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Capitolo 2 – I MILLE VOLTI DELLA FIABA VITTORIANA

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Capitolo 2 – I MILLE VOLTI DELLA FIABA VITTORIANA

2.1 Un panorama multiforme

Dopo essere stata considerata una minaccia per le plasmabili menti dei bambini, la fiaba era diventata un genere accettato in quanto fonte di arricchimento culturale. I romantici e i primi vittoriani videro nella fiaba uno strumento efficace per esprimere le problematiche sociali e psicologiche che emersero durante l’illuminismo e dettero avvio a quella che fu definita Golden Age della letteratura per l’infanzia tra il 1840 e il 1910 circa.

L’impatto della Rivoluzione industriale andò oltre gli aspetti economici e tecnologici. Essa cambiò profondamente la fibra sociale della Gran Bretagna e gran parte della popolazione soffrì di un deterioramento della qualità della vita. Il prezzo del progresso e dell’innovazione fu pagato con il sovrappopolamento delle città, le pessime condizioni di lavoro nelle fabbriche, l’inquinamento e un’alienazione generalizzata nella sfera sociale.

Questi aspetti negativi della Rivoluzione industriale furono affrontati dagli scrittori vittoriani nel romanzo sociale e, con modalità estetiche uniche, nella fiaba, prendendo così parte al Condition of England Debate. Pagetti fa notare che,

alla robusta strutturazione reticolare del novel vittoriano, il romance oppone il vagabondare onirico e fiabesco che ricorda piuttosto il labirinto, privilegiando architetture meno poderose, più legate alla soggettività di un io meravigliato o lunatico […] in questo senso si può parlare, per il romance vittoriano, di un movimento di fuga impossibile, che esprime, al suo interno, la coscienza profonda della inevitabilità di un confronto con il moderno.33

Scrittori come Dickens, Carlyle, Ruskin e Thackeray furono tra i primi ad assumere un atteggiamento critico verso gli effetti deleteri della Rivoluzione industriale utilizzando la fiaba per cercare di dare delle risposte alle ingiustizie e

33

C. PAGETTI, “Tra favola e immaginario scientifico: il «romance» vittoriano”, in F. MARENCO (a cura di), Storia della civiltà letteraria inglese. Vol II. Il Settecento. Il Romanticismo. Il Vittorianesimo, Torino, UTET, 1996, p. 782.

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ai disagi sociali sorti nell’Inghilterra capitalista di quel periodo. Colin Manlove asserisce che,

the form of the fairy tale, with its strict rules of magic and its clear rewards of merit and punishments of vice, also appealed enormously, not only to Victorian moralists, but to that side of all anxious Victorians which welcomed a genre founded on clear certainties and an ordered and just universe: this, after all, is the idiom of much supposedly ‘realistic’ Victorian fiction too.34

Inizialmente la rinascita della fiaba intraprese infatti due strade molto diverse ma coesistenti, una moralistica ed educativa e una più innovativa e di intrattenimento; ovviamente ci furono occasioni in cui le due strade si incrociarono ed arrivarono persino a fondersi, tuttavia è innegabile che le problematiche legate al progresso furono affrontate con modalità spesso molto diverse. Soprattutto le fiabe scritte tra gli anni ’40 e ’50 dell’Ottocento, come ad esempio The Fairy Godmothers di Margaret Gatty e The Giant Hands di Alfred Crowquill, usarono forme allegoriche per mettere a contrasto la bontà cristiana con il gretto materialismo vittoriano; in questi casi la fiaba diventò lo strumento necessario per raggiungere uno scopo che si tradusse nell’inculcare valori cristiani o comunque morali usando un mezzo più piacevole e divertente.35 Dickens fu uno dei più acerrimi oppositori di questa categoria di scrittori che abusavano della fiaba per trasmettere insegnamenti e morali e auspicava un uso della fiaba for its own sake. Nel saggio “Frauds on the Fairies”, pubblicato in Household Words, egli prese posizione contro lo scrittore di fiabe moraleggianti George Cruikshank e affermò che “a nation without fancy, without some romance, never did, never can, never will, hold a great place under the sun.”36 A differenza di questi autori, Dickens usò la fiaba per esprimere critica sociale anche ribaltandone alcuni motivi tradizionali,

34 C. MANLOVE, The Fantasy Literature of England, Basingstoke, Macmillan, New York, St.

Martin’s Press, 1999, p. 167.

35

Cfr. J. ZIPES (ed.), Victorian Fairy Tales: The Revolt of the Fairies and Elves, cit., p. xx.

36 C. DICKENS, “Frauds on the Fairies”, in Household Words: A Weekly Journal, Vol. 8, No. 184,

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ma non si piegò al mero didatticismo, anzi, utilizzò proprio la carica di speranza e purezza che lui riteneva appartenessero alla vera fiaba.

Parallelamente alle fiabe moraleggianti ci fu una vera e propria esplosione di fiabe innovative in svariate modalità: alcune propositrici di valori alternativi a quelli tipicamente borghesi, altre che attingevano a piene mani alla ricchezza dell’immaginazione e puntavano al mero divertimento, altre ancora sovversive dei canoni fiabeschi tradizionali. La fiaba diventò la forma dominante della fantasy vittoriana37 e, allo stesso tempo, il bambino riconquistò una centralità che in alcuni casi portò a una vera e propria idealizzazione dell’infanzia, in altri condusse ad una deformazione talvolta mostruosa di questa dimensione. Proprio per la sua carica propositiva di messaggi sociali la fiaba cominciò a rivolgersi a un doppio destinatario, l’adulto e il bambino.

The Victorian fairy-tale writers always had two ideal audiences in mind when they composed their tales - young middle-class readers whose minds and morals they wanted to influence, and adult middle-class readers whose ideas they wanted to challenge and reform. It was through the fairy tale that a social discourse about conditions in England took form, and this discourse is not without interest for readers today.38

La situazione storico-sociale aveva toccato profondamente l’uomo vittoriano e gli scrittori non fecero altro che dar voce al loro disagio a un punto tale che “there was social dynamite in the contents of the tales, also more subtlety and art”39

Dopo il 1860 la fiaba intraprese percorsi diversi: se da una parte gli autori cercarono di riconciliarsi con lo status quo elaborando trame più convenzionali prive di carica sovversiva, dall’altra ci fu un vero e proprio slancio utopico nato da un profondo senso di insoddisfazione verso la realtà.40 In questo secondo caso si attinge ampiamente all’immaginazione e i mondi fantastici sono vie di fuga ma anche proposte di vita migliore fortemente in contrasto con lo status quo vigente;

37 Cfr. C. MANLOVE, op. cit., p. 166.

38 J. ZIPES (ed.), Victorian Fairy Tales: The Revolt of the Fairies and Elves, cit., p. xi. 39

J. ZIPES, Fairy Tales and the Art of Subversion: The Classical Genre for Children and the Process of Civilization, cit., p. 99.

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la satira e la parodia diventano mezzi per attaccare l’ipocrisia vittoriana e danno una spinta vigorosa all’onda di critica sociale che verrà poi ripresa successivamente da autori come Lewis e Tolkien. Fanno parte di questo gruppo Kenneth Grahame, Edith Nesbit, Rudyard Kipling, Oscar Wilde e George MacDonald. Nelle loro fiabe, i personaggi magici portano i protagonisti a cambiare la loro vita e a perseguire sogni utopici, sullo sfondo di paesaggi idilliaci preindustriali che, partendo da uno spunto nostalgico, richiamano un mondo in cui esistevano ancora la speranza e la bellezza. Inoltre molti di questi scrittori si avvicinarono alle idee del socialismo cristiano e fabiano e, anche attraverso le loro opere, cercarono di cambiare la società inglese e crearne una più giusta ed equa.

2.2 La fiaba: specchio di inquietudini e di critica sociale

Come si è detto, tra il 1840 e il 1880 la tendenza dei maggiori scrittori vittoriani fu di usare la fiaba in maniera alternativa, in modo da suscitare consapevolezza delle disparità sociali, dello sfruttamento e delle ingiustizie sofferte dai più deboli a causa della Rivoluzione industriale.41 Anche grandi scrittori di romanzi si cimentarono con la fiaba piegandola a questa tendenza critica. In The King of the Golden River di John Ruskin, ispirato a L’acqua della vita dei fratelli Grimm, due fratelli assetati di ricchezza sfruttano e maltrattano il fratello Gluck, sfidando le leggi della natura, e solo la purezza del fratello caritatevole riuscirà a ricreare un mondo idilliaco; in The Rose and the Ring di William Makepeace Thackeray, invece, l’umile principe Giglio e la principessa Rosalba riconquistano il loro regno finito in mano a degli usurpatori.

Forti accenni al materialismo e alla disuguaglianza sociale si ritrovano anche nelle fiabe di George MacDonald e, con approcci diversi, anche in quelle di Edith Nesbit, ma, come sostiene anche Laura Tosi, lo scrittore che più di altri riuscì a denunciare l’ipocrisia vittoriana fu Oscar Wilde.42 Jack Zipes sostiene che questi,

41 Cfr. ibidem, p. xix.

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e molti altri scrittori minori del periodo, usarono la fiaba come uno specchio che non rifletteva più gli standard borghesi apparentemente inalterabili di bellezza e virtù, bensì tutto quello che c’era di ingiusto e sbagliato in quella società, in altre parole “the fairy tale and the mirror cracked into sharp-edged, radical parts by the end of the nineteenth century.”43 Sempre secondo Zipes, George MacDonald, Oscar Wilde e Frank Baum segnarono un punto di svolta nel dibattito fiabesco, poiché sovvertirono i mondi di Perrault, dei Grimm e di Andersen per concepire mondi e società alternative. Nessuno di loro fu rivoluzionario nel vero senso della parola, ma fu la loro indignazione verso i valori costituiti che li spinse “to invert and subvert the world with hope in their tales”.44

George MacDonald, ministro di culto e poeta, riteneva che l’artigiano fosse la colonna portante del sistema economico inglese e fu fortemente influenzato dalle teorie di Ruskin e Morris, che sostenevano la necessità di ridare dignità al lavoratore in quanto individuo. Come Dickens, egli mise in luce la misera condizione in cui versavano i poveri e l’assurdo sfruttamento dei lavoratori nelle fabbriche. Secondo MacDonald, i sogni erano epifanie religiose e poiché le fiabe per lui erano simbolicamente collegate ai sogni, dotò il loro apparato simbolico di valori socio-religiosi in modo da trasmettere messaggi senza l’uso di veri e propri sermoni. In una società nella quale la competizione e lo sfruttamento degli altri erano divenuti mezzi necessari al raggiungimento del successo e la chiesa stessa aveva lasciato da parte l’essenza dell’umanità cristiana, quella di MacDonald fu sostanzialmente una lotta contro il materialismo tesa a riformare la civiltà. Programma che egli perseguì sia in ciò che scriveva, sia allontanandosi dalla chiesa anglicana. Per MacDonald, la tradizione fiabistica dei fratelli Grimm e di Andersen fu il punto di partenza per attuare una metamorfosi della fiaba, genere narrativo in grado di rappresentare, per un grande pubblico, “l’altra faccia” del mondo vittoriano. Nell’approcciarsi a questo genere, la prima riflessione di MacDonald riguardò la scelta terminologica: egli preferiva il termine tedesco, Märchen, che non implica necessariamente la presenza di un mondo popolato

43

J. ZIPES, Fairy Tales and the Art of Subversion: The Classical Genre for Children and the Process of Civilization, cit., p. 99.

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dalle fate come indica, invece, il vocabolo inglese fairy tale; tuttavia, l’uso della parola fairy era pertinente nell’accezione spenseriana, la cui opera, per MacDonald, fu di fondamentale ispirazione per la creazione dei suoi mondi fantastici.45

Gran parte delle sue opere, in particolar modo due delle sue fiabe di maggior successo, The Princess and the Goblin e il seguito The Princess and Curdie, denunciarono la bramosia di denaro e l’abbandono dei valori cristiani basati sulla compassione umana.46 Nella prima i goblin vogliono rapire la principessa Irene e distruggere il regno di suo padre. Ad aiutarla ci sono la nonna e Curdie, il figlio di un minatore; nel seguito, invece, ad essere in pericolo è il padre di Irene minacciato da ministri corrotti. Dopo averlo salvato, Irene e Curdie si sposano ma non hanno figli e alla loro morte il popolo sceglie un re che è interessato solo all’oro delle miniere e il regno torna ad essere corrotto fino ad autodistruggersi. In questa fiaba, il finale sembra far affiorare il pessimismo dell’autore. Tuttavia, ci sono elementi che lasciano trasparire lo spirito riformista di MacDonald. Per lui, l’umanità deve sollevarsi dallo stato bestiale per esercitare costantemente le proprie capacità in modo da giungere ad una società ideale. Se questo non dovesse avvenire, si ritornerebbe alla barbarie. MacDonald non smise mai di mettere in luce i mali che impedivano alla società di giungere alla perfezione e proprio in questa critica della società troppo impegnata per apprezzare la natura divina dell’amore e dell’arte, fu fortemente influenzato dalle idee dei romantici tedeschi Novalis e Hoffmann.47

Come MacDonald, anche Oscar Wilde crebbe fuori dalla società inglese ed entrambi furono influenzati dal movimento di riforma sociale, ma, mentre nel primo la critica sociale fu ispirata dal misticismo cristiano, quella di Wilde fu segnata da un impegno nel socialismo cristiano, che celebrava l’individualismo e l’arte. Dopo aver frequentato il Trinity College, ad Oxford Wilde conobbe Ruskin

45 Cfr. O. PALUSCI, “‘The road into fairy-land’: Phantastes di George MacDonald”, in C.

PAGETTI (a cura di), Nel tempo del sogno. Le forme della narrativa fantastica dall’immaginario vittoriano all’utopia contemporanea, Ravenna, Longo Editore, 1988, pp. 15-16.

46

Cfr. J. ZIPES (ed.), Victorian Fairy Tales: The Revolt of the Fairies and Elves, cit., p. xxxviii.

47 Cfr. J. ZIPES, Fairy Tales and the Art of Subversion: The Classical Genre for Children and the

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e Pater le cui teorie lo aiutarono a formare il suo concetto di estetica. Wilde era molto sensibile al modo in cui la società condizionava e puniva i giovani se questi non si conformavano alle convenzioni sociali e nelle sue fiabe, infatti, egli manipolò proprio le convenzioni del genere delle fiabe classiche e delle puerili fiabe vittoriane per mettere alla berlina l’ipocrisia borghese. Nelle fiabe di Wilde, la “sovversione” era l’intento chiave. Certe tematiche care ad Andersen ricorrono anche nelle sue fiabe, ma Wilde le rovescia per mettere in luce altri argomenti caldi del suo tempo come la povertà, l’ingiustizia sociale, lo sfruttamento, la proprietà privata e per proporre la sua interpretazione di socialismo cristiano. Mentre The Happy Prince presenta uno spunto ottimista che sembra intraprendere la strada dell’utopia, The Nightingale and the Rose, The Devoted Friend e The Star Child mettono in luce come le ipocrite convenzioni sociali servano a mantenere un ordine ingiusto; queste fiabe non prevedono un lieto fine ma un riutilizzo del linguaggio biblico e delle formule classiche fiabesche. In particolare, il corredo figurativo religioso serve per denunciare l’ipocrisia della chiesa ortodossa che legittimava la sofferenza in nome dei ricchi. Molte delle fiabe di Wilde, inoltre, terminano con la morte di personaggi simili a Cristo, ci si chiede quindi perché anche dei personaggi tanto virtuosi non riescano a realizzarsi all’interno della società; questa provocazione sembra nascere proprio dall’impulso utopistico che viene più ampiamente sviluppato in The Young King e The Selfish Giant. In quest’ultima fiaba il gigante è felice di condividere le sue ricchezze con gli altri e, alla fine, riesce a trovare il ragazzino che l’aveva precedentemente aiutato proprio poco prima che egli muoia; anche in questo caso il ragazzino è l’incarnazione di Cristo che porta il gigante in paradiso. La ricerca e l’unione con il divino rappresenta la ricerca di Cristo dentro di noi, una sorta di individualismo gioioso che può nascere solo avvicinandosi all’utopia. Entrambe le fiabe comunque lasciano irrisolte questioni conflittuali e, nella loro mancanza di lieto fine, non fanno che ribadire che in una società tanto materialista la strada da percorrere per raggiungere una sorta di giustizia sociale è ancora molto lunga.

Sia Wilde che MacDonald, infatti, non fornirono mai una versione concreta di utopia, perché entrambi sapevano bene che, date le gravi condizioni in cui versava

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l’Inghilterra in quel tempo, c’era ancora molto da fare per intravedere un barlume di vera utopia sociale; questo fu però anche uno dei motivi per cui entrambi insistettero tanto sul ribaltamento del processo di socializzazione all’interno del discorso fiabesco. Entrambi usarono schemi molto simili: il protagonista, in seguito ad un sogno o una visione, ha una sorta di epifania che gli apre gli occhi sul mondo e, da questo momento in poi, tutte le sue azioni vanno contro lo status quo della società. Più che alla perfezione sociale, i loro personaggi aspirano ad una perfezione umana, ma mentre gli eroi di MacDonald combattono per correggere le ingiustizie, quelli di Wilde cercano di carpire l’essenza della vita tentando di cambiare l’uomo nel profondo.48

2.3 La fiaba femminista

Dare una definizione di fiaba femminista è naturalmente molto difficile, intanto perché le tematiche in essa affrontate sono assai svariate. Si può affermare con certezza, però, che tutte parlano con una voce che era stata messa a tacere praticamente da sempre, e, in tal modo, la fiaba si rende quindi portavoce non solo delle donne ma anche di altri gruppi di oppressi che rivendicavano i loro diritti sociali.49 Innumerevoli sono gli studi sul ruolo che le fiabe hanno avuto nel processo di socializzazione dei bambini e come esse siano state capaci di influenzarli nel loro processo di crescita. Gran parte della critica femminista è d’accordo con Marcia Lieberman,50 secondo la quale le fiabe tradizionali trasmettono dei messaggi falsi, fuorvianti e, aggiungerei io, discriminatori per quanto riguarda i ruoli sessuali. A partire dalla matrigna cattiva fino alla povera fanciulla, obbediente e remissiva, che aspira ad una vita di ricchezza auspicabilmente raggiungibile attraverso il matrimonio con un eroe valoroso, è indubbiamente impossibile negare la presenza di numerosi stereotipi all’interno

48 Cfr. ibidem, p. 120.

49 Cfr. J. ZIPES, Don’t Bet on The Prince: Contemporary Feminist Fairy Tales in North America

and England, New York, Routledge, 1986, p. xi

50 Cfr. M. R. LIEBERMAN, “‘Some Day My Prince Will Come’: Female Acculturation Through

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delle fiabe della tradizione. Fra questi, uno dei cliché tradizionali riguarda le principesse, il cui dovere primario è cercare di accrescere la propria bellezza. In un certo senso la bellezza rappresenta anche la loro ricchezza o, comunque, il mezzo per raggiungere l’amore o il successo. Anche i vittoriani nutrivano una sorta di adorazione per la bellezza femminile e il corpo oscillava tra asserzione e mercificazione. Fin da piccole, le bambine dovevano imparare la lezione dell’estetica personale dal momento che la bellezza è una virtù che deve essere coltivata. Il corpo femminile doveva essere plasmato e perfezionato, il che costava non poco sforzo e costanza, ma era garanzia di un ottimo matrimonio e di una vita agiata. Fu su questo sfondo tradizionale che la fiaba vittoriana si fece portavoce di una vigorosa propulsione femminista, parallelamente alla nascita della cosiddetta Woman Question, che portò ad un profondo ripensamento sul ruolo della donna e la successiva emancipazione. La donna, angelo del focolare, era considerata inadatta alla speculazione teorica, allo studio e alla scrittura, così come a compiere gesta eroiche o ad affrontare avventure. Nonostante questo pregiudizio radicato nella società vittoriana, molte furono le opere di valore scritte da donne proprio in questo periodo, basti pensare alle sorelle Brontë o a George Eliot, e altrettante furono le opere scritte sia da uomini che donne che ribaltarono e sovvertirono questo stereotipo femminile sociale e letterario.

Il ruolo della fiaba letteraria in questo processo fu duplice, perché da un lato rappresentò un genere letterario per tradizione adeguato alla donna (la figura femminile incarnava nell’immaginario collettivo il ruolo di narratrice di storie e leggende), dall’altro lato la fiaba, in quanto mezzo comunicativo, apparentemente rassicurante, rappresentò l’habitat ideale in cui proporre personaggi femminili che andavano contro le convenzioni ipocrite e patriarcali. La donna che popola queste fiabe è una vera e propria eroina che non ha bisogno di essere salvata dal principe azzurro, ma è lei stessa che, in varie occasioni, prende in mano la situazione. L’angelo del focolare, emblema della passività femminile vittoriana, prende saldamente le redini della propria vita diventandone l’unica e sola fautrice, spesso a scapito di principi inetti e boriosi che inutilmente cercano di riappropriarsi dello scontato ruolo di eroe. La riflessione che emerge da queste fiabe, infatti, non è

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solo incentrata sull’emancipazione della figura femminile ma anche su una rivisitazione degli stereotipi maschili. Moltissimi sono gli autori che affrontano questo ribaltamento di ruoli, o quantomeno presentano personaggi femminili che, pur somiglianti a quelli della tradizione, cominciano a percorrere strade alternative a quelle ortodosse. George MacDonald in “Little Daylight”, riscrittura de “La Bella Addormentata”, propone una fanciulla che, seppur non ancora emancipata, non è più l’emblema della passività femminile, e al posto dei cento anni di sonno, conquista una vita almeno parziale che può svolgersi di notte.

Tuttavia, sono soprattutto le scrittrici vittoriane ad affrontare questa causa, come afferma Oriana Palusci: “le autrici vittoriane, considerate alla stregua di creature infantili, alle quali viene affidata la cura dei bambini, ma non la loro custodia legale […] travasano dunque nella fairytale la rabbia della loro emarginazione civile.”51 Anche per le scrittrici questa operazione avviene spesso attraverso la riscrittura di favole tradizionali che vengono riplasmate e talvolta derise. In Five Old Friends and a Young Prince (1868), Anne Thackeray Ritchie, figlia di William Thackeray, rivisita in chiave adulta e contemporanea le fiabe tradizionali e anticipa in questo senso le fiabe femministe di Angela Carter o Margaret Atwood. La sua bella addormentata è una ragazza sciocca che vive in un ambiente ipocrita e convenzionale; ella rappresenta la passività femminile che tanto sembrava piacere agli uomini e l’autrice se ne prende gioco mettendo in scena una serie di eventi paradossali e di rovesciamenti di stereotipi.

Negli stessi anni cominciano a diffondersi riviste che oltre a fornire nozioni didattiche incoraggiavano la produzione di favole. Una rivista in particolare fu il mezzo designato per portare avanti la diffusione della fairy tale vittoriana: si tratta di Aunt Judy’s Magazine. Nata dalla collaborazione di Margaret Gatty e le figlie Juliana Horatia Ewing e Horatia K. F. Gatty, la rivista ospitò molta della produzione di Carroll, Ruskin e della stessa Juliana Ewing.52 La produzione di

51 O. PALUSCI, “Le eredi di Jane Eyre” in C. PAGETTI (a cura di), L’impero di carta. La

letteratura inglese del secondo Ottocento, Roma, Carocci, 1998 [1994], p. 238.

52

Cfr. N. AUERBACH - U.C. KNOEPFLMACHER (eds), Forbidden Journeys: Fairy Tales and Fantasies by Victorian Women Writers, Chicago and London, University of Chicago Press, 1992, p. 4.

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questa autrice mette in luce l’assurdità dei ruoli imposti alla donna e il bisogno impellente di riprendere in mano il proprio destino. In Amelia and the Dwarfs la Ewing si rifà alla tradizione folcloristica irlandese; qui la sfrontata protagonista viene catapultata in un mondo abitato dai nani dove la sua anima ribelle viene piegata ai doveri domestici, mentre nella casa paterna la bambina viene sostituita da un simulacro, emblema della passività, che solo il cane riuscirà a non scambiare per la bambina in carne e ossa. Della passività femminile e dell’importanza dell’autorealizzazione si occupa anche Mary De Morgan in The Toy Princess, dove una mansueta principessa giocattolo viene preferita a quella fisicamente identica in carne e ossa più vivace.

La contraddittoria morale vittoriana portò avanti questo e altri discorsi, ma la crescita del capitalismo così come lo sviluppo delle metropoli, trasformarono la donna in una consumatrice; gradualmente la donna lasciò il porto sicuro del focolare e cominciò a esplorare i centri urbani diventando un soggetto costoso ma anche ornamentale. Questo, se da un lato può essere considerato emancipazione, dall’altro non fece che rendere la donna una merce che i mariti e i padri potevano esibire e con la quale essi potevano informare implicitamente il mondo intero della loro piccola o grande ricchezza economica.

La fiaba vittoriana esplorò questo aspetto paradossale per cui la donna oscillava tra essere soggetto e oggetto, e addirittura anche angelo e demone al tempo stesso, minando alla base lo stereotipo femminile di passività e innocenza. In riferimento a questo aspetto, un critico fa notare che “the tropes of female beauty metamorphose into a variety of images advertising the female body. […] Victorian experimental fairy tales and fantasies play with words in order to stress the instability of signs. No longer fixed and becoming ambiguous, signs seem to float free, culminating in nonsense.”53

In pratica, mettendo in discussione i legami tra parole e immagini, la fiaba vittoriana evidenziò come fosse cambiata la rappresentazione con la crescita della cultura più materialista e come essa si concentrasse sul plasmare e modellare il

53 L. TALAIRACH-VIELMAS, Moulding the Female Body in Victorian Fairy Tales and

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corpo femminile. In tre fiabe di questo periodo si può osservare come le protagoniste vengano educate ad essere donne e contemporaneamente viene messo in evidenza fino a che punto sia artificiale la femminilità. In The Light Princess e in Alice’s Adventures in Wonderland, rispettivamente di George MacDonald e Lewis Carroll, il tratto predominante è la magrezza, ma mentre la principessa di MacDonald è troppo leggera, la protagonista di Carroll impara a controllare la grandezza del suo corpo mangiando la giusta quantità di cibo. Analogamente l’eroina di Juliana Horatia Ewing in Amelia and the Dwarfs impara a usare il proprio corpo per guadagnarsi la libertà.54

Prendendo il corpo femminile come punto di partenza, il testo di Talairach-Vielmas mette in evidenza come la rappresentazione della donna in alcune fiabe vittoriane in realtà registri le tensioni del periodo e riveli la posizione della donna nella società. Come innumerevoli fiabe femministe che verranno scritte nel secolo successivo, anche la fiaba vittoriana femminista nacque da un impulso, da una necessità di cambiamento della società e, in questo senso, la fiaba fu ripensata sia in quanto componimento estetico che come mezzo di socializzazione per i bambini.

2.4 L’infanzia in bilico tra regno idilliaco e deformato

In contrasto con la precedente preoccupazione calvinista di redimere il bambino dal peccato, alcuni scrittori vittoriani si concentrarono anche su una tendenza a idealizzare l’infanzia come regno idilliaco di innocenza e spensieratezza e sull’urgenza psicologica di riappropriarsene da adulti.

U.C. Knoepflmacher affronta questa tematica nel suo saggio “The Balancing of Child and Adult: An Approach to Victorian Fantasies for Children”, e mette in luce come gli scrittori vittoriani, in bilico tra due mondi, quello del progresso e quello della nostalgia, abbiano dato avvio all’età d’oro della letteratura per

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l’infanzia.55 In un periodo nel quale l’età adulta era diventata una condizione sempre più problematica, l’infanzia assunse un’inaspettata centralità. Humphrey Carpenter fa notare come il cambio di atteggiamento verso i bambini, a metà del diciannovesimo secolo, fosse visibile anche in romanzi per adulti come Jane Eyre e Wuthering Heights, nonché nelle opere di Dickens, nelle quali i bambini hanno una chiara e acuta visione del mondo attorno a loro.56

Con lo sbocciare della fiaba letteraria, gli autori si fecero carico del ruolo di mediatori tra adulti e bambini. Questo ruolo tuttavia si realizzò solo bilanciando la capacità regressiva con la consapevolezza dell’adulto, e le opere di questo periodo furono la prova tangibile di una continua oscillazione, riconducibile a Blake, tra innocenza ed esperienza.

E. Nesbit asseriva che i bambini non possono essere compresi né con l’immaginazione né con la semplice osservazione, ma solo attraverso la memoria e il ricordo del bambino che eravamo. Tuttavia,

this regressive capacity can never bring about a total annihilation of the adult’s self-awareness. […] Torn between the opposing demands of innocence and experience, the author, who resorts to the wishful, magical thinking of the child nonetheless feels compelled, in varying degrees, to hold on to the grown-up’s circumscribed notions about reality. In the better works of fantasy of the period, this dramatic tension between the outlooks of adult and childhood selves becomes rich and elastic: conflict and harmony, friction and reconciliation, realism and wonder, are allowed to interpenetrate and co-exist.57

Questa coesistenza di impulsi contrastanti portò gli autori del periodo a riferirsi a due distinti tipi di lettori: uno era rappresentato dai bambini, ai quali gli scrittori dedicavano o per i quali scrivevano le loro opere; l’altro era il lettore adulto, l’insieme di genitori e governanti che entravano in contatto con queste opere in quanto mediatori presso i destinatari infantili. Perciò, mentre il bambino si

55 Cfr. U.C. KNOEPFLMACHER, “The Balancing of Child and Adult: An Approach to Victorian

Fantasies for Children”, in Nineteenth-Century Fiction, vol. 37, 1983, p. 497.

56 Cfr. H. CARPENTER, Secret Gardens: A Study of the Golden Age of Children’s Literature,

Boston, Houghton Mifflin Company, 1985, p. 9.

57 U.C. KNOEPFLMACHER, “The Balancing of Child and Adult: An Approach to Victorian

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accingeva a percorrere la strada dall’innocenza all’esperienza, l’adulto provava il desiderio di tornare indietro. A questo proposito George MacDonald aveva un’opinione ben precisa: “for my part, I do not write for children, but for the childlike, whether of five, or fifty, or seventy-five,”58 e C.S. Lewis, suo grande estimatore, era della stessa opinione: “a children’s story which is enjoyed only by children is a bad children’s story.”59

Detto questo, è interessante analizzare come molti degli autori di fiabe di questo periodo desiderassero tenacemente tenere in vita il bambino dentro ognuno di loro. Knoepflmacher asserisce che questa tendenza è particolarmente visibile nelle fiabe degli scrittori più che delle scrittrici, primi fra tutti Lewis Carroll, George MacDonald, John Ruskin e William Makepeace Thackeray. In Ventures into Childland: Victorians, Fairy Tales, and Femininity, Knoepflmacher affronta questa tematica facendone un vero e proprio gender study; l’autore mette in luce come in alcuni casi, dalle fiabe degli autori sopra menzionati, emerga un perpetuo desiderio di ricongiungersi con la parte femminile di loro stessi, ovvero incarnarsi nelle loro eroine, bambine per le quali gli autori lottano perché non diventino adulte. Knoepflmacher mette in luce come le vicende personali di questi autori abbiano fortemente influenzato la creazione delle protagoniste delle loro fiabe; secondo la ricostruzione dello studioso, questa particolare attitudine verso l’infanzia e le bambine scaturirebbe da madri assenti oppure fin troppo presenti nella loro vita, da matrimoni mai realizzati o semplicemente da una malinconica nostalgia per un’infanzia irrimediabilmente perduta per sempre.

Ruskin, ad esempio, ebbe una madre presente al un punto tale da divenire soffocante. Poi, sposò Effie Gray, alla quale, da bambina, aveva dedicato The King of the Golden River, ma non riuscì a consumare il suo breve matrimonio e sviluppò un attaccamento quasi morboso ad una bambina di nome Rose La Touche che assomigliava molto all’innocente protagonista, quasi asessuato, di The

58 G. MACDONALD, “The Fantastic Imagination” in A Dish of Orts, Whitethorn, 1893

http://www.george-macdonald.com/etexts/fantastic_imagination.html

59

C. S. LEWIS, “On three ways of writing for children” in Of Other Worlds: Essays and Stories, New York, Harcourt, Brace & World, 1966

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King of the Golden River. È proprio nel suo non ribellarsi mai alle angherie dei due fratelli che Ruskin racchiude l’eterna innocenza di questo ragazzino. A differenza sua, Thackeray concepì una fiaba umoristica per le sue infelici figlie, dando più spazio all’esperienza adulta. Abbandonato da piccolo dalla madre, lo scrittore sposò una donna dalle parvenze di bambina che finì per diventare pazza, lasciandolo praticamente solo ad occuparsi delle figlie. In The Rose and the Ring la magia crea un gioco amoroso tra le coppie protagoniste in un continuo alternarsi tra ingenuità infantili e complicazioni adulte. George MacDonald ebbe un’infanzia estremamente solitaria poiché la madre morì quando lui era piccolo; di questa esperienza dolorosa Knoepflmacher trova traccia in due delle sue fiabe più conosciute, The Light Princess e At the Back of the North Wind, ma, mentre la prima fiaba riprende irriverentemente la fiaba tradizionale, prendendosene scherzosamente gioco, la seconda affronta tematiche più complesse. Qui, infatti, il bambino protagonista viene condotto da questa eterea entità femminile, che è appunto il vento del nord, in un viaggio mistico tra la vita e la morte; nel corso del viaggio il protagonista passivo diventa sempre più attivo influenzando la vita delle persone che incontra grazie al suo ostinato rifiuto dello scetticismo e del pessimismo. Tuttavia, nel corso della fiaba, il lettore non può che percepire una minaccia incombente nella forza prepotente del vento che senza alcuna pietà distrugge cose e persone. L’epilogo della storia porta a un risvolto inaspettato: il vento del nord prende il posto di una figura materna che deve essere in qualche modo superata. In questa risoluzione non si può che leggere un desiderio di riappropriarsi della figura della madre e un bisogno regressivo di tornare ad un’età innocente.

Tuttavia, l’autore che più degli altri incarnò quest’urgenza regressiva fu indubbiamente Lewis Carroll. Nella sua opera più conosciuta, Alice’s Adventures in Wonderland, egli combatté in ogni modo per tenere in vita il bambino dentro di lui, così come fa la bambina della sua fiaba, e lo fece creando una storia fantastica senza dotarla di una morale, compiendo quindi una scelta radicale nei confronti del mondo vittoriano. Knoepflmacher mette in evidenza come in queste fiabe Alice sia trattenuta il più possibile nel mondo magico del nonsense dove il tempo

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non si è semplicemente fermato ma è un concetto del tutto stravolto. Il desiderio di Carroll di immobilizzare Alice in uno stato infantile è inoltre appoggiato dal suo severo modo di vedere le donne, basti pensare alla duchessa o alla mutevole Regina di cuori, tuttavia Carroll è anche il creatore di personaggi maschili certamente divertenti ma allo stesso tempo ostili alla bambina. In Through the Looking Glass Alice è diventata una bambina più riflessiva, interessata a dare un ordine alle sue esperienze e da oggetto degli intrecci satirici di Carroll, lei si trasforma nell’equivalente dello scrittore quanto a rilevanza narrativa. Il restringimento di cui Knoepflmacher parla nel titolo di un suo capitolo (“Shrinking Alice: From Wonderland to Looking-Glass Land”) rimanda a qualcosa di molto più dimesso rispetto alle avventure rocambolesche di Alice in Wonderland, e Carroll stesso si proietta su personaggi più deboli.

In questo panorama ci fu anche chi portò alla luce immagini affatto rassicuranti per i bambini: Lucy Clifford, in The New Mother, presenta una storia in cui il comportamento scorretto della figlia è punito con l’allontanamento e la sostituzione della madre con un mostruoso doppio e, tematizzando le paure più comuni dei bambini, si avvicina molto alle rappresentazioni jamesiane dell’infanzia60.

Questa tendenza viene ripresa anche dalla scrittrice trattata nel saggio “Avenging Alice: Christina Rossetti and Lewis Carroll”. Qui, Knoepflmacher si sofferma ampiamente sulle fiabe dei due scrittori e mostra quanto diversamente essi affrontino le tematiche legate al mondo dell’infanzia. Rossetti non provava una particolare simpatia né per Carroll né tantomeno per la sua fantasiosa opera e, non a caso, scrisse una fiaba consistente di tre storie che hanno molte somiglianze, e un rapporto critico, con Alice’s Adventures in Wonderland. La scrittrice trovava ridicoli molti degli espedienti narrativi di Carroll, per non parlare poi del suo persistente bisogno di aggrapparsi all’età infantile, ed era inoltre un’acerrima oppositrice del culto vittoriano per il bambino. In Through the Looking Glass Alice è una bambina più determinata e più proiettata verso un futuro in cui potersi realizzare nei potenti personaggi femminili che ha incontrato, e in forte contrasto

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con i deboli personaggi maschili presenti. Nell’epilogo della fiaba, Carroll si rende conto dell’incapacità di tenere la sua eroina ancorata all’infanzia perché è lei stessa che sembra scappargli di mano. Perciò è a questo punto che egli mette in dubbio la fondatezza del dominio delle donne adulte che Alice desidera ardentemente. In Speaking Likenesses questo dominio non è mai in dubbio poiché la severa zia incaricata di raccontare le tre storie lo conferma con la sua narrazione e col suo stesso essere. Tanto per cominciare, Alice ha sette anni nella prima avventura e sette anni e mezzo nella seconda, mentre Flora, la protagonista della prima delle tre storie di Rossetti, sta sognando la festa per il suo ottavo compleanno: nella deformazione del mad tea party la protagonista viene obbligata a prestarsi a tre giochi sadici e viene usata come un puntaspilli dagli invitati; il risveglio non può che essere un sollievo perché può finalmente tornare dalla madre. Edith, la protagonista della seconda storia fallisce in una banale richiesta che la sua bambinaia esegue in pochi secondi mentre Maggie, la terza protagonista, è l’unica a non essere mortificata dalla superiorità adulta femminile grazie alla sua forte identificazione con la nonna.

Mentre Carroll si cruccia che la sua Alice Liddell (la figlia del decano di Oxford alla quale Carroll donò un manoscritto di Alice’s Adventures in Wonderland) sia cresciuta più della Alice fittizia, Rossetti rimpiange che le bambine non possano crescere più velocemente.61 La fiaba di Rossetti, cercando di eliminare ogni forma di espediente fantastico, si oppose apertamente alle fantasie di Carroll, ma proprio da queste acquisì forza; intento della scrittrice era che il pubblico vittoriano notasse che la sua fiaba era un’imitazione di Alice’s Adventures in Wonderland, così, ad esempio, fece sì che Flora nel suo sogno incontrasse la sua speaking likeness incarnata in una regina cattiva che sottomette gli altri molto più crudelmente della regina di cuori. Analogamente Rossetti mette in campo dei sadici personaggi maschili che sono delle imitazioni estreme del cappellaio matto, dello stregatto e del bianconiglio e, come dice la zia narratrice in

61Cfr.U.C. KNOEPFLMACHER, “Avenging Alice: Christina Rossetti and Lewis Carroll”, in

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Speaking Likenesses, “the boys were players, the girls were played”62. Prendendo di mira queste esagerazioni del paese delle meraviglie Rossetti dichiara di opporsi strenuamente alle fantasie di dominazione di Carroll. Knoepflmacher individua il punto di massimo attacco a Carroll da parte di Christina Rossetti nella sua seconda storia: essa è la meno fantasiosa e, all’apparenza, la meno significativa delle tre, tuttavia è fondamentale per quanto riguarda la struttura dell’opera. La prima e la terza storia, le più dipendenti dall’immaginazione di Carroll, come un treppiede, hanno bisogno del supporto della storia più debole per sostenere la loro struttura ma questa seconda storia ha una doppia forza distruttiva perché, oltre a prendersi gioco di Carroll e deridere il culto vittoriano del bambino e del mercato letterario, propone il massimo della critica dove ci si aspetta il massimo della solidità strutturale:

by inviting her readers to regard her book as an inferior version of the Alice stories, she became reliant on the success of the imagination from which she had so wanted to distance herself. Had she not created such unmistakably Carrollian analogues, her book might indeed have been totally forgotten. Instead, it would hereafter be remembered only in conjunction with the two components of the larger tripod to which Rossetti had contributed–with Alice

in Wonderland and with Through the Looking-Glass. Desirous of writing a

book that would call attention to its deliberate unoriginality, Rossetti had, in effect, only managed to reinforce her rival's originality.63

Quando l’editore chiese a Christina Rossetti un nuovo titolo per il suo libro, lei si rifiutò sostenendo che il titolo stabilito rendeva giustizia alle protagoniste delle sue tre storie che si sarebbero trovate di fronte alle caricature dei loro stessi difetti. Ma il titolo allude anche a delle somiglianze con la società inglese vittoriana: i giochi sadici inflitti a Flora, la crudeltà dei bambini verso le bambine, la violenza della regina non sono altro che allusioni ad una società che esaltava un certo tipo di comportamenti e cresceva bambini che avrebbero compiuto il destino imperialistico. E infatti,

62 C.G. ROSSETTI, “Speaking Likenesses” in N. AUERBACH - U.C. KNOEPFLMACHER

(eds), Forbidden Journeys: Fairy Tales and Fantasies by Victorian Women Writers, cit., p. 338.

63U.C. KNOEPFLMACHER, “Avenging Alice: Christina Rossetti and Lewis Carroll”, cit., pp.

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when Flora is finally jarred out of her dream of chastened expectations–of birthday parties and of people in general–we experience no Carrollian regret at the loss of her dream country. For, as Rossetti makes clear, she has dreamt only the world she knows. […] Rossetti’s Flora dreams inescapability.64

Sia l’inizio che il finale dell’opera non lasciano spiragli di ottimismo: Speaking Likenesses venne sì pubblicata come storia di Natale nel 1873, come nella più classica delle tradizioni, ma, mentre in molte di queste storie il narratore, o più spesso la narratrice, coglieva come pretesto una situazione gioiosa e conviviale, l’arcigna zia nella fiaba di Rossetti racconta la storia a patto che i bambini si mettano laboriosamente a cucire. Il finale della fiaba è ancora più duro poiché l’esito delle tre avventure è tutt’altro che rassicurante e ci presenta un mondo gelido nel quale “salvation […] is the death of desire, and may be death itself. Flora dreamed the savagery of growing up; Edith mocked our narrative expectations by becoming the nonheroine of a nonstory; only Maggie achieves something like a happy ending by killing all her needs.”65 Christina Rossetti, reprimendo l’immaginazione e creando dei mondi deformati e mostruosi, intese distanziarsi non solo dalla tradizione narrativa per bambini ma anche da scrittori contemporanei come Carroll, che dipingevano mondi meravigliosi. Allo stesso tempo trovò nella letteratura per l’infanzia un ambito congeniale nel quale liberare un diverso tipo di messaggio rispetto a quello, vivace e rassicurante, preteso dalle donne. Alice e Carroll sono molto più simili nella loro seconda, e sicuramente meno umoristica, avventura; forse anche più rassegnati ad una crescita inevitabile.

64 N. AUERBACH - U.C. KNOEPFLMACHER (eds), op. cit., p. 321. 65 Ibidem, p. 322.

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