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I. La poesia trobadorica nel Monferrato

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I. La poesia trobadorica nel Monferrato

1. Le corti medievali dell’Italia settentrionale

Le corti medievali, oltre ad essere vitali centri d’incontro tra le élites culturali e politiche, si presentano come principali luoghi di committenza e fruizione di opere artistiche e letterarie ed evidenziano appieno i legami reciproci e vincolanti tra l’intellettuale e il signore. Infatti, se da una parte, il potere ha bisogno di essere supportato dagli artisti per potersi consolidare facendo sì che gli intellettuali finiscano per ricoprire i ruoli più svariati (diplomatici, narratori di eventi storici, celebratori della corte, consiglieri, educatori o intrattenitori), dall’altra anche gli intellettuali hanno bisogno di accostarsi al potere per assicurarsi sussistenza e agi.11

Fiorita nelle corti feudali dell’Acquitania e del Limosino sulla fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, la poesia dei trovatori si afferma nelle corti medievali dell’Italia settentrionale a partire dalla fine del XII secolo.12 Il castello è il fulcro centrale di questa poesia, in quanto rappresenta l’ambiente reale nel quale si assiste allo spettacolo dell’esecuzione musicale dinanzi ad un pubblico ben contraddistinto, tra cui troviamo il signore e gli altri membri della corte che lì vivono o che ne sono ospiti.13 Oltre a comunicare il forte legame di dipendenza che vincola il musicista alla corte del signore presso cui si esibisce, per gli abitanti del castello la musica è sostanzialmente motivo di gioia e festosità, ma anche un modo per alleggerirsi dalle difficoltà della vita.14

E proprio dall’ambiente musicale dei trovatori sopravvivono all’incirca 250 melodie, con un totale di circa 300 varianti individuali, trovati in quattro manoscritti o canzonieri principali: G (Milano, Biblioteca Ambrosiana R.71, ora S.P. 4), R (Paris, Bibliothèque nationale de France, fr. 22543), W (Paris, Bibliothèque nationale de France, fr. 844) e X (Paris, Bibliothèque nationale de France, fr. 20050).15

11 Roncaglia 1982, p. 35. 12 Bertolucci Pizzorusso 2003, p. 1313. 13 Gallo 1992, p. 8. 14 Ibid., pp. 10-13. 15

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Pertanto, l’arte dei trovatori, che occupa un periodo relativamente breve, all’incirca dalla fine dell’XI alla fine del XIII secolo,16 era nata sotto il segno della musica.17 Una musica che si presentava monodica con una sola voce, qualche volta accompagnata dalla viella,18 ma anche dal liuto, l’arpa, il tamburino o il salterio.19 Strumenti che accompagnavano parole che decantavano le bellezze della donna, i segreti dell’amore, le ambiguità e le finzioni del corteggiamento e le bellezze della primavera. Ed è proprio sulla scia di questi motivi che, nei primi anni dell’XI secolo, la musica cessò di essere unicamente sacra e divenne profana, passaggio che riflette quello linguistico dal latino alle lingue volgari. Si sviluppò, insomma, un mondo dove la musica e parole accompagnate dalla danza, trovavano piena espressione: feste, banchetti, canzoni a ballo, estampie, rondeau,

pastourelle, canti e pantomime dei giullari o menestrelli. Ed i protagonisti di questo mondo

furono i trovatori.

La loro poesia, talvolta propagandistica, talvolta celebrativa, talvolta polemica ma anche giocosa, è una poesia nuova, sia per quanto riguarda le tematiche, che per quanto concerne il mezzo linguistico utilizzato, ossia il volgare. Tuttavia, come sottolinea Roncaglia, non si tratta di una poesia popolare bensì ricercata ed elaborata, ed è questo che fa della poesia dei trovatori la «radice di tutta la poesia occidentale».20

All’interno del corpus trobadorico, costituito da 2542 composizioni, conservate in una cinquantina di canzonieri,21 si distinguono all’incirca 350 poeti di nome noto,22 tra i quali figurano re, signori, religiosi, borghesi, ma anche persone di umili origini e diversi

16 Tabor fornisce come date dal 1070 al 1300, mentre Di Girolamo considera come termine ultimo il 1292,

data assegnata all’ultima poesia di Guiraut Riquier (Be·m degra de chantar tener, BdT 248.17), cfr. Tabor, 1929, p. 346 e Di Girolamo 1989, p. 3.

17 Gallo 1992, pp. 7-15 e Repetto 2000, pp. 153-161.

18 Si tratta dello strumento da cui deriverà la viola rinascimentale e nei testi antichi s’identifica spesso con la

lira o la ribeca, uno strumento musicale ad arco, cfr. Repetto 2000, p. 153.

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Tabor 1929, pp. 361-362.

20 Roncaglia 1982, p. 107.

21 Mentre Riquer e Di Girolamo affermano che si attestano un centinaio di canzonieri, Asperti chiarisce che

«i canzonieri conservati, interamente o come frammenti, sono una cinquantina; i rimanenti sono manoscritti che ospitano, per lo più in forma del tutto avventizia, singoli testi o gruppetti di componimenti», cfr. Di Girolamo 1989, p. 6, Asperti 2002, pp. 529-530 e Riquer 2011, pp. 11-12.

22 Di Girolamo esplica che i dati di Frank attestano 460 nomi di trovatori e 250 poesie senza attribuzione,

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anonimi, cui viene dato comunemente il nome di “trovatori” e che utilizzano la lingua che viene chiamata “provenzale”.23 Questa letteratura, sviluppatasi nei secoli XII e XIII, non appare legata a ciò che oggi si può definire una nazionalità, in quanto l’Occitania, secondo la definizione di regione in termini politici, non esisteva.24 Piuttosto si può associare a entità politiche locali, signorie, territori più o meno indipendenti: Aquitania, Guascogna, Tolosa, Limosino, Alvernia, Delfinato, Provenza, luoghi nei quali emerge una base idiomatica comune, la quale poi sfocerà anche nei paesi limitrofi, quali nord Italia e gli stati ispanici del sud dei Pirenei. Pertanto l’identità dell’Occitania giace non nei suoi confini politici, bensì nella sua lingua e cultura.

I trovatori, ma anche i più modesti giullari d’oltrealpe,25 ben presto ospitati nelle corti italiane, si ritrovarono spesso a trattare situazioni italiane, non solo fornendo descrizioni o commenti di avvenimenti storici e politici, dispensando elogi ai loro protettori e protettrici, ma anche venendo talvolta loro stessi coinvolti appieno in questi stessi fatti storici.

De Bartholomaeis afferma che circa 400 poesie trobadoriche riguardano questioni italiane o perché scritte in Italia da poeti occitanici che vi abitarono a lungo, o perché di italiani che scrissero in provenzale.26 Anche se gli argomenti trattati nella maggior parte si ispirano ad eventi politici italiani, e anche quando non prettamente ispirati al mondo politico, ci sono costanti allusioni a vicende, situazioni e persone italiane, o comunque riflettono la vita e gli usi e costumi della penisola, la varietà dei generi trattati è comunque assicurata dalla presenza di «canzoni amorose, sirventesi politici, morali, satirici, di crociata, di compianto e di consiglio, canzoni-sirventesi, tenzoni, diverbi e giuochi partiti, poesie descrittive, danze e cobbole sparse».27

I motivi che spinsero i primi trovatori a dirigersi oltralpe potevano anche essere stati dettati da semplici scambi commerciali, o analogie politiche e linguistiche, ma, secondo De Bartholomaeis, il dato rilevante è rintracciabile in due stimoli molto più semplici e

23 Riquer 2011, pp. 9-10 e p. 21.

24 Paterson 1993, p. 1 e Riquer 2011, pp. 10-11.

25 Per lo più il trovatore è il compositore e il giullare l’esecutore, cfr. Di Girolamo 1989, pp. 229-230, Noto

1998, pp. 138-151 e Riquer 2011, pp. 30-31.

26 De Bartholomaeis 1931, I, p. VII. 27

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concreti.28 Innanzitutto il benessere e lo splendore delle corti italiane, e soprattutto, fino all’inizio del XIII secolo, di quella del Monferrato; secondariamente la musica, di cui era rivestita la poesia, che rendeva comunque immediato l’apprezzamento anche da parte di coloro che non conoscevano le parole straniere. Mentre in Catalogna e in Aragona questo linguaggio era compreso da tutti, in Italia non era così. Oltre a ciò, la progressiva perdita di simpatia dei signori verso una lirica che aveva già toccato il suo apice e le guerre e discordie presenti nella Francia Meridionale, nonché la sanguinosa crociata contro l’eresia albigese (1209-1229), furono gli altri principali motivi che spinsero i poeti a recarsi oltre le Alpi e i Pirenei.29 E così questa poesia, dalla fine del XII alla metà del XIII secolo, conoscerà un periodo fortunato nelle corti settentrionali italiane.30

A spiccare fra le corti medievali del Nord Italia ci sono la contea di Savoia e il marchesato di Monferrato e di Saluzzo in Piemonte, la corte dei Del Carretto nel Savonese e dei Malaspina nella Lunigiana, i centri di potere di Ezzelino da Romano a Verona e di Azzo VII e VII d’Este a Ferrara.31

Bampa sottolinea come tutti gli studi che hanno affrontato la diffusione della poesia trobadorica nell’area settentrionale italiana hanno sempre constatato la precedenza, da un punto di vista cronologico, dell’area ligure-piemontese,32 e infatti, le corti dove originariamente soggiornarono i trovatori furono quelle della Marca Obertenga e della Aleramica. Fra gli Obertenghi, il ramo più potente era quello dei Malaspina, mentre nella dinastia Aleramica si distingue quello dei Monferrato, che risultano, tra le corti italiane all’epoca (soprattutto fino all’inizio del XIII) più rilevanti insieme a quella degli Estensi.33 Viceversa, «nella seconda metà del Duecento e sino alla prima metà del secolo successivo il Veneto divenne il principale centro di raccolta di testi e di produzione di manoscritti della lirica provenzale».34

Quindi i trovatori si trovano in una realtà sociale e amministrativa assai variegata, in cui devono integrarsi: da una parte le corti feudali dei Monferrato, dei Malaspina, di Savoia,

28 Ibid., p. 11.

29 Zambon 1999, pp. 7-34 e Gouiran 2008, pp. 97-133.. 30 Roncaglia 1982, p. 107.

31 Bampa 2012, p. 6.

32 Bampa 2012, p. 1. Cfr. anche Bertolucci Pizzorusso 2003, pp. 1315-1316 e Noto 2006, pp. 163-167. 33 Bettini-Biagini 1981, pp. 5-12, Folena 1990, pp. 1-4 e Caïti-Russo 2005, pp. 5-13.

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del Carretto e di altri casati più piccoli, dall’altra i Comuni con i loro podestà. È qui, tuttavia, che la loro poesia ha conosciuto una notorietà improvvisa e “spontanée”.35

Negli ambienti nord-occidentali si vedono, a partire dal XIII secolo, dei poeti italiani in lingua d’oc più o meno rilevanti, che danno vita a una linea di continuità che finisce per congiungersi con la tradizione lirica italiana: tra gli altri il genovese Lanfranc Cigala adotterà la lingua d’oc, così come il piemontese Nicolet de Turin, i quali scriveranno entrambi di personaggi della corte di Monferrato.

Raimbaut de Vaqueiras, che si può considerare il protagonista di questa prima fase d’esportazione della poesia trobadorica, è colui che ha saputo integrarsi più di tutti presso la corte piemontese, dove ricevette una profonda ammirazione da parte di tutti, ma ebbe modo di essere apprezzato anche da altri aristocratici del Nord Italia.

In quest’area, dove spiccava una forte analogia con l’aristocrazia occitanica e i trovatori, oltre ad essere raccontati i casi delle celebri dinastie degli Aleramici (Monferrato, Busca e del Vasto) possessori di quasi tutta la regione subalpina, dei Malaspina residenti nell’Appennino ligure-emiliano e nella Lunigiana, e degli Este a Ferrara, si narrarono anche le vicende della corte di Savoia, che fungeva in un certo senso da ponte tra l’Italia e la Provenza. Tuttavia è nel Monferrato e soprattutto durante il periodo di reggenza del marchesato di Bonifacio I di Monferrato (1192-1207) che si raccolse un ragguardevole numero di trovatori.36

Dopo la diffusione del «période “italotrope”»37 della cultura trobadorica presso i

marchesati di Malaspina, Monferrato e Saluzzo e poi presso i centri di potere degli Este e dei Da Romano,38 fu abbastanza naturale che all’inizio del XIV secolo i componimenti dei provenzali divennero ampiamente diffusi e noti nella cultura italiana: basti pensare a Francesco da Barberino e a Dante, i quali citano, all’interno delle loro opere, i trovatori, che forniranno spesso loro ispirazione, ma anche alla decisione di raccogliere in sillogi o in canzonieri l’opera di questi illustri poeti-cantori-musici.39

35 Bertolucci Pizzorusso 2003, p. 1317. 36 Repetto 2000, p. 154. 37 Tavera 1976, p. 445. 38 Bampa 2012, p. 8. 39

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13 2. La corte di Monferrato e i trovatori

La corte di Monferrato fu uno dei più importanti e attivi centri di vita aristocratica dell’Italia medievale e fu il primo ambiente con il quale i poeti e musicisti occitanici entrarono in contatto, una volta migrati in Italia. Decisivi furono il prestigio politico e la rinomanza europea dei Monferrato verso la fine del XII secolo.

La fortuna della corte e la sua importanza culturale risulta fortemente legata alla figura del marchese Bonifacio I e termina con la morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1207 in una battaglia contro i Bulgari. Quindi, nell’arco di una generazione (Bonifacio I e i suoi fratelli Guglielmo Lungaspada e Corrado del Monferrato), la corte di Monferrato conosce un improvviso apice, divenendo uno dei centri più importanti della poesia provenzale, ma ben presto finisce per subire un improvviso e inarrestabile declino negli anni immediatamente successivi alla morte di Bonifacio I, con Guglielmo VI, Bonifacio II e Guglielmo VII. La corte di Monferrato nasce alla fine del XII secolo, divenendo ben presto una delle più celebrate nella poesia dei provenzali. Guglielmo il Vecchio, uno dei capi della seconda crociata (1147-1149), ed i suoi quattro figli furono i più strenui difensori del regno di Gerusalemme, allora in declino, e inoltre contrassero delle alleanze molto stabili. Guglielmo Lungaspada, morto nel 1177, si era assicurato, sposando Sibilla, sorella di Baldovino IV di Gerusalemme (il re lebbroso), i suoi diritti sul regno di Gerusalemme; Corrado, morto nel 1192, dopo aver sposato Isabella, un’altra sorella di Baldovino, raccolse in questo modo la sua successione; il più giovane, Ranieri, morto prematuramente nel 1183, diventa genero di Manuel I Comneno (imperatore bizantino, 1143-1180) e re di Salonicco;40 mentre Bonifacio I, dopo aver raccolto l’eredità paterna nel 1192 ed essere stato eletto capo della quarta crociata (1202-1204) a Soissons nell’agosto del 1201, morì in un’imboscata sei anni dopo.41

La corte di Monferrato si inserisce, pertanto, appieno nel contesto politico e culturale del tempo e la poesia che glorifica Bonifacio I o uno dei suoi famigliari, d’altronde, si pone proprio come veicolo dei valori propri dei gruppi cavallereschi e come strumento politico, come dimostra lo struttura della società aristocratica e la specifica realtà signorile che fa da sfondo alle loro poesie.

40 Angold 1984, pp. 161-243. 41

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Nel periodo in cui i trovatori risiedono alla corte di Monferrato, e in particolare tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, questa dinastia aspira ad allargare la sua sfera d’azione in direzione mediterranea e orientale. Le varie signorie del tempo avevano come progetto comune quello di cercare fortuna nelle terre lontane e, grazie ai loro interventi a Costantinopoli e in Terrasanta, i Monferrato si dimostrano gli unici in Italia ad esprimere una vitalità pari a quella francese.

La serie delle poesie relative alla corte di Monferrato comincia con l’invio di una canzone da parte di Peire Bremon lo Tort a Guglielmo Lungaspada (BdT 331.1), durante i pochi mesi che questi passò in Palestina nel 1176-77, dove era stato chiamato nel ruolo di probabile erede del cognato Baldovino IV il Lebbroso.

Tuttavia fra i trovatori più importanti che celebrano la corte piemontese occorre ricordare Raimbaut de Vaqueiras, Peire Vidal e Gaucelm Faidit, accanto ai quali si raccoglievano diversi giullari.

Forse già legato alla corte di Monferrato a partire dal 1180,42 Raimbaut de Vaqueiras accompagnò Bonifacio in diverse battaglie contro i comuni d’Asti, Alessandria e Vercelli, così come prese parte alla spedizione di Sicilia (1194) ed alla quarta crociata (1202-1204). Egli redige poesie dove, all’accuratezza della cronaca, si accompagna la perizia formale.43 Il trovatore nella sua famosa ‘Epistola Epica’ (BdT 392.I.II.III) ricorda al suo protettore le avventure e i pericoli passati insieme, mentre a Beatrice, figlia di Bonifacio I, è dedicato il celebre panegirico collettivo Truan, mala guerra (BdT 392.32).

È naturale che la figura di Raimbaut avesse tutti i presupposti per predominare su quella degli altri trovatori: quello che aveva in più era «lo charme dell’intellettuale esule e ramingo, che non disdegna il mestiere delle armi».44 E infatti, ciò che spicca nei componimenti di Raimbaut è l’accezione politica, in riferimento soprattutto ai propositi espansionistici in Oriente da parte di Bonifacio I. Così, in occasione della quarta crociata (1202-1204), Raimabut scrive Ara pot hom conoisser e proar (BdT 392.3), dove si celebra la designazione, avvenuta l’8 agosto del 1201 di Bonifacio di Monferrato a capo della

42 Linskill 1964, p. 7, Riquer 2011, p. 811 e DTB, p. 445. 43 Roncaglia 1982, p. 111.

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quarta crociata (1202-1204) e dove si loda il marchese come unica guida “per recuperare il sepolcro e la croce dove fu Gesù”.45

È evidente che la poesia presente in questo periodo alla corte di Monferrato richiama ampiamente il quadro politico in cui è inserita: è una poesia di tipo celebrativo, che utilizza i moduli della poesia encomiastica provenzale, inserendovi anche una forte carica ideologica, ma è anche una poesia di tipo comparatistico, dove alla celebrazione dei marchesi di Monferrato si contrappone la critica dei re contemporanei.

Ciò è ben visibile nelle due canzoni di Bertran de Born e di Peirol, Ara sai eu de pretz

quals l’a plus gran (BdT 80.4) e Quant Amors trobet partit (BdT 366.29) del 1190-1191,

che sviluppano una netta contrapposizione tra la celebrazione ed elogio del marchese Corrado per le sue imprese in Terrasanta e i re di Francia e Inghilterra.

Analogie schematiche si riscontrano nelle canzoni ispirate alla quarta crociata (1202-1204), dove alla consueta esaltazione del marchese di Monferrato, Bonifacio I, si contrappone la denigrazione del re di Francia, che si mostra incapace di difendere la Cristianità e questo aspetto è pure evidente nel sirventese di Gaucelm Faidit Cascus hom

deu conoisser et entendre (BdT 167.14) e Baro, Jezus, qu’en crotz fo mes (BdT 364.8) di

Peire Vidal.

In questa poesia prettamente propagandistica, la figura di Bonifacio I, come evidenzia Barbero, è sempre più imparentata con quella di Dio, o meglio è la guida mandata da Dio per portare l’esercito cristiano alla vittoria.46 Si tratta comunque di una propaganda chiara, lucida e sistematica, con estrema analogia di temi e linguaggio, dove Bonifacio si presenta come «l’eletto di Dio».47

L’unica eccezione è data forse dalla già citata lirica Truan mala guerra (BdT 392.32) di Raimbaut de Vaqueiras. Questa composizione, nota generalmente anche come Carros, è databile all’autunno del 1200, o comunque prima della partenza per la crociata, fra il 1200 e l’agosto del 1202.48 Nella poesia si presenta un esercito cittadino stretto intorno al suo simbolo più tipico, quale il carroccio, insegna dei comuni lombardi. Questa è una composizione tesa al divertimento e alla satira, in cui a spiccare, intessuta di lodi, è

45 Repetto 2000, p. 155. 46 Barbero 1983, pp. 658-661. 47 Ibid., p. 660.

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Beatrice di Monferrato, figlia del marchese Bonifacio I. Ugualmente celebrate, sotto forma di panegirico collettivo, ci sono grandi nomi femminili di donne nobili italiane, nascoste sotto appellativi laconici e talvolta oscuri: si tratta comunque di dame della Versilia, del Piemonte, dell’Emilia, di altri luoghi, a capo delle quali sta la contessa Margherita di Savoia. Queste dame, che Beatrice supera per bellezza e valore, si organizzano e bandiscono la guerra a colei che ritengono un’usurpatrice ma vengono ben presto sconfitte da Beatrice grazie all’arma del “pregio”. La “vieille commune”, così, si ritira in disordine. Raimbaut, dice Jeanroy, ha voluto «parodier une expédition de ces vilains lombards»49 ed elogia sia il padre che la figlia in un sistema di giusto equilibrio. Questo componimento, teso ad esaltare la bellezza e la grazia di Beatrice e delle altre dame del tempo, si configura, secondo Roncaglia,50 come una sorta di allegoria cortigiana, basandosi su uno sfoggio di un “torneo delle dame”, secondo una formula introdotta già nella lirica francese per iniziativa d’Ugo d’Oisy (1189), che Raimbaut trasferisce in ambiente italiano.51

Un’altra funzione della poesia trobadorica era quella di creare, attraverso la costante celebrazione della generosità di Bonifacio e degli agi che derivavano dalla sua corte, un mito della corte di Monferrato, che si dimostrò rilevante nella fortuna della dinastia.

Bonifacio I aveva bisogno di cavalieri ed era necessario che quello dei Monferrato fosse un nome noto nelle regioni circostanti, da cui provenivano mercenari e crociati. Ed è qui che riemerge nuovamente la funzione dei poeti: la corte di Monferrato esaltata dai trovatori ottiene la sua popolarità fra la cavalleria impegnata nella guerra sui confini del regno di Gerusalemme, nonché fra i cavalieri delle corti dell’Europa meridionale. Non ci sono, pertanto, dubbi sul collegamento tra la fioritura letteraria alla corte di Monferrato e la presenza, nella schiera dei marchesi, di cavalieri provenienti dal mondo transalpino.52 Comunque risulta rilevante il rapporto di carattere militare che si instaura tra Bonifacio e i suoi trovatori. Raimbaut è prima di tutto il compagno d’armi del marchese, secondariamente il suo poeta, che richiede le ricompense dovute. Mentre anche Peire Vidal canta la gioia di essere un guerriero, lo stesso non si può dire per Gaucelm Faidit, il quale è

49 Jeanroy 1934, p. 252. 50 Roncaglia 1982, p. 111.

51 De Bartholomaeis 1931, I, p. 84, Linskill 1964, pp. 211-212, Di Girolamo 1989, p. 206, Caïti-Russo 2001,

p. 572, Burgwinkle 2003, p. 162, Caïti-Russo 2005, p. 305, Bertolucci Pizzorusso 2009b, pp. 23-24 e Riquer 2011, p. 827.

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l’unico, tra i tre maggiori poeti alla corte di Bonifacio I, a non fornire molte indicazioni riguardo alla propria condizione militare.

Quello che è emerge è un clima pieno di entusiasmo, generosità e spirito militare: del resto la guerra, grazie ai bottini conquistati, è il momento ideale perché i signori dimostrino la loro generosità.53 Per cui le composizioni sono pervase da sfumature economiche, dove la guerra, soprattutto la guerra di crociata, è percepita principalmente come un affare e come un’ottima occasione per arricchirsi.

Proprio questo evento viene posto in rilievo nella triplice epistola poetica di Raimbaut rivolta a Bonifacio di Monferrato, scritta in tre lasse monorime di decasillabi (Senher

marques no·us vuelh totz remembrar; Senher Marques, ja no·m diretz de no; Valen marques, seigner de Monferrat, BdT 392.I.II.III).54 Questo componimento si configura come una lunga riflessione sulla natura dei rapporti tra signore e vassallo, dove, tra elogi al signore ideale e rivendicazioni insistite dei meriti del buon vassallo, trovano spazio le numerose azioni cavalleresche intraprese dal suo signore. Fra queste gesta spiccano quella a favore di Saldina del Mar, sottratta ad Alberto Malaspina e restituita al suo amante, e quella di Giacobina di Ventimiglia, liberata dalla tirannica tutela dello zio Ottone, che si era impossessato dei suoi feudi e voleva imporle un matrimonio indesiderato.55

Bonifacio vi appare, inoltre come un eroe, al pari di Alessandro, Rolando e Bérart

E qui vol dir per vertat ni comtar, E chi volesse dire e raccontare la verità, Aleyxandres vos laisset son donar che Alessandro vi ha lasciato la sua generosità et ardimen Rotlan e·lh dotze par e Rolando e dodici compagni la loro audacia, e·l pros Berart domney e gent parlar 56 e il prode Berart galanteria e discorsi raffinati

(I, vv. 99-102)

e ciò mostra come alla corte di Monferrato la presenza della materia epica sia più diffusa che in altre corti.57

53

Ibid., pp. 675-677.

54 Schultz-Gora 1898, Bertolucci Pizzorusso 2009b e Linskill 1964, pp. 299-344.

55 Roncaglia 1982, p. 110. Per dettagli su Giacobina di Ventimiglia, cfr. Cais di Pierlas 1892 e Linskill 1964,

p. 338.

56 Alessandro e Rolando sono personaggi ben noti, mentre Berart è Berart de Mondidier, celebre nei romanzi

medievali come un cavaliere elegante e amante di successo, presente in alcune opere epiche (La Chevalerie

Ogier de Danemarche, La Chanson de Fierabras) come uno dei campioni di Carlomagno, cfr. Linskill 1964,

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Per cui questa composizione, dove si esaltano, con toni romanzeschi, le imprese e la gloria di Bonifacio I di Monferrato, presenta un modello di vita, che è poi quello simboleggiato nella corte ideale di Monferrato, dove gli interessi e i valori dei signori e della cavalleria potevano confluire. Raimbaut perciò si trova ad interpretare appieno l’esperienza della cavalleria di corte, che ha partecipato alla spartizione del bottino, formando i quadri del nuovo ceto dominante che prende possesso del paese conquistato.

Scritta verosimilmente nella primavera del 1205,58 l’epistola, che sembrerebbe essere l’ultimo componimento del trovatore, si configura come un documento notevole per i dettagli e i particolari ivi inseriti riguardanti la vita del marchese e la sua azione nella crociata. Richiama le azioni nobili e pericolose nelle quali gli era stato a fianco, la campagna di Sicilia e le imprese di Costantinopoli, mettendo sempre in risalto le virtù cavalleresche del Marchese e conclude dichiarandosi testimone, cavaliere e giullare. Questa composizione è una sorta di resoconto della sua vita da giullare a cavaliere e uomo di corte, in cui manifesta una profonda gratitudine per Bonifacio I, esaltandone le qualità e virtù e celebrando lo splendore della sua corte.

Tuttavia nella corte non si sviluppa solo questo sentimento per la guerra, ma anche nuovi valori trovano una loro compiutezza e affermazione: con la raffinatezza dei modi, l’eleganza del parlare, la presenza delle dame e i giochi d’amore, la corte diventa il luogo dove si manifestano appieno le forme di vita aristocratica. Del resto la poesia che si sviluppa nella corte di Monferrato manifesta proprio questi valori cortesi, nonostante la guerra rimanga sempre il perno basilare. Erich Kölher59 sostiene che alcuni componimenti fanno pensare che all’inizio del XII secolo, nella cultura provenzale, le due componenti fondamentali dell’ethos aristocratico, valore e cortesia, iniziassero a manifestare uno

57 Dentro la corte degli Aleramici erano noti almeno una chanson de geste sulla conquista della Baviera da

parte di Carlo Magno, un romanzo su Alessandro e il Roman de Thèbes. Tutti questi riferimenti epici sono spiegabili per l’importanza e spessore che il marchese Bonifacio I di Monferrato attribuì ai trovatori in quanto veicoli di propaganda delle ambizioni della famiglia. Per gli uomini medievali, Bonifacio richiama il regno di Alessandro il Grande. Del resto l’allusione alla storia di Alessandro era un topos nella cultura occitana medievale. E la corte di Monferrato, soprattutto quella di Bonifacio I, era un centro di diffusione d’immagini, di testi, di idee, e forse di manoscritti francesi verso l’Italia, cfr. Larghi 1995, pp. 385-386. Su Raimbaut come «trovatore ‘epico’», alla corte di Monferrato, cfr. Bertolucci Pizzorusso, 2005, pp. 116-121.

58 Cfr. Capitolo III, par. 16.13. 59

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sviluppo contraddittorio, evidenziando nella celebrazione dei valori guerrieri un semplice sfogo di gruppi emarginati, esclusi dalla corte. In realtà le liriche documentano che la società aristocratica che si trovava in una corte vitale come quella di Monferrato manifestava un ethos dove i valori cortesi e quelli guerrieri, per nulla antitetici, si conciliavano perfettamente.60

Merita attenzione, inoltre, anche la presenza ridotta dell’elemento musicale, anche se in realtà, tra le poesie di Raimbaut inserite nell’ambiente monferrino ben 7 conservano l’intonazione musicale.61 Fra queste si può ricordare la lirica Ara pot hom connoisser e

proar (BdT 392.3), scritta probabilmente durante il periodo della partenza per la Crociata

nel 1201.

Eccellente musico e cantore era anche Peire Vidal: nella sua biografia leggiamo che «cantava meilz c’ome del mon» e che «fo aquels que plus rics sons fetz».62 Tuttavia di nessuno dei componimenti scritti, ascrivibili al periodo di Monferrato, è conservata l’intonazione musicale.63

Di Gaucelm Faidit, che «cantava peiz d’ome del mon» è rimasta solo la base musicale della canzone S’om pogues partir son voler (BdT 167.56).64

Tuttavia, a prescindere dall’abilità musicale, il maggiore celebratore della corte monferrina è sempre Raimbaut de Vaqueiras. Nelle sue opere Bonifacio diventa l’incarnazione del tipo ideale del perfetto gentiluomo medievale,65 e la corte celebrata dalle sue poesie risulta sempre segnata dalla vitalità, resa possibile grazie al benessere, la generosità, la galanteria e l’eleganza esteriore che sono i principali pilastri che la sostengono.

L’epistola, che rappresenta un segno inequivocabile “della stretta unione culturale che a quell’epoca esisteva tra il Mezzogiorno della Francia e il Nord dell’Italia”,66 è per

l’appunto la maggiore testimonianza di questo periodo straordinario della corte di Monferrato, che è destinato a non ripetersi più. Infatti quell’improvviso successo, che trova in Bonifacio I il maggiore patrocinatore, conosce un progressivo e rapido declino con la

60 Barbero 1983, p. 687. 61 Gallo 1992, p. 20.

62 Avalle 1960, I, pp. 9-11, Boutière-Schutz 1964, pp. 351-352 e Riquer 2011, p. 869. 63 Gallo 1992, p. 24.

64 Boutière-Schutz 1964, p. 167 65 De Bartholomaeis 1931, I, p. 17. 66

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sua morte. Forse accanto a lui morì Raimbaut de Vaqueiras, mentre Gaucelm Faidit e Peire Vidal, gli altri due importanti poeti di questo periodo, ritornarono nel territorio galloromanzo.

All’elogio costante e onnipresente rivolto a Bonifacio I da parte dei trovatori si contrappone ben presto, dopo la morte di lui, una continua critica e denigrazione del figlio Guglielmo VI, manifestata da diversi poeti quali Elias Cairel, Aimeric de Peguilhan, Falquet de Romans, Peirol, Raimon Vidal, Guilhem Augier Novella, Albertet de Sisteron, Taurel e Falconet, Joan d’Albusson e Nicolet de Turin.

Guglielmo VI (1207-25) non possedeva le virtù del padre. Il trovatore Elias Cairel, passato in Oriente con i crociati, lo critica duramente da Salonicco (1208) e poi ripeterà i suoi aspri giudizi una volta tornato dalla Grecia in Italia; nel frattempo Salonicco viene conquistata dai nemici (1222-24).67 Aimeric de Peguilhan giunge alla corte piemontese, per poi lasciarla abbastanza presto, vedendola che a dominare sono assenza di generosità e liberalità. Proprio questa mancanza di liberalità viene criticata dal giullare Taurel, in una tenzone del 1215, con Falconet (BdT 438.1 = 148.2).68

Da un clima entusiastico e vivace come quello del primo periodo dei trovatori alla corte di Monferrato, sotto il marchese Bonifacio I, esaltato per tutte le sue virtù e qualità, si passa pertanto a un clima desolato e scoraggiante, privo di prospettive. Raimbaut, uno dei primi e più rilevanti trovatori che passarono le Alpi ai tempi della crociata degli albigesi,69 incarna la prima manifestazione del successo trobadorico in Italia, una sorta di modello che attirò i poeti in questa corte; ma una volta giunti, non essendoci più Bonifacio I, non poterono che constatare l’avarizia del suo successore.

Così ad esempio Falquet de Romans, in un suo componimento scritto fra il 1219 e il 1220 (Una chanso sirventes, BdT 156.14), fa un impietoso confronto tra la generosità di Bonifacio e l’avarizia di Guglielmo VI, mentre Aimeric de Peguilhan, nella lirica Ara

parra qual seran envejos (BdT 10.11), lo incita ad andare “oltre mare”:

Marques de Monferrat, vostr’ancessor Marchese di Monferrato, i vostri avi agron lo pretz de Suri’ e l’onor; ebbero la signoria di Siria e l’onore; e vos, senher, vulhatz l’aver aital. e voi, signore, vogliate averlo altrettanto.

67 Roncaglia 1982, p. 114.

68 Marinetti 2007, pp. 61-76 e Harvey-Paterson 2010, III, pp. 1223-1232. 69

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(vv. 51-53)

Questo richiamo è predominante in altre composizioni di Elias Cairel, tra cui la canzone di crociata Pos cai la foilla del garric (BdT 133.9) dove rimprovera aspramente il marchese per non prestare soccorso non solo ai baroni lombardi d’Oriente, ma anche al fratello Demetrio, principe di Salonicco. Tra l’altro questa sua composizione è l’unica fonte italiana che testimoni di questi episodi: principalmente emergono le intenzioni dei compagni di Bonifacio I, a cui Guglielmo VI appariva «uomo più adatto a fare il monaco che non il guerriero».70 In ogni modo queste violente accuse non trovarono alcuna risposta immediata. Passarono infatti diversi anni prima che il marchese si procurasse il denaro necessario per la spedizione per soccorrere del il giovane fratello, spedizione in cui, tra l’altro, avrebbe perduto la vita (1225).

Si assiste, in questo periodo, con protagonista Guglielmo VI, ad una costante comparazione tra il marchese Guglielmo e i suoi predecessori. I trovatori che frequentano la sua corte non riescono ad evitare questo luogo comune: liberalità e cortesia sono scomparse con Bonifacio I e il figlio non si dimostra degno di prenderne il posto. Così, il continuo rimpianto nostalgico del passato vede la sua fine con la morte di Guglielmo VI, la cui ultima attestazione si trova in una tenzone del 1231 tra Joan d’Albusson e Nicolet de Turin (BdT 265.2 = 310.1).71

La vita di Guglielmo VI non fu comunque l’ultima della corte di Monferrato ad essere stata legata al mondo provenzale. A parte un’allusione di Guiraut Riquier a Guglielmo VII in una sua composizione del dicembre 1280 (BdT 248.79),

Be·m play quar l’onratz marques Ben mi piace che l’onorato de Monferrat cabalos, illustre marchese di Monferrato, al rey fa prezent joyos; fa gioiosi doni al re;

(vv. 37-39)72

Bonifacio II (1225-1253) è l’estremo protagonista di un’accesa canzone provenzale. Infatti, Bonifacio II, che partecipò disinvoltamente a diversi schieramenti politici nel corso della sua vita, ricevette un duro attacco dal genovese Lanfranc Cigala nel sirventese Estier mon

grat mi fan dir vilanatge (BdT 282.6). Questo componimento si configura come una fiera

accusa contro l’infido marchese, che da alleato del papa, passò alla parte imperiale nel

70 De Bartholomaeis 1931, I, p. XXXIV.

71 Paterson 2008, pp. 1-18 e Harvey-Paterson 2010, III, pp. 869-876. 72

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luglio del 1245. In questa composizione Lanfranc si fa portavoce del pensiero dei genovesi, indignati dell’improvviso voltafaccia.73

E poco a poco, dopo la corte di Monferrato, anche quella d’Este, dei Malaspina e di Saluzzo decadevano e i tempi cambiarono rapidamente, additando un panorama desolante dove la poesia trobadorica si stava pian piano esaurendo.

La poesia dei trovatori è, tuttavia, fondamentale soprattutto per il mondo politico in essa rappresentata, in quanto presenta pagine di dettagliata cronaca, oltreché personaggi e avvenimenti poco conosciuti o del tutto ignoti, tanto che De Bartholomeis affermò con una certa verosimiglianza che, in qualche modo, essa «abbia esercitato le funzioni del giornalismo moderno»74.

73 Ugolini 1949, pp. XLIV-XLV e Branciforti 1954, pp. 204-208. Cfr. anche Capitolo III, par. 12.1. 74

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