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Capitolo 3 La famiglia affidataria, parte del sistema affido

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Capitolo 3

La famiglia affidataria, parte del sistema affido

3.1 Il percorso di conoscenza delle famiglie affidatarie: la normativa e il ruolo degli operatori di fronte alla proposta di accogliere un minore

Parlando di affidatari, innanzitutto, mi sembra interessante definire precisamente chi sono le famiglie che si candidano all’affido e quali caratteristiche devono avere.

La normativa in materia non offre indicazioni troppo specifiche, bensì è molto flessibile, limitandosi ad orientare la scelta verso “una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli [al minore] il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno.”1

La legge precisa inoltre, rispetto al ruolo delle famiglie affidatarie, che nel provvedimento d’affido devono essere indicati “i tempi e i modi dell’esercizio dei poteri riconosciuti all’affidatario”;2 l’articolo 5 della legge 149, specifica

meglio le maniere in cui tale posizione si deve esprimere ed anche i diritti, connessi ai doveri di tale scelta.Al comma 1 stabilisce infatti che: “L’affidatario deve accogliere presso di sé il minore e provvedere al suo mantenimento e alla sua educazione e istruzione, tenendo conto delle indicazioni dei genitori per i quali non vi sia stata pronuncia ai sensi degli articolo 330 e 333 del codice civile,

1 Legge 149/01, art.2, comma 1. 2 Legge 149/01, art.4, comma 3.

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o del tutore, ed osservando le prescrizioni stabilite dall’autorità affidante. […] In ogni caso l’affidatario esercita i poteri connessi con la potestà parentale in relazione agli ordinari rapporti con la istituzione scolastica e con le autorità sanitarie. L’affidatario deve essere sentito nei procedimenti civili in materia di potestà, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato.”3

Lo stesso articolo 4, al comma 5, inserisce la possibilità di prevedere forme di sostegno e di aiuto economico per sostenere la famiglia affidataria e lo fa, come meglio chiarito all’articolo 38, comma 4, “affinché tale affidamento si possa fondare sulla disponibilità e l’idoneità all’accoglienza indipendentemente dalle condizioni economiche.”4 Come già precisato nel capitolo 1, la legge prevede

inoltre la possibilità, per gli affidatari, di usufruire degli assegni familiari e di altre prestazioni previdenziali relative al minore, nonché di tutti i benefici previsti per i genitori biologici in tema di: astensione obbligatoria e facoltativa dal lavoro, di permessi per malattia e di riposi giornalieri.

Preme comunque sottolineare che le forme di sostegno “monetario”, non tolgono nulla al carattere di gratuità dell’affido. La stessa legge infatti, all’articolo 5, comma 4, precisa che gli affidatari avranno aiuto economico ma solo nei “limiti delle disponibilità finanziarie” dell’Ente,5 pertanto, anche in regioni come la Toscana, dove un’apposita delibera (n.364 del 21.09.1993), già citata nel capitolo 1, stabilisce la corresponsione di un assegno di base agli affidatari, precisandone anche l’importo (un dodicesimo della pensione minima

3 L.149/01, art.5, comma 1.

4 L.149/01, art.38, comma 4. 5 L.149/01, art.5, comma 4.

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del lavoratore dipendente), il sostegno previsto copre esculsivamente le spese di mantenimento e cura, spesso neppure interamente, data la trascuratezza anche da un punto di vista sanitario che presentano i bambini che vanno in affidamento familiare.

Gli affidatari, come precisano Frida Tonizzo e Donata Micucci, dell’Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie, sono infatti dei volontari che effettuano un servizio fondamentale alla comunità; accogliendo uno o più bambini nella loro famiglia, concorrono alla realizzazione delle competenze che le leggi vigenti attribuiscono alle istituzioni e, ciò che è più significativo, lo fanno in maniera disinteressata, mettendosi a disposizione in maniera solidale.6

L’affido è infatti una realtà che si basa su valori di altruismo e generosità: le persone che si candidano ad accogliere minori si contraddistinguono per essere fondamentalmente capaci di mettersi in gioco e di aprire il loro privato a favore di chi ha bisogno. Costituiscono inoltre una risorsa molto preziosa, di cui abbiamo estremamente necessità, in quanto, numericamente, non riescono a soddisfare del tutto le richieste e le urgenze, specie quando si tratta di fratelli o bambini un po’ più grandicelli, che hanno alle spalle vissuti troppo sofferenti. Ovviamente sarebbe molto riduttivo pensare che queste famiglie abbiano, semplicemente, “una marcia in più” e che il fatto che si mettano a disposizione

6 F. Tonizzo e D. Micucci, Avere due famiglie: l’affidamento familiare nella prassi, in I bambini e gli adolescenti in

affidamento familiare. Rassegna tematica e riscontri empirici, Agosto 2002, Istituto degli Innocenti, Firenze 2002,

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gratuitamente comporti che possano essere “utilizzate” per i vari abbinamenti,

tout court, con entusiasmo ed ottimismo. Così come può essere estremamente

fuorviante l’atteggiamento sospettoso di molti operatori, i quali nutrono il dubbio verso gli affidatari che, proprio per il motivo che si candidano, quindi come si suol dire “se la vanno a cercare”, certamente hanno “qualche problema”, visto che di solito l’ispirazione delle persone è a star bene e non a soffrire.

Chistolini, a tal proposito, precisa : “che prevalga la diffidenza o l’ammirazione […] questi pensieri e sentimenti, spesso impliciti, giocheranno un ruolo nel rapporto che si andrà a instaurare con il nucleo familiare, costituendo una delle “griglie concettuali” che saranno utilizzate per dare significato alle informazioni raccolte.”7

In effetti la relazione che si va creando tra la famiglia affidataria e gli operatori che si occupano di selezione e abbinamento è fondamentale, per vari motivi. Tra questi, quello che assume un valore determinante, a mio avviso, è il fatto che, ormai la maggioranza dei Centri Affidi (come quello in cui opero personalmente), non termina il percorso di conoscenza con la famiglia affidataria decretando un’idoneità o meno all’affido, come nel caso dell’adozione, bensì alla disponibilità espressa fanno seguito colloqui, visite domiciliari, contatti e inviti al gruppo delle famiglie affidatarie, finalizzati alla comprensione, da parte degli operatori, delle reali motivazioni e delle caratteristiche della famiglia, mentre, da parte dei “futuri” affidatari, della realtà

7 M. Chistolini, Il percorso cit., pag.107.

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oggettiva dell’affidamento, al di là di idealizzazioni e pregiudizi. E’ ovvio che, reciprocamente, mentre acquisiamo informazioni, non possiamo prescindere da fare valutazioni; sottolineo “reciprocamente” perché non è raro che le coppie che si avvicinano all’affido, appena entrano maggiormente nel concreto del progetto, decidono, autonomamente, di non voler proseguire.

La conoscenza delle famiglie, comunque, ormai si basa su metodiche di lavoro consolidate ed efficaci, in grado di offrire informazioni pertinenti sia sulle competenze educative che sulle capacità contenitive e di tolleranza alle frustrazioni.8Tali aspetti, specificatamente, si desumono e chiarificano andando

ad indagare varie aree che, come suggerisce Chistolini, comprendono: la composizione della famiglia, la divisione dei ruoli all’interno della stessa, il rapporto di coppia, la presenza di figli, la relazione con le rispettive famiglie allargate ed altri aspetti connessi. Tali informazioni acquisiscono un senso e ci sono certamente più utili all’interno di un rapporto professionale ed empatico, dove vi sia spazio anche per accogliere gli eventuali punti critici e le debolezze.9

Nel Centro Affidi in cui lavoro tutte le candidature sono accolte e prese in considerazione: è ovvio che i limiti, le difficoltà, le motivazioni che non si conciliano con l’accoglienza di un bambino, vengono affrontate direttamente con la coppia e, nel caso in cui si ravvisi un franco disturbo di natura psichiatrica, pur in assenza di una formale diagnosi, le persone vengono indirizzate a

8D. Ghezzi, La tutela cit.

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rivolgersi, in via prioritaria, al proprio medico, al fine di avere chiarimenti o farsi aiutare, a seconda delle situazioni.

In questo contesto, che è quindi di conoscenza reciproca ed è finalizzato a dare e ricevere fiducia, la relazione che si instaura è senza dubbio determinante e, certamente, crea le premesse future.

Non di rado è capitato che famiglie considerate buone risorse, che hanno evidenziato potenzialità e capacità di fronteggiare gli eventi, oltre ad una buona coesione di coppia, dopo un periodo, anche breve, dall’inserimento del minore in affido, hanno recepito, non solo a livello di comunicazione verbale, ma anche a livello relazionale, la buona opinione che gli operatori avevano di loro e, finalmente, hanno dato accesso anche a quanto tenuto celato fino a quel momento; ho in mente tanti colloqui di rivelazioni di abusi sofferti in età infantile, di lutti, separazioni e perdite, patiti dagli affidatari, successivi all’ingresso del minore nella loro casa. Spesso, infatti, i percorsi di vita di chi si rende disponibile ad accogliere minori sono stati tortuosi; molti hanno dovuto superare tratti impegnativi ed accidentati, specialmente durante l’infanzia. E’ come se si riconoscessero nei bambini che hanno bisogno di aiuto e accudimento e, da adulti, facessero la parte che, con loro, non è stata compiuta. L’immaginario collettivo, di prospettarsi una famiglia d’origine problematica e incapace, contrapposta ad una famiglia affidataria fortunata e tranquilla, è fortemente messo in dubbio dall’esperienza del lavoro sul campo.10

10 E. Bertagnoli, D. Miotto, Famiglie affidatarie: quale percorso? in “Prospettive sociali e sanitarie”, Anno XXXVII,

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Per questo, ed altri motivi, è quindi indispensabile che la presa in carico delle famiglie affidatarie prosegua nel tempo e che i monitoraggi, le verifiche, la condivisione in équipe, siano sempre, costantemente, attivi. Sono convinta che non ci si debba infatti far sopraffare da sentimenti di inadeguatezza professionale e impossibilità a proseguire l’affido qualora ci troviamo di fronte a tali situazioni di “fragilità”, se non addirittura di traumi patiti dagli affidatari: se la famiglia ha comunque mostrato capacità e tenacia, oltre che competenze affettive ed educative, unite ad un buon rapporto di collaborazione con gli operatori, vi sono le premesse per proseguire nel progetto, con buoni auspici. D’altra parte gli studi sulla resilienza ci indicano che aver vissuto fratture, anche gravi, non implica un funzionamento patologico, bensì può addirittura promuovere la capacità di riuscire a vivere e a svilupparsi positivamente, in modo socialmente gratificante; in sintesi, può persino costituire una risorsa e sviluppare una maggiore comprensione verso l’altrui sofferenza.11

Ciò che dobbiamo sempre tenere a mente è semmai che gli affidatari sono sempre “portatori di un progetto che […] è solitamente la manifestazione di istanze personali e familiari profonde e importanti.”12

Dobbiamo assolutamente utilizzare, anche in questo ambito, il modello della complessità, dell’interazione tra sistemi, dell’ipotesi del gioco familiare. Ci dobbiamo domandare quali motivazioni spingono una famiglia, o uno solo dei suoi membri, o alcuni membri in alleanza, a formulare una richiesta d’affido, e

11 E. Malaguti, Educarsi alla resilienza. Come affrontare crisi e difficoltà e migliorarsi, Edizioni Erickson, Trento 2005. 12M. Chistolini, Il percorso cit., pag.107.

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quale capacità sapranno attivare per modificarsi quel tanto che serve per accogliere quel bambino, con la sua storia.

Cirillo, riportando i lavori di vari studiosi sull’argomento, sostiene: “[…] non si tratta dunque di selezionare delle improbabili famiglie “ideali”, idonee ad ogni affidamento. Si tratta, al contrario, di formulare per ogni singola famiglia aspirante una specifica ipotesi sul gioco in atto, ipotesi che consenta di procedere ad un abbinamento mirato tra “quella” famiglia e “quel” bambino (con “quei” genitori naturali) con una prognosi il più possibile favorevole.”13

Se ci avviciniamo quindi agli aspiranti affidatari con tutto il riferimento teorico e metodologico che utilizziamo nel processo d’aiuto, attivando l’accoglienza, il sostegno, ma anche la visione trigenerazionale, nonché l’atteggiamento ipotizzante e multicausale, ne trarrà sicuramente vantaggio tutto il progetto. Ciò che non dobbiamo dimenticare, a garanzia di maggiore obiettività, è che, nella relazione con gli affidatari, non solo diamo aiuto, ma lo riceviamo, perché senza di loro non potremmo attivare un affido e perché sono numericamente pochi, quindi quelli che abbiamo non possiamo farceli scappare: siamo infatti in un rapporto di reciprocità. Chistolini, a tal proposito, offre un utile suggerimento: “E’ superfluo dire che la postura più utile è rappresentata dalla capacità di tenere insieme, in modo coerente, le due dimensioni che caratterizzano tutti gli affidatari senza essere contradditorie: costituire delle risorse preziosissime per i

13 S. Cirillo Famiglie cit., pag.48.

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minori in difficoltà ed essere, allo stesso tempo, persone portatrici di specifici bisogni esistenziali che stanno alla base della loro candidatura all’affido.”14

Ciò che conta è che si realizzi il proficuo incontro tra due istanze, quelle del bambino da una parte e quella della famiglia affidataria dall’altra, e che queste possano armoniosamente integrarsi.

Al di là di ogni possibile valutazione e conoscenza nei confronti degli affidatari, la scelta più corretta è senz’altro quella di una famiglia che sia fiduciosa verso il cambiamento e che sappia sopportare gli agiti, non sempre auspicabili, dei genitori naturali, accontentandosi di modifiche e risultati seppur parziali, inconsistenti, lenti.

Si dovranno individuare persone con risorse tali da potersi confrontare con genitori tanto socialmente e intimamente riprovevoli come quelli che hanno provocato nel loro figlio sofferenze, trascuratezze, abusi.

Se la famiglia affidataria non avrà instaurato fiducia nel lavoro degli operatori sociali, tendendo a viverli come “illusi”, “inconsapevoli”, sostanzialmente “lontani” dal reale mondo del bambino, sarà portata ad assumere posizioni autonome d’intervento, non in linea con il progetto, o addirittura che virano in senso opposto, prendendo magari a pretesto gli immancabili episodi difficili da gestire, sempre presenti nell’affido, come anche nella quotidianità di ciascuno di noi. Ciò che è peggio, comunque, in tali situazioni, è che arriverà al bambino un grave segnale di sfiducia nei confronti dei suoi genitori che minerà poi,

14M. Chistolini, Il percorso cit., pag.107.

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inevitabilmente, il suo equilibrio, la sua autostima e la sua identità. Il concetto basilare, che cerchiamo infatti di trasmettere sempre alle famiglie affidatarie, è l’impossibilità di una seconda nascita, riparatoria e capace di cancellare la prima, nonché la necessità di infondere al minore il rispetto della sua storia, dei suoi familiari. In sintesi, il bambino deve poter sentire che la famiglia affidataria, sinceramente, profondamente, rivolge a lui, nella sua unicità, un’accoglienza completa, senza riserve.15

3.2 Quando gli affidatari sono parenti

Spesso, nel momento in cui si rende necessario ricorrere ad un affido, si dichiarano disponibili all’accoglienza alcuni membri della famiglia naturale: possono essere i nonni, gli zii, o altri parenti.

L’argomento è talmente vasto e articolato che meriterebbe una trattazione ad

hoc; in questa sede mi limiterò a darne una definizione, a prenderlo almeno in

considerazione, e a fornire elementi utili ad una riflessione che metta in guardia gli operatori nel decidere, in maniera spesso troppo affrettata, in favore di un intervento che, all’apparenza, accontenta tutti perché sembra non comportare troppa sofferenza, dal momento che non crea strappi nè separazioni troppo consistenti.

In effetti, in Italia, è ancora molto diffusa la prassi dell’affidamento intrafamiliare, a dimostrazione che “il primato dei legami di sangue resiste

15 D. Ghezzi, La tutela cit.

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ancora”16: in positivo come solidarietà e vincolo familiare, in negativo come possesso del bambino da parte degli adulti e chiusura della comunità familiare al mondo esterno.

Secondo la rilevazione coordinata dei dati di Regioni e Province autonome,17 al

31.12.2012, del totale dei minori in affidamento familiare in Italia, il 47% è collocato in una realtà intrafamiliare, con una notevole variabilità territoriale tra nord e sud, che si caratterizza con una maggiore incidenza della scelta intrafamiliare nei territori meridionali.

Il rischio maggiore che i vari studiosi in materia rilevano nell’affido a parenti è soprattutto, comunque, in relazione ai rischi di una trasmissione intergenerazionale della trascuratezza. Il bambino affidato ai nonni potrebbe facilmente essere sottoposto alle stesse modalità educative, carenzianti e traumatiche, che hanno contrassegnato l’infanzia dei suoi genitori. Oltre a ciò, tale intervento sembrerebbe anche precludere il recupero dei genitori che, sentendosi doppiamente falliti, sia come figli che come genitori, rinunciano alla cura. L’atteggiamento dei nonni inoltre, che in queste situazioni tendono a non avere alcuna fiducia nei figli, contribuisce ad attivare nei genitori-figli, comportamenti infantili e irresponsabili, oltre che di delega totale del bambino, bloccando ogni processo di cambiamento e riappropriazione del ruolo genitoriale. Mazza, affrontando il tema della tossicodipendenza dei genitori e la necessità di un progetto di tutela in favore dei figli, riporta che l’affidamento dei

16 S. Cirillo, Cattivi cit., pag.77.

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minori ai nonni è un quesito importante che, spesso, ha un epilogo molto doloroso: la morte per overdose del tossicodipendente; quest’ultimo infatti, vedendo i propri genitori occuparsi del nipote considerandolo come figlio proprio, si sente ancora una volta rifiutato, trascurato, abbandonato.18 In

alternativa ai nonni si ricorre sovente agli zii o ad altri parenti: questi spesso si mostrano competenti ed attendibili, oltre a rappresentare una scelta meno traumatizzante sia per il bambino, che in questo modo non deve fare cambiamenti troppo drastici, che per i genitori, che si illudono così di poter disporre del figlio a loro piacimento, sviando il controllo dei servizi. Purtroppo anche tale soluzione non offre quasi mai buone prospettive al minore, in quanto attiva modalità simili all’affido ai nonni: riaffiorano antiche rivalità, strumentalizzazioni, ricatti emotivi e sentimenti che fanno parte della storia familiare.

Vi sono comunque condizioni che rendono meno problematica l’opzione dell’affido intrafamiliare: in primis, se si tratta di nonni, questi devono mostrare capacità autocritiche e dimostrare di voler “lavorare” sulle loro responsabilità; se si tratta invece di fratelli, zii o altri parenti, deve essere presente l’accettazione e la condivisione di ipotesi eziopatogenetiche sulle dinamiche e sulle difficoltà intergenerazionali, nonché la disponibilità a collaborare strettamente con i servizi, non solo in relazione alle necessità e alle problematiche del figlio-fratello-nipote, ma anche per essere presi loro stessi in

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carico, al fine di elaborare il passato ed essere aiutati a mantenere il focus sul bambino. Come operatori inoltre, anche se siamo estremamente tentati di ricorrere all’affido intrafamiliare, anche per “formalizzare” una situazione di fatto in quanto spesso i bambini per i quali progettiamo un affido vivono già con i nonni o altri parenti, dobbiamo avere ben chiari gli scenari che si aprono. In queste situazioni il minore si trova coinvolto in conflitti irrisolti, talvolta anche molto accesi, e diviene strumentale, oggetto di ricatti reciproci, “gestito dagli uni e dagli altri in funzione esclusiva dei loro bisogni.”19 Ovviamente il loro

sviluppo risentirà fortemente di queste esperienze. “Alcuni autori hanno osservato che in questi bambini sono frequenti i disturbi legati a una fragilità dell’immagine di sé, disturbi dell’attaccamento con inversione di ruoli, acquiescenza e iperadeguatezza […] e carenza di identificazioni salde e strutturanti, come pure si riscontra assai spesso un oscillare tra il bisogno-desiderio di fare il figlio della propria madre e il bisogno di essere accudito e rassicurato dai nonni, perché i genitori sono sentiti come inaffidabili.”20

In sintesi sottolineo che, anche questo “spaccato” ci offre l’occasione per sottolineare come, nell’intervento sociale, siano assolutamente da rifuggire i dogmatismi: se è criticabile pensare anche la miglior situazione per un bambino per il quale è stato progettato un affido sia sempre il collocamento intrafamiliare, altrettanto è opinabile ritenere che mai si debba promuovere l’affido del bambino ai nonni, agli zii, ai parenti in generale, perché la realtà dei fatti ci pone

19 R. Mazza, Famiglie cit., pag.183. 20 R. Mazza, Famiglie cit., pag. 188.

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di fronte all’evidenza che, date alcune premesse già evidenziate (disponibilità dei parenti a collaborare con i servizi, capacità a rilevare le proprie responsabilità e disponibilità autentica ad aiutare il genitore) spesso questa è la scelta che offre maggior benessere.21

3.3 Quando gli affidatari non sono famiglie

La poliedricità delle relazioni, dei vincoli, dei diversi modi di stare insieme, nella società attuale, sopraffatta dalla crisi, ma anche stimolata a trovare nuove e più creative modalità di reazione ed adattamento, è una componente che si riflette in tutte la realtà collettive; da questo fenomeno non è escluso l’affidamento familiare.

Anche nella realtà del Centro Affidi presso cui lavoro si è registrata tale tendenza e, soprattutto nell’ultimo periodo, varie sono state le candidature di single, di coppie senza figli che non hanno difficoltà procreative (e che magari decidono di avere un figlio naturale successivamente all’inserimento del minore in affido), nonché di coppie omossessuali, sebbene l’ultima categoria sia rappresentata da un’unica candidatura.

Riporto, brevemente, l’esperienza di quest’ultima fattispecie, in quanto mi sembra indicativa della portata del lavoro che deve ancora essere compiuto da parte della società nella sua interezza.

21 S. Cirillo, Cattivi cit., pag. 81

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Laura si presenta, in una prima fase, come una single che desidera “dare una mano” ad uno o più bambini che ne abbiano bisogno. Dichiara di avere molto tempo libero in quanto, sebbene svolga un’attività di grande responsabilità e impegno, vive sola perché si è trasferita nella nostra città proprio per lavoro. Da subito emerge una grande disponibilità ed apertura verso l’altro, nonché cultura e formative esperienze di vita, caratterizzate da viaggi e attività volontaristiche di un certo rilievo. E’ molto aperta, gioviale e simpatica: ironizza nel raccontare la mancanza di un partner, è gentile ma un po’ sfuggente nel raccontare la sua storia di vita. Laura viene invitata a far parte del gruppo degli affidatari, dove si inserisce senza difficoltà, partecipando e fornendo il suo contributo, sempre misurato, pertinente. A poco a poco, cominciamo con lei a ipotizzare un possibile abbinamento e la scelta, inevitabile, sembra essere quella di un affidamento diurno. Le spiegazioni che inducono a tale scelta sono la mancanza, da parte della donna, di una rete familiare di sostegno e, nel contempo, la possibilità di avere un orario di lavoro flessibile, in grado di andare incontro alle esigenze di cura di un minore in età scolare che, magari, necessita di un supporto nelle ore pomeridiane o di essere accompagnato a scuola al mattino o, ancora, di essere accudito per il pranzo o per la cena. Altre motivazioni sono presenti, ma risultano ancora poco chiare e condivisibili. Mentre si sviluppa una conoscenza reciproca, Laura inizia a parlarci di un’amica, che vive e lavora nella sua città d’origine ma che la raggiunge nei fine settimana e ogni qualvolta le è possibile. Ci chiede poi di conoscerla, riferendo che anche lei è disponibile all’accoglienza. Marina ha un carattere più introverso di Laura; è meno socievole e spiritosa, ma molto dolce e altrettanto colta. Si candida come supporto a Laura, come sostegno e condivisione al progetto dell’amica. E’ da subito abbastanza chiaro che sono una coppia, ma non lo palesano. Anche Marina tende a sintetizzare enormemente la sua storia di vita, soffermandosi maggiormente sul percorso di studi e le varie esperienze formative. E’ evidente che temono che la rilevazione possa comportare un’esclusione al progetto. A distanza di diversi mesi dalla conoscenza, arriva una richiesta dal territorio che sembra funzionale ad un abbinamento con le due donne: si tratta di una giovane mamma di due bambini che sta terminando il suo percorso in comunità madre-bambino e che, essendo completamente sola, necessita di un supporto nella gestione dei figli, durante il giorno. Il progetto, da subito, evidenzia dati estremamente positivi, per la relazione che si crea sia con i bambini che con la mamma. Un giorno, in occasione di un incontro di gruppo con gli affidatari, a distanza di alcuni mesi dall’inizio dell’affido diurno, Marina chiede di parlarmi in privato, fuori dalla stanza dove sono presenti anche gli altri affidatari. La domanda è precisa, studiata, ma non per questo priva di imbarazzo e preoccupazione: “E’ un problema se io e Laura siamo una coppia?” Ovviamente l’affido è proseguito ed i bambini si

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sono legati enormemente alle due donne. Durante un incontro di verifica, passato circa un anno dall’inizio del progetto, la mamma dei bambini esprime all’improvviso la sua preoccupazione: riferisce che, pur soddisfatta del rapporto con Laura e Marina nonché del loro comportamento con i bambini, ha il dubbio che siano una coppia e questo, a lei, non fa piacere. Le chiediamo di spiegare meglio la sua apprensione: chiarisce che teme che si lascino andare ad effusioni, a gesti erotizzati davanti ai bambini. Non è stato facile far riflettere la donna circa il fatto che l’ipotesi da lei prospettata avrebbe dovuto allarmarla anche nel caso in cui la coppia fosse stata eterosessuale; è un pregiudizio ancora purtroppo molto forte quello di considerare la coppia omosessuale ipersessualizzata e promiscua. Laura e Marina non hanno mai dichiarato al gruppo la loro identità sessuale.

L’esempio citato mette in luce la reazione sociale, ancora oggi per niente priva di pregiudizi, nei confronti delle coppie omosessuali.

La scelta di destinare la candidatura ai progetti di affido diurno sembra quella maggiormente percorribile, almeno finché la cultura Italiana non si modifichi al punto da accettare socialmente questo tipo di famiglia che, comunque, su un piano psicologico, non presenta elementi di preclusione. La teoria dell’attaccamento mette infatti in luce che è vitale, per ogni bambino, ricevere cure e protezioni adeguate; rilevante è la qualità dell’accudimento e non certamente l’orientamento sessuale di chi alleva il piccolo.22

Altro target che favorisce il dibattito, apre questioni un po’ controverse e che numericamente è certamente molto più rilevante, è quello delle coppie senza figli che si candidano all’affido.

22 M. Chistolini, Il percorso cit., pag. 130.

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In passato tali disponibilità venivano scartate, con grande diffidenza, sicuri che queste persone non avrebbero potuto sostenere un progetto d’affido, in quanto troppo “intrise” di motivazioni adottive.

In genere queste candidature sono rappresentate da coppie che non possono avere figli per sterilità, ma non solo, le fattispecie sono diverse: vi possono essere timori legati alla procreazione naturale per malattie ereditarie, paura della gestazione e del parto, problemi di salute, perdita di un figlio (per morte o perché il precedente partner l’ha preso con sé), oppure possiamo trovarci di fronte persone non più biologicamente in grado di avere un figlio naturale per condizioni anagrafiche, o persone sole che, non per questo, intendono rinunciare al loro desiderio di maternità o di paternità.

E’ ovvio che la motivazione prevalente, in queste situazioni, è quella adottiva, ed è altrettanto ovvio che un criterio rigoroso imporrebbe di non utilizzare queste famiglie per l’affido, indirizzandole verso l’adozione.23

Ciò nonostante, non possiamo negare che di queste candidature abbiamo estremamente bisogno. Mi riferisco, in particolare, alla necessità di reperire un contesto familiare per due fratelli, oppure ad adolescenti con famiglia cronicamente e irrecuperabilmente disgregata, ma che non siano giuridicamente adottabili; queste candidature sembrano avere le caratteristiche idonee per garantire una tenuta nel tempo e una disponibilità a far fronte ai mille impegni richiesti che più difficilmente si riscontrano in coppie che hanno già altri figli.

23 S. Cirillo, Famiglie cit.

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A tal proposito mi limito a sottolineare quanto debba essere ben ponderata la scelta di inserire un bambino in affido in famiglie con figli propri: dovrà essere attentamente considerata l’età, la relazione con le figure significative della famiglia e si dovranno ipotizzare, insieme ai genitori, aspiranti affidatari, tutti gli adattamenti a cui andrà incontro il figlio per “far posto” al nuovo venuto che, quasi mai, è privo di difficoltà personali e, non di rado, manifesta sintomi.

Per ciò che concerne invece il quesito che attanaglia spesso gli operatori, circa il mantenere o meno congiunti i fratelli nel percorso di affidamento familiare, si evidenzia che è in corso una ricerca, avviata nel 2009, che si presenta come uno studio esplorativo relativo al legame fraterno in 20 coppie di fratelli in affido familiare, 10 in affido congiunto e 10 in affido disgiunto, condotta da Ondina Greco, Raffaella Iafrate e Ivana Comelli. Dall’indagine emerge che il legame fraterno risulta essere un elemento di risorsa durante il periodo dell’affidamento familiare, pur con differenze specifiche in base al tipo di collocamento: i fratelli congiunti tendono a schierarsi con la famiglia affidataria e ad evidenziare sentimenti di competizione, tipici della fratria, mentre, chi è in affido in modalità disgiunta, sembra manifestare più frequentemente il problema di salvare il legame con la famiglia naturale, idealizzare il fratello o comunque lamentarne la mancanza. E’ ovvio che tale risultato non può essere generalizzato, data l’esiguità numerica del campione incontrato, ciò nonostante offre lo spunto per riflessioni interessanti.24

24 E. Scabini, V. Cigoli, Alla ricerca cit.

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Tornando all’idea di accogliere le candidature di coppie senza figli, è ovvio che la posizione di chi si mostra critico e scettico di fronte a tale scelta ha la sua ragion d’essere: se l’affido è un intervento temporaneo, si suppone che la famiglia che ha istanze adottive, se potrà tollerare (e persino promuovere e arrivare a considerare di buon auspicio) gli incontri del minore in affido con la sua famiglia d’origine, più difficilmente sarà disposta a immaginare “una fine” del rapporto con il bambino, investendo su di lui nel lungo termine. Il ragionamento sarebbe valido se l’affido fosse davvero a termine: come più volte sottolineato in questo lavoro, le ricerche ci dimostrano invece che più della metà degli affidi in Italia non finisce, ha cioè un carattere sine die. Ciò significa che la maggior parte degli affidi, come già rilevato, è attivata in situazioni dove è già evidente in partenza la necessità di una collocazione permanente. E’ ragionevole quindi concludere che non possiamo scartare queste preziose risposte perché, spesso, sono quelle “più capaci di sintonizzarsi con il bisogno di appartenenza e stabilità che caratterizza quei minori che, destinati all’affido, non potranno più far ritorno nelle loro famiglie d’origine.”25

E’ ovvio che, operando tale scelta, dovremo ben ponderare i rischi e mettere in atto accorgimenti cautelativi: la famiglia affidataria dovrà essere massicciamente sostenuta perché rispetti i legami che il bambino ha con la sua famiglia e non si attivi, anche inconsciamente, per reciderli del tutto; dovrà essere guidata a

25 M. Chistolini Il percorso cit., pag.107.

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rinunciare al desiderio, senz’altro legittimo, di avere un figlio tutto per sé, ammesso che i figli naturali esaudiscano tale aspettativa.

3.4 Rapporti tra famiglia d’origine e famiglia affidataria

Se le caratteristiche salienti dell’affido sono la continuità e la doppia appartenenza, si può facilmente comprendere quale importanza rivestano i rapporti che si instaurano tra la famiglia d’origine e la famiglia affidataria e quali ripercussioni potranno avere sul minore.

L’esperienza professionale mi rimanda a non pochi esempi di minori che reagiscono, spesso inconsciamente, in maniera molto rappresentativa, ai messaggi emotivi che le due famiglie a cui sentono di appartenere gli rimandano (la famiglia naturale da una parte e quella affidataria dall’altra), circa i rapporti tra di esse e, in particolare, circa i rischi che loro in prima persona, come minori, corrono rispetto alla natura della relazione tra gli adulti che, quanto più sarà difficile, conflittuale, travagliata, diffidente, tanto più minerà il benessere del bambino.

Lorenzo ha solo un anno e mezzo quando inizia l’esperienza dell’affidamento familiare. La madre è una tossicodipendente che ha già avuto altri due figli da uomini diversi, entrambi non in grado di assumersi le loro responsabilità: il primo è affidato ai nonni paterni, il secondo alla nonna materna. L’ultimo nato sembra promuovere nella donna il desiderio di un cambiamento, tanto da farla decidere di disintossicarsi e accettare l’inserimento in una Casa Famiglia, insieme al suo bambino. Il percorso evidenzia buone capacità della donna a prendersi cura del figlio, soprattutto in termini affettivi. A distanza di poco meno di un anno dall’inserimento, tuttavia, ha una “ricaduta” nella sostanza, quando si prospettavano per lei buone possibilità di

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autonomia, e, da allora, somma un crescendo di agiti distruttivi, fino ad allontanarsi dalla struttura, decidendo di formalizzare la sua intenzione di collocare il bambino in affido extrafamiliare. Il bambino inizia così la conoscenza di una famiglia dove, di lì a poco, gradualmente, viene collocato. La madre non si presenta all’incontro di conoscenza con la famiglia affidataria, insiste per vedere il figlio, ma dichiara di non volere rapporti con chi si prende cura di suo figlio. Si programmano così gli incontri protetti, con difficoltà evidenti, data la tenera età del bambino nonché la mancanza di un rapporto tra le due famiglie. Già dal primo incontro il contatto madre-figlio presenta gravi criticità: la donna è polemica, irritata, pretenziosa con l’operatrice e il bambino che, per tutta risposta, ovviamente si nega alla mamma, piagnucola e mostra chiaramente di non gradire l’incontro. I due appuntamenti successivi, a distanza di venti giorni l’uno dall’altro, non evidenziano sostanziali cambiamenti e sembrano fonte di sofferenza per tutti. La madre, in seguito, subisce una carcerazione, così i contatti con il bambino si interrompono. La famiglia affidataria mantiene vivo nel bambino il ricordo della mamma, ma solo per rispettare le indicazioni che ricevono dai servizi, preoccupati di come il bambino potrà procedere lungo il suo sviluppo dovendosi confrontare con un lutto così doloroso; ricordano la “mamma Michela” nei modi in cui è reso possibile dal loro coinvolgimento affettivo con il bambino e il conseguente desiderio “adottivo”, nonché la naturale e umana ostilità verso la donna che ai loro occhi ha drasticamente abbandonato il figlio, così piccolo e così bisognoso. La madre intanto, in carcere e successivamente in comunità terapeutica, inizia un percorso riabilitativo importante, che dà buoni risultati. L’assistente sociale si reca quindi a casa della famiglia affidataria per una verifica del progetto, ed anticipa loro che riprenderanno gli incontri madre-figlio. La famiglia si mostra contenta per il bambino. Da lì in poi il piccolo comincia a mostrare sintomi allarmanti, che non aveva mai evidenziato prima: è oltremodo oppositivo, regredisce drasticamente, si sveglia spesso durante la notte, rifiuta il riposo pomeridiano, alterna momenti di dipendenza assoluta ad altri in cui rifiuta qualsiasi aiuto. I genitori affidatari contattano il Centro Affidi, affranti e bisognosi d’aiuto. Durante il colloquio si affannano a elencare i sintomi del piccolo, apparentemente incapaci di comprenderne la genesi. Non è difficile far emergere, da lì a poco, i loro vissuti circa la visita ricevuta dall’assistente sociale. La mamma affidataria arriva persino a piangere, preoccupata per il dolore che, secondo lei, dovrà subire il bambino all’ennesima delusione che, inevitabilmente, la madre gli procurerà. Riferiscono di non aver dormito per giorni, dopo la notizia, di essersi sentiti privi di diritti, in difficoltà a chiarificarsi il loro ruolo e poco protettivi verso il bambino. E’ evidente che il piccolo non è rimasto estraneo a tali emozioni ed ha retroagito, in connessione con gli stati d’animo che ha percepito,

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nonostante gli affidatari ci abbiano assicurato che, con lui, non avessero modificato il loro atteggiamento, rimanendo affettuosi, sereni e mantenendo gli stessi ritmi di sempre.

E’ chiaro e ben rappresentato dall’esperienza come “lo sviluppo del bambino in affido sarà influenzato sia a livello micro sistemico, all’interno della singola famiglia affidataria, sia a livello mesosistemico, nell’interazione tra la famiglia affidataria e quella biologica.”26

Gli adulti dovrebbero quindi comprendere la doppia connessione del bambino alle due famiglie ed attivarsi perché i due sistemi familiari siano in contatto e in coerenza nella mente del minore.

Tutto questo è fondamentale proprio perché l’affido è un’esperienza che si realizza in un delicato periodo della crescita dei bambini, per un tempo piuttosto consistente; lasciare spazio ad agiti istigatori, a elevati conflitti di lealtà con l’una o l’altra famiglia, e ad assunzioni improprie di responsabilità da parte del minore, può pregiudicare il raggiungimento di un attaccamento sicuro.

Per avere una rappresentazione il più possibile attendibile circa la percezione che la famiglia affidataria e la famiglia naturale hanno l’una dell’altra, si può senz’altro far riferimento a quanto emerge dai colloqui iniziali di informazione sull’affido nel momento in cui le famiglie si candidano, e alle reazioni dei genitori allorché gli operatori comunicano loro la scelta di collocare il loro figlio in affido.

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La maggior preoccupazione espressa dai candidati all’affido, in genere, è di essere “rintracciati”, se non anche aggrediti o minacciati, dalla famiglia naturale che, nel loro immaginario, non è tanto una famiglia in difficoltà, quanto piuttosto una famiglia negativa, perché inadeguata, incapace, irrecuperabile, se non addirittura pericolosa.

I genitori naturali, da parte loro, in gran parte contrari all’affido (almeno nella fase iniziale), quando vengono resi edotti della necessità di tale progetto per il loro figlio, evidenziano le loro “fantasie” rispetto alla famiglia affidataria: la considerano il risultato di una società iniqua, che produce sventurati e privilegiati, (collocando gli affidatari nella seconda categoria), la accusano di volersi appropriare del loro bambino e, lungi dal considerarla solidale e promotrice di un servizio sociale, la vivono come “nemica”. Spesso la conoscenza mitiga decisamente questi preconcetti e, almeno formalmente, la famiglia naturale difficilmente mostra apertamente ostilità e rivendicazione alla famiglia affidataria; è ovvio che questo non impedisce comunque lo svolgersi di giochi relazionali che sottendono vissuti ambivalenti, spesso incontrollabili. Una rassicurazione che, comunque, dopo vari anni di esperienza nel campo dell’affidamento, ormai trasmettiamo con una certa tranquillità alla famiglia affidataria è in relazione al rischio di essere vittima degli agiti della famiglia naturale o di essere avvicinata di soppiatto o invasa nella propria privacy. In genere le reazioni veementi, la rabbia e la contrarietà, sono riservate, prevalentemente, agli operatori, specialmente quando la comunicazione non è

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chiara, partecipata, e si snoda su un doppio binario che, dolorosamente, dà origine ad uno slittamento di contesto che è causa di delusione e di vissuti di tradimento.27

Come più volte ribadito dai vari studiosi delle scienze sociali, non vi sono regole precostituite da applicare ad ogni situazione. Il modello sistemico, che offre un supporto operativo all’interno delle varie fasi del processo metodologico, indirizza verso lo “studio attento di ogni situazione per coglierne la specificità ed evitare soluzioni burocratiche o standardizzate”;28per questo non si può

definire quali siano i passaggi “obbligati” da promuovere per favorire la collaborazione tra la famiglia affidataria e la famiglia naturale, tout court. Vi saranno infatti situazioni in cui è possibile prevedere la conoscenza tra la famiglia naturale e la famiglia affidataria prima che inizi l’affidamento, favorendo, da subito, quel clima positivo di fiducia e scambio, ed altre dove, al contrario, tale intervento sarà preferibile programmarlo in una fase successiva o, addirittura, fissarlo come obiettivo da raggiungere.

E’ ovvio che se, come ho più volte sottolineato, l’affido nasce in un clima di prescrizioni ed obblighi, come è quello dell’affidamento giudiziario, e si caratterizza come risposta a precedenti tentativi falliti di riabilitazione della famiglia d’origine del bambino, sicuramente ciò a cui si finisce per andare incontro non è altro che una dimensione fondata sulla scarsa fiducia nelle possibilità di ciascuno di poter rendere funzionale l’intervento. La famiglia

27 Si veda, a tal proposito: A. Giasanti, E. Rossi (a cura di), Affido cit.; Cam (a cura di), L’affido cit.; Cam (a cura di)

Nuove cit.; S.Cirillo, Cattivi cit.

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affidataria, nel rapporto con la famiglia naturale, si misura con la difficoltà dell’incontro interumano: un contatto che avviene quando molti dei bisogni e delle difficoltà si sono cristallizzati nella logica di un’identità immutabile, ha sicuramente meno possibilità di riuscita in termini di cambiamento e recupero delle risorse. Così molto spesso si assiste più che ad “incontri interumani”, a degli “scontri interumani” dove, a pagarne le pene, si trovano i bambini, al centro di rapporti asimmetrici di competizione, che diventano oggetto di una gara per il loro “possesso”, capri espiatori del mal funzionamento di tutto il sistema di cura.29

Nelle famiglie affidatarie deve esserci, necessariamente, la consapevolezza di dover aiutare il bambino accolto a coltivare il rapporto con le proprie origini, a rispettare la sua appartenenza, accompagnandolo in un percorso di presa di coscienza dei tratti della sua storia e ricercandone quegli aspetti positivi, anche se residuali, di risorsa, ben nascosti tra le pieghe delle chiare problematicità familiari e relazionali.

Il bambino ha il legittimo desiderio, ma anche il bisogno, di rimanere in contatto con il proprio mondo originario, di vedere, toccare ed abbracciare coloro che, per quanto “scombinati”, gli hanno dato la vita, di riconoscersi nelle proprie radici per poter ridefinire la propria identità.

Gli affidatari saranno in grado di gestire correttamente la relazione con i familiari del minore, senza entrare in simmetria, solo se riusciranno a

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sintonizzarsi con la sofferenza di quel genitore, fino a vedere nell’adulto inadeguato il bambino che è stato, spesso privo a sua volta di tutela.

Chistolini, a tal proposito, riporta: “Nella mia esperienza questa capacità è strettamente correlata al grado di comprensione e pace che ciascun individuo ha raggiunto nei confronti della propria storia personale e dei propri genitori naturali. E’ facile, infatti, che sofferenze e insoddisfazioni che caratterizzano il rapporto con i propri genitori e che spesso sono negate anche a se stessi, possano essere espresse nei confronti di chi, per definizione e per dati oggettivi, è un genitore inadeguato, quali sono, spesso, il padre e la madre dei bambini che vanno in affido.”30

In ogni caso, quello che deve essere perseguito, è da ricercarsi nel concetto di co-genitorialità: tale nozione non si riferisce all’equa e rigida divisione del lavoro e dell’identica presenza nell’accudimento dei figli da parte delle due famiglie, bensì alla coordinazione e all’alleanza, nei modi possibili, tra adulti responsabili della cura e del benessere di un bambino.31

E’ ovvio che, dovendo definire la leadership educativa, questa sarà attribuita alla famiglia dov’è collocato il bambino, cioè quella affidataria, non per definire la supremazia di un set di genitori sull’altro, bensì al fine di garantire al bambino un contesto di chiarezza nel quotidiano, evitando l’attivazione di pericolose, magari inconsce, triangolazioni.

30 M. Chistolini, Il percorso cit., pag.119.

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3.5 I gruppi delle famiglie affidatarie

In molte realtà dei centri affidi la modalità più frequente con cui si esercita il sostegno e la promozione dell’affido è quella di gruppo.

In genere, nella fase preliminare, quando si offrono informazioni sull’affido, si esplicita anche la realtà del gruppo, precisando, da subito, che la partecipazione è la prassi, mettendo così in evidenza che tale realtà è parte integrante del progetto.

La scelta di formare gruppi e riunirsi per parlare tutti insieme di ciò che succede, è successo, o dovrà succedere, si basa su molteplici assunti teorici.

Innanzitutto la vita in gruppo si configura per gli esseri umani, come per gli altri membri del mondo animale, fin dagli esordi, come una necessità piuttosto che una scelta: vi è quindi una propensione biologica alla vita di gruppo. 32 Tale

assunto ci indica, certamente, le potenzialità e le possibilità che offre tale contesto.

A questa si aggiungono certamente altre motivazioni, a sostegno della scelta di riunirsi in gruppo.

Nell’ambito della psicologia sociale, l’interesse verso i gruppi è molto sviluppato. A livello sperimentale è stato dimostrato che in gruppo, grazie al confronto e alla dialettica, vengono potenziate, fino a raddoppiare, la creatività, la soluzione dei problemi, la condivisione dei significati, la costruzione di ipotesi e il senso di corresponsabilità.33

32 G. Speltini, Stare in gruppo. Fare squadra, con gli amici, nello sport, sul lavoro, in politica, Il Mulino, Bologna 2002. 33 R. Mazza, Pensare cit.

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La nostra identità sociale è costruita all’interno di gruppi a cui apparteniamo, per analogie, omologazioni, influenze ambientali e fattori biologici: si fa gruppo allorché “si fa parte”, siamo membri di una determinata categoria sociale, abbiamo “qualcosa in comune”.

Nelle dinamiche presenti nelle singole situazioni di affido vi sono rilevanti denominatori comuni, legati, in primis, alla scelta di accogliere, di essere curiosi, tolleranti, aperti verso l’altro, ma anche ai rapporti con la famiglia d’origine, agli agiti del bambino, nonché alle esperienze nei vari contesti con cui le famiglie si interfacciano: famiglia allargata, vicinato, scuola, parrocchia. La circostanza di poter trattare tali aspetti in una dimensione di condivisione, scambio e ascolto reciproco, offre la possibilità a queste coppie di trovare risposte efficaci per superare eventuali difficoltà.

I gruppi delle famiglie affidatarie, che in genere si riuniscono a cadenza mensile, sono, per lo più, un mix tra auto-aiuto e gruppi di sostegno, in cui il conduttore o i conduttori hanno un ruolo informativo, educativo e di accompagnamento nel

problem solving.

All’interno del gruppo i partecipanti sono coinvolti in prima persona: ognuno porta liberamente la propria storia, a cui gli altri possono prendere parte, ascoltando e comunicando; attraverso il reciproco sostegno e il confronto delle esperienze vissute tutti trovano un luogo dove affrontare le difficoltà.

Il bisogno di raccontare è molto sentito in questi realtà: possono essere storie, vicende, fatti molto tristi, oppure avvenimenti felici, che provocano ilarità e

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comunicano benessere. Qualche volta l’angoscia dei racconti fa temere l’impossibilità di trovare vie d’uscita, ma la vera forza del gruppo conduce sempre ad una soluzione, fosse anche solo la compassione per chi narra.

Gli insiemi sono costituiti da soggettività diverse: alcune coppie sono giovani con figli propri ancora piccoli, altre con figli adolescenti adulti, altre ancora non hanno figli e sono singles. Vi sono coppie sposate, separate o divorziate, ricomposte ed omosessuali. Marina Gatti, psicoterapeuta, volontaria CAM, rispetto a questo aspetto riferisce: “L’eterogeneità delle coppie affidatarie presenti è una preziosa risorsa del gruppo: ricompone le diverse stagioni dell’affido.”34

I conduttori, che in genere sono due e sono rappresentati dall’assistente sociale e dallo psicologo, come nella realtà in cui lavoro, hanno ruoli strutturati in funzione delle esigenze e del significato del gruppo stesso: innanzitutto, con entusiasmo e capacità di accoglienza, garantiscono la vita del gruppo, che è uno degli obiettivi che si persegue. Favoriscono inoltre il clima collaborativo e offrono indicazioni preziose sull’andamento del progetto comune, validandolo o indicando i punti dove sono necessari aggiustamenti e ripensamenti. Pur non dovendo proporsi in posizione prevaricante, bensì complementare agli affidatari, rivestono un ruolo che li caratterizza, inevitabilmente, come “esperti”, pertanto è ovvio che il loro pensiero condizionerà quello di tutto il gruppo: se i conduttori nutrono dubbi sul recupero delle funzioni genitoriali delle famiglie d’origine e le

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considerano colpevoli di aver fatto tanto male ad un essere indifeso, tale “pensiero”, anche se non verrà esplicitato, caratterizzerà il linguaggio analogico e sarà certamente recepito dal gruppo come concetto dominante, in quanto appartenente ai leaders.

Il gruppo consente altresì di avere informazioni importanti sulle coppie che si sono candidate all’affido: vedere tali famiglie in un contesto diverso da quello del colloquio o della visita domiciliare, connotato da spontaneità, informalità e confidenze, consente di allargare la conoscenza anche ad aspetti che, diversamente, rimarrebbero celati.

Se poi, nel momento in cui il gruppo si riunisce, si predispone uno spazio strutturato per accogliere anche i minori, alla presenza di educatori, tale esperienza sarà, senza dubbio, arricchente e in linea con quanto più volte sottolineato in merito alla complessità e alla necessità di visioni multifocali. E’ un contesto infatti dove, per esempio, meglio che in altre realtà, si acquisiscono informazioni importanti sull’adesione o meno al progetto dei figli naturali della famiglia affidataria e si rilevano criticità e punti di forza, direttamente dai protagonisti principali, i bambini.

In alcune realtà, soprattutto nel Nord Italia, come in Lombardia (Milano, Como, Varese) e in Trentino Alto Adige, accanto ai gruppi delle famiglie affidatarie, si sono creati gruppi di famiglie d’origine i cui figli si trovano collocati in affido o in comunità.35

35 Tali esperienze sono state riportate al 3° Convegno internazionale sulla Qualità del Welfare, La tutela dei Minori.

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L’esigenza è quella di dare voce a queste persone, ascoltandole in un contesto in cui possono liberamente dar sfogo alle loro emozioni, ai loro vissuti, e, nel contempo, far emergere in loro le capacità residue, la volontà di un cambiamento, la prospettiva di una via d’uscita. L’obiettivo è anche quello di favorire un approccio ai servizi che sia maggiormente in grado di fornire fiducia, in un contesto non valutativo ma di mera accoglienza. Tali esperienze, sebbene circoscritte ed ancora bisognose di aggiustamenti, sono la dimostrazione di una cultura che si è modificata, o si sta modificando, nella direzione di una cittadinanza attiva, che promuova, davvero, l’empowerment e la partecipazione.

Varese, in particolare, è invece riportata da V.Calcaterra in Coinvolgere i genitori “affidanti”, in “La rivista del lavoro sociale. Metodologie e tecniche per le professioni sociali”, Vol.14, n.1, febbraio 2014, Centro Studi Erickson.

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