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1. INTRODUZIONE Carciofo è la denominazione comune di una pianta della famiglia delle composite,

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1. INTRODUZIONE

Carciofo è la denominazione comune di una pianta della famiglia delle composite, Cynara scolymus L., e del suo capolino fiorale che viene comunemente consumato come ortaggio. Il carciofo è una specie originaria del bacino del Mediterraneo, dal quale si è diffusa nel resto del mondo con i flussi degli emigranti, che richiede clima mite ma può essere coltivato anche in bassa collina pur risentendo di un certo ritardo nella produzione dei capolini. È una pianta a rizoma sotterraneo; può raggiungere l’altezza di 1,20-1,30 m. Il fusto è eretto e termina in un capolino, di peso variabile da 150 ad oltre 400 g, costituito da un ricettacolo carnoso (parte edule) e da molte brattee di colore verde o violetto che possono anche terminare con una spina nelle cultivar spinose.

Dopo la formazione del capolino principale, il fusto si ramifica in maniera dicotomica e produce, in sequenza, 6-7 capolini di 2° e 3° ordine che costituiscono il prodotto commerciabile per il mercato fresco. I capolini di più modeste dimensioni sono destinati all’industria conserviera. Alla base del fusto, ogni anno si formano nuovi getti chiamati carducci o polloni che devono essere asportati in modo da lasciarne 1-2 per pianta. Oltre ad essere commestibili, i carducci possono essere utilizzati per la riproduzione di nuove carciofaie, per l’alimentazione animale oppure per la conservazione della fertilità del terreno, lasciati in campo come materiale organico (Martignetti et al. 1992).

Secondo i dati della FAO relativi al 2004, la superficie coltivata a carciofo nel mondo è stimata in circa 122.000 ha con una produzione di circa 1,33 milioni di t, di cui la maggior parte distribuita in Europa (ca 85mila ha), seguita da Africa, America ed Asia con circa 12.000 ha ciascuna.

L’Italia, secondo i dati ISTAT relativi al 2004, con 50.000 ha coltivati a carciofo e con una produzione di 500.000 t, equivalenti al 40% della produzione mondiale, risulta il primo produttore al mondo di questo ortaggio.

Il carciofo, dopo il pomodoro e la patata, è la coltura più diffusa in Italia, e la sua produzione si concentra soprattutto nel sud e nelle isole (ca 47.000 ha), mentre al centro ed al nord la coltura è presente per circa 2500 ha e 500 ha rispettivamente.

Il carciofo come numerose altre specie coltivate, è in grado di formare micorrize arbuscolari, particolari associazioni simbiotiche tra funghi presenti nel terreno e le piante. Da molti anni si conoscono i vantaggi nutrizionali che la micorrizazione porta alla pianta ospite, ma solo recentemente , a partire dagli anni ’90, molti lavori sono stati condotti allo scopo di valutare i possibili cambiamenti metabolici innescati, nelle piante.

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In particolare, in questo lavoro, si andranno a valutare gli effetti della micorrizazione sulla concentrazione di composti fenolici e sul potere antiradicalico di piante di carciofo (Cynara scolymus L.).

2. STRESS OSSIDATIVI E ANTIOSSIDANTI NELLA DIETA

Il ruolo svolto dall’ossigeno come agente degenerativo nei tessuti viventi è ben noto: la generazione di specie reattive dell’ossigeno (radicali liberi e specie non radicaliche) e di specie reattive dell’azoto è conseguenza inevitabile della presenza di molecole autoossidabili negli organismi aerobi. Schematicamente, nelle reazioni a catena di autoossidazione, la formazione di radicali liberi (R•) da precursori organici non radicalici (RH) in presenza di O

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è detta fase di inizializzazione; durante la successiva fase di propagazione si ha produzione di perossi radicali (ROO•) i quali reagiscono con composti organici riducenti (R’H) con

formazione di nuovi radicali (R’•) che possono reagire ulteriormente con l’O

2 ; una volta

terminato tutto l’ossigeno a disposizione, inizia la fase di terminazione, dove i radicali prodotti reagiscono a vicenda per dare prodotti finali non radicalici, perciò inattivi (Larson, 1998):

RH INIZ. R + O-O PROP. ROO R’H ROOH + R’

Fig.1: schema di reazione di autoossidazione a catena (da Larson, 1998).

Molte classi di composti del carbonio, fondamentali per la vita, sono molto suscettibili ad andare incontro a fenomeni di autoossidazione (soprattutto lipidi di membrana, proteine, carboidrati e acidi nucleici) ed esiste una vasta letteratura biomedica sulle conseguenze dannose degli stress ossidativi nell’organismo umano, dove contribuiscono all’instaurarsi di gravi patologie.

I meccanismi di difesa dagli stress ossidativi sono rappresentati dai meccanismi di prevenzione (ad esempio la chelazione di ioni metallici quali Fe o Cu per impedire o rallentare la fase di iniziazione delle reazioni a catena) e dall’intercettazione dei radicali tramite antiossidanti (“scavenging activity”): in quest’ultimo caso le specie reattive vengono disattivate attraverso la formazione di prodotti finali non radicalici.

Alcuni importanti composti antiossidanti (superossido dismutasi, catalasi, glutatione perossidasi) vengono sintetizzati dal metabolismo umano; altri vengono assunti con la dieta,

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come ad esempio le vitamine (vitamina C, vitamina E, β-carotene) e i composti fenolici. Molte patologie nelle quali sono implicati gli stress ossidativi possono essere prevenute o ritardate in qualche misura da modificazioni della dieta, quali l’aumento del consumo di frutta, cereali e prodotti orticoli: svariati test effettuati in vitro e in vivo e diversi studi epidemiologici hanno dimostrato quanto gli antiossidanti naturali presenti nella dieta siano importanti nel diminuire gli effetti cumulativi del danno ossidativo causato dalle specie reattive di ossigeno e azoto.

Nella figura 2 vengono riassunte le principali specie reattive implicate nei danni ossidativi ed i meccanismi di difesa.

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3. ATTIVITA’ BIOLOGICHE DEGLI ESTRATTI

DI CARCIOFO

Gli estratti di Cynara scolymus L. manifestano in vitro e in vivo marcati effetti epatoprotettivi, coleretici e ipocolesterolemici a carico del sistema epatico.

Le proprietà diuretiche e stimolatrici della secrezione biliare, possedute dai decotti radicali e fogliari del carciofo (Asteracea originariamente studiata e descritta da Teofrasto nel IV sec A.C. e successivamente da Galeno), erano ben note in epoca medievale. Nel ‘900 la ricerca scientifica sulle proprietà del carciofo prosegue con rinnovato interesse, soprattutto in seguito agli studi di Leclerc (1928) e Brel (1930), i quali evidenziano le proprietà “epatostimolanti” degli estratti fogliari di Cynara, preconizzate dai medici del ‘700. Tutte le ricerche immediatamente seguenti (Chabrol nel 1931 ; Rosa, Begge e Dettori, Tixier, Eck e Desbordes nel 1934, Schonholzer nel 1939) si concentrano quindi sulle possibili interferenze biochimiche fra gli estratti di carciofo e il metabolismo epatico del colesterolo : alla composita vengono attribuite spiccate attività di stimolo della coleresi (aumento del flusso biliare e quindi dell’eliminazione di colati), attività ipocolesterolemiche (riduzione del livello di colesterolo ematico) e generali azioni epatoprotettive a carico degli epatociti e dei tessuti epatici; a queste prime evidenze sperimentali seguono le prime prove cliniche per saggiare le potenzialità terapeutiche e applicative degli estratti di carciofo nei confronti delle aterosclerosi e delle epatopatie. Negli anni ’50, in seguito alle ricerche di Panizzi e colleghi, l’attenzione si concentra sulla famiglia chimica degli acidi clorogenici (Panizzi e Scarpati, 1954; Panizzi et al.,1954; Preziosi, 1962; Scarpati e Esposito,1964; Panizzi e Scarpati, 1965). Dagli estratti di carciofo (generalmente delle foglie basali) viene isolato un gruppo di sostanze o-difenoliche di cui i principali componenti risultano essere l’acido 5-O-caffeilchinico (acido clorogenico), l’acido 1,5 dicaffeilchinico (cinarina) e l’acido caffeico (prodotto di idrolisi dei due precedenti). Ma negli estratti di carciofo non sono presenti soltanto o-difenoli : parallelamente alle ricerche italiane sugli acidi clorogenici, nel 1956 Masquelier e Michaud isolano per la prima volta dal carciofo dei flavonoidi bioattivi : un flavone, la luteolina, e i suoi due coniugati cinaroside (luteolina glucoside) e scolimoside (luteolina 7-O-ß-ramnoglucoside), la cui presenza è stata confermata a più riprese da ricerche successive (El Negoumy et al., 1987; Hammouda et al.,1993).

Gli estratti biologicamente attivi del carciofo risultano essere quindi caratterizzati da una composizione fenolica complessa; nella figura 3 vengono riportate le principali sostanze bioattive contenute nella composita.

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Fig. 3: principali sostanze bioattive contenute nel carciofo.

Non siamo, quindi, di fronte ad un unico principio attivo ma piuttosto ad una miscela eterogenea di composti dotati di specifiche attività biologiche.

L’azione antiossidante degli estratti di carciofo è da imputare soprattutto alle scavenging activities dell’acido clorogenico e della luteolina, ma anche dell’acido caffeico e della cinarina, ed è direttamente connessa con gli effetti epatoprotettivi (epatociti e tessuti epatici) nei confronti di sostanze tossiche esogene (ad es., il tertracloruro di carbonio, CCl4) e dei

radicali liberi prodotti da stress ossidativi (Kraft,1997; Gebhardt,1997).

I riflessi terapeutici dell’attività antiossidante dell’acido clorogenico non si limitano tuttavia ai generali effetti epatoprotettivi, in quanto contribuiscono anche alla prevenzione delle malattie aterosclerotiche tramite una marcata attività inibitoria della ossidazione delle LDL (direttamente responsabile della formazione delle placche aterogeniche) (Brown e Rice-Evans,1998).

L’azione di stimolo della coleresi ha come conseguenza fisiologica la riduzione del colesterolo epatico; dato che la secrezione biliare rappresenta nel metabolismo epatico il modo preferenziale di eliminazione del colesterolo, gli estratti di carciofo possono indurre una effettiva riduzione del tasso plasmatico di colesterolo in conseguenza dello stimolo esercitato sull’intensità del flusso biliare di eliminazione dei colati.

L’azione coleretica è dovuta principalmente alla presenza negli estratti di carciofo dell’acido clorogenico e della cinarina, ed è documentata da diversi studi in vivo e da prove cliniche controllate (Preziosi, 1962; Kirchhoff et al.,1994 ; Gebhardt, 1996 ; Fintelmann, 1996).

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L’aumento della secrezione biliare è probabilmente causato da una maggiore produzione di acidi liberi (Kirchhoff et al.,1994) e si verifica in concomitanza dell’aumento del numero e delle dimensioni dei dotti biliari di secrezione.

Lo stimolo della coleresi rende l’estratto di carciofo un utile rimedio terapeutico nel trattamento delle diffuse sindromi dispeptiche (caratterizzate da stomaco irritabile, nausea, gastropatie nervose, meteorismo, colon irritabile e disturbi funzionali del tratto biliare). L’attività di inibizione della biosintesi epatica del colesterolo secondo le più recenti acquisizioni è direttamente imputabile alla luteolina presente negli estratti in forma libera o derivante dal metabolismo gastrico del coniugato cinaroside (Kraft,1997 ; Brown e Rice-Evans, 1998).

E’ dimostrato che la luteolina causa inibizione della biosintesi de novo del colesterolo fino al 60 % a concentrazioni di 30 µM (Kraft,1997), e una riduzione dell’80 % è raggiungibile sperimentalmente con concentrazioni poco superiori (Gebhardt,1996); la luteolina può infatti modulare l’attività della HMG-CoA reduttasi —l’enzima-chiave della biosintesi del colesterolo — tramite attivazione di meccanismi di inibizione.

Quindi le proprietà di prevenzione delle malattie aterosclerotiche possedute dagli estratti di Cynara scolymus L. sono causate dalla presenza di due concomitanti ma biochimicamente distinti meccanismi di azione :

a) riduzione della biosintesi de novo del colesterolo dovuta alla luteolina;

b) inibizione della formazione delle placche aterogeniche come conseguenza dell’inibizione della ossidazione delle LDL, dovuta all’azione parallela dell’acido clorogenico e della luteolina.

E’ da sottolineare che l’azione ipocolesterolemica degli estratti di carciofo non comporta l’effetto collaterale dell’accumulo di steroli indesiderati come avviene di norma utilizzando gli inibitori sintetici diretti dell’HMG-CoA reduttasi.

In campo biomedico nel corso degli anni sono state condotte con successo svariate prove cliniche controllate per dimostrare in vivo le suddette attività biologiche degli estratti di carciofo e le sue potenziali applicazioni terapeutiche: sono stati confermati l’effetto ipocolesterolemico (Fintelmann,1996; Dorn, 1995/1996; Pittler e Ernst, 1998) e l’azione di stimolo della coleresi (Kirchhoff et al.,1994) su gruppi di pazienti volontari; gli estratti disponibili commercialmente risultano essere ottimamente tollerati, manifestano pochissimi o nulli effetti collaterali e possono rappresentare una reale alternativa fitoterapeutica nella prevenzione delle aterosclerosi secondarie e nelle sindromi dispeptiche (Kraft, 1997).

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In conclusione, le più recenti ricerche suggeriscono che l’intero complesso di composti fenolici presenti nel carciofo (fra i quali l’acido clorogenico è quantitativamente preponderante) può contribuire alle bioattività epatoprotettive, antiossidanti, ipocolesterolemiche e coleretiche manifestate dagli estratti: s’ipotizza quindi un’azione sinergica dei diversi componenti nell’ambito del metabolismo epatico (Gebahardt, 1997). Recentemente inoltre è stato ipotizzato che l’acido clorogenico sia il primo inibitore naturale specifico della glucosio-6-P-tranlocasi (componente della glucosio-6-fosfatasi), enzima-chiave della regolazione del tasso di glucosio sanguigno e quindi bersaglio terapeutico in diverse forme di diabete mellito (Hemmerle et al.,1997; Arion et al.,1997).

Nella figura 4 vengono riassunti i principali meccanismi di azione degli estratti di Cynara scolymus L. (da Kraft, 1997).

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4. I COMPOSTI FENOLICI

Come descritto in precedenza gli estratti biologicamente attivi del carciofo sono costituiti essenzialmente da composti fenolici, tra i quali predomina l’acido clorogenico.

Col termine di composti fenolici, sono definiti tutti quei metaboliti secondari sintetizzati attraverso la via dell’acido scichimico e costituiti da uno o più gruppi fenolici.

Questa categoria di composti, se non la più importante, è certamente la più studiata del metabolismo secondario; la variabilità molecolare e l’ampia distribuzione nel regno vegetale, fa di queste molecole un argomento di studio estremamente interessante, sia per quanto riguarda il loro ruolo nei processi fisiologici e biochimici, e per la loro partecipazione ai meccanismi di difesa chimica dai predatori e dai fattori ambientali, sia per i loro effetti benefici sull’organismo umano.

Dal punto di vista strutturale, i composti fenolici possono essere suddivisi in due gruppi principali che a sua volta si dividono in vari sottogruppi: i fenoli semplici o monometrici con peso molecolare (P.M.) compreso tra 100 e 200 Dalton e i fenoli polimerici con peso molecolare compreso tra 2000 e 3000 Dalton.

Sono fenoli semplici gli Acidi idrossibenzoici con struttura molecolare di base C6-C, i

Fenilpropanoidi o derivati cinnamici con struttura di base C6-C3 e i Flavionoidi con struttura

di base C6-C3-C6; sono Fenoli polimerici i Tannini idrolizzabili con struttura di base (C6-C)n ,

le Lignine con struttura di base (C6-C3)n e i Tannini condensati con struttura di base (C6-C3

-C6)n.

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5. L’ACIDO CLOROGENICO

5.1 Chimica dell’acido clorogenico

L’acido clorogenico (acido 5-O-caffeilchinico) è un depside formato dal prodotto di esterificazione di una molecola di acido caffeico con una molecola di acido chinico che mostra una marcata tendenza all’isomerizzazione per transesterificazione dell’acido caffeico sui quattro ossidrili dell’acido chinico (Scarpati e Esposito, 1954). Dato che l’acido chinico contiene tre gruppi idrossilici che possono formare un legame estere con il gruppo carbossilico dell’acido caffeico, nel gruppo degli acidi mono-caffeilchinici sono possibili tre isomeri: acido clorogenico (acido 5-O-caffeilchinico, C16H18O9 , p.m.=354 ), acido

criptoclorogenico (acido 4-O-caffeilchinico) e acido neoclorogenico (acido 3-O-caffeilchinico) (Fuchs e Spiteller, 1996).

Fig.6: Isomeri dell’acido clorogenico ( 1 = acido 5-O-caffeilchinico o clorogenico;

2 = acido 4-O-caffeilchinico o criptoclorogenico; 3 = acido 3-O-caffeilchinico o

neoclorogenico).

Per ogni forma sono possibili due isomeri ottici: la forma naturale, come per tutti gli idrossicinnamati, è trans (Z), ma anche brevi esposizioni alla luce visibile e UV sono sufficienti per isomerizzare il doppio legame dell’acido caffeico, con formazione dell’isomero ottico cis (E) (Fuchs e Spiteller, 1996; Faulds e Williamson,1999).

La presenza di un gruppo estere rende l’idrolisi (acida, basica o enzimatica) un semplice metodo di degradazione dell’acido clorogenico: i prodotti di idrolisi sono acido caffeico e acido chinico; gli acidi mono-caffeilchinici e i composti ad essi correlati vengono facilmente

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ossidati sia aerobicamente a pH alcalino, sia enzimaticamente per azione della polifenolossidasi (PPO). In presenza di ossigeno questi composti vengono ossidati dalla PPO a o-chinoni, i quali si polimerizzano con zuccheri e aminoacidi in composti melanoidinici scuri: il fenomeno è noto come “imbrunimento enzimatico”.

Alla famiglia degli acidi clorogenici appartiene anche l’acido 1,5-dicaffeilchinico (C25H24O12;

P.M.=516 ), comunemente detto cinarina, isolato per la prima volta da estratti di Cynara scolymus L. e sintetizzato nel 1954 (Panizzi e Scarpati,1954; Panizzi et al.,1954). Chimicamente è un tridepside formato dal prodotto d’esterificazione di due molecole di acido caffeico con una molecola di acido chinico (Panizzi e Scarpati, 1954).

5.2 Biosintesi dell’acido clorogenico

Gli acidi clorogenici sono metaboliti secondari fenilpropanoidi, ossia sostanze dotate dello scheletro basilare C6-C3 della fenilalanina, e come tali derivano biosinteticamente dall’acido cinnamico.

L’acido cinnamico prende origine dalla fenilalanina (PA) per azione della fenilalanina deaminasi (PAL), enzima-chiave della ramificazione tra il metabolismo primario della via dello scichimato e il metabolismo secondario fenilpropanoide (Friedman, 1997). Il sentiero biosintetico dello scichimato si trova in batteri, funghi e piante; la sua sequenza metabolica, illustrata nella figura 7, converte i due metaboliti primari fosfoenolpiruvato (PEP) ed eritrosio-4-P ad acido corismico, precursore dei tre aminoacidi aromatici tirosina, triptofano e fenilalanina (PA) (Herrmann, 1995).

La via di sintesi che dalla Fenilalanina, porta alla formazione dell’acido clorogenico, è ancora causa di dibattito nel mondo scientifico, tuttavia le principali tre vie metaboliche ipotizzate vengono rappresentate nella figura 8. Tra le tre, la via biosintetica, attualmente, più supportata da evidenze sperimentali, è la numero1.

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Fig.8: biosintesi dell’acido Clorogenico a partire dalla Fenilalanina (da Niggeweg et al.,2004). (Le tre differenti vie metaboliche sono contrassegnate con i numeri 1,2 e 3. C4H, cinnamato 4-idrossilasi; 4CL, 4-idrossicinnamoil CoA ligasi; PAL, fenilalanina ammonio liasi; C3H, p-cumarato 3’-idrossilasi; HQT, idrossicinnamoil CoA chinato trasferasi; HCT, idrossicinnamil CoA scichimato/chinato trasferasi; UGCT, UDP glucosio cinnamato trasferasi; HCGQT, idrossicinnamil D-glucosio chinato trasferasi.)

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5.3 Diffusione degli acidi clorogenici in alimenti di origine vegetale

I valori riportati nel presente paragrafo, dove non altrimenti indicato, si intendono riferiti al peso fresco (mg x Kg -1di peso fresco).

- Asteraceae:

Questa ampia famiglia riunisce molte specie vegetali di interesse agroalimentare caratterizzate da un notevole contenuto endogeno di idrossicinnamati ed in particolare di acidi clorogenici. Le foglie di lattuga e cicoria contengono molti esteri caffeici, in particolare acido cicorico (acido dicaffeil tartarico): i contenuti totali in idrossicinnamati sono rispettivamente circa 50-120 mg x kg -1 e 20 mg x kg –1 (Winter e Herrmann,1986).

Il carciofo (Cynara scolymus L.), che è stato ripetutamente studiato per il suo contenuto di idrossicinnamati (nelle foglie, negli steli e nei capolini ), presenta un contenuto totale medio di acidi caffeilchinici di oltre 450 mg x kg –1 (Winter et al.,1987). Il carciofo è caratterizzato da significative quantità di acidi dicaffeilchinici, fino a 0.8-1.3 g Kg –1 di peso secco nei capolini (Lattanzio e Morone, 1979), in particolare di acidi 3,5-dicaffeilchinico e 1,5-dicaffeilchinico (Ben Hod et al.,1992; Fritsche et al., 2002);

- Patate e altre Solanacee:

I tuberi di patata contengono acidi clorogenici (da 500 a 1200 mg x kg –1 di peso secco, alla raccolta), rappresentati soprattutto da acidi caffeilchinici e da acidi dicaffeilchinici. Il contenuto nella patata aumenta lentamente durante la conservazione (soprattutto alla luce) e in seguito a lesioni da ferita.

Anche la polpa e la buccia di pomodoro mostrano un alto contenuto di idrossicinnamati, in particolare acidi caffeilchinici e corrispondenti glucosidi (Clifford,1999).

- Caffè:

I chicchi di Coffea rappresentano una delle fonti dietetiche quantitativamente più ricche di acidi clorogenici; il loro contenuto in caffè e derivati è stato oggetto di numerosi studi quali-quantitativi sin dalla metà del secolo scorso, e si può affermare che l’esistenza degli acidi clorogenici sia stata ipotizzata proprio nei primi studi chimici sul caffè. A seconda della specie, i chicchi verdi contengono il 6-10% di acidi clorogenici sulla base del peso secco; durante la tostatura avvengono progressive trasformazioni che comportano perdite dell’8-10% per ogni 1% di perdita della sostanza secca, ma nonostante questo ne rimangono considerevoli quantità nelle comuni miscele e nelle polveri solubili commerciali. Dati recenti stimano che una tazza da 200 ml di caffè può contenere da 70 a 350 mg di acidi clorogenici (Clifford,1999). Il caffè tostato contiene anche particolari lattoni dell’acido clorogenico.

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- Mele, pere e succhi provenienti da Pomacee:

Le mele sono uno dei frutti più studiati per il contenuto in idrossicinnamati. Gli acidi clorogenici, fra i quali l’acido 5-O-caffeilchinico è sempre quantitativamente dominante, vi sono contenuti sia nella polpa sia nella buccia, con valori compresi fra 62-385 mg x Kg –1, anche se la composizione può variare fortemente in funzione della varietà (le varietà da sidro sono più ricche delle varietà da mensa) e dei trattamenti termici subiti durante il processing industriale. Anche le analisi su pere e succhi di pera evidenziano un contenuto simile, variabile da 60 a 280 mg x Kg -1 nel frutto intero, e fino a 240 mg x L-1 nel succo (Clifford, 1999).

- Uva e vino:

L’uva è caratterizzata dalla presenza di cis- e trans-cinnamiltartrati (esteri dell’acido tartarico), rappresentati soprattutto da acido caftarico (acido caffeiltartatrico) e acido cutarico (acido cumariltartarico), mentre sono praticamente assenti i classici acidi clorogenici (Clifford, 1999).

- Tè:

Nelle foglie di thè sono contenute, oltre alla caratteristica teogallina, anche consistenti quantità di acidi caffeilchinici : sono state riportate quantità variabili da 10 a 50 g x kg -1 (Clifford, 1999), anche se non sono disponibili dati relativi agli infusi.

- Brassicacee:

I broccoli contengono fino a 60 mg x Kg –1 di acidi clorogenici, mentre cavolfiore e radicchio presentano valori minori, circa 20 mg x kg –1 (Clifford, 1999).

- Mirtilli e More:

Mentre le more contengono circa 70 mg x Kg –1 di acidi caffeilchinici, i mirtilli contengono quantità molto maggiori di acidi clorogenici, variabili da 500 a 2000 mg x Kg –1 (Clifford, 1999).

5.4 Ruolo fisiologico degli acidi clorogenici nelle piante superiori

I derivati del metabolismo fenilpropanoide comprendono un’ampia gamma di diverse classi strutturali e manifestano una molteplicità di azioni fisiologiche.

Questi metaboliti secondari, prendono origine dalla reazione di deaminazione della fenilalanina ad acido cinnamico per azione della fenilalanina deaminasi (PAL): da questo nucleo di reazioni-chiave si dipartono complessi sentieri metabolici che portano alla formazione di importanti classi di composti polifenolici, a diverso grado di complessità

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strutturale, tra i quali flavonoidi e isoflavonoidi, antociani, cumarine, suberina, lignina, ed gli acidi clorogenici.

Il complesso metabolismo dei fenilpropanoidi è influenzato da una molteplicità di stress biotici ed abiotici, tra i quali gli attacchi di patogeni e gli stress da ferita; in generale la riparazione delle lesioni richiede lignina e suberina, e la difesa dai patogeni è associata alla sintesi di composti antimicrobici fenolici (Dixon e Paiva, 1995; Friedman, 1997; Tomas-Barberan et al., 1997; Loiaza-Velarde et al., 1997); l’accumulo di polifenoli nei tessuti adiacenti il tessuto danneggiato è stato comunque osservato in molte specie di piante superiori e in diversi tipi di frutti (Friedman,1997). Nella figura 9 sono riassunti alcuni esempi di fenilpropanoidi indotti da stress di diversa natura.

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Gli acidi clorogenici vengono indotti in risposta a stress da ferita o per attacchi di organismi patogeni; il loro accumulo nelle risposte di difesa è stato rilevato in molte specie vegetali (Smith et al., 1981; Lyon et al., 1990; Matern e Kneusel, 1988).

Esperimenti con piante transgeniche di tabacco con soppressione dell’espressione della PAL hanno chiarito l’importante ruolo svolto dagli acidi clorogenici nel limitare l’infezione di patogeni fungini quali Cercospora nicotianae: il tasso di sviluppo delle lesioni risulta molto maggiore in piante con ridotti livelli di acido clorogenico; analogamente in tuberi di patata transgenici con soppressa espressione della PAL si ha un minore livello di acido clorogenico indotto da patogeni e una maggiore sensibilità a Phytophtora infestans (Dixon e Paiva, 1995). Si può quindi affermare che i livelli endogeni delle sostanze fenoliche non risultano mai costanti ma essere influenzati oltre che dallo stato fenologico e dal genotipo della pianta, anche da stress biotici e abiotici.

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6. MICORRIZE ARBUSCOLARI

Le micorrize sono associazioni simbiotiche tra i funghi del terreno e le radici di molte specie di piante. Ne traggono beneficio sia le piante, con un miglioramento dell’assorbimento di sali dal terreno, che i funghi, assorbendo dalle radici della pianta i composti del carbonio sintetizzati con la fotosintesi da quest’ultima.

In una recente review sono affrontati tutti gli aspetti nutrizionali e biologici della simbiosi micorrizica, e le possibili applicazioni biotecnologiche in agricoltura (Giovannetti & Avio, 2002).

In natura sono state individuate diverse tipologie di micorrize, che differiscono tra loro sia morfologicamente che fisiologicamente a seconda del tipo di fungo e di pianta ospite.

Le tipologie di simbiosi più comuni sono: Ectomicorrize, Ectoendomicorrize e Endomicorrize.

Studi sulla distribuzione delle associazioni micorriziche hanno evidenziato che il tipo di micorriza predominante e il caratteristico modello di simbiosi dipendono da fattori climatici, dalla latitudine, dall’altitudine e da fattori nutrizionali.

All’interno del gruppo delle endomicorrize il tipo maggiormente rappresentato è quello delle micorrize arbuscolari (AM), che hanno una distribuzione a livello mondiale e si riscontrano nell’80% delle specie di piante. Queste simbiosi sono instaurate da funghi appartenenti al phylum Glomeromycota, simbionti obbligati, che dopo aver instaurato la simbiosi con la pianta ospite, sono in grado di produrre spore che possono germinare nel terreno ma non formare miceli estesi e completare il loro ciclo vitale in assenza di una pianta ospite (Logi et al., 1998). I funghi AM sono abbondantemente distribuiti nell’ecosistema naturale e agrario e producono micorrize in quasi tutti i campi coltivati di importanza agronomica.

I funghi AM differiscono tra loro per caratteristiche morfologiche come forma, colore, dimensioni, la struttura della parete delle spore, la struttura delle ife, formazione degli sporocarpi, tipo di germinazione delle spore e piante infettate, utilizzate per distinguere le varie specie tra loro.

I primi lavori di tassonomia collocavano i funghi AM all’interno della famiglia delle Endogonacee, con quattro generi, Glomus, Gigaspora, Acaulospora e Sclerocystis e ventinove specie; da allora sono state identificate più di 150 nuove specie (citato in Giovannetti & Avio, 2002).

I lavori di Morton e Benny portarono alla creazione dell’ordine dei Glomales, all’interno del quale furono inserite tutte le specie che davano origine a micorrize arbuscolari, considerando

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proprio questo il carattere distintivo dell’ordine; inoltre in base al modo di formazione delle spore furono identificate tre famiglie, Glomaceae, Acaulosporaceae, Gigasporaceae e sei generi Glomus, Ginaspora, Acaulospora, Sclerocystis, Entrophospora, Gigaspora e Scutellospora (citato in Giovannetti & Avio, 2002).

La struttura tassonomica di Morton e Benny è stata largamente supportata dagli studi sistematici molecolari, che hanno confermato la presenza di un singolo ordine e la suddivisione in tre famiglie.

6.1 Pianta ospite e simbiosi fungina

I funghi AM sono pressoché presenti in tutti i phyla delle piante terrestri, eccetto nei generi e nelle specie appartenenti alla famiglia delle Brassicaceae, delle Chenopodiaceae e quella delle Cyperaceae, e nelle piante di genere e famiglia che formano altri tipi di micorrize (citato in Govannetti & Avio, 2002).

Le più importanti piante coltivate dei climi temperati e tropicali formano micorrize arbuscolari: cereali, incluso riso, mais, orzo e grano, molti legumi, molti alberi da frutto come limone, pesco,vite e olivo, molti vegetali tra cui aglio, pomodoro, carciofo, patata e fragola, e altre specie economicamente importanti come girasole, manioca, cotone, canna da zucchero, tabacco, caffè, thè, cacao e banano (citato in Giovannetti & Avio, 2002).

Questi funghi non mostrano preferenze per specifici singoli ospiti, e proprio questa loro caratteristica è stata interpretata come una ottima strategia che ha permesso a questi funghi di sopravvivere per più di 400 milioni di anni (Logi et al., 1998).

6.2 Sviluppo e struttura della simbiosi

Il ciclo vitale dei funghi AM ha inizio con la germinazione delle spore, dà origine ad un micelio pre-simbiontico che è in grado di riconoscere la pianta ospite e produrre strutture infettive, gli appressori, sulla superficie della radice. Dagli appressori si originano ife infettive che crescono all’interno delle radici, sia lungo l’asse longitudinale delle radici, che all’interno delle cellule, dove formano strutture a forma di alberello, gli arbuscoli, sedi in cui si pensa avvengano gli scambi di nutrienti tra la pianta e il fungo; di fatti dopo aver stabilito la simbiosi il fungo assorbe composti carboniosi dall’ospite, essenziali per lo sviluppo del micelio extraradicale, che esplorando il terreno è in grado di assorbire sali minerali e passarli alla pianta ospite.

Gli arbuscoli sono strutture essenziali al fine della simbiosi, di fatti è proprio la loro presenza che caratterizza il phylum ed è stato dimostrato che la loro formazione avviene già 42 ore

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dopo il primo contatto tra la spora germinata e la radice (Giovannetti et al., 1993). Tuttavia non bisogna scordare che la velocità di sviluppo degli arbuscoli dipende da fattori come lo stato nutritivo dell’ospite, la luce e lo stato fenologico dell’ospite.

Il micelio extraradicale consiste in un grande intreccio di ife che si diramano dalle radici infettate nel terreno circostante ed è definito dimorfico, in quanto costituito da ife grossolane con diametro di 8-P GDOOH FXL HVWUHPLWà si estendono ife molto fini con funzione di assorbimento dei sali dal terreno (Bago et al., 1998). Lo sviluppo del micelio extraradicale è regolato dall’estensione dell’infezione radicale, dallo stato nutrizionale dell’ospite e dalle condizioni ambientali, tutti parametri che influiscono anche sulla formazione delle spore.

6.3 Assorbimento di nutrienti e trasporto alla pianta ospite

Studi ben documentati hanno evidenziato che la formazione di micorrize arbuscolari influisce positivamente sulla crescita delle piante, aumentando il contenuto di fosforo nella pianta ospite (Smith et al., 1997; Smith et al., 1988; Harley et al., 1983; Abbott et al., 1983).

Molti esperimenti hanno dimostrato come la simbiosi micorrizica abbia un effetto sulla crescita della pianta simile a quello ottenuto con l’aggiunta di fosforo (P) nel terreno; difatti ricerche successive hanno evidenziato che le piante micorrizate mostrino un miglior assorbimento di P (citato in Giovannetti & Avio, 2002). Tuttavia l’aumento dell’assorbimento di P varia a seconda della pianta, del fungo in simbiosi e dalla disponibilità di P nel terreno. L’uso di composti radioattivi ha portato a determinare che il P è assorbito dai funghi micorrizici dal terreno, evidenziando che le piante micorrizate utilizzano la stessa fonte di P delle piante non micorrizate (citato in Giovannetti & Avio, 2002).

Di fatti il vantaggio apportato dalla simbiosi micorrizica alla pianta ospite non risiede nell’utilizzazione di fonti di P alternative, ma nel fatto che essendo il P un elemento poco mobile, nel terreno circostante le radici viene subito esaurito, poiché la velocità di assorbimento risulta più elevata della capacità del terreno di rifornirsi; così nelle piante non micorrizate si verifica una carenza di questo minerale, cosa che non accade nelle piante micorrizate, dato che le ife extraradicali estendendosi nel terreno più abbondantemente e velocemente delle sole radici riescono ad assorbire il P da zone più ricche ed a passarlo alla pianta ospite.

Il rilascio del P dalle ife alle cellule della radice avviene negli arbuscoli ed è mediato da polifosfatasi e fosfatasi alcaline (citato in Giovannetti & Avio, 2002).

Altri studi hanno evidenziato sia come i funghi AM siano implicati anche nell’assorbimento di altri elementi presenti nel suolo come N, Zn, Ca, S, sia l’instaurarsi di scambi di sostanze

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carboniose, azoto e fosforo tra piante interconnesse da funghi AM (citato in Giovannetti & Avio, 2002).

6.4 Trasporto di carbonio al fungo simbionte

Alla base del mutualismo nelle simbiosi micorriziche arbuscolari vi è l’apporto di fosforo e altri minerali da parte del fungo alla pianta, ma anche il passaggio di sostanze organiche carboniose dalla pianta al fungo che essendo simbionte obbligato, senza di queste non riuscirebbe a sopravvivere e ad accrescere la sua biomassa.

Questo trasporto di sostanze organiche è stato dimostrato da numerosi esperimenti effettuati utilizzando carbonio marcato C14, attraverso i quali è stato anche possibile stabilire la quantità e le tipologie di composti traslocati al fungo (citato in Giovannetti & Avio, 2002).

Tuttavia il sito di scambio non è stato ancora definitivamente stabilito, dato che alcune evidenze suggeriscono che le sostanze carboniose possano essere traslocate al fungo tramite le ife intercellulari anziché attraverso gli arbuscoli. Alcune osservazioni inoltre indicano che all’inizio della colonizzazione delle radici, la crescita del fungo sia molto più elevata prima della formazione degli arbuscoli (citato in Giovannetti & Avio, 2002).

In aggiunta, studi citochimici, sottolineano che le ATP-asi fungine siano distribuite prevalentemente nella membrana delle ife intercellulari e non negli arbuscoli (citato in Giovannetti & Avio, 2002).

6.5 Effetti non nutrizionali dei funghi arbuscolari

Oltre ai cambiamenti metabolici, innescati nelle piante ospiti, dalla micorrizazione, trattati specificamente nel capitolo 7, uno degli effetti non nutrizionali più importanti risulta essere collegato alla capacità dei funghi arbuscolari di aumentare e mantenere l’aggregazione del terreno, contribuendone così alla fertilità, di fatti le ife fungine extraradicali danno vita ad un fitto micelio che riesce ad aggregare tra loro le particelle del terreno, sia attraverso un’azione prettamente meccanica, sia attraverso la liberazione nel terreno di una glicoproteina, detta “glomalina”, che riesce a legare tra loro le particelle del terreno. Proprio questa proteina è stata estratta dal terreno colonizzato dalle ife extraradicali in quantità pari a 2,8-14,8 mg/g. Ci sono poi evidenze di un aumento della resistenza agli stress idrici da parte di piante sia coltivate che native infettate da funghi AM, caratteristica che sembra essere correlata a: 1) alto tasso di traspirazione, con un adeguato grado di umidità del terreno

2) basso tasso di traspirazione per unità di area fogliare

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Tuttavia non è ancora chiarito il meccanismo che porta a questo tipo di resistenza (citato da Amiel et al., 2000). La maggior parte degli studi eseguiti su piante micorrizate e su piante controllo non infettate, hanno evidenziato che l’aumento di resistenza allo stress idrico ed i relativi cambiamenti strutturali correlati siano una conseguenza dell’aumento del contenuto di P nei tessuti delle piante micorrizate (citato da Amiel et al., 1992).

Altri autori invece sostengono che la simbiosi con funghi AM alteri la fisiologia della pianta, portando ad una maggiore resistenza allo stress idrico, indipendentemente dall’aumento della concentrazione di P nei tessuti (citato da Amiel et al., 1992)

Inoltre i funghi AM possono migliorare la resistenza della pianta ai patogeni presenti nel terreno, di fatti sembra che la presenza nelle radici di funghi AM sia sufficiente per prevenire la colonizzazione da parte di patogeni (citato da Amiel et al., 1992); un esempio è che Glomus intraradices e Glomus mosseae aumentano la resistenza alle infezioni di patogeni in piante di tabacco e pomodoro (citato in Giovannetti & Avio, 2002).

Tuttavia alcune pubblicazioni riportano un aumento della gravità delle malattie in piante micorrizate (citato in Giovannetti & Avio, 2002), a rilevare che l’interazione tra piante, patogeni, funghi AM e l’ambiente è complessa ed imprevedibile.

Come motivazione dell’aumentata resistenza ai patogeni di certe piante micorrizate con funghi AM sono stati considerati moltissimi fattori, come per esempio un aumento dello stato nutrizionale della pianta ma recentemente sembra che il merito del ruolo protettivo dei funghi arbuscolari sia stato individuato nella popolazione di microbi antagonisti presenti sulle spore e sulle ife fungine, la micorrizosfera.

Inoltre la presenza dei funghi AM in molti casi aumenta la resistenza della pianta ai danni provocati dai nematodi e sembra che quest’effetto non sia imputabile ad un aumento dello stato nutrizionale, visto che piante controllo non micorrizate ma con ugual contenuto di P non mostrano questo genere di resistenza(citato da Amiel et al., 1992).

Un altro effetto non nutrizionale è legato alla produzione da parte dei funghi AM di due tipi di sostanze simili alle gibberelline e quattro simili alle citochinine che sembrano influire positivamente sulla crescita della pianta (citato da Amiel et al., 1992).

Inoltre la concentrazione di gibberelline e di ac.abscissico aumentano nelle piante micorrizate (citato da Amiel et al., 1992).

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7. EFFETTI DELLE MICORRIZE ARBUSCOLARI

SUL METABOLISMO

Sin dai primi lavori effettuati negli anni ’90, per valutare la possibile correlazione tra la micorrizazione ed i possibili cambiamenti metabolici nelle piante, si era messo in evidenza come la presenza di funghi micorrizici arbuscolari determinasse aumenti nell’attività di uno degli enzimi implicati nella difesa delle cellule dalle specie reattive dell’ossigeno, la superossido dismutasi (SOD).

Nel 1993 in un lavoro condotto su trifoglio (Trifolium pratense), nelle piante micorrizate con un isolato di Glomus mosseae sono stati individuati due isozimi di superossido dismutasi (SOD) assenti nelle piante non micorrizate, e l’attività di un isozima di SOD presente anche nel controllo era aumentata del 50% (Palma et al., 1993). Nel 1994 è stato visto che in piante di pisello (Pisum sativum) micorrizate l’attività dell’enzima SOD era maggiore di quella riscontrata in piante controllo (Arines et al., 1994). Nel 1996 una prova condotta su piante di lattuga (Lactuca sativa L.) ha evidenziato che piante micorrizate con un isolato di Glomus mosseae in condizioni di stress idrico mostravano nelle foglie un incremento del 100% e nelle radici del 99% dell’attività dell’enzima SOD rispetto a piante controllo non micorrizate ma fertilizzate con un’aggiunta di fosforo; piante micorrizate con un isolato di Glomus deserticola sempre in condizioni di stress idrico mostravano nelle foglie un incremento del 124% e nelle radici del 150% dell’attività dell’enzima SOD sempre nei confronti dello stesso controllo (Ruiz-lozano et al., 1996).

Tutti questi risultati sono stati poi confermati da lavori effettuati negli ultimi cinque anni, che hanno anche messo in evidenza ulteriori effetti della micorrizazione sul contenuto di antiossidanti.

Nel 2001 è stato provato come in piante di soia (Glycine max L.) in simbiosi con batteri azoto fissatori Bradyrhizobium japonicum, la presenza dei funghi micorrizici arbuscolari sia della specie Glomus intraradices che Glomus mosseae, abbia effetti positivi sulla prematura senescenza dei noduli radicali in presenza di stress idrico, di fatti l’analisi dei parametri di senescenza (attività della nitrogenasi nelle radici, contenuto di leghemoglobina, proteine e lipidi nei noduli) mostrava valori decisamente migliori nelle piante micorrizate rispetto alle piante non micorrizate; inoltre essendo la senescenza prematura dei noduli in condizioni di stress idrico correlata con l’aumento dell’ossidazione delle biomolecole, le piante micorrizate mostravano, sempre in condizioni di stress idrico, una netta diminuzione del danno ossidativo a lipidi e proteine rispetto al controllo (Ruiz-lozano et al., 2001).

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Un altro lavoro del 2003 ha evidenziato come l’effetto protettivo delle micorrize sulla prematura senescenza dei noduli, indotta nelle piante di soia dallo stress idrico, sia strettamente correlato con la diminuzione del danno ossidativo a proteine e lipidi, riscontrando un’aumentata attività dell’enzima, coinvolto nella rigenerazione dell’acido ascorbico, glutatione reduttasi (GR), incrementata del 350% nelle radici di piante in simbiosi con batteri azoto fissatori e micorrizate, rispetto a piante controllo in simbiosi con i soli batteri azoto fissatori (Porcel et al., 2003).

Nel 2003 inoltre è stato provato come nei frutti di alcune specie arbustive (Olea europea, Retama sphaerocarpa, Rhamnus lycioides) piantate in un terreno semi-arido, la micorrizazione aumenti notevolmente l’attività degli enzimi catalasi, ascorbato perossidasi, deidroascorbato reduttasi, monodeidroascorbato reduttasi, superossido dismutasi e glutatione reduttasi, sottolineando tuttavia che le percentuali di aumento variano in funzione della pianta considerata e del tipo di fungo utilizzato per la micorrizazione (Alguacil et al., 2003).

Sempre nel 2003 è stato riportato come nelle radici di piante di fagiolo, Phaseolus vulgaris, micorrizate vi sia un significativo aumento dell’attività degli enzimi Superossido dismutasi (SOD), Gluiacol perossidasi (GPX) e Catalasi (CAT), sottolineando anche in questo caso che gli aumenti variano in funzione del fungo micorrizico arbuscolare utilizzato, dalla concentrazione di fosforo nel terreno e dal tempo trascorso tra l’inoculo del fungo ed il campionamento (Lambais et al., 2003).

Tutti questi lavori hanno preso in considerazione solo gli effetti delle micorrize arbuscolari sugli antiossidanti enzimatici coinvolti nell’eliminazione di precise specie reattive dell’ossigeno oppure nella rigenerazione di altri antiossidanti precedentemente ridotti, come l’acido ascorbico.

Uno dei primi lavori che ha cercato di evidenziare una possibile implicazione delle micorrize arbuscolari nell’aumento della sintesi di antiossidanti aspecifici come i carotenoidi, è stato eseguito nel 2000 su piante di grano e mais, basandosi sul fatto che le radici di queste piante, in presenza di funghi micorrizici arbuscolari, assumono una caratteristica colorazione gialla. Questi autori hanno mostrato la presenza nelle radici micorrizate di due distinti gruppi di sostanze, assenti nelle piante controllo non micorrizate, entrambe derivati dei carotenoidi, un gruppo costituito da derivati glicosilati del C13 cicloexenone, mentre il costituente principale dell’altro gruppo era il C14 poliene, detto micorradicina, che era il responsabile della colorazione gialla delle radici; l’accumulo di questi composti avveniva in corrispondenza dell’attivazione nelle radici delle piante micorrizate della “Rhomer pathway”, via di biosintesi dell’isoprene alternativa a quella dell’acido Mevalonico; proprio questa concomitanza ha

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portato gli autori a ipotizzare che questi composti derivino da una scissione ossidativa di un precursore C40 carotenoide, sintetizzato attraverso la “Rhomer pathway”, che dia origine attraverso una scissione ossidativa a due composti C13 cicloexenone derivati ed a un composto C14, la micorradicina. Tuttavia non è ancora stato chiarito se i carotenoidi sintetizzati vadano subito incontro alla scissione ossidativa oppure siano funzionali (Walter et al., 2000).

Nel 2002 è stato poi evidenziato come l’accumolo di micorradicina e dei derivati del cicloexenone, in piante di Zea mays micorrizate, coincida con un aumento della sintesi dell’enzima Fitoene desaturasi (PDS), enzima chiave nella sintesi dei carotenoidi, rinforzando così la validità della via di sintesi precedentemente supposta da Walter et al. (Fester et al. 2002).

Nel 2005 è stato inoltre verificato come l’assenza di micorradicina, e quindi l’assenza di colorazione gialla, in radici di piante micorrizate non indichi necessariamente che in queste non sia stimolata la sintesi dei carotenoidi, di fatti in piante di Centaurea cyanus, Petroselinum crispum, Papaver somniferum, Tagetes erecta, Ruta graveolente, ma soprattutto in Lotus Japonicus e Medicago truncatula, sono state riscontrate alte concentrazioni di derivati glucosidici di C13 cicloexenone ma bassissimi livelli di micorradicina; gli autori hanno spiegato questa carenza di micorradicina, non modificando la possibile via di sintesi di questi composti, confermata anche in questo caso da un aumento nella sintesi dell’enzima Fitoene desaturasi (PDS), indice di un’aumentata sintesi dei carotenoidi, ma ipotizzando che la micorradicina sia trasformata dopo la sintesi in composti non ancora definiti e difficilmente rilevabili (Fester et al. 2005 a).

Altri interessanti risultati sono stati ottenuti con piante di Medicago truncatula micorrizate con un isolato di Glomus intraradices, nelle quali sono stati osservati notevoli cambiamenti metabolici, nei plastidi connessi con l’aumento della sintesi di numerosi aminoacidi, di alcuni acidi grassi e con l’attivazione della “Rhomer pathway”, e nei mitocondri legati all’aumento dell’attività del ciclo degli acidi tricarbossilici (TCA) (Lohse et al. 2005).

L’aumento della sintesi di enzimi antiradicalici e di carotenoidi in piante infettate da funghi micorrizici arbuscolari è correlata all’aumento della presenza di specie reattive dell’ossigeno (ROS) nelle radici infettate; in questo caso la sintesi di questi enzimi e dei carotenoidi avrebbe la funzione di proteggere le cellule dallo stress ossidativo indotto dalla simbiosi fungina (Fester et al. 2005 b).

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8. MICORRIZE ARBUSCOLARI NELLE COMPOSITE

La famiglia delle composite, meno nota come famiglia delle asteracee, appartiene all'ordine delle Asterali, costituita da piante fiorifere, comprende più di 2000 specie. Il nome è dovuto alla caratteristica struttura complessa dei fiori che, come negli Aster o nel tarassaco, sono riuniti in capolini molto compatti. Le varie specie appartenenti alla famiglia delle composite sono distribuite ovunque sul pianeta ad eccezione della zona antartica. Le composite sono particolarmente diffuse nelle regioni semiaride delle zone tropicali e subtropicali, nella tundra artica e alpina e nelle regioni temperate, mentre sono meno comuni nelle foreste pluviali. Le principali specie coltivate sono la lattuga e il carciofo, insieme alle quali bisogna ricordare altre piante utilizzate per l'alimentazione umana come, l'indivia, la scorzobianca, la scorzonera, la cicoria, l'estragone e il girasole. Fra le specie selvatiche bisogna ricordare il tarassaco, il cardo, la camomilla, il fiordaliso, la farfara e il farfaraccio. Fra le specie coltivate per motivi ornamentali si annoverano il tagete, la dalia, la zinnia, la margherita, la cosmea, il crisantemo, il Tanacetum e l’Aster.

Nonostante le molte specie coltivate appartenenti alla famiglia delle composite e la conseguente importanza anche dal punto di vista economico, sono stati effettuati pochi lavori scientifici atti a valutare gli effetti della micorrizazione su piante appartenenti alla famiglia delle composite.

La prima sperimentazione, del 1996, è stata effettuata per valutare gli effetti della micorrizazione, sullo sviluppo e sull’attività dell’enzima antiradicalico superossido dismutasi (SOD) in piante di lattuga (Lactuca sativa L.), in condizioni di stress idrico. In questo lavoro sono stati utilizzati un isolato di Glomus mosseae ed un isolato di Glomus deserticola, verificatisi entrambi molto infettivi: infatti dopo 5 settimane le percentuali di colonizzazione radicale erano rispettivamente del 60% e del 75% e dopo otto settimane del 68% e dell’82%. I risultati di questa prova sottolinearono come le piante micorrizate si sviluppino maggiormente rispetto alle piante controllo. In condizioni di stress idrico, difatti, dopo 5 settimane dall’inoculo, il peso secco fogliare risultava aumentato del 290% nelle piante inoculate con Glomus mosseae e del 150% nelle piante inoculate con Glomus deserticola rispetto a piante controllo non micorrizate. Inoltre questa prova verificò che le piante micorrizate con Glomus mosseae in condizioni di stress idrico mostravano nelle foglie un incremento del 100% e nelle radici del 99% dell’attività dell’enzima SOD rispetto a piante controllo non micorrizzate, e che le piante micorrizate con Glomus deserticola sempre in condizioni di stress idrico mostravano nelle foglie un incremento del 124% e nelle radici del

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150% dell’attività dell’enzima SOD sempre nei confronti dello stesso controllo (Ruiz-lozano et al., 1996).

Un lavoro del 2002 ha fatto poi notare come piante di cardo (Cynara cardunculu L.) micorrizate con Glomus mosseae e con un inoculo isolato ad Alcudia (Valencia, Spagna) da radici di cipolla, abbiano in termini di peso secco fogliare, un aumento rispettivamente del 51% e del 93% rispetto a piante controllo non micorrizate. Anche in questa prova gli isolati si sono verificati molto infettivi, di fatti le percentuali di colonizzazione radicale dopo e otto settimane erano del 70% per Glomus mosseae e del 69% per l’isolato locale (Marin et al., 2002).

9. APPLICAZIONI BIOTECNOLOGICHE DEI FUNGHI AM

9.1 Utilizzazione della biodiversità dei funghi

Secondo il tipo di suolo e le condizioni ambientali gli effetti positivi sullo sviluppo delle piante possono variare notevolmente in base al tipo di fungo AM utilizzato.

Inoltre a causa della elevata complessità dell’interazione esistente tra pianta, fungo utilizzato, terreno e condizioni ambientali non è possibile fare generalizzazioni sugli effetti della micorrizazione; tuttavia nella scelta del fungo si devono seguire alcuni criteri, infatti l’efficienza della simbiosi è il risultato dell’interazione di due caratteristiche fondamentali del fungo, l’infettività e l’efficienza.

L’infettività è definita come la capacità del fungo di stabilire velocemente una elevata colonizzazione micorrizica nelle radici della pianta ospite ed è correlata a fattori inerenti il complesso pianta-terreno-fungo che influenzano la fase pre-simbiotica, dalla germinazione delle spore con formazione del micelio pre-simbiontico, al riconoscimento di quest’ultimo, la differenziazione delle strutture infettive e la colonizzazione delle radici (citato in Giovannetti & Avio, 2002).

L’efficienza dei funghi AM è solitamente misurata in termini di risposta di crescita della pianta ospite.

9.2 Selezione di isolati infettivi ed efficienti

L’utilizzazione biotecnologica dei funghi AM è legata alla disponibilità di isolati altamente infettivi; di fatti la sopravvivenza di un fungo nel terreno è funzione dalla sua capacità di infettare una pianta ospite e di competere con gli altri funghi indigeni presenti nel terreno, resi altamente infettivi dalla selezione naturale.

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Sebbene differenti metodi di propagazione dei funghi possano influenzare l’infettività, sono stati eseguiti molti studi per valutare l’ecologia e la fisiologia delle spore, poiché queste rappresentano il mezzo di propagazione più utilizzato sia in laboratorio sia negli esperimenti di campo.

Quindi i parametri da considerare nella valutazione dell’infettività di un certo isolato sono legati alle caratteristiche delle spore: dormienza, germinazione, crescita pre-simbiotica dell’ifa; altri parametri importanti sono la formazione di appressori e la crescita intraradicale. Durante la selezione dei funghi AM per usi agricoli, oltre all’infettività, l’altro parametro da tenere in considerazione è l’efficienza, che spesso, nonostante siano molti i fattori a determinare le performance simbiotiche, viene misurata solo in termini di nutrizione e crescita della pianta ospite.

Di fatti uno dei parametri più importanti da considerare per valutare l’efficienza del fungo è la capacità di quest’ultimo di sviluppare un esteso micelio extraradicale in grado di esplorare il terreno, assorbire nutrienti minerali, traslocarli e trasferirli alla pianta ospite.

Un altro parametro importante è dato dalla percentuale di biomassa vitale presente in un determinato momento nel terreno, di fatti solo le ife metabolicamente attive sono in grado di assorbire gli elementi minerali. Anche il tasso di flusso del fosforo attraverso le ife intraradicali e extraradicali è utilizzato come dato per valutare l’efficienza degli isolati.

È importante ricordare che la produzione di numerosi appressori oltre che ad aumentare l’infettività comporta anche un aumento di efficienza infettiva, dato che sono gli unici punti di connessione tra il micelio extraradicale e quello intraradicale, e quindi solo attraverso questi i minerali possono passare dalle ife sviluppatesi nel terreno a quelle presenti nelle radici ed essere quindi rilasciati alla pianta ospite.

9.3 Produzione dell’inoculo e tecnica di inoculazione

Nonostante l’incapacità dei funghi AM di crescere in colture pure ne impedisca la produzione in larga scala attraverso l’uso di reattori, sono stati sviluppati diversi metodi per manipolarli , inocularli in opportune piante ospiti, dando vita alle così dette “Pot cultures” , che consentono di riprodurre grandi quantità di inoculo.

Il primo passaggio per produrre una coltura pura di funghi AM consiste nel prelevare una collezione di spore dal terreno. I metodi esistenti per il ritrovamento e la manipolazione delle spore sono molteplici ma il più utilizzato per il recupero delle spore è il “wet-sieving and decanting technique” (Gerdemann et al., 1963). Questo metodo si basa sul fatto che le particelle del terreno sono più grandi delle spore che in acqua quindi tendono a galleggiare.

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Solitamente le spore vengono prelevate dal terreno utilizzando setacci con maglie superiori a PVXFFessivamente tutto il materiale setacciato viene esaminato al microscopio e le spore vengono isolate manualmente usando pipette capillari.

Le spore prelevate sono poi montate su vetrini ed esaminate al microscopio ottico per l’identificazione tassonomica. Le spore una volta identificate vengono inoculate vicino alle radici di un’opportuna pianta ospite in attesa che cresca e stabilisca una simbiosi funzionale. Le piante sono coltivate in vasi all’interno di camere di crescita su substrati come terra, sabbia, argilla espansa e torba, ma solo dopo la loro sterilizzazione con vapore, fumigazione o irradiazioni gamma.

Poiché le micorrize arbuscolari non sono visibili ad occhio nudo, per valutare lo sviluppo dell’infezione fungina e l’assenza di contaminanti, è necessario prelevare dei campioni di radice, decolorarli, solitamente con KOH, colorarli con Trypan Blu o altre sostanze ed osservarli al microscopio ottico (Vierheilig et al., 1998).

Una volta verificato che il livello di infezione sia sufficientemente elevato e l’assenza di contaminanti, circa 10-20 g di terra possono essere prelevati da ogni vaso ed essere utilizzati come inoculo per un nuovo ciclo. Nonostante tutti i metodi oggi utilizzati per la produzione di inoculi siano molto costosi, l’utilizzo di funghi AM in agricoltura è in costante aumento, grazie ai numerosi effetti positivi sulle coltivazioni.

Uno dei sistemi di produzione che beneficia di più dell’utilizzo dei funghi AM è la micropropagazione, in quanto attenua enormemente gli effetti dello stress da trapianto durante il passaggio dal sistema in vitro a quello in vivo (citato in Giovannetti & Avio, 2002).

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10. SCOPO DELLA TESI

Lo scopo della tesi è stato quello di valutare, in piante di carciofo, l’effetto della micorrizazione, sulla crescita, sul contenuto totale di fenoli e sul potere antiradicalico degli estratti fogliari.

La presenza di alte concentrazioni di specie reattive dell’ossigeno (ROS) nelle cellule è estremamente dannosa sia per i vegetali che per gli esseri umani, poiché queste molecole, essendo molto reattive, ossidano con facilità molte classi di composti del carbonio fondamentali per la vita (soprattutto lipidi di membrana, proteine, carboidrati e acidi nucleici). Vi è una vasta letteratura biomedica sulle conseguenze degli stress ossidativi ed il loro coinvolgimento nei processi che portano all’instaurarsi di gravi patologie quali aterosclerosi, patologie infiammatorie, carcinogenesi, malattie cardiovascolari, invecchiamento dei tessuti, malattie neurodegenerative, diabete.

L’organismo umano è in grado di difendersi dai ROS tramite la sintesi di enzimi capaci di disattivare le specie attivate dell’O2; tuttavia un’importante difesa dagli stress ossidativi

avviene grazie all’assunzione, attraverso la dieta, di composti antiossidanti, come composti fenolici, carotenoidi e vitamine, in grado di intercettare i radicali liberi (scavenging activity), ovvero tramite molecole che ossidandosi, danno origine a composti stabili, disattivando così i radicali e interrompendo allo stesso tempo il fenomeno di ossidazione a catena.

Gli innumerevoli effetti benefici sulla salute, posseduti dal carciofo, derivano in gran parte dall’elevato potere antiossidante, associato al ricco contenuto di composti fenolici, fra i quali domina l’acido clorogenico, degli estratti fogliari.

L’obiettivo della tesi risulta coerente con le tendenze degli ultimi anni, che hanno visto incrementare notevolmente l’interesse della popolazione verso l’alimentazione ed i suoi effetti sulla salute. Oggi gli alimenti non sono giudicati solo per il loro contenuto in macronutrienti (carboidrati, lipidi, proteine), ma anche per il contenuto di sostanze in grado di apportare benefici addizionali all’organismo, in termini soprattutto di prevenzione delle malattie. Questi alimenti, le cui proprietà derivano da una alta concentrazione di metaboliti secondari ad elevato potere antiossidante vengono definiti “Functional foods”.

Sono aumentati parallelamente anche gli studi nutrizionali indirizzati all’analisi dei cibi, non per valutarne soltanto aspetti fondamentali come la carica microbica, la concentrazione di macronutrienti, le potenziali adulterazioni, la presenza di contaminanti inorganici, ma anche per stimare le loro potenzialità preventive e curative nei confronti delle malattie. Questa valutazione richiede la disponibilità di una serie di informazioni che devono pervenire da

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indagini di tipo diverso: dagli studi sulla caratterizzazione strutturale e metabolica dei componenti naturali potenzialmente interessati, agli studi in vitro sui meccanismi biochimici dell’attività biologica, agli studi sulla biodisponibilità di tali molecole nel corpo umano a seguito di assunzione con la dieta.

Mentre è necessario che la ricerca sui componenti bioattivi del carciofo prosegua per raggiungere questi obiettivi, il dimostrato effetto benefico degli estratti di questa pianta, suggerisce che, già oggi, un miglioramento qualitativo delle varietà di carciofo può essere ottenuto tramite la costituzione di cvs con un contenuto polifenolico e un’attività antiossidante potenziate.

Il miglioramento potrà essere ottenuto con i tradizionali metodi di selezione genetica o con la metodologia dell’ingegneria genetica.

In letteratura ci sono già molti lavori nei quali, l’ingegneria genetica è utilizzata al fine di creare piante in cui la sintesi di composti antiossidanti, principalmente fenoli e carotenoidi, sia incrementata.

A fronte del contrastante e spesso sfavorevole atteggiamento dei consumatori (almeno in Europa) nei confronti degli alimenti derivanti da OGM, il miglioramento nutrizionale degli alimenti attraverso l’impiego di tecniche di miglioramento genetico tradizionale appare, al momento, più praticabile. In questo caso è necessario disporre di informazioni circa la variabilità genetica per quanto riguarda il contenuto polifenolico e l’attività antiossidante, l’accumulo delle sostanze antiossidanti durante la maturazione, la loro distribuzione tra le diverse parti della pianta, l’influenza delle condizioni di coltura. Tra queste ultime l’impiego di funghi micorrizici si presenta come una metodologia innovativa e potenzialmente molto valida.

È oramai ben noto, e supportato da moltissimi lavori scientifici, l’effetto positivo esercitato dalle micorrize sulla crescita dei vegetali, dovuto al miglior assorbimento di elementi minerali dal terreno. Solo recentemente invece, sono stati oggetti di studio i cambiamenti metabolici associati alla micorrizazione.

Questi lavori hanno messo in evidenza, nelle piante micorrizate, un incremento dell’attività di alcuni enzimi con potere antiradicalico come la superossido dismutasi (SDS) e della sintesi di molecole ad elevato potere antiossidante come i carotenoidi (Palma et al., 1993; Arines et al., 1994; Ruiz-lozano et al., 2001; Alguacil et al., 2003; Lambais et al., 2003; Porcel et al., 2003 Walter et al., 2000; Fester et al. 2002; Fester et al. 2005a).

Inoltre, in un recente lavoro, in piante micorrizate di Medicago truncatula, è stato riscontrato un incremento del ciclo di Krebs, della sintesi di alcuni ac.grassi e dell’aminoacido Tirosina,

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che assieme alla Fenilalanina è il principale precursore dalla sintesi dei composti fenolici (Lohse et al. 2005.)

Lo scopo della tesi è stato, infatti, quello di verificare l’influenza della associazione micorrizica, utilizzando ceppi fungini diversi, sulla crescita e soprattutto sul complemento di sostanze fenoliche e sull’attività antiossidante degli estratti fogliari di carciofo.

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11. MATERIALI E METODI

11.1 Schema sperimentale

L’obiettivo del lavoro sperimentale svolto in questa tesi è di andare a valutare, in piante di carciofo (Cynara scolimus L.), l’effetto della micorrizazione, sulla crescita, sul contenuto totale di fenoli e sul potere antiradicalico degli estratti fogliari.

Per lo svolgimento della tesi sono stati utilizzati 80 carducci di carciofo, della varietà “Terom”, prelevati da piante in campo, suddivisi in quattro tesi: la tesi n°1 costituita da 20 piante controllo non micorrizate, la tesi n°2 costituita da 20 piante micorrizate con un isolato di Glomus mosseae proveniente dall’Arizona (AZ), la tesi n°3 costituita da 20 piante micorrizate con un isolato di Glomus intraradices proveniente dalla Francia (DJ), mentre la tesi n°4 comprendeva 20 piante micorrizate con una miscela dei fughi utilizzati nelle tesi 2 e 3 (AZ+DJ).

I carducci sono stati piantati in vasi da 7 L, utilizzando del terreno precedentemente sterilizzato, al quale durante le operazioni di invaso è stato aggiunto l’inoculo, e posizionati in una serra a copertura di PVC senza le pareti laterali al fine di cercare di far avvicinare le condizioni climatiche sperimentali a quelle di campo.

Durante l’esperimento sono stati poi effettuati tre campionamenti, rispettivamente dopo 30, 60 e 90 giorni dall’invaso, in ognuno dei quali sono state prelevate tre piante per tesi, sulle quali sono state eseguite le analisi dei parametri di crescita e valutate le percentuali di colonizzazione fungina nelle radici.

Solo durante il terzo campionamento sono state prelevate ulteriori sei piante per tesi, sulle foglie delle quali sono state eseguite le analisi per valutare il contenuto di fenoli totali (TPC) ed il potere antiradicalico (ARP).

11.2 Materiale biologico e terreno

Al fine dello svolgimento della seguente tesi sono stati utilizzati ottanta carducci di carciofo (Cynara scolymus L.) della varietà Terom, prelevati da piante in campo presso il Centro sperimentale di ortofloricoltura, S. Piero a Grado, Pisa, del Dipartimento di Biologia delle Piante Agrarie, DPBA, Facoltà di Agraria, Università di Pisa.

Il prelievo dei carducci è stato eseguito il 25/03/05 cercando di prelevare carducci omogenei tra loro per dimensioni; le analisi per valutare l’effettiva omogeneità dei carducci, essendo distruttive, sono state eseguite su dieci carducci rappresentativi del totale, prelevati in aggiunta agli ottanta necessari per la messa in atto del lavoro, sui quali sono state eseguite le

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misurazioni di: peso fresco totale (F.W. TOT.), n° foglie, peso fresco parte aerea (F.W. parte aerea), peso fresco radice (F.W. radice), area fogliare, calibro della radice e lunghezza della radice principale; i risultati delle misurazioni sono riportati nella tabella 1.

Tab.1: misurazioni effettuate sui carducci iniziali

CAMPIONE F.W. TOT (g) FOGLIE F.W. PARTE AEREA (g) F.W. RADICE (g) AREA FOGLIARE (mm2) CALIBRO RADICE (cm) RADICE PRINCIPALE (cm) 1 97.3 5 65.1 32.2 2600 1.8 5.3 2 112.4 4 72.3 40.1 2630 2 7.2 3 135.5 5 80.1 55.4 2250 2.1 8.1 4 137.5 4 81.2 56.3 2800 2 8.9 5 156.3 5 89.4 66.9 3950 2.5 9.5 6 91.5 5 55.5 36.0 3570 2.1 7.7 7 97.8 6 69.5 28.5 3700 2.2 7.3 8 125.6 3 71.3 54.3 2500 2 8.0 9 116.2 5 73.4 42.8 3500 2.1 7.3 10 130.4 5 74.2 56.2 2950 2.3 7.8 MEDIA 120.05 4.7 73.2 46.87 3045 2.11 7.71

Si deve sottolineare come i carducci essendo, al momento dell’invaso, praticamente privi di radici secondarie diramatesi da quella primaria, fossero non infettati da altri funghi, di fatti solo le radici secondarie sono interessate dall’infezione fungina.

Come inoculo fungino sono stati usati un isolato di Glomus mossae proveniente dall’Arizona (AZ), ed un isolato di Glomus intraradices proveniente da Digione, Francia (DJ), entrambi conservati in “Pot colture”, nella collezione del laboratorio di microbiologia del suolo del DPBA.

Per lo svolgimento della prova è stato utilizzata una quantità di terreno pari a 560 L, prelevato sempre nel Centro sperimentale di ortofloricoltura, S. Piero a Grado, Pisa, che possedeva un pH=8.1 e risultava fortemente sabbioso e povero di Fosforo (P) e potassio(K); prima dell’utilizzo il terreno è stato setacciato manualmente utilizzando una griglia con fori dal diametro inferiore a 2mm (∅<2mm), successivamente distribuito in 40 sacchi da autoclave dal volume di 14 L ciascuno e sterilizzato in autoclave a 121°C per 40 min.; I risultati delle analisi eseguite sul terreno sono elencati nella tabella 2.

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Tab.2: analisi eseguite sul terreno utilizzato nella prova.

TIPO DI ANALISI RISULTATO

Misurazione pH PH=8.1

Analisi NPK N = 0.0084 mg/100g

P2O5 = 2.27 mg/100g

K2O = 0.093 mg/100g

Composizione terreno Argilla = 4.9%

Limo = 6.15% Sabbia = 88.95%

11.3 Composti chimici e strumentazioni utilizzate

Il 3-O-caffeoyl-D-quinic acid (acido clorogenico, CA), utilizzato per la costruzione di curve di taratura, il reagente radicalico 2,2-diphenyl-1 picrylhydrazyl (DPPH), usato per la stima dell’ ARP, il reagente Folin-Ciocalteu, usato per la valutazione del TPC, l’idrossido di potassio (KOH), l’acido cloridrico (HCl) e le cuvette da spettrofotometro usa e getta da 1ml in polystyrene sono stati acquistati da Sigma-Aldrich S.r.l (Milano, Italy).

Il colorante “Trypan blue”, usato per la colorazione delle ife fungine, è stato acquistato dalla Carlo Erba Reagenti s.p.a. (Milano, Italy).

Il metanolo utilizzato (MeOH) è stato acquistato da Scharlau Chemie (Barcellona, Spain), mentre il carbonato di sodio (Na2CO3) è stato comprato da J.T. Baker (Deventer, Holland).

La bilancia di precisione utilizzata è una Mettler semi-automatica a proiezione ottica provvista di dispositivo di tara a molla.

Lo spettrofotometro utilizzato sempre durante l’analisi è un Hitachi U-3200

11.4 Invaso dei carducci e inoculo fungino

L’invaso degli 80 carducci è avvenuto il 25/03/05, lo stesso giorno del loro prelievo dalle piante in campo, contemporaneamente all’inoculo dei funghi micorrizici.

Durante questa fase ogni singola pianta è stata piantata in un vaso da 7 L, utilizzando il terreno precedentemente setacciato e sterilizzato, e secondo il tipo di inoculo fungino aggiunto al terreno sono state preparate quattro tesi, ognuna costituita da 20 piante:

- Tesi 1 (controllo): in questi 20 carducci non è inoculato il fungo micorrizico, ma soltanto 100ml di un filtrato microbico contenente la flora batterica presente nella terra dell’inoculo.

Figura

Fig. 3: principali sostanze bioattive contenute nel carciofo.

Riferimenti

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