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Il prudente esercizio dei poteri istruttori officiosi da parte del giudice del lavoro. - Judicium

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Academic year: 2022

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RICCARDO BOLOGNESI

Il prudente esercizio dei poteri istruttori officiosi da parte del giudice del lavoro.

(Riflessioni su alcune recenti decisioni della Suprema Corte) Premessa.

Nel rito speciale del lavoro, come è noto, esistono norme che attribuiscono al giudice più ampi ed incisivi poteri istruttori, finalizzati alla ricerca della “verità materiale”. L’esame degli artt. 421 e 437 c.p.c. ha indotto gli interpreti, sin dalla prima ora, a definire il potere istruttorio del giudice del lavoro “semi-inquisitorio” o “semi-dispositivo”1 e ad individuare la ratio di tali disposizioni nell’esigenza di riequilibrare le forze in campo e di offrire una “miglior tutela” alla parte debole del rapporto2.

Al contempo la giurisprudenza ha sempre affermato che i poteri istruttori officiosi costituiscono un potere – dovere che compete al giudice esercitare con equilibrio, evitando di svolgere funzioni

“supplenti” rispetto a lacune incolmabili delle allegazioni di fatto e delle richieste istruttorie articolate dai difensori delle parti incorsi in decadenze3.

                                                                                                                         

1 Cass. Sez.Un. 17 giugno 2004, n.11353 ha interpretato il disposto dell’art.421, secondo comma, c.p.c. affermando che è caratteristica precipua del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, ove il giudice reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione.

2 PROTO PISANI, in ANDRIOLI- BARONE – PEZZANO- PROTO PISANI, “Le controversie in materia di lavoro”, Bologna, 1987, p.708, osservava che i poteri istruttori del giudice del lavoro originano dall’opportunità di supplire alle deficienze della difesa tecnica della parte che, ove si tratti del lavoratore, è economicamente e socialmente più debole.

La debolezza economica del lavoratore (ma, aggiungerei, soprattutto la minor consapevolezza dell’esistenza di un’offerta professionale diversa da quella indotta dagli uffici vertenze del sindacato, anche se le informazioni offerte dal web oggi lo aiutano) lo costringerebbe, dunque, ad avvalersi di un difensore meno “attrezzato” e ciò giustificherebbe l’impegno istruttorio officioso del giudice.

3 La già citata sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite, n. 11353/04, aveva precisato che i poteri d'ufficio del giudice del lavoro possono essere esercitati anche in presenza di decadenze o preclusioni già verificatesi e in assenza di esplicita richiesta o sollecitazione delle parti in causa. Cass. 2 febbraio 2009, n.2577 ha, poi, addirittura affermato che, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, l'omessa indicazione dei documenti e l'omesso deposito di essi contestualmente all'atto comportano sì la decadenza del diritto ad una produzione tardiva ma trovando, tale rigoroso sistema di preclusioni, un contemperamento ispirato all'esigenza della ricerca della verità materiale nei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ove essi siano indispensabili al fine della decisione della causa. Anche Cass. 2 ottobre 2009, n.21124 aveva ribadito che il potere d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova – utile a coniugare il rispetto del principio dispositivo con la ricerca della “verità materiale” – deve trovare applicazione anche nel giudizio di appello, ai sensi dell’art.437, secondo comma, c.p.c.. In altre parole, secondo tale lettura, anche dopo le sentenze della Suprema Corte del 20 aprile 2005, n.8202 e 8203 in materia di decadenze istruttorie, in particolare per l’omessa tempestiva produzione di documenti, hanno reso impossibile alle parti ciò che l’art.421, 2^comma, c.p.c. consentirebbe comunque al giudice del lavoro.

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Benché i richiamati ed elementari principi siano ormai consolidati da tempo, nell’esercizio dei poteri istruttori è ancora frequente rinvenire atteggiamenti talvolta troppo “timidi”, che sembrano sin troppo rispettosi dei limiti delle istanze istruttorie articolate delle parti e del principio dispositivo; e, talaltra, anche se più di rado, “esuberanti”, cioè caratterizzati da sorprendenti slanci inquisitori o “creativi”.

Affrontare nuovamente l’argomento consente, allora, di “aggiornarsi” sulla giurisprudenza della Suprema Corte ma anche di soffermarsi su alcune prassi applicative dei giudici di merito, forse influenzate dalle esperienze di sommarietà della trattazione introdotte dal rito veloce in materia di licenziamento.

Occorre, in altre parole, verificare se nell’esercizio dei poteri istruttori nel rito introdotto dall’art.414 c.p.c. si stanno delineando nuove sensibilità o addirittura “linee guida” che, sia pur nel rispetto dei limiti del thema probandum delineato dalle allegazioni e dalle domande delle parti, dipendono dalla nuova cultura processuale che ha scelto la via della “sommarizzazione” dei riti.

Il breve scritto è anche l’occasione per “denunciare” il sempre più frequente esercizio del potere acquisitivo dei verbali di prove testimoniali raccolte in altri processi e non tra le stesse parti4, l’utilizzo esplorativo degli ordini di esibizione, l’utilizzo di dichiarazioni scritte rese fuori dal processo; ma anche di interrogarsi sull’efficacia probatoria riconosciuta ai verbali ispettivi5, sul valore “probatorio” attribuito alle risposte all’interrogatorio libero e al comportamento processuale della parte che risponde, senza confessare, all’interrogatorio formale.

Si tratta di argomenti che meriterebbero, tutti, un opportuno e specifico approfondimento, soprattutto per verificare se sono ancora ben definite, nella cultura processuale di chi giudica, le necessarie differenze tra prove ed argomenti di prova, tra prove costituende a mezzo di testimoni e                                                                                                                          

4 Cass. 19 novembre 1999, n.12884 ha affermato la legittimità dell’utilizzazione delle prove – ritualmente acquisite agli atti – assunte in un precedente giudizio tra le stesse parti e inerenti allo stesso contenzioso sostanziale, proprio in considerazione del più ampio potere, attribuito dall’art.421 c.p.c. al giudice del lavoro, di ammissione di ufficio di ogni mezzo di prova, anche oltre i limiti stabiliti dal codice civile. Ma è invalsa la prassi, fra molti giudici di merito di primo grado, di “sfoltire” gli incombenti istruttori disponendo l’acquisizione di prove testimoniali assunte in altre cause che, per la riferibilità al medesimo oggetto (ad esempio gli effetti di una contestata cessione di ramo di azienda) e per il semplice impegno, nei panni del resistente, del medesimo datore di lavoro (sia pur su allegazioni e capitoli di prova del tutto diversi), acquisiscono quel materiale istruttorio formatosi al di fuori del processo e lo trattano (attribuendo a quelle dichiarazioni testimoniali il rango di “prova”) senza alcuna distinzione rispetto alle prove testimoniali eventualmente assunte nel processo.

5 Cass. 14 maggio 2014, n.10427 ha affermato che le dichiarazioni dei lavoratori rilasciate in sede ispettiva fanno prova in giudizio e, ove esse siano univoche, non hanno bisogno di conferma in giudizio, tanto più ove il datore di lavoro non alleghi e dimostri eventuali contraddizioni delle dichiarazioni rese agli ispettori in grado di inficiarne l’attendibilità.

Testualmente: “… ove le dichiarazioni dei lavoratori siano univoche, il giudice può ben ritenere superflua l'escussione dei lavoratori in giudizio mediante prova testimoniale, tanto più se il datore di lavoro non alleghi e dimostri eventuali contraddizioni delle dichiarazioni rese agli ispettori in grado di inficiarne l'attendibilità…” .

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risposte degli “informatori”, ma soprattutto se sono attuali, concreti e chiari i pericoli che possono discendere, oltre che dalla sommarietà dell’istruzione della causa, dall’utilizzo delle “prove atipiche”6.

Una verifica sugli attuali limiti dei poteri del giudice appare utile anche per delineare i poteri e gli oneri delle parti al fine di escludere, nell’esercizio dei poteri officiosi, ingiustificabili funzioni di

“supplenza istruttoria” rispetto alle decadenze istruttorie in cui siano già incorse le parti.

Non sarà inutile, infine, svolgere alcune osservazioni sulle “regole” applicate dai giudici di oltralpe (in Francia e in Germania) nell’esercizio dei poteri istruttori nelle controversie di lavoro.

1. Il potere istruttorio d’ufficio quale considerazione della “parte debole” che, tuttavia, alleghi i fatti costitutivi.

Oggetto delle controversie di lavoro sono diritti perlopiù disponibili, fondati sulla disciplina legislativa e contrattuale (collettiva o individuale) del rapporto di lavoro, ma che sovente trovano riscontro in specifiche norme costituzionali (nell’art. 4 il diritto al lavoro, nell’art. 32 il diritto alla salute ed all’integrità fisica, nell’art.36 alla retribuzione, al riposo settimanale ed alle ferie, nell’art.

37 il divieto di discriminazione nei confronti della donna) acquisendo rilevanza generale quali diritti fondamentali inerenti alla persona. Per tale ragione le situazioni soggettive derivanti dal rapporto di lavoro assumono una considerazione che va oltre la relazione obbligatoria tra prestatore e datore di lavoro, sino ad ottenere il valore di diritti relativamente indisponibili7. Ciò, dunque, sarebbe vero non solo quando le controversie implicano la prospettiva previdenziale ed assistenziale del lavoratore ed i diritti dell’ente previdenziale che potrebbe essere parte nel processo articolando una pretesa autonoma.

La rilevanza “generale” e non solo particolare degli interessi incisi dalla controversia e dal suo esito impone che il rito speciale del lavoro, a cognizione piena, pur non attuando un sistema inquisitorio puro, contemperi il principio dispositivo con l’esigenza di ricerca della verità materiale8.

                                                                                                                         

6 Per cogliere, a distanza di quarant’anni dalla sua introduzione, l’evoluzione delle prassi applicative nella fase istruttoria del rito, sarà il caso di richiamare le riflessioni e gli approfondimenti di alcuni studi che miravano a garantire l’equilibrio nei ruoli dei protagonisti del processo del lavoro. Mi riferisco alle “pietre miliari” costituite da alcuni scritti di Luigi Montesano (“Le prove atipiche nelle “presunzioni” e negli “argomenti” del giudice civile”, in Riv. dir. proc.

1980, p.223 ss. e, prima ancora, “Le prove officiose nel processo del lavoro, coordinate all’oralità, alle preclusioni ed alla paritaria difesa”, in Mass. giur. lav., 1976, p.437) e di Romano Vaccarella (“Quaedam sunt notoria judici tantum et non aliis”, in Giust. civ., 1989, I, 2549).

7 Così in V.DI CERBO, in AMOROSO – DI CERBO – FOGLIA – MARESCA, in Diritto del Lavoro, vol.IV, Il processo, pp.374 e 375.

8 FOGLIA, Il processo del lavoro privato e pubblico, Milano, 2001, p.351.

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Fondamentale, per l’equilibrio del sistema, è il tema dell’imparzialità e della terzietà del giudice, che deve far escludere che il magistrato possa divenire “supplente” del difensore del lavoratore9. La Suprema Corte, anche recentemente10, ha ribadito i principi espressi dalle Sezioni Unite nella nota Sentenza n.11353/04: “il rigoroso sistema di preclusioni trova un contemperamento - ispirato alla esigenza della ricerca della “verità materiale”, cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento - dei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437 c.p.c., comma 2, ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse”. Con Sentenza 19 giugno 2014, n.13694, la Suprema Corte (conformandosi a Cass. Civ. 6205/10 e 17102/09) ha, poi, ricordato che i poteri istruttori ufficiosi ex art.421 c.p.c. “… - pur diretti alla ricerca della verità, in considerazione della particolare natura dei diritti controversi - non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti, né tradursi in poteri di indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale”.

Emerge, quindi, la conferma dell’idea di un “giudice” che garantisca la sua imparzialità distinguendo tra la materiale fonte di prova (l’onere di allegazione dei fatti storici, che grava esclusivamente sulle parti) ed il formale mezzo della sua acquisizione al processo11.

L’indimenticabile Maestro Luigi Montesano osservava che “…mentre l’art. 115 c.p.c. prevede eccezioni alla regola della disponibilità dei mezzi di prova lasciata alle parti, l’art. 2697 c.c. non prevede eccezioni alla regola secondo cui il giudice non trova altre fonti di prova fuor di quelle che emergevano dall’attività richiedente e difensiva delle parti. Se ne deduce agevolmente che il ricorrere a prove disponibili dal giudice o l’introdurre nel processo civile, sempre in materia di                                                                                                                          

9 In tal senso TARZIA, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1987, p.113, ove si afferma: “il potere d’ufficio deve essere diretto a vincere dubbi istruttori residuati anche dopo l’assunzione delle prove indicate dalle parti, e non può supplire ad una totale carenza di deduzioni probatorie”. E così VERDE, in La disciplina delle prove nei processi del lavoro e del pubblico impiego, in Riv.dir.proc., 1986, p.70 e ss., il quale osserva che, nel rito del lavoro, il pericolo della parzialità del giudice è particolarmente presente, perché egli può esercitare i suoi poteri istruttori anche quando le parti siano decadute dal loro potere. Al fine di evitare che ciò si traduca in arbitrio nello stabilire se salvare la parte (e, ancor più, quale parte salvare) dalla decadenza, si è giunti ad affermare ragionevolmente l'illegittimità dell'esercizio dei poteri ufficiosi quando si tenda attraverso di essi a superare le preclusioni maturate ai sensi degli articoli 414,416 e 420.

10 Cass. 9 ottobre 2014, n.21315.

11 MONTESANO – VACCARELLA, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996, p.190 e ss.: “In realtà, distinguendo la fonte (materiale) di prova dal mezzo (formale) di prova, risulta chiaro che anche l'articolo 2697 si occupa della ricerca della prova, ma in un senso ben diverso dall'articolo 115: quest'ultimo disciplina interamente i mezzi (formali) di prova, il primo le fonti (materiali) di prova, addossando all'attore l'onere di indicare quelle relative ai fatti costitutivi ed al convenuto l'onere di indicare quelle relative ai fatti estintivi, modificativi o impeditivi.”

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prove, l’attività inquirente e requirente del P.M. non è una scelta tra due mezzi diversi per un solo fine, dei quali sarebbe, in linea di politica legislativa, da preferire sempre il secondo come meglio adatto a preservare l’imparzialità del giudice. Quei due mezzi corrispondono, invece, a due fini nettamente diversi, avendo il legislatore scelto le prove disponibili dal giudice quando ha voluto ridurre o abbandonare il formalismo nell’iniziativa e nello svolgimento dell’istruttoria, consentendo al giudice di conoscere fatti affermati dalle parti attraverso fonti di prova cui esse si sono riferite in assenza di una specifica e formale istanza in tal senso”12.

Merita attenzione, nel secondo comma dell’art. 421 c.p.c., la specificazione “Si osserva la disposizione del comma sesto dell’art. 420 c.p.c.” e non solo perché ci costringe ad entrare per un attimo nella “dialettica” dell’udienza di discussione, ma perché l’analisi del contraddittorio che in udienza deve svolgersi, anche e soprattutto sui mezzi di prova prodotti (i documenti) o richiesti, normalmente si consuma in poche e sacrificate (a volte anche inutili) espressioni di stile, che spesso

“bruciano” le possibilità del ricorrente di replicare, anche sul piano delle istanze istruttorie, alle più meditate difese e richieste istruttorie articolate ai sensi dell’art.416 c.p.c. .

Il principio di concentrazione del processo, in un momento così delicato per la causa, non può escludere o limitare, compromettendolo, il contraddittorio, consentendo al giudice di ammettere le prove, in assenza delle parti, prima dell’udienza, anche quando si tratti di mezzi istruttori ammissibili d’ufficio.

Il riferimento al 6° comma dell’art. 420 lascia intendere che non solo l’assunzione ma anche l’ammissione delle prove potrebbe essere differita ad un’udienza successiva in casi di particolare complessità. Attribuendo questo significato ai “giusti motivi”, dovrebbero essere scongiurati gli effetti delle richieste dilatorie delle parti e, nello stesso tempo, evitato che l’eccezione (il differimento o la riserva) possa diventare la regola.

Già il settimo comma dell’art.420 c.p.c. prevede un’ipotesi di ammissione delle prove in udienza successiva alla prima, che consente alla controparte – in attuazione del principio del contraddittorio – di dedurre i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli nuovi ammessi in base al quinto comma. E’ ragionevole che sull’ammissibilità di tutti i mezzi di prova si decida in quell’udienza eventualmente fissata, ma tenendo fermo che per escludere un uso partigiano dei poteri officiosi del giudice è essenziale che anche la prova disposta dal giudice sia assunta rispettando il contraddittorio, consentendo alle parti di rilevare, ad esempio, che i fatti da provare o le fonti della prova non emergono dalle allegazioni e deduzioni dell’altra parte; o di controdedurre                                                                                                                          

12 MONTESANO – VACCARELLA, op.ult.cit., pp.190-191.

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proprie prove sui fatti medesimi per contrappesare, eventualmente, l’ingiusto spostamento di equilibrio determinato dall’esercizio del potere del giudice che, nei sensi poc’anzi chiariti, abbia supplito – con l’acquiescenza del controinteressato – o persista nel supplire – pur di fronte alla resistenza dello stesso controinteressato – alla difesa di una delle parti13 .

Che nella nuova udienza si possano chiedere nuove prove in relazione a quelle ammesse dal giudice, è certo14.

L’ordinanza di ammissione, giova ripeterlo e non solo per la lettera dell’art. 420, 5° comma, dovrebbe essere emanata in udienza, anche se è purtroppo diffusa la prassi della riserva.

La disciplina dell’udienza di discussione, che ha subito nella prassi applicativa numerosi e sensibili scostamenti dal modello indicato, è stata da più parti criticata anche se presenta una “circolarità” ed un equilibrio teorico sul momento in cui si consumano i poteri istruttori delle parti imbattendosi in un sistema di decadenze per loro insuperabile.

La critica più importante, in dottrina, avuto riguardo all’udienza di discussione (che nella prassi è divenuta la prima udienza in cui si svolge il tentativo di conciliazione, l’interrogatorio libero delle parti) nella quale i difensori prendono posizione (soprattutto quello del ricorrente) sulle allegazioni avversarie insistendo nelle istanze istruttorie o tentando di articolare nuove e motivate richieste di prova, viene mossa al sacrificio della completezza del contraddittorio scritto15, che determina effetti                                                                                                                          

13 MONTESANO – VACCARELLA, op. cit. p. 197: “A tale necessità sistematica risponde il richiamo, nel secondo comma dell’art. 421, non del solo comma 7° (che prevede la controdeduzione dei “mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi”) né del comma 5° (che consente di assumere le prove nella stessa udienza in cui ne sia stata disposta l’assunzione), ma del comma 6° dell’art. 420, che, imponendo al giudice, il quale abbia ammesso prove d’ufficio, la fissazione di una nuova udienza, e consentendo allo stesso giudice di autorizzare “note difensive” “ove ricorrano giusti motivi”, dà “respiro” all’interessato per predisporre il contrattacco argomentativo e probatorio”.

14 Secondo MONTESANO, in Nuovo processo del lavoro, cit., p. 170, “il richiamo del comma 6° include necessariamente quello del comma 7° dell’art. 420, nel quale è integrata la disciplina della “udienza fissata a norma del precedente comma”, prevedendosi, appunto, la decisione sull’ammissibilità e sulla rilevanza dei “nuovi mezzi di prova dedotti dalla controparte”, “in relazione a quelli” precedentemente “ammessi” ”.

15 VALLEBONA, Allegazioni e prove nel processo del lavoro, Padova, 2006, pp.119 e ss., osserva che “…alla prima udienza il ricorrente è costretto a replicare a verbale alla impostazione del convenuto e il convenuto, a sua volta, deve alla stessa udienza immediatamente controreplicare, essendo previsto un breve rinvio con termine per note solo a seguito dell’eventuale ammissione di nuovi mezzi di prova. Ciò significa che il giudice per disporre l’istruttoria deve individuare i fatti rilevanti e controversi nel momento stesso in cui completa la sua conoscenza della causa ascoltando la replica orale del ricorrente e la controreplica del convenuto. Con il rischio di decisioni affrettate, che possono strozzare un'istruttoria necessaria oppure dare ingresso, per eccesso di scrupolo, ma con pregiudizio della celerità e talvolta delle stesse preclusioni, ad un'istruttoria inutile su fatti alla fine giudicati irrilevanti. Tant'è che, di fronte a questioni complesse, il magistrato prudente è indotto non di rado, alla fine della prima udienza, a rinviare ogni provvedimento concedendo alle parti un termine per note sulla necessità ed i limiti dell'istruttoria. ”. Per tali motivi nel suo libro Vallebona arriva a proporre un opportuno intervento legislativo correttivo sull’art.415 c.p.c. del seguente tenore testuale: “Il ricorrente, ferme le decadenze dell’articolo 414, ha facoltà di depositare in cancelleria, entro venti giorni dalla scadenza del termine per il deposito della memoria difensiva del convenuto, una replica, nella quale, a pena di decadenza, deve proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale e

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pregiudizievoli sia sulla qualità che sulla celerità del processo. Viene osservato che, concretamente, la difesa del ricorrente finisce col non trovare, in udienza e nel verbale, spazi utili (di tempo e di spazio) per ribattere ed articolare prove contrarie rispetto a quelle offerte dal resistente.

In altre parole il difensore del ricorrente rischia, se il Giudice non dimostra sensibilità per l’equilibrio delle difese (e, in particolare, per l’attività che deve essere svolta dalla “parte debole” in udienza), di scrivere il ricorso e, quale attività processuale successiva, di leggere il dispositivo.

In questa fase così delicata del processo la celerità e l’oralità, per migliorare la qualità del processo e la ricerca della verità materiale, dovrebbero forse essere sacrificate rispetto all’esigenza di una piena comprensione dei fatti rilevanti che, se contestati, devono essere provati. Si tratta di consentire al giudice di curare una valutazione di puro diritto che, anticipando la decisione finale, condiziona lo svolgimento dell’intero processo e che forse meriterebbe di essere preparata aiutando il giudice, de iure condendo, con brevi note scritte concentrate sulle repliche in fatto e sulle istanze istruttorie ammissibili e rilevanti alla luce delle difese avversarie.

2. L’obbligo di motivazione dell’esercizio o del mancato esercizio dei poteri officiosi, che sia stato almeno sollecitato dalla parte gravata dall’onere della prova, nell’ambito di decisioni

“semplificate” (281 sexies c.p.c.) e “pronte” (le cosiddette “contestuali” ai sensi del vigente art.

429 c.p.c.).

Le Sezioni Unite, nella citata sentenza n.11353 del 17 giugno 2004, avevano già affermato che i poteri officiosi del giudice del lavoro, in ragione del disposto degli artt.421 e 437 c.p.c., non hanno più carattere discrezionale, ma si presentano come “un potere – dovere, del cui esercizio o mancato esercizio il giudice deve dar conto, sicché il giudice - in ossequio a quanto prescritto dall’art.134 c.p.c. ed al disposto di cui all’art.111, comma 1, sul “giusto processo regolato dalla legge” - deve esplicitare le ragioni per le quali reputa di far ricorso all’uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritiene, invece, di non farvi ricorso”.

La motivazione circa l’esercizio o il mancato esercizio di poteri istruttori officiosi, che siano stati sollecitati da almeno una delle parti (come vedremo nel paragrafo successivo), secondo Cass. 9 ottobre 2014, n.21315, consente il controllo di legittimità per vizio di motivazione ai sensi dell’art.360 n.5 c.p.c. “qualora il provvedimento non sia sorretto da una congrua e logica                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     delle eccezioni proposte dal convenuto, indicando specificamente i relativi mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed i documenti che deve contestualmente depositare, e può chiedere che sia chiamato in causa un terzo se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Il convenuto, ferme le decadenze, ha facoltà di depositare in cancelleria, entro venti giorni dalla scadenza del termine per il deposito della replica del ricorrente, una controreplica ….”

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spiegazione nel disattendere la richiesta di mezzi istruttori relativi ad un punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione della controversia”.

Sorge spontanea, allora, la domanda circa la necessità e la compatibilità di tale onere motivazionale con le esigenze di celerità e le opportunità offerte dal vigente art.429 c.p.c. e dall’applicabilità dell’art.281 sexies c.p.c. alla fase decisoria delle controversie di lavoro.

Fare presto, introducendo dal 2008 la regola della motivazione “contestuale” al dispositivo di sentenza e, successivamente, la possibilità di pronunciare una sentenza “a verbale”, nelle forme previste dall’art.281 sexies c.p.c., è una scelta del legislatore che forse non ha lasciato molto spazio per soffermarsi a motivare i provvedimenti di ammissibilità e di rilevanza dei mezzi istruttori e, come richiesto, l’esercizio o meno, quando sollecitato, dei poteri istruttori d’ufficio.

Nella sentenza di Cass. 12 marzo 2009, n.6023 e soprattutto nell’ordinanza 31 luglio 2014, n.17470, si legge, infatti, che “…per idoneamente censurare in sede di ricorso per cassazione l’inesistenza o la lacunosità della motivazione sul punto della mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi, occorre dimostrare di averne sollecitato l’esercizio, in quanto diversamente si introdurrebbe per la prima volta in sede di legittimità un tema del contendere totalmente nuovo rispetto a quelli già dibattuti nelle precedenti fasi di merito.”

Dunque si può affermare, con la Suprema Corte, che l’obbligo di motivazione sussiste solo quando risulti che l’esercizio dei poteri istruttori officiosi sia stato sollecitato dalle parti. Ed è doveroso aggiungere – rispondendo alla domanda che ci siamo qui posti - che, indipendentemente dall’opzione per forme semplificate e “rapide” delle decisioni di merito, il giudice deve dar conto, in motivazione, dei suoi provvedimenti istruttori e, a maggior ragione, di quelli attraverso i quali ha esercitato i poteri officiosi.

3. I limiti dei poteri istruttori officiosi del giudice del lavoro e la tentazione (ed i pericoli) delle

“prove atipiche”, usate per “far presto” anziché per cercare la “verità materiale” o “reale”.

Occorre, anche, individuare l’esatto contenuto dell’art.421, comma 2, c.p.c. e discorrere brevemente di alcuni opportuni limiti alla sua applicazione, al fine di scongiurare un’ingiustificata deviazione di un potere che solo apparentemente è ampio perché deve essere sempre rispettoso delle regole del gioco processuale.

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Deve essere condiviso il pensiero di chi16 ha fermamente escluso che la disuguaglianza sociale del lavoratore possa giustificare una disciplina processuale di privilegio rispetto al datore di lavoro, che si porrebbe in insanabile contrasto con il fondamentale principio della parità delle armi nel processo (artt.3 e 24 Cost.)17.

L’art.421, comma 2, c.p.c. non può giustificare l’alterazione del sistema delle preclusioni probatorie e delle decadenze, garanzie del processo del lavoro e del diritto di difesa di ambo le parti.

E’ utile allora, ferme le regole già richiamate e confermate dalle più recenti decisioni della Cassazione, prendere posizione su ciò che il giudice può fare e su ciò che assolutamente non può fare quando esercita i poteri istruttori officiosi18.

Tali poteri devono riguardare fatti tempestivamente allegati dalle parti19 sui quali ritiene che ancora non sia stata raggiunta la prova ed anche quando le parti siano decadute. Non possono riguardare fatti pacifici o essere esercitati per contrastare, bilanciare o sminuire l’efficacia di una prova già espletata ad istanza di parte e non può espletarsi attraverso una “prova atipica”.

Sono “mezzi di prova atipici” quelli difformi da quelli descritti nelle apposite norme del codice di procedura civile e del codice civile sulla “tutela dei diritti” ed approntati ad arbitrio del giudice.

Non sto affermando nulla di nuovo o di diverso rispetto al pensiero di Montesano20, ancora oggi di estrema attualità.

Parlando di mezzi di prova atipici, potremmo senz’altro riferirci anche a fonti “legali” utilizzate dal giudice con finalità diverse, ovvero per acquisire prove utilizzando strumenti diversi dal mezzo istruttorio previsto dalla norma.

                                                                                                                         

16 FAZZALARI, La imparzialità del giudice, in Riv.dir.proc., 1972, p.200.

17 VALLEBONA, op. cit., p. 16.

18 MONTESANO – VACCARELLA, op. ult. cit., p.184: “Andrebbe duramente combattuto, in nome di principi essenziali del nostro ordinamento processuale e, prima ancora, costituzionale, ogni tentativo di utilizzare - sotto il pretesto dell’antiformalismo o, peggio, in ossequio a “ideologie”, oggi purtroppo diffuse, che spingono il giudice a sottrarsi all’imparzialità, che gli è propria, per trasformarsi, dicono, in difensore della parte più debole, ma, in sostanza, in distruttore di garanzie fondamentali per ogni cittadino - di utilizzare, dicevamo, la norma in esame per introdurre, in un delicato e fondamentale settore del nostro processo, mezzi di prova cosiddetti atipici”.

19 E non, ad esempio, dilatando le allegazioni delle parti e il thema probandum “usando impropriamente”

l’interrogatorio libero o addirittura le prove testimoniali per dare ingresso a fatti nuovi che non erano stati narrati negli atti introduttivi.

20 MONTESANO, Le “prove atipiche” nelle “presunzioni” e negli “argomenti” del giudice civile, in Riv. dir. proc., 1980, p.233 ss.: “Gli strumenti istruttori predisposti dal vigente codice sono sicuramente adatti ad acquisire al processo tutte le possibili fonti di prova, ma sarebbe, per altro verso, troppo aberrante dai principi “legalitari” che reggono il nostro sistema processuale, per essere seriamente sostenuta, ogni proposta di lasciare al giudice la discrezione, o meglio l'arbitrio, di usare per l'acquisizione delle fonti di convincimento mezzi diversi da quelli predisposti dal “diritto scritto” e che, del resto, cadrebbero sotto il divieto, per lo stesso giudice, di far ricorso alla propria “scienza privata”.”

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E’ il caso dell’ “uso improprio” di strumenti che non hanno funzione probatoria (quali l’interrogatorio libero o il comportamento processuale delle parti) o dei tentativi di acquisire prove con strumenti diversi da quelli appositamente previsti dalla legge (dichiarazioni o scritti di terzi acquisiti al fascicolo o prodotti dalle parti nell’intento di “surrogare” la prova testimoniale).

In questa direzione si è andato impegnando, negli ultimi tempi, anche il “governo-legislatore”

introducendo, attraverso il d.l.132/14, l’art.257 ter c.p.c., così attuando l’ennesimo tentativo di delegare l’attività di assunzione delle prove testimoniali, questa volta attribuendola agli avvocati, perché si formassero prove “esterne al processo” attraverso dichiarazioni rese nei loro studi21. Il tentativo è stato, da ultimo, sventato perché la norma è stata soppressa in sede di conversione del d.l.132/14 nella legge n.162 del 10 novembre 2014.

Ebbene l’interrogatorio libero ed il comportamento processuale, cioè le dichiarazioni o le azioni della parte che parla ed agisce in proprio dinanzi al giudice, per quanto valutabili dal giudice, non possono essere promosse da “argomenti di prova” a “prova” sol che il giudice provochi il contraddittorio delle parti su di essi.

Occorre, in altre parole, salvaguardare il “tipico” mezzo istruttorio ed impedire al giudice di usare, come talvolta accade, i predetti “elementi” o “argomenti” quale fonte esclusiva o determinante del convincimento, alla stregua delle prove atipiche.

Potremmo forse chiamarle, eufemisticamente, “scorciatoie istruttorie”.

Ma è certo che il mezzo istruttorio “tipico” è “oggettivato” e la parte, con il suo difensore, può partecipare alla formazione della prova.

Al contrario, la valutazione del contenuto delle dichiarazioni di parte rese nel corso degli interrogatori liberi o anche in sede di interrogatorio formale (quando non determinino la prova

“contra se”), di comportamenti o di dichiarazioni rese da terzi al di fuori del processo e distanti dall’

“immediatezza” del rapporto con il giudice che deve assumere la prova22, è “soggettiva” ed

“imprevedibile” perché opera e si forma solo nella mente del giudice.

                                                                                                                         

21 Il precedente tentativo e testo predisposto ex art. 257 ter c.p.c. era mirato a delegare una funzione così delicata,

“interna” al processo e per l’accertamento della “verità materiale”, ai cancellieri (anche se in via di estinzione) o a ricercatori o a dottori di ricerca; insomma a qualcuno dotato di cultura giuridica che fosse disposto a sentire i testimoni al posto dei giudici verso un corrispettivo apposito, una “sportula” che la spending review non può più permettersi.

22 CHIOVENDA, in Le forme della difesa giudiziale del diritto, in Principii di diritto processuale civile, Roma, 1928, p.683, osserva che ciò che rileva soprattutto è che “…il giudice debba conoscere delle attività processuali (deduzioni, interrogazioni, esami testimoniali, confronti, perizie, e così via) non in base alle morte scritture, ma in base all'impressione ricevuta, e sia pure rinfrescata con scritti, da questa attività avvenuta davanti a lui, da lui, come usa dirsi, vissuta”, ritenendo che sotto questo profilo il principio dell’oralità si fondesse in quello dell’immediatezza.

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Si aprono scenari preoccupanti ogni qualvolta le presunzioni - quelle semplici sono il risultato di un processo mentale del giudice - vengono utilizzate per risalire da un fatto ignorato (che è divenuto

“noto” in quanto presunto) ad altro fatto ignorato, anziché da un fatto “noto” (in quanto

“tipicamente provato”) ad altro ignorato.

Del resto due o più prove atipiche non possono essere sufficienti a dimostrare fatti rilevanti nella causa perché un’istruttoria totalmente “atipica” non consentirebbe alle parti di influire, con contraddittoria e paritaria difesa, sulla formazione dello strumento probatorio.23

E non è sufficiente la “garanzia” di provocare, attraverso l’acquisizione rituale, il contraddittorio sulla prova formata in un altro processo, per promuoverla da “argomento di prova” a “prova”.

4. L’istruzione probatoria è faticosa! Le acquisizioni di verbali e prove da altri processi e l’attribuzione di efficacia probatoria a dichiarazioni rese aliunde.

Si va affermando la prassi di “formare” il materiale istruttorio acquisendo i verbali di prove testimoniali assunte in altro processo, che ha impegnato solo una delle parti, utilizzando le dichiarazioni di testimoni mai indicati dalla difesa del ricorrente e su allegazioni e capitoli di prova perlopiù inconferenti con la narrativa dell’atto introduttivo del giudizio, attribuendo ad esse (espressamente in motivazione) un’equivalente efficacia probatoria24.

E’ vero che la Suprema Corte25 è arrivata ad affermare che “è pacifico il principio che il giudice può utilizzare, per la formazione del proprio convincimento, anche le prove raccolte in un diverso processo, svoltosi tra le stesse o altre parti, una volta che le suddette prove siano acquisite al giudizio della cui cognizione è investito” e che “ritenere che prove acquisite e provenienti da altro

                                                                                                                         

23 Così MONTESANO , op. ult. cit., p.249.

24 Cass. 19 novembre 1999, n.12884 ha affermato la legittimità dell’utilizzazione delle prove – ritualmente acquisite agli atti – assunte in un precedente giudizio tra le stesse parti e inerenti allo stesso contenzioso sostanziale, proprio in considerazione del più ampio potere, attribuito dall’art.421 c.p.c. al giudice del lavoro, di ammissione di ufficio di ogni mezzo di prova, anche oltre i limiti stabiliti dal codice civile. Ma è certamente discutibile la scelta di “sfoltire” gli incombenti istruttori disponendo l’acquisizione di prove testimoniali assunte in altre cause che, per la riferibilità al medesimo oggetto (ad esempio gli effetti di una contestata cessione di ramo di azienda) e per il semplice impegno, nei panni del resistente, del medesimo datore di lavoro (sia pur su allegazioni e capitoli di prova del tutto diversi), acquisiscono quel materiale istruttorio formatosi al di fuori del processo e lo trattano attribuendo a quelle dichiarazioni testimoniali il rango di “prova” alla stregua delle prove testimoniali eventualmente assunte nel processo. Ma Cass.civ., III, 14 maggio 2013, n.11555 e, ancor più di recente, Cass. civ., II, 31 gennaio 2014, n.2151 affermano che il giudice, in mancanza di divieto, “…può liberamente utilizzare le prove raccolte in un diverso giudizio tra le stesse o tra altre parti, e può anche avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, le quali possono anche essere sufficienti a formare il convincimento del giudice…”.

25 Cass. 14 maggio 2013, n.11555, tutta centrata sulla rituale acquisizione di una prova formata altrove e sulla garanzia offerta dal contraddittorio reso possibile su di essa e, purtroppo, sul “principio di economia processuale funzionalizzato alla ragionevole durata, prescritta dall’art.111 Cost.”.

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giudizio possano essere utilizzate solo come meri argomenti di prova contrasterebbe con il principio di economia processuale, funzionalizzato alla ragionevole durata, prescritta dall’art.111 Cost.”. Ma non si può, per questo, arrendersi a quella che sembra una progressiva “deriva” che, sotto la copertura dell’efficienza che cerca solo di “far presto” (e non più, come un tempo, ideologica), legittima l’utilizzo di prove assunte altrove pretendendo di conservarne la medesima efficacia probatoria, benché sia raro che l’oggetto della prova sia identico o sovrapponibile.

I verbali “acquisiti” contengono risposte assunte non solo in altri processi ma in relazione a diverse allegazioni di fatto, a capitoli di prova articolati in altri ricorsi, per giunta, non resi disponibili per l’esame del giudice e dei difensori.

Non è mai concepibile che la prova atipica come tale, nel contesto di quel fenomeno che, consentendo a determinate condizioni il transito da processo a processo, si definisce come

“circolarità delle prove”, possa assumere nel nuovo e diverso giudizio un'efficacia probatoria tale da

“vincolare” le parti ed il giudice. Le dichiarazioni raccolte aliunde, come previsto dall’art.116 c.p.c., non possono, dunque, “costituire” prove ma solo argomenti di prova.

In questo contesto meritano di essere segnalate altre due recenti ed importanti decisioni della Suprema Corte, la n.10427 del 14 maggio 2014 e la n.22384 del 22 ottobre 2014.

Nella prima si afferma, per la prima volta in modo così esplicito, che le dichiarazioni rilasciate dai lavoratori in sede ispettiva fanno prova in giudizio26 e, ove siano univoche, non abbisognano di essere ivi confermate, soprattutto se il datore di lavoro non alleghi e dimostri eventuali contraddizioni delle dichiarazioni rese agli ispettori, in grado di inficiarne l’attendibilità27.

La rilevanza processuale e probatoria delle dichiarazioni rese agli ispettori al di fuori del processo, secondo l’orientamento maggioritario ed ora consolidato, basterebbe ad escludere la necessità di assumere prove testimoniali per confermarle, pur rimanendo quelle dichiarazioni al rango di argomenti di prova ex art.116, comma 2, c.p.c. . E ciò significa, evidentemente, che il giudice può considerare quei “dati probatori” sufficienti a fondare un giudizio di responsabilità del datore di lavoro.

E’ il caso di ricordare che l’art.2700 c.c. e le Sezioni Unite, con sentenza n.12545/92, autorizzavano ad affermare che l’efficacia probatoria privilegiata del verbale redatto dagli ispettori riguardasse                                                                                                                          

26 Cass. 14 maggio 2014 n.10427 afferma: “l'esclusione di un’efficacia diretta fino a querela di falso del contenuto intrinseco delle dichiarazioni rese agli ispettori dai lavoratori non implica che le stesse siano prive di qualsivoglia efficacia probatoria in difetto di una loro conferma in giudizio”.

27 Si legge testualmente: “ove le dichiarazioni dei lavoratori siano univoche, il giudice può ben ritenere superflua l'escussione dei lavoratori in giudizio mediante prova testimoniale, tanto più se il datore di lavoro non alleghi e dimostri eventuali contraddizioni delle dichiarazioni rese agli ispettori in grado di inficiarne l'attendibilità.”

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solo i fatti avvenuti in loro presenza e direttamente percepiti, quali ad esempio l’attività lavorativa svolta dai prestatori trovati intenti al lavoro nel luogo ispezionato. Tuttavia è ormai affermato il principio secondo il quale il verbale possiede una credibilità, quanto alle dichiarazioni al verbalizzante rese dalle parti o da terzi, che può essere infirmata solo da una prova contraria, qualora la specifica indicazione delle fonti di conoscenza consenta al giudice ed alle parti l’eventuale controllo e valutazione del contenuto delle dichiarazioni28. Quindi, secondo tale impostazione, le dichiarazioni stragiudiziali dei terzi (segnatamente dei lavoratori), che siano verificabili anche nella loro provenienza, invertono l’onere della prova, imponendo al datore di offrire in giudizio allegazioni e prove contrarie rispetto al loro contenuto.

La seconda, significativa, pronuncia è la Sentenza della Suprema Corte n.22384 del 22 ottobre 2014 e riguarda la possibilità di acquisizione di materiale probatorio da un procedimento penale, peraltro concluso con un patteggiamento. Vi si legge che “gli atti del procedimento penale, in cui i fatti erano già allegati al processo civile in ragione del verbale ispettivo, correttamente acquisiti al processo civile ex articolo 421 ed ex articolo 437 c.p.c., e non solo la consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero, hanno costituito oggetto di autonoma valutazione da parte dei giudici di merito, anche in relazione all’esito del procedimento penale conclusosi con sentenza di patteggiamento, quale prova atipica acquisita in altro giudizio… Il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento anche gli elementi probatori raccolti in un giudizio penale, ed in particolare le risultanze della relazione di una consulenza tecnica esperita nell’ambito delle indagini preliminari, soprattutto quando la relazione abbia ad oggetto una situazione di fatto rilevante in entrambi i giudizi”. Ed ancora più significativamente: “Si evince dalla sentenza impugnata che il materiale probatorio in questione raccolto nel procedimento penale è stato acquisito nel giudizio civile ai sensi degli articoli 421 e 437 c.p.c., e, dunque, correttamente, atteso che nel rito del lavoro il principio dispositivo è contemperato – atteso il riconoscimento dei poteri officiosi del giudice ex articoli 421 e 437 c.p.c., intesi alla luce del principio del giusto processo e dell’articolo sei della CEDU - con riferimento ai fatti allegati dalle parti (nella specie in ragione del verbale ispettivo) ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio con le esigenze della ricerca della verità materiale (Cass.n.26289 del 2013, n.18410 del 2013), senza costituire oggetto di specifica contestazione ad opera delle parti, che hanno avuto la facoltà di esaminare la relativa documentazione”.

                                                                                                                         

28 In tale direzione Cass. n.14965/2012 e n.13075/2009.

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La Suprema Corte ha aperto dunque la strada all’acquisizione di prove formatesi in altri processi svoltisi tra le stesse parti o anche tra soggetti diversi, purché il materiale istruttorio acquisito possa essere sottoposto al vaglio critico delle parti, essendo così “garantito” il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio. E secondo la Suprema Corte, stante il principio del libero convincimento desumibile dall’art.116 c.p.c., al fine di porre a fondamento della decisione anche le sole prove acquisite aliunde, basterebbe la mancanza di una valutazione critica delle parti.

La predetta tesi legittima una prassi che non può essere condivisa.

5. Verso la “deformalizzazione” della prova o verso la “sommarizzazione” di tutte le controversie di lavoro? La “contaminatio” del rito sommario “Fornero” in materia di licenziamento sull’istruzione probatoria del rito speciale lavoro che è, ancora, un processo a cognizione piena.

Chi scrive evidentemente è giunto sin qui nella ricostruzione degli orientamenti “acquisitivi” di

“argomenti o elementi” di prova e nel ragionamento per osservare che l’impostazione che antepone il risparmio di energie processuali alla possibilità o alla garanzia di poter partecipare alla formazione, nel processo, delle prove sacrifica invero il diritto di difesa ed alla prova.

Si tratta, forse, delle conseguenze del carico di lavoro e di fascicoli che ha indotto i giudici del lavoro, negli ultimi anni, ad utilizzare ogni possibile strumento per contenere le attività istruttorie processuali ed il numero di udienze necessarie per pervenire alla decisione di merito.

Ma forse anche dell’influenza, di una vera e propria “contaminatio” culturale, che dipende dalle iniziative legislative “sommarizzanti” che continuano a demolire il baluardo della cognizione piena.

Mi riferisco, in particolare, al rito veloce e sommario in materia di licenziamento, introdotto dall’art.1, comma 48 e ss., della legge n.92/12.

Il comma 49, in particolare, dispone che il giudice proceda “sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio”, potendo limitare l’istruttoria all’“indispensabile” e “come ritiene più opportuno”, puntando alla formazione di un giudizio di “mera verosimiglianza” circa i vizi del licenziamento denunciati dal lavoratore nella fase sommaria. Fase sommaria che viene normalmente definita da un’ordinanza.

Avverso l’ordinanza è possibile proporre opposizione con un ricorso che contenga i requisiti dell’art.414 c.p.c. e che servirebbe ad introdurre una fase di merito, a cognizione ordinaria o piena, con il valore di un primo grado di giudizio e non di un’impugnazione.

Il condizionale è d’obbligo perché, da avvocato e non solo da studioso del processo, mi preoccupo del fatto che questo “rito speciale al quadrato” (ricordando che il rito speciale del lavoro, quello

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introdotto dalla Legge n.533/73, è comunque un giudizio a cognizione piena), non offre sufficienti garanzie di poter disporre almeno di un grado a cognizione ordinaria, piena, con l’istruzione probatoria assicurata dal collaudato “sistema” degli artt.414, 416 e 420 c.p.c. .

L’abbandono della cognizione piena, pur di far presto, è molto pericolosa e nell’applicazione pratica mal tollerata.

La prima applicazione pratica del “rito Fornero” ha fatto prevalere le decisioni allo stato degli atti, sui documenti e senza attività istruttoria. Forse per non invadere l’ambito dell’attività istruttoria che dovrà svolgere il giudice dell’opposizione mi risulta minoritario l’orientamento di istruire la causa, in fase sommaria, sentendo testimoni (non essendo escluso) o informatori od avvalendosi dei poteri istruttori ex art.421 c.p.c. alla ricerca della “verità materiale”.

Temendo che si affermasse questa propensione di Giudici e di Avvocati, condannati al rito dal comma 48 ma non vincolati ad accettarne la sommarietà, dottrina e giurisprudenza - quando la fase sommaria si sia svolta a cognizione piena (per scelta discrezionale del Giudice o per accordo delle parti) - si sono posti il problema del rischio di aver generato due giudizi di merito, inutili e sovrapponibili, risolvendolo con alcune avventurose soluzioni “per saltum” o consentendo l’impugnazione della ordinanza della prima fase come se fosse una sentenza, in base al suo contenuto decisorio ed al principio di prevalenza della sostanza sulla forma.

La lettura del comma 57 convince della possibilità che, anche nella fase di opposizione, nonostante si parli di “atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle parti o disposti d’ufficio”, il Giudice possa procedere “omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio”, nuovamente incoraggiato alla sommarietà, all’officiosità ed alla speditezza nell’esercizio del potere di direzione e di istruzione della causa anche nella fase che secondo molti non è a cognizione piena.

Ha osservato il Prof. Caponi29 che “Nelle intenzioni del governo, si tratta univocamente di un processo speciale a cognizione piena ed esauriente («accertamento della verità materiale»,

«istruzione vera e propria»), dettato in funzione di accelerazione dello svolgimento del processo («riduzione dei tempi del processo», «celerità»), con predeterminazione legale delle forme e dei termini limitata alla fase introduttiva («dettati i termini della fase introduttiva») e decisoria (nulla è detto, ma non si potrà evitare di farlo), mentre la fase istruttoria è affidata alle determinazioni discrezionali del giudice («al giudice la scansione dei tempi del procedimento», «eliminazione delle formalità non essenziali all’instaurazione di un pieno contraddittorio»). Il principale nodo teorico da sciogliere è se un procedimento con queste caratteristiche possa essere correttamente                                                                                                                          

29 CAPONI, www.judicium.it, Rito processuale veloce in materia di licenziamento, 26.3.2012, p.3

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qualificato come «a cognizione piena ed esauriente». Tutto dipende dalle nozioni di cognizione piena e di cognizione sommaria che si accolgono”.

E, aggiungo, dalla risposta alla domanda se è ancora vero che la differenza è data dall’accuratezza e dall’approfondimento nell’istruzione della causa ed in particolar modo dall’assunzione delle prove costituende, spesso determinanti nelle controversie in materia di licenziamento.

Ed è facile pensare che “l'eliminazione delle formalità non essenziali all’instaurazione di un pieno contraddittorio”, nel rito Fornero ma anche nel rito speciale introdotto dall’art.414, consisterà essenzialmente nella riduzione delle formalità e delle attività di assunzione delle prove costituende.

E tutto ciò è accaduto per un impulso all’efficienza, concentrata sul “fare presto” nel produrre una sentenza, gravando il principio declinato apertamente anche dalla recente Cass. n.878 del 16 gennaio 2013, che ha affermato: “La regola, costituzionalizzata, ed immanente nel processo della sua ragionevole durata sconsiglia l’esercizio di attività istruttorie che, seppur in prima battuta ammesse, nel quadro probatorio complessivo non risultino decisive”.

6. I poteri officiosi del Giudice del Lavoro in Francia ed in Germania.

Il problema della celerità dell’istruttoria è attualmente comune a tutti gli ordinamenti vicini a quello italiano per tradizione storica e cultura processuale, in particolare agli ordinamenti europei.

È inevitabile, pertanto, che si cerchi il dialogo con le esperienze europee e non solo per tracciare le linee di una possibile armonizzazione.

Ritengo, tuttavia, più utile ed interessante, anziché illustrare quali siano state le scelte legislative altrui per fare presto, tornare sul tema dell’estensione e dei limiti dei poteri officiosi del giudice del lavoro, per verificare qual è la disciplina in Francia ed in Germania.

Nel Paese transalpino da tempo è stata abbandonata la concezione di un giudice passivo e sono stati progressivamente aumentati i poteri attribuiti al magistrato, sia per quanto concerne la direzione del processo che per la possibilità di dar luogo ad un’istruzione della causa ad impulso officioso.

L’art. 10 del décret n. 75 – 1123 del dicembre 1975, del nouveau Code de procédure civile, nella parte che attiene ai principes directeurs du procés, prevede, in relazione al processo ordinario, che

“le juge a le pouvoir d’ordonner d’office toutes les mesures d’instruction, légalement admisibiles”.

Si tratta di una disposizione che ha accresciuto i poteri istruttori del giudice civile, attribuendogli poteri che potrebbero configurare un totalitarisme judiciaire, salvo comprendere se il giudice possa addirittura allegare autonomamente fatti non addotti dalle parti.

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Gli studiosi francesi sottolineano, quasi con compiacimento, la generale estensione dei poteri officiosi del giudice francese, anche sulla scorta di un consolidato indirizzo giurisprudenziale tendente al riconoscimento di quest’ultimi anche in mancanza di una norma espressa e limitatamente alle allegazioni delle parti.

Si è tuttavia sviluppata, in Francia, una discussione che ha riguardato i cosiddetti fatti avventizi, ossia tutte le circostanze riversate in causa, ma “silenti”, in quanto non invocate per inavvertenza o negligenza delle parti e, pertanto, tendenzialmente destinate a rimanere inerti nel processo, a meno che il giudice, studiando la causa, noti tali fatti e li consideri rilevanti per la decisione. Può trattarsi, ad esempio, di fatti involontariamente introdotti dalla parte, anche risultanti da un documento, o di fatti consapevolmente introdotti e richiamati nelle difese senza alcun riferimento giuridico.

Si ritiene, tuttavia, che il giudice francese può ricorrere ai poteri istruttori d’ufficio in relazione a fatti/fonti di prova esclusivamente deducibili dal materiale della causa e, di conseguenza, anche sui cd. fatti avventizi, considerato che siamo pur sempre in presenza di un processo nel quale vige il principio dispositivo (artt. 1, 4 e 5 del n.c.p.c.) e nel quale viene compiutamente attuato il principio del contraddittorio.

Il giudice francese, perciò, non è un inquisitore, non può ricercare autonomamente fatti e fonti di prova e l’ampiezza dei poteri conferitigli è più virtuale che pratica, dal momento che viene raramente esercitata. Si può ritenere che al giudice siano state fiduciosamente attribuite, dalle disposizioni processuali, tutte le prerogative finalizzate ad un giusto esito della controversia senza la preoccupazione di doverne contenere l’iniziativa.

In Germania il processo di lavoro non si discosta molto dal rito civile "normale"30, anche se presenta alcune rilevanti eccezioni.

Nel rito del lavoro sono previsti due tipi processuali: il primo si applica alle controversie concernenti il rapporto di lavoro (Urteilsverfahren, § 2 ArbGG), ad esempio sulla validità di un licenziamento, retribuzione, ferie, etc..; il secondo si applica alle controversie sindacali (Beschlussverfahren, § 2a ArbGG), ad esempio sulla legittimità di uno sciopero, la validità di un contratto collettivo, etc.

Il "Urteilsverfahren" (primo tipo) è governato dal “Verhandlungsmaxime”, e cioè dal principio dispositivo, come accade nel processo ordinario. Non è, di massima, consentito al giudice ammettere mezzi di prova senza che essi gli siano stati richiesti da una delle parti coinvolte nel                                                                                                                          

30 Il codice di procedura del lavoro (Arbeitsgerichtsgesetz = ArbGG) regola solo le particolarità e rinvia per il resto, al § 46 comma (2) ArbGG, alle norme del codice di procedura civile (Zivilprozessordnung = ZPO).

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processo. Tuttavia, il giudice del lavoro ha il dovere “attivo” di condurre il procedimento (§139 ZPO, §51 e §56 ArbGG). Nell’ Urteilsverfahren, quindi, sono le parti a determinare l’oggetto del giudizio e ad allegare i rispettivi mezzi di prova e le corti sono tenute a giudicare soltanto sulle allegazioni di parte, salva la possibilità (compresa nel “dovere attivo”) di assumere prove d’ufficio in alcuni casi, ad esempio ordinando produzioni documentali (§142 ZPO), consulenze tecniche (§144 ZPO) o disponendo l’esame delle parti (§448 ZPO). La prova testimoniale può essere assunta dal giudicante soltanto se richiesta dalla parte onerata dalla prova (§65 (1, no. 4) ArbGG).

Nel "Beschlussverfahren" (secondo tipo), invece, il giudice non solo ha la facoltà, ma è tenuto per legge ad indagare "ex officio" e, quindi, a ricercare la verità dei fatti in via autonoma, superando anche la narrativa di fatto o le richieste probatorie delle parti (§ 83(1) ArbGG). Si parla, in questo caso, di Amtsermittlungsgrundsatz, ovvero del principio di “accertamento d´ufficio” e di

“Untersuchungsgrundsatz”, che consiste nel dovere di ricercare e di assumere ex officio le prove.

Conclusioni.

Considerata la sensibile riduzione del numero delle cause di merito (e, purtroppo, dei lavoratori) forse si potrebbe puntare sulla ragionevole qualità del processo.

Nel corso del 2014, soprattutto in considerazione dell’odiosa iniziativa di introdurre e di incrementare progressivamente e sensibilmente il contributo unificato anche nelle controversie di lavoro, il numero delle cause di lavoro iscritte a ruolo in primo grado ha subito un rilevante decremento. Secondo i dati provvisori sarebbero ridotte di oltre il 50% rispetto all’anno precedente.

Gli appelli in materia di lavoro iscritti a ruolo alla data del 23 dicembre sono circa il 40% in meno di quelli iscritti nel 2013. Anche qui i motivi vanno ricercati nel contributo unificato e nell’effetto deflattivo delle “paludi” previste dalla legge (il tentativo di conciliazione preventivo rispetto al recesso) e dal rito Fornero (le due fasi, sommaria e di cognizione) in materia di licenziamento. Non è superfluo osservare che i lavoratori licenziati che accedono al giudizio di appello hanno già

“superato” almeno tre tentativi di conciliazione e due decisioni sfavorevoli e, dunque, si distinguono per la “pervicacia” di pretendere la tutela giurisdizionale del loro diritto in un sistema che oramai lo sconsiglia vivamente.

Tali informazioni possono determinare un sospiro di sollievo in Coloro che da anni sono costretti a lavorare e a giudicare letteralmente “sotterrati” da cumuli di fascicoli che spesso sono stati

“tramandati”, soprattutto in appello, da un relatore all’altro e da un collegio all’altro.

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Ci attendono anni in cui, prescindendo in questa sede da giudizi di valore, addirittura morale, su come il risultato di comprimere il diritto di accesso alla tutela giurisdizionale sia stato conseguito (per non sentir opporre, sempre sul piano etico e deontologico, la solita sterile polemica per cui la gratuità dell’accesso alla tutela giurisdizionale del lavoro era un lusso che non ci si poteva più permettere in un Paese dove “troppi” avvocati instauravano cause infondate a costo zero tanto per provarci o per sopravvivere), saranno “liberate” energie di giudici togati e sono state promesse risorse che dovrebbero migliorare la qualità del lavoro di tutti.

Alla luce del mutamento, sensibile, della situazione c’è da augurarsi che l’idea che si possano decidere la cause che non è possibile decidere solo sui documenti senza assumete le prove costituende o a mezzo di prove atipiche e “raccolte altrove”, accontentandosi della

“verosimiglianza” in luogo della “verità materiale”, possa tramontare.

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