molti casi, leggendo Simon, un pronome è allontanato dal suo riferimento cataforico dall’interpolazione di lunghi elenchi di oggetti o di ricordi che si affollano nella memoria dell’io narrante, mimando, per così dire, il modo i cui la visione della realtà si sovrappone ai pensieri individuali, alla vita interiore.

Per questo motivo Doubrovsky ha definito in termini di approccio omeopatico i continui ripensamenti sul passato privato e collettivo dei personaggi di Claude Simon. Se l’omeopatia è un metodo terapeutico che consiste nel curare un malato somministrando un rimedio che produca effetti simili a quelli della malattia da combattere, la dilatazione sintattica di Simon raccoglie il disordine del reale per disporlo nell’ordine del linguaggio, ricercando nel testo le condizioni per leggere la realtà in maniera nuova, e tentando di restituire alla lettura una rielaborazione dell’ordine assente nella realtà.

L’annichilimento provocato dalla traumatica esperienza della realtà sulla volontà di raccontare viene così ripensato. Le parole possono tornare ad essere elementi costituivi di un linguaggio non assolutamente privo di senso, nel campo di un discorso in cui non è tramandato l’insegnamento di un contenuto tematico, ma un metodo per affrontare il rapporto con l’esperienza. La bomba di cui parlano George e Charles ha sovvertito l’ordine della civiltà; ma tale sconvolgimento può essere fronteggiato adattando le strutture del linguaggio al disordine che rimane dopo lo scoppio.

Dopo questa puntualizzazione riguardo allo statuto della rappresentazione nell’opera di Simon, interpreteremo lo spezzettamento del convenzionale asse sintagmatico visualizzando nella discontinuità due tendenze opposte e complementari: una fase destruens che si manifesta negli svuotamenti di senso del linguaggio attraverso l’esibizione della deissi e della polisemia esercitate fino a conseguenze estreme; ed una pars costruens che consiste in un metodo di aggiramento del problema del riferimento nella creazione di un linguaggio letterario innovativo e spregiudicato.

19 S.Doubrovsky, Notes sur la genèse d'une écriture, «Entretiens», n.31, Rodez, Subervie éditeur, 1972 ; Parcours critique. Essais, Paris, Galilée, 1980.

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Simon non ha reso sempre esplicita la sua posizione. Le mutazioni di senso nel linguaggio dei suoi testi sono accompagnate da mutazioni di atteggiamento verso la composizione dei romanzi che fanno un po’ perdere di vista una ipotetica linea di sviluppo progressiva della sua estetica. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta in particolare, l’autore ha attraversato un periodo di coinvolgimento in un’attività di proficua valutazione delle strutture del romanzo e del modo in cui esse avrebbero potuto costituire degli efficaci mezzi per esprimere la propria vena creativa, in completa contemporaneità rispetto alle elaborazioni critiche di Robbe-Grillet e Nathalie Sarraute.

Il sospetto estetico di quegli anni fu seguito e fomentato particolarmente da Robbe-Grillet, che, in qualità di consulente letterario delle Éditions de Minuit, ricevette a metà anni Cinquanta dei manoscritti di Simon e, con l’approvazione del direttore della casa editrice, Jerôme Lindon, incluse l’autore nel gruppo del nouveau roman, a cui Lindon dedicava una collana specifica di pubblicazioni20, e fra i quali figuravano i nomi di Michel Butor e Robert Pinget.

I componenti del gruppo non hanno mai dichiarato di sentirsi parte di una scuola, né hanno mai condiviso i contenuti di un manifesto poetico, tuttavia hanno discusso in alcune riunioni storiche sulle affinità di approccio che rendevano simili i rispettivi metodi di composizione. Una conferenza seminale, in proposito, è il Colloque de Cerisy del 1971, diretto da Jean Ricardou21, e concluso da un intervento di Françoise Van Rossum Guyon in cui sono tracciati alcuni principi che caratterizzano una strategia comune. Fra essi si trovano:

- la proliferazione di aneddoti nel testo letterario;

- l’uso di motivi generatori che inspirano la scrittura;

- continui giochi con figure astratte;

- inserzione di frammenti citati da opere estranee ai singoli testi, e conseguente irretimento del romanzo in una dimensione intertestuale;

- uso del procedimento della mise en abyme, attraverso cui il tema di un’opera è riprodotto all’interno dell’opera stessa attraverso un micro-racconto, un aneddoto, o la descrizione di un’immagine.

- esibizione dei procedimenti di narrazione.

Nei romanzi di Simon è possibile trovare moltissimi spunti di riflessione quanto all’impiego di ognuno di questi principi.

L’aneddoto è considerato generalmente come un fatto curioso, pittoresco, concernente la sfera privata, magari, della vita di un determinato personaggio, reale o di finzione; e molti episodi del

20 Notizie tratte dalla dichiarazione stampa diffusa in occasione della consegna del premio Nobel a Claude Simon.

21 Nouveau roman : hier, aujourd’hui, J.Ricardou (a cura di), Paris, UGE, 10/18, 1972.

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genere possono essere frammentati nelle accumulazioni e sovrapposizioni di Claude Simon. I motivi generatori sono ricorrenti in ogni sua opera: il testo è quasi sempre preceduto da un’epigrafe che, come la citazione di Rilke in Histoire, anticipa il modo in cui il romanzo si svolgerà, preparando il lettore all’atmosfera generale del testo, indicando chiavi interpretative o accennando la scansione di un certo ritmo. Il ricorso alle figure astratte è frequente in fasi del testo in cui il narratore osserva l’ambiente circostante e tenta di descriverlo con minuzia di particolari, deviando a volte nello sfoggio di principi tecnici della fotografia o della geometria, quasi a sfidare l’assenza di riferimento che minaccia l’intera impresa narrativa. Mentre l’intertestualità e le mises en abyme contribuiscono sia alla frammentazione, inserendo immagini e brandelli di scrittura estranei alle storie del testo, che ad uno sdoppiamento dei significanti del testo che bisognerà approfondire brevemente, anche in relazione all’ultimo principio enunciato nel Colloque.

Attraverso le inserzioni intertestuali e della struttura ad abyme è possibile riprodurre atteggiamenti dei personaggi del romanzo in frasi o immagini che contengano elementi in comune con gli atteggiamenti riprodotti. Vediamo un paio di esempi.

Quando il protagonista di Histoire prende posto al ristorante per il pranzo22, il racconto dei momenti in cui una cameriera annota le sue ordinazioni e porta al tavolo le pietanze è – come in diversi altri momenti del testo – interrotto da vari fattori: alcune evocazioni dell’io narrante, l’irruzione dei titoli di un quotidiano nella frase, ed espressioni del Vangelo riferite alla fase liturgica dell’Ultima Cena, la cui citazione agevola la comprensione del testo di Simon. Non è facile, infatti, orientarsi in questa scena. Prima di accorgerci che il protagonista si trova al ristorante, la scrittura si lascia andare nella descrizione di un ristorante e di un battello da crociera rappresentati in una cartolina. Del ristorante sono descritti particolari dell’arredo come tavoli allineati, tovaglioli, piatti vuoti, fino alla geometrizzazione di una caraffa, che assume la connotazione di sfera; in essa si trova riflessa la cameriera mentre si avvicina al tavolo del protagonista. Non riusciamo a distinguere in modo netto il confine fra la descrizione della cartolina e la scena del pranzo; a ciò si aggiungono le divagazioni nei ricordi e, nella loro semplicità, le umoristiche “et alors Benedicite Domine” e “Hoc est corpus meum”23, si integrano nel testo come parti del discorso in cui è ribadita, in forma di ripetizione speculare, la tematica di fondo del pasto, denominato come “l’acte Mangez et buvez”24.

Per quanto riguarda la mise en abyme, un suggestivo esempio è il momento in cui, nel testo, l’io narrante immagina la madre nell’atto di leggere le cartoline che raccoglieva e di rispondere alla

22 H, pp. 136-147.

23 H, p. 141.

24 H, p. 147.

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lettera di un’amica25. La giovane Marthe in questo caso è descritta con i capelli lunghi e sciolti, con una sensualità che contrasta con il rigoroso abbigliamento che era abituata ad indossare. L’elemento di castità, tuttavia, è minacciato, nella stessa pagina, dall’evocazione di alcuni amici e cugini di Marthe che, durante delle innocenti gite fra adolescenti aristocratici, dividevano la loro attenzione fra lievi e fuggevoli baci sulla mano alle ragazze come Marthe, e la frequentazione di luoghi di prostituzione. Il resoconto dell’innocente, acerba sensualità della giovane madre, così, rischia di essere alterato da toni grotteschi; ma tutto rientra in analogia con l’elemento di castità che caratterizza fondamentalmente Marthe, se pensiamo al modo in cui è delimitata l’intera parte del testo. Prima di osservare Marthe che si accinge a scrivere vi è, a questo proposito, la descrizione di una cartolina da Lourdes, e mentre la donna scrive, irrompe nel testo la descrizione di uno dei francobolli incollati alle cartoline, in cui è raffigurato un bambino in abiti da re. Entrambi i soggetti, incorniciati nel quadro di una cartolina e di un francobollo, riproducono la proprietà essenziale della madre per come può immaginarla un figlio, « Je suis l’Immaculée Conception », « la vénérable Bernadette Soubirous » 26, « [...] roi-enfant au visage poupin de lycéen aux roses cheveux bouclés [...] »27 ; e la rigidità dei costumi minacciata dalle abitudini dei giovani aristocratici che accompagnavano Marthe nelle gite, è ricondotta al centro della scena con la descrizione di un dettaglio di abbigliamento del re-bambino, « [...] le cou serré dans le col officier d’une tunique rose sombre [...] »28.

Queste modalità di replica di elementi tematici ci interessano per introdurre un discorso sull’idea di rappresentazione del nouveau roman, che Simon condivise, grossomodo, fra gli anni Sessanta e Settanta per poi distaccarsene durante i primi anni Ottanta.

Le citazioni intertestuali e le mises en abyme, oltre a interrompere il procedere lineare del linguaggio letterario attraverso la disposizione apparentemente casuale che acquisiscono nel testo, riproducono, sempre all’interno di esso, un rapporto di rappresentazione fra le parole analogo alla relazione di riferimento fra le cose del mondo e le parole in una visione corrispondentista. L’intero corpo del testo letterario, ricorrendo a questi procedimenti, si allontana sempre di più dal mondo che il romanzo realista pretende di rappresentare, per ritirarsi in una dimensione autonoma e autosufficiente, in cui una storia non può essere altro che un semplice pretesto per esercitare la pratica della scrittura.

Ricardou è inflessibile nell’idea di un’abolizione drastica del rapporto fra la realtà e la scrittura in una visione totalmente solipsistica del linguaggio. La mediazione omeopatica di Claude Simon

25 H, pp. 29-31.

26 H, p. 29.

27 H, p. 31.

28 Ibidem.

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non è accettabile, in questo senso, se non per via dell’interesse teorico che può costituire la sola pars destruens dell’approccio.

Nel campo delle speculazioni estetiche di Ricardou, l’attività narrativa praticabile dallo scrittore moderno è definita in opposizione alla fiction del romanzo realista: un mondo fittizio creato in fase di composizione adattando il linguaggio e le strutture letterarie ai contenuti di una storia pre- esistente al momento della scrittura. La demolizione del corrispondentismo non può che essere diffusa, piuttosto, in una narration: uno spazio nuovo, alternativo alla realtà, in cui un linguaggio che nasce dal nulla, indipendentemente da qualcosa da dire, inventa da se una fiction autonoma29. Sappiamo quanto un’idea del genere possa avere come perfetto esempio la scrittura di Simon, fondata com’è sul vuoto che la mancanza di Erfahrung lascia nella nozione di storia.

Agli allontanamenti dal riferimento mimati in molti dei casi di Histoire già citati in questa sede, si aggiunge, del resto, l’esibizione dei procedimenti di narrazione, che possono essere molto spesso evidenziati attraverso delle metafore. Come la descrizione di un battello in partenza da un porto all’inizio di Histoire, che lentamente accinge a muoversi in analogia alla scrittura del romanzo:

[…] le grand bateau s’ébrouant insensiblement, dans cette première phase de l’appareillage qui est entre l’immobilité et le mouvement (c’est-à-dire qu’on le croit encore immobile alors qu’il a déjà commencé à bouger, et lorsque, le sachant, on cherche à suivre son mouvement il paraît de nouveau immobile), començant à pivoter lentement sur lui- même [...]30

La grande imbarcazione sembra spostarsi appena sull’acqua, quando, ancora impercettibilmente, pare fermarsi di nuovo - « […] lorsque, le sachant, on cherche à suivre son mouvement il paraît de nouveau immobile […] » -, nel medesimo momento in cui il primo capitolo del romanzo sta per concudersi, per fermarsi, sospendendo momentaneamente la scrittura.

L’esibizione del grand bateau in Histoire rappresenta anche il testo che si chiude in una dimensione autonoma: « […] començant à pivoter lentement sur lui- même [...] ». Rispetto alle tematiche che nella letteratura degli anni Sessanta erano all’ordine del giorno, bisogna notare bene come il riferimento della scrittura, di questo passo, non rappresenti più nemmeno una fiction autonoma, bensì il modo in cui la fiction stessa è raccontata. Alla narrazione di un’esperienza, come recita una formula diffusa in articoli e saggi sul nouveau roman, si sostituisce l’esperienza di una narrazione, la aventure d’une écriture. Lo scrittore non concentrerà più la sua attenzione che sul linguaggio liberato dal legame referenziale, esplorando a largo raggio le potenzialità espressive offerte dai collegamenti fra le parole sul piano esclusivo del significante.

29 J.Ricardou, J., Problèmes du nouveau roman, Paris, Seuil, 1967 ; commentato in D.Noguez, Recherches romanesques, «La Quinzaine littéraire», 15- 31 décembre 1967 ; e in S.Doubrovsky, Notes sur la genèse d'une écriture.

30 H, pp. 36-37.

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Tutto ciò avviene proprio a ridosso del Colloque de Cerisy del ’71: è proprio questa l’occasione in cui si delinea una mutazione che, per grandi linee, interessa tutto il gruppo, e che da una fase di aggressione, di sospetto alle strutture tradizionali della narrazione, conduce ad un trattamento

‘ludico’ del linguaggio31. La praticabilità della narrazione non è più nemmeno messa in discussione, è definitivamente resa impossibile dalle destrutturazioni che le singole scritture hanno messo in atto.

La figura di protagonista del romanzo è incarnata dalle parole e non più dal personaggio, che viene così identificato con un banale pretesto della scrittura, come la storia fittizia di cui fa parte.

Simon sperimenta questa via, grossomodo, durante gli anni Settanta, ma ne intuisce l’interesse già componendo Histoire e il romanzo pubblicato due anni dopo, La Bataille de Pharsale, in cui un maestoso imbroglio di fatti e citazioni dai romanzi precedenti viene scritto e riorganizzato nelle tre parti che suddividono il testo. L’irrilevanza del piano contenutistico, in questo caso, è deducibile distribuendo alcuni grafemi del titolo - riferito ad un avvenimento bellico della storia antica - in un ordine alternativo, e ottenendo così l’espressione ‘La Bataille de la Phrase’, utilizzata da Ricardou come titolo di un articolo32 e davvero esplicita riguardo alla predominanza della dimensione linguistica nell’estetica di Simon in quel periodo. La citazione di un evento storico, infatti, non è altro che un pretesto, un’espressione utile per generare nel testo unioni fra le parole che interessano fondamentalmente il piano del significante.

Orion aveugle, Les Corps conducteurs, Tryptique, pubblicati fra il ’70 e il ’71, sono ulteriori modelli di una composizione letteraria ‘giocosa’ che si sviluppa rispettivamente in un testo ispirato dall’osservazione di alcuni quadri e componimenti pittorici scelti da Simon e pubblicati in copia a colori fra le pagine del testo scritto (Orion aveugle); la successione frammentaria del racconto di un uomo che passeggia per una strada di una grande città a cui si interpongono le descrizioni di uno scrittore che partecipa ad una conferenza, un viaggiatore che sorvola il continente americano, un gruppo che attraversa gli ostacoli di una giungla, con in comune soltanto alcune parole o immagini che creano una continuità di lettura nel linguaggio letterario (Les Corps conducteurs); una struttura narrativa in cui si intersecano le storie di un annegamento, di uno sposalizio che finisce male e di una lite in un lussuoso palazzo, svolte in una campagna, uno spazio urbano e una stazione balneare (Tryptique)33.

In questi romanzi si verifica la completa chiusura del testo rispetto al rapporto di riferimento con la realtà, e la ricerca di referenti sul piano esclusivamente simbolico, costituito da motivi e strutture che appartengono al mondo della pittura, come anche della fotografia, della geometria o della musica. Lo spunto per il titolo e la struttura di Tryptique, ad esempio, giunge a Simon dai

31 Bertrand, M., Langue romanesque et parole scripturale. Essai sur Claude Simon, Paris, Puf, 1987.

32 Ricardou, J., Pour une théorie du nouveau roman, Paris, Seuil, 1971.

33 Bertrand, M., Langue romanesque et parole scripturale. Essai sur Claude Simon.

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quadri dell’artista inglese Francis Bacon, che molto spesso dipinge un’opera utilizzando tre pannelli in cui si sviluppa una continuità di colore o si mette in pratica la ripetizione di uno stesso soggetto riprodotto per tre volte con delle variazioni; mentre nel testo proliferano descrizioni di fotografie o colonne sonore da film, sulla falsariga delle cartoline di Histoire.

Avviene ancora, così, l’allontanamento del romanzo dagli oggetti del mondo reale. Fra le due istanze si interpongono segni, forme di espressione eterogenee, riproduzioni artistiche o artificiali della realtà, rappresentate nelle descrizioni del romanzo, o meglio, elaborate dal linguaggio letterario nel campo autonomo del testo; bisogna tenere ben presente questa precisazione per comprendere a fondo la sovversione che Simon riesce ad attuare nell’idea di rappresentazione: non è Simon a descrivere tramite il linguaggio le immagini che osserva nei quadri, ma sono le parole che, collegate fra loro da richiami formali, permettono all’autore di collocare le immagini nel mondo fittizio della scrittura34 e quindi fra il linguaggio e una realtà sempre più estranea.

Dato che l’autore non costruisce un linguaggio letterario a partire da materiale predefinito, la sua attenzione si concentra su accostamenti minuziosi di parole nel contesto della frase, man mano che procede il lavoro di scrittura. Come egli stesso dichiara nel primo capoverso della prefazione ad Orion aveugle pubblicata in forma di manoscritto autografo :

Je ne connais pour ma part d’autres sentiers de la création que ceux ouverts pas à pas, c’est-à-dire mot après mot, par le cheminement même de l’écriture.35

I collegamenti possibili fra parole possono essere di natura fonica o anche semantica; i significati sono presi in considerazione soltanto in quanto elementi del ‘gioco’, avulsi dai contesti in cui la scrittura li immerge provvisoriamente per poi catapultarli in frammenti di narrazione alternativi, descrizioni di immagini o mises en abyme. Le parti di testo così giustapposte sono legate da transizioni di senso realizzate attraverso le parole poste in associazione; non a caso questi termini agiscono in operazioni definite come ‘transiti’ (transits)36.

Simon visualizza come unica direttiva queste possibilità. Aderisce così alla nozione di activité scripturale introdotta da Ricardou per definire un nuovo modello di composizione del romanzo in cui l’autore non ha il controllo completo del testo, né fissa in esso un senso stabile, ma, seguendo i mutamenti della polisemia, diviene uno scripteur, un prodotto sempre in rielaborazione dello stesso

34 Nel retro-copertina della traduzione italiana di Triptyque, pubblicata a Torino presso Einaudi nel 1975, Guido Neri suggerisce che la parola « preleva i dati di un’immagine già allo stato di rappresentazione […] »; frase in cui è da sottolineare la particella ‘già’, che mette in evidenza il filtro fra la rappresentazione delle parole e la realtà, costituito dall’ulteriore forma di rappresentazione della realtà costituita dalle immagini riprodotte delle arti visive.

35 C.Simon, Orion aveugle, Genève, Skira, coll. « Les sentiers de la création», 1970.

36 J.Ricardou, Le Nouveau roman, Paris, Seuil, 1973.

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