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Riflessioni in tema di risarcimento del danno patrimoniale futuro conseguente alla morte del figlio minore Dr. Stefano Giusberti

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Riflessioni in tema di risarcimento del danno patrimoniale futuro conseguente alla morte del figlio minore

Dr. Stefano Giusberti*

Superato il più antico orientamento, che aveva considerato danno ingiusto, risarcibile ai sensi dell'art. 2043 del cod. civ., solo la lesione del diritto concreto e attuale al mantenimento (artt. 143 e 147 del cod. civ.) o agli alimenti (art. 433 del cod. civ.) vantato dal prossimo congiunto nei riguardi del Soggetto deceduto a seguito di un fatto illecito altrui (in tal senso v. Cass. 3 dicembre 1925, in Giust.

Autom. 1926, 294) ed ammessa la risarcibilità del danno patrimoniale patito dai prossimi congiunti che indipendentemente da un loro diritto agli alimenti o al mantenimento, beneficiavano in modo costante e durevole di sovvenzioni da parte della vittima, delle quali avrebbero presumibilmente continuato ad usufruire in futuro (cfr. in tal senso Cass. 22 ottobre 1960, n. 2868), la giurisprudenza ritiene ora risarcibile anche il danno patito dal congiunto, che, indipendentemente dall'esistenza di un diritto attuale agli alimenti o al mantenimento, e pur non beneficiando di alcuna sovvenzione da parte della vittima, venga ad essere privato per effetto del decesso di quest'ultima di legittime aspettative a futuri benefici economici.

Così, con riferimento al caso dell'uccisione del genitore, si è affermato che l'aspettativa dei superstiti di poter beneficiare degli eventuali risparmi che il defunto avrebbe costituito con la parte di reddito non destinata a sé stesso e alla famiglia appare legittima, perché è ancorata non solo al sentimento affettivo, più o meno intenso, del familiare o alla consuetudine sociale, ma anche all'istituto della successione necessaria previsto e regolato del codice civile (cfr., fra le altre, Cass. 25 giugno 1981, n. 4137, e più di recente Cass. 21 novembre 1995, n. 12020).

Analogo è il caso dell'uccisione del figlio minore, in relazione al quale la giurisprudenza valuta, in capo ai genitori, la lesione delle "legittime aspettative di un futuro contributo economico a loro favore” (Cass., sez. un., 6 dicembre 1982, n.

6651), indipendentemente dall'adempimento di un'obbligazione legale alla prestazione degli alimenti (Cass. 29 ottobre 1965, n. 2302, Cass. 24 gennaio 1964, n.

170).

In dottrina si è rivelato che tale ultima fattispecie rappresenta un tipico caso di danno futuro (dal momento che quando muore il figlio i genitori normalmente non subiscono alcun pregiudizio attuale), assimilabile per molti aspetti all’ipotesi della perdita di chance, posto che “l’oggetto della perdita è dato dall'aspettativa (delusa) dei genitori di poter fare affidamento su sovvenzioni per il loro sostentamento durante la vecchiaia" (FRANZONI, Fatti illeciti, Comm. del cod. civ. Scialoja - Branca, Bologna 1993, 1060; nello stesso senso v. MASTROPAOLO, Morte del minore, provocata da un non imputabile, e risarcimento del danni, in Giur. it. 1984e I, I, 150 e s., il quale afferma che il danno patrimoniale patito dai genitori per la morte del figlio minore consiste “non tanto e non solo in un mancato guadagno”, che ha per

* Magistrato al Tribunale di Ferrara

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oggetto un interesse futuro, relativo cioè ad un bene non ancora aspettante al danneggiamento al momento della lesione, “ma anche in una perdita di chances”, e sottolinea che “le due figure non sono lontane, sebbene la chance sia intimamente collegata al bene perduto ed il lucro cessante riguardi invece le utilità da esso ricavabili”).

Ammettendo la possibilità di agire in giudizio anche quando l’ucciso non corrispondeva alcunché ai congiunti e questi ultimi potevano quindi vantare verso la vittima soltanto un’aspettativa a future sovvenzioni economiche, la maggior parte degli autori ha superato l’impostazione tradizionale, secondo la quale può dar luogo a risarcimento del danno solo la violazione del diritto soggettivo e non anche la lesione di un’aspettativa legittima.

Ai fini dell'integrazione dell'ingiustizia del danno non si richiede più infatti la violazione di un diritto soggettivo agli alimenti, secondo lo schema delineato dall'art.

433 del cod. civ., ma, indipendentemente dall'esistenza o meno di quest'ultimo, si riconosce ingiusto il pregiudizio ad una concreta aspettativa a futuri benefici economici, fondata su uno stabile vincolo socialmente rilevante.

La pretesa risarcitoria in questione prescinde dunque dalla lesione di un diritto di credito, trattandosi piuttosto della lesione del vincolo familiare, che legava il danneggiato alla vittima. In tal modo, si è osservato, vengono evidenziati gli interessi meritevoli di tutela, a prescindere dalla loro veste formale (BIGLIAZZI-GERI, BRECCIA, BUSNELLI e NATOLI, Diritto civile, obbligazioni e contratti, Torino 1989, 719 e s., Bianca, Diritto Civile, V, La responsabilità, Milano 1994, 608; si vedano inoltre sull’argomento: ALPA, BESSONE, ZENO-ZENCOVICH, I Fatti illeciti, in Trattato di Diritto privato a cura di P. RESCIGNO, vol. XIV, Torino 1995, 167, e ss., CENDON - a cura di La responsabilità extracontrattuale – Le nuove figure di risarcimento del danno nella giurisprudenza, Milano 1994, 268 e ss., nonché STEFANI, Il risarcimento del danno da uccisione, Milano 1994, in particolare 95 e ss., 463 e ss.).

In passato alcuni autori hanno tuttavia escluso il risarcimento del danno patrimoniale in capo ai genitori per la morte del figlio minore. Si è infatti sostenuto che nella maggior parte dei casi il genitore non può "reclamare il risarcimento di questo danno futuro, perché tale non si può qualificare una semplice speranza, un'eventualità di un’ipotetica realizzazione da avvenimenti incerti ed aleatori". Del futuro aiuto dei figli non si potrebbe quindi tener conto, posto che esso "dipende da avvenimenti assolutamente incerti e precisamente dal fatto che il genitore abbia bisogno di aiuto economico quando il figlio avrà realizzato la capacità di guadagnare e dal fatto che il figlio, pur essendo divenuto un elemento produttivo, sia in grado di provvedere, oltre che a sé stesso ed alla famiglia costituitasi, anche al genitore"

(CINGOLINI, La responsabilità civile della circolazione stradale, Milano 1955, 751 ss.).

Tale opinione non appare condivisibile, poiché essa trascura sia l'id quod plerumque accidit, sia precisi riferimenti normativi (artt. 315 e 433 del cod. civ.), che fondano l'aspettativa legittima dei genitori di poter beneficiare di contributi economici del minore, ed esprime un pessimistico giudizio sui figli che, secondo l'autore, "una volta costituitasi la loro famiglia, assai spesso dimenticano i genitori,

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specialmente quando questi sono vecchi ritenendoli un peso inutile", non considerando invece che il dovere dei figli trova nella legge espressa previsione e sanzione (MASTROPAOLO, Op. cit., 153, nota n. 9).

Oggi è ormai consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui "i danni patrimoniali futuri risarcibili sofferti dai genitori o dai fratelli di un minore deceduto a seguito di fatto illecito vanno ravvisati nella perdita o nella diminuzione di quei contributi patrimoniali e di quelle utilità economiche che sia in relazione ai precetti normativi (artt. 315, 433, 230 bis cod. civ.) che per la pratica di vita improntata a regole etico-sociali di solidarietà e di costume, presumibilmente e secondo il criterio di normalità il soggetto venuto meno prematuramente avrebbe apportato alla stregua di una valutazione che faccia ricorso anche alle presunzioni ed ai dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, con riguardo a tutte le circostanze del caso concreto" (così Cass., 26 febbraio 1996, n. 1474, Cass., 26 novembre 1996, n. 10480, Cass., 22 febbraio 1995, n. 1959, Cass, il gennaio 1988, n.23).

Il principio enunciato dalla Suprema Corte ed al quale il giudice del merito dovrebbe attenersi nella liquidazione del danno patrimoniale futuro conseguente all'uccisione del figlio è di certo logico e chiaro. Esso tuttavia non è di semplice applicazione pratica: il risarcimento del danno è infatti, nell'ipotesi in esame, particolarmente difficile, poiché riguarda avvenimenti insieme futuri ed ipotetici, che avrebbero potuto verificarsi solo in dipendenza di altri eventi, i quali, a loro volta, avrebbero dovuto essere realizzati da un soggetto ormai defunto, e che quindi non potranno più verificarsi. In altri termini è arduo stabilire in concreto quali aspettative siano venute meno a seguito del decesso del figlio (e ciò specie se lo stesso era ancora molto giovane), e se tali aspettative debbano considerarsi fondate e plausibili e non, al contrario, vaghe ed improbabili.

Le difficoltà applicative del principio non esimono però la parte attrice dall'assolvimento dell'onere di fornire al giudice tutti gli elementi necessari per consentirgli di accertare sia pure in termini probabilistici e ricorrendo al criterio della normalità la sussistenza o meno del danno patrimoniale futuro, in applicazione della regola generale prevista dall'art. 2697 del cod. civ., secondo il quale "chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.

Tale forma di danno infatti è risarcibile solo qualora appaia nella sua concretezza, anche se si spiega nel futuro. Il danno patrimoniale dei genitori del defunto in relazione a possibili aspettative ed in ragione di determinati bisogni, deve cioè "avere la consistenza di una adeguata e ragionevole probabilità" e non deve apparire soltanto

"incerto ed aleatorio, come ipotetica eventualità". "Ciò soprattutto tenuto conto della evoluzione della Società moderna, nella quale da una parte la funzione del genitore consiste sempre più nel "dare", al figlio giovane che nel "ricevere", dall'altra il generalizzarsi del sistema pensionistico e delle assicurazioni volontarie nonché le forme diffuse di risparmio rendono, più che in passato, economicamente autonomi i genitori dall'aiuto dei figli anche nella loro età senile. In altri termini, affinché si possa risarcire il danno patrimoniale del genitore per la morte del figlio occorre che vi siano, nel genitore e nel figlio, le premesse di fatto che inducano ad una sua attribuzione" ( così Trib. Ferrara 7 agosto 1992, n. 437), le quali in concreto si traducono nella necessità che l'interessato fornisca le prove o, quanto meno, gli

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elementi presuntivi correlati alla situazione economica dei familiari e alle condizioni della vittima, idonei a dimostrare l'esistenza del pregiudizio futuro.

Anche di recente la Corte di cassazione ha ribadito questi principi, sottolineando che "in tema di liquidazione del danno futuro il ricorso al criterio equitativo basato su presunzioni formate attraverso dati attendibili è spesso inevitabile, in quanto il danno stesso, prospettabile non in termini di assoluta certezza ma secondo una ragionevole e fondata previsione, non è normalmente determinabile nel suo preciso ammontare.

Condizione indispensabile di tale previsione", prosegue la Corte, "è che questa si basi sulla proiezione di situazioni già esistenti e inequivoche, altrimenti verrebbero meno i caratteri della prova presuntiva di cui all'art. 2729 c.c.". Nella materia in esame infatti

"la prova del danno è presuntiva e solo la sua liquidazione è affidata al criterio equitativo" (così Cass., 6 ottobre 1994, n. 8177, in Giur. it. 1995, I, I, 1545, si vedano inoltre Cass. 10 ottobre 1992, n. 11097, Cass. 23 aprile 1983, n. 2916, Cass. sez. un., 6 dicembre 1982, n. 6651 cit., cass, 15 dicembre 1981, n. 6630, Cass. 22 agosto 1964, n. 2365, le quali hanno affermato che il pregiudizio patrimoniale futuro risarcibile in favore dei genitori della vittima deve avere carattere di attualità concreta o di rilevante probabilità, nel senso che non si tratti di semplice possibilità, o "di mera eventualità di un'ipotetica realizzazione" del beneficio, o di "mera aspettativa di improbabile attuazione futura" ed in dottrina De Cupis, Il danno, I, Milano 1979, 577 e s., il quale evidenzia che “per convincere il giudice che il danno verrà ad esistenza, è sufficiente fornire allo stesso giudice una prova tale da fargli apparire il danno futuro come relativamente certo, vale a dire, quanto può esserlo ciò che si proietta nell’avvenire”; si deve cioè provare, continua l’autore, “che uno specifico incremento patrimoniale, in assenza del fatto dannoso, sarebbe, con ragionevole attendibilità, verificato: ma una volta fornita questa prova, il difetto di prova circa l’esatta entità dello stesso incremento patrimoniale non impedisce la liquidazione del danno”, poiché “il giudice effettuerà tale liquidazione” “mediante l’equitativa valutazione del futuro incremento patrimoniale” “impedito dal fatto dannoso”).

In applicazione dei suddetti principi, i giudici di merito hanno talvolta rigettato la domanda di risarcimento dei danni patrimoniali futuri proposta dai genitori di un minore deceduto a seguito di un fatto illecito altrui. Così, ad esempio, il Tribunale di Ferrara ha in alcune occasioni escluso tale forma di risarcimento del danno, poiché gli attori non avevano "fornito alcun elemento di valutazione circa la loro situazione personale ed economica al tempo della perdita del congiunto", impedendo così al giudice, per l'assoluta mancanza di dati di riferimento, di accertare l'effettiva esistenza dei danni patrimoniali genericamente lamentati e di procedere ad una attendibile quantificazione degli stessi (così Trib. Ferrara 23 giugno 1993, n. 497, ed inoltre Trib. Ferrara 14 luglio 1995, n. 323, Trib. Ferrara 7 agosto 1992, n. 437 Cit.;

v. inoltre, circa i caratteri della prova del danno, App. Perugia 23 maggio 1990, n.

105, in Arch. giur. Circ. Sin. Strad. 1991, 321, Trib. Firenze 16 maggio 1977, in Giust. Civ. resp. 1978, 726, App. Bologna 7 ottobre 1995, n. 1151, in Arch. Giur.

Circ. Sin. Strad. 1996, 734 ss. e in Guida Dir. 1996, n. 35, 59 ss., con nota di Mario Finocchiaro, il quale evidenzia, fra l'altro, che nel caso sottoposto all'esame della Corte i danneggiati non avevano dato alcuna indicazione sulle condizioni personali del minore, ed in particolare sulle eventuali inclinazioni naturali e sulle aspirazioni

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del medesimo, tali da far prevedere, ad esempio, l'ingresso del figlio in un'attività particolarmente lucrativa).

I termini di riferimento del giudizio probabilistico che il magistrato è tenuto a compiere in materia di danno patrimoniale futuro conseguente alla morte del figlio sono rappresentati fondamentalmente dalla situazione personale ed economica attuale e futura dei genitori e dalle presumibili condizioni economiche future del figlio.

Non crea in genere particolare difficoltà la determinazione della situazione economica dei genitori della vittima all'epoca della morte del congiunto. Più difficile è invece stabilire se i genitori in futuro avrebbero potuto essere economicamente indipendenti dall'aiuto del figlio, tenendo conto dell'età e delle loro condizioni di salute, dell'attuale situazione economica ed in particolare delle caratteristiche di stabilità o di incertezza dell'attività lavorativa dagli stessi esercitata. Infatti, se è abbastanza agevole valutare la probabile futura situazione economica di persone che esercitano un'attività subordinata, con reddito fisso e diritto alla pensione, il giudizio può essere più incerto in presenza di attività professionali autonome, in cui è difficile la previsione degli sviluppi futuri e maggiore è l'alea dell'alternarsi di guadagni e di perdite rispetto alle attività subordinate.

Il secondo termine di riferimento per la valutazione del danno è rappresentato dalla presumibile futura situazione economica del figlio. Ovviamente quanto più l'età di questo è lontana dall'inizio di un'attività lavorativa, tanto più il giudizio probabilistico presenterà difficoltà ed incertezze.

Occorre, in particolare, distinguere a seconda che, al momento della morte, il figlio fosse convivente con i propri genitori o che non convivesse con loro ed avesse già formato una propria famiglia.

In quest'ultimo caso, che per lo più riguarda il figlio maggiorenne, il risarcimento del danno viene di regola corrisposto soltanto ai familiari del defunto (e non anche al genitori non conviventi). In certe situazioni però anche i genitori non conviventi con il figlio ucciso possono fondatamente sostenere di aver subito un pregiudizio patrimoniale in conseguenza del decesso della vittima. Ciò può accadere qualora essi siano in grado di dimostrare che il figlio, in considerazione delle difficili e precarie condizioni economiche dei genitori corrispondeva loro con regolarità un aiuto economico e che avrebbe continuato ad aiutarli per tutta la loro vita. Qualora invece il figlio nulla versasse ai genitori al momento del suo decesso, questi ultimi potrebbero sostenere che egli lo avrebbe fatto in futuro, allorché essi, con l'avanzare dell'età, avrebbero perso la loro indipendenza economica.

In entrambe le fattispecie il risarcimento del danno ai genitori non conviventi porta ovviamente a ridurre quello in favore dei familiari della vittima, poiché il reddito utile devoluto a questi ultimi verrà diminuito della quota corrisposta ai genitori. Ad essi infatti potrà essere liquidata una somma pari al valore attuale dei futuri benefici perduti e seguito del decesso del figlio, attraverso la capitalizzazione dell'importo annuo corrisposto dal figlio ai genitori per il periodo della loro vita probabile (STEFANI, Op. cit., 466).

I casi in esame sono comunque piuttosto rari, sia per le difficoltà probatorie che gli interessati incontrerebbero nel dimostrare la fondatezza della loro aspettativa di aiuto economico, "in relazione alla presumibile futura situazione economica dei genitori, a

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quella della vittima e all'esistenza di altri figli tenuti ad aiutare i vecchi genitori", sia a causa "delle comprensibili resistenze psicologiche alla liquidazione in favore dei genitori che si traduce, di fatto, in un danno per i figli e per il coniuge della vittima"

(STEFANI, Op. loc. ult. cit.).

Molto più frequente è invece nella pratica giudiziaria il caso del risarcimento del danno patrimoniale futuro conseguente alla morte del figlio convivente con i genitori.

In concreto si possono verificare varie ipotesi: può accadere cioè che, al momento del suo decesso, il figlio non esercitasse alcuna attività lavorativa, oppure che svolgesse un'attività di lavoro all'esterno della famiglia, o ancora che collaborasse all'interno dell'azienda familiare.

Quanto al primo caso, potrebbe risultare dagli atti di causa che la morte del giovane non abbia determinato un effettivo pregiudizio patrimoniale in capo ai genitori per la perdita di futuri benefici economici a carico del figlio, attese le loro ottime condizioni economiche, tali da far ragionevolmente escludere che essi avrebbero in seguito attinto ai futuri redditi del figlio (cfr., ad esempio, Cass. 15 dicembre 1981, n. 6630, in Giust. Civ. Resp. 1981, 751, che ha ritenuto sufficientemente motivata la sentenza con la quale i giudici di merito avevano negato il diritto al risarcimento di danni futuri, in considerazione della giovane età dei genitori della vittima di un incidente stradale e delle loro buone condizioni economiche derivanti dall'esercizio di un'impresa con numerosi dipendenti, nonché App. Bologna 7 ottobre 1995 cit., la quale ha affermato che il minore deceduto, una volta formatosi una propria famiglia, non avrebbe contribuito alle esigenze di quella di origine, anche in considerazione della ancor giovane età dei genitori, che, anche se non fossero stati privati del figlio, avrebbero verosimilmente continuato per molti anni a condurre la propria azienda agricola, traendone redditi non irrilevanti e, una volta cessata l'attività, avrebbero usufruito della pensione e dei redditi ricavabili dall'investimento delle risorse finanziarie e della cessione a terzi dell'utilizzo della loro proprietà immobiliare, godendo di una tranquilla e decorosa situazione economica, tale da renderli del tutto autosufficienti e da escludere alcun obbligo di contribuzione a carico del figlio).

Qualora invece i genitori riescano a provare che, in considerazione della loro situazione economica e/o personale, essi avrebbero probabilmente beneficiato di future sovvenzioni da parte del figlio, ma non esistono elementi presuntivi tali da consentire una ragionevole previsione circa la futura attività lavorativa del giovane, il giudice dovrà ricorrere ad una valutazione equitativa del pregiudizio.

Così, nell'ipotesi di morte del figlio in giovanissima età, gli elementi di giudizio sono talmente vaghi, da rendere inevitabile il ricorso ad una liquidazione equitativa, in considerazione dell'incertezza circa i futuri studi, orientamenti e successi professionali della vittima.

Alcuni giudici, peraltro, utilizzano come criterio orientativo, sulla base del quale poi operare la definitiva liquidazione equitativa del danno tenendo conto di tutte le caratteristiche del caso concreto, il reddito medio nazionale pro-capite o il triplo della pensione sociale annua (v., ad esempio, Trib. Firenze 5 marzo 1990, in Arch. Giur.

Circ. Sin. Strad. 1991,42, e Trib. Palermo 8 febbraio 1993., n. 264., in Arch.. Glur.

Circ. Sin. Strad. 1993, 331, che hanno fatto riferimento al criterio di cui all'art. 4 del

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d.l. 23 dicembre 1976, n. 857, conv. in 1. 26 febbraio 1977, n. 39. e Trib. Milano 9 aprile 1984, in Ass. 1984, 6, II, 244, che, in un caso di invalidità permanente subita da un bambino di otto anni, ha fatto invece riferimento al reddito nazionale pro-capite alla data dell'incidente).

Se invece è possibile prevedere quale sarebbe stata l'attività che a breve il giovane avrebbe intrapreso ed è determinabile pure un reddito, si ritiene che il danno possa essere liquidato anche mediante capitalizzazione del reddito utile (e cioè della parte di reddito che l’ucciso avrebbe devoluto ai genitori) per il numero di anni intercorrenti fra l’inizio dell’attività lavorativa e la presumibile data del matrimonio del giovane, riducendo però l’importo così ottenuto attraverso l’applicazione di un coefficiente di anticipazione, corrispondente agli anni intercorrenti fra il momento della morte e il presumibile inizio dell’attività lavorativa (cfr., ad esempio, Cass. 30 gennaio 1968, n. 300, Cass. 12 ottobre 1964, n. 2566, ed inoltre STEFANI, Op. Cit., 471 e ss., ove vengono riportati pure alcuni esempi di calcolo).

Il più delle volte viene fissato come termine della corresponsione dei benefici in favore dei genitori l'epoca in cui il figlio avrebbe probabilmente contratto matrimonio, poiché si presume che a partire da tale momento il giovane avrebbe dovuto far fronte ai bisogni del nuovo nucleo familiare, cessando così di versare gli aiuti economici ai propri genitori (cfr. Cass. 13 giugno 1977, n. 2449, nonché Trib.

Ferrara 7 settembre 1994, n. 818, Trib. Palermo 8 febbraio 1993, n, 264 cit.). E' chiaro però che, nell'ipotesi in cui si dimostrasse che le condizioni economiche di questi ultimi sarebbero risultate talmente precarie che il figlio avrebbe comunque continuato ad aiutare i genitori anche dopo la cessazione della convivenza ed il suo matrimonio, sebbene con somme inferiori, di tale circostanze il giudice dovrebbe tener conto nella valutazione del danno patito dai genitori in seguito alla morte del figlio (cfr. Cass. 11 gennaio 1979, n. 224, relativa ad una fattispecie in cui si è ritenuto che l'eventuale formazione di una nuova famiglia da parte del figlio avrebbe inciso solo sull'ammontare del contributo, ma non estinto l'obbligo; v. inoltre Trib.

Ferrara 4 ottobre 1990, n. 685, che, in un caso di morte di un ragazzo undicenne, figlio unico di una coppia che gestiva un modesto esercizio commerciale, ha ritenuto che in futuro si sarebbero potute verificare due eventualità, e cioè che il minore avrebbe potuto "o studiare fino al compimento di un normale corso di studi, raggiungendo per tale via l'indipendenza economica oppure, più verosimilmente, coadiuvare i genitori nell'esercizio della piccola impresa per poi subentrarvi", ma che in entrambi i casi il figlio sarebbe stato in grado di aiutare economicamente i genitori nel momento in cui gli stessi si sarebbero ritirati dal lavoro; il Tribunale ha inoltre ritenuto che era presumibile, sulla scorta degli elementi di giudizio forniti dalla parte attrice, che “un contributo economico del figlio, si sarebbe reso necessario, dovendosi escludere la possibilità per gli attori di accumulare, con il loro modesto lavoro, un Capitale idoneo a garantire una totale autosufficienza, non raggiungibile neppure con la modesta pensione di commerciante conseguibile dal padre”).

Sempre in tema di quantificazione del danno patrimoniale futuro patito dai genitori del figlio ucciso, la Corte di Cassazione ha affermato il principio per cui posto che sussiste per i genitori l'obbligo di mantenere, istruire ed educare i figli, tenendo conto delle loro capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni (art. 147 del cod. civ. ), e che

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sussiste per il figlio maggiorenne, in relazione al proprio reddito, l'obbligo sia di contribuire al mantenimento della famiglia finché convive con questa (art. 315 del cod. civ.), sia di prestare in caso di necessità gli alimenti ai genitori o comunque contribuire al loro mantenimento, ove questi versino in stato di bisogno (art. 433 del cod. civ.) non può procedersi alla determinazione del pregiudizio economico subito dei genitori in conseguenza dell'uccisione del minore tenendo presenti unicamente i diritti di natura patrimoniale che ex legge o per tradizione sarebbero maturati in favore dei superstiti, in assenza del fatto illecito del terzo, del tutto prescindendo da quelli che sono i corrispondenti obblighi che tenuta presente la giovane età del minore al momento del sinistro non siano stati ancora completamente adempiuti dai suoi genitori (Cass. 7 maggio 1996, n. 4242; in tal senso si è espressa anche App.

Bologna 7 ottobre 1995 cit., la quale ha affermato che, tenuto conto delle circostanze del caso, il minore verosimilmente, cessati gli studi, "sarebbe stato inserito nell'azienda agricola dei genitori, i quali avrebbero indubbiamente tratto vantaggio dall'inserimento del figlio in detta azienda,"; tale vantaggio, ad avviso della Corte, sarebbe durato "fino al momento in cui il figlio avesse contratto matrimonio, formando un autonomo nucleo familiare" e "sarebbe tutt'al più servito a compensare gli oneri economici” sostenuti dai genitori "per allevare ed educare il figlio").

Passando ad esaminare il caso in cui il figlio lavorasse all'epoca del suo decesso, si deve osservare che la liquidazione del danno patrimoniale futuro viene solitamente effettuata (tenendo conto anche dei suoi obblighi di concorso nel mantenimento della famiglia previsti dall'art. 315 del cod. civ.) presumendo che la vittima avrebbe erogato ai suoi genitori una parte del suo reddito fino al momento in cui sarebbe rimasto in famiglia, e cioè fino alla probabile età del suo matrimonio, per la determinazione della quale si prende in considerazione la situazione personale del giovane e le consuetudini dell'ambiente sociale in cui egli viveva.

La quota della retribuzione destinata ai genitori viene determinata dai giudici soprattutto in relazione alle condizioni economiche degli stessi (di regola essa sarà più elevata se le condizioni dei genitori non appaiono soddisfacenti, mentre se la situazione economica della famiglia è buona, la quota di reddito del figlio destinata ai genitori sarà più contenuta) e varia in genere da 1/6 ai 2/3 del reddito del giovane (hanno stabilito quote pari a 2/3: Trib. Firenze 27 aprile 1977, in Arch. Giur. Circ.

Sin. Strad. 1978, 51; pari al 50%: Cass. 28 ottobre 1978, n. 4932, e App. Firenze 14 febbraio 1966, in Resp. Civ, Prev. 1967, 492; pari ad un terzo: Trib. Palermo 8 febbraio 1993 cit., Trib. Piacenza 11 maggio 1989, in Arch. Giur. circ. Sin. Strad.

1989, 1054, Trib. Verona 21 marzo 1978, n. 399, in Arch. Giur. Circ. Sin. Strad.

1979, 85, e Cass. 18 maggio 1977, n. 2039; pari ad 1/6: Trib. Bologna 10 marzo 1978, ibid. 1978, 464).

Da ultimo va considerata l'ipotesi in cui il figlio deceduto, convivente con genitori, prestasse la propria attività lavorativa all'interno dell'azienda familiare.

Se il genitore non retribuiva la vittima e si limitava al pagamento delle spese di mantenimento e a modiche somme per le sue spese correnti, egli ha subito un danno per la morte del figlio, che consiste nella differenza fra la retribuzione che il genitore avrebbe dovuto corrispondere ad un lavoratore esterno e le spese di mantenimento del giovane. Tale differenza (reddito utile) andrà capitalizzata per il periodo

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intercorrente fra la morte del figlio e quella che sarebbe stata la presumibile età del suo matrimonio (STEFANI, Op. cit., 469 es.).

Anche in tale fattispecie la giurisprudenza ha ribadito che la parte attrice deve assolvere al proprio onere probatorio, dimostrando che la partecipazione all'attività imprenditoriale familiare era effettiva o almeno ragionevolmente presumibile e non puramente eventuale (cfr. Cass. 22 agosto 1964, n. 2263, n. 2364 e n. 2365; si veda inoltre, su una questione relativa alla futura collaborazione del figlio nell'azienda paterna, Cass. 23 aprile 1983, n. 2816).

Vi è inoltre chi ritiene che si debba tener conto, nella valutazione del danno patrimoniale patito dai genitori, anche dei piccoli lavori domestici ad in genere dei piccoli servizi prestati dal minore all'interno della famiglia, "sia pure in relazione alla brevità del tempo lavorativo e alla modestia dei risultati", qualora vi sia la prova che si trattava di un'attività comunque apprezzabile. Ciò in quanto la famiglia, sotto il profilo economico, si presenta come "un'entità produttiva, in cui ciascun componente almeno per alcuni anni, produce non soltanto redditi monetari, ma anche servizi per gli altri familiari: e ciò è vero con riguardo sia ai familiari conviventi, sia a quelli non conviventi, sebbene l'apporto di questi ultimi sia meno continuativo e quantitativamente inferiore" (MASTROPAOLO, Op, cit., 153 es.).

Anche qualora il figlio fosse regolarmente retribuito dal genitore è possibile ipotizzare un pregiudizio economico per quest'ultimo, "in relazione al particolare apporto del figlio conseguente al suo diretto interesse all'azienda familiare"

(STEFANI, Op. cit., 470).

Alla luce dei principi espressi dalla giurisprudenza in materia di tutela aquiliana del credito, si è rilevato infatti che "se il genitore sarà in grado di dimostrare che l'opera del figlio nell'azienda familiare considerate le sue eccezionali capacità tecniche, la scarsità di specialisti del settore, la profonda conoscenza da parte della vittima delle particolari caratteristiche dell'impresa familiare nella quale operava doveva ritenersi praticamente "insostituibile", nel senso che non sia possibile all'imprenditore "procurarsi prestazione eguale od equipollente e quella originariamente dovutagli, se non a condizioni molto più onerose" (Cass., sez. un., 26 gennaio 1971, n. 174)" "il genitore imprenditore potrà legittimamente pretendere il risarcimento del danno conseguente alla morte del figlio prestatore d'opera, danno consistente nella riduzione del reddito aziendale verificatosi per il venir meno di un operatore di fondamentale importanza per l'impresa" (STEFANI, Op, cit., 471, il quale peraltro osserva che l'infungibilità delle prestazioni del lavoratore è tuttavia difficile da riscontrare nella pratica, per cui l'applicazione dal principio sancito dalla Corte di Cassazione in materia di tutela aquiliana del credito ha avuto fino ad ora scarsa applicazione).

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