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Introduzione. I rapporti tra imputabilità e neuroscienze rappresentano il tema principale svolto nel presente elaborato. Esso è suddiviso in tre parti.

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Introduzione.

I rapporti tra imputabilità e neuroscienze rappresentano il tema principale svolto nel presente elaborato.

Esso è suddiviso in tre parti.

La prima parte è dedicata all’analisi del concetto di imputabilità.

Il tema sarà affrontato in primis in prospettiva storica: dai codici preunitari , passando dal Codice Zanardelli, per giungere, in fine, alla disanima della disciplina nel Codice Rocco. Poi, saranno presi in considerazione i rapporti tra imputabilità e colpa, i contenuti normativi della capacità di intendere e volere e, infine, l’attenzione sarà rivolta alle cause di esclusione della capacità di intendere e di volere, con particolare attenzione al vizio di mente.

La seconda parte è invece dedicata al concetto di infermità.

In essa si colloca la trattazione dei principali disturbi mentali e dei rapporti tra imputabilità e infermità, con la conseguente analisi degli articoli 88, 89 e 90 del codice penale, e della, ormai nota, Sentenza Raso. La parte si conclude con il paragrafo dedicato al Caso Chiatti, emblematico della difficoltà di comprendere con certezza i meccanismi dell’agire umano, e la conseguente difficoltà di giungere ad una diagnosi certa di sanità o infermità mentale. Proprio questa difficoltà, e la contrapposta esigenza di certezza, ci portano al tema

affrontato nella terza, ed ultima, parte dell’elaborato, riservata al rapporto tra imputabilità e neuroscienze. In questa parte si cerca di capire, se e in che modo, i nuovi strumenti offerti dalle neuroscienze consentano al giudice di avere una maggiore certezza circa la

sussistenza o meno di un vizio di mente.

L’avvento di queste nuove tecnologie nel giudizio della capacità di intendere e di volere, in un momento storico in cui il diritto non si può più fidare ciecamente della scienza perché oramai ritenuta anch’essa fallibile, crea diverse reazioni nel mondo

giuridico.

Come sempre accade, una parte dei tecnici del diritto accolgono positivamente una novità scientifica e le potenzialità che la stessa riserba, altra parte (forse maggioritaria), invece, la qualifica come “cattiva scienza” e ne chiede l’allontanamento dal mondo del diritto penale.

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In realtà, il dibattito sulle neuroscienze ha un origine ben precisa: l’origine della responsabilità penale.

Il paradigma su cui si fonda la responsabilità penale è dato dalla verifica del libero arbitrio, della colpevolezza e dell’imputabilità del soggetto agente. Se io sono libero, posso agire; se agisco, ci saranno delle conseguenze di cui avrò consapevolezza, di cui sarò

responsabile.

Le neuroscienze, senza dubbio, possono coadiuvare dottrina e giurisprudenza per capire quanto l’individuo sia veramente libero e responsabile delle proprie azioni o piuttosto determinato nel suo agire.

Il fulcro del dibattito, pertanto, si incardina proprio nell’interpretazione che si fornisce delle risultanze neuroscientifiche.

Anche in questo caso la parte si conclude con la trattazione dei due casi italiani, con i quali si è aperto l’ingresso a queste nuove tecniche nei giudizi penali:verranno analizzate le sentenze della Corte d’Appello d’Assise di Trieste e del Tribunale di Como: prime ed uniche pronunce in cui la decisione si è avvalsa dei risultati neuroscientifici e ha inciso sulla determinazione della pena concreta inflitta all’imputato.

Queste pronunce dimostrano come sia possibile fruire dei risultati delle neuroscienze in un’aula di tribunale senza per questo mettere in discussione il principio del libero arbitrio dell’uomo o la sua capacità di autodeterminazione.

Esse costituiscono un valido esempio di quale sia la prospettiva da cui osservare i risultati scientifici ed entro quali limiti poterne usufruire.

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