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Capitolo III Dei “quadri di natura” come incremento della curiosità scientifica

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Capitolo III

Dei “quadri di natura” come incremento della curiosità scientifica

§ 1

L’epistemologia di Humboldt tra scienza e filosofia

Abbiamo evidenziato nel capitolo precedente come attraverso la pubblicazione di testi a stampa ed atlanti Humboldt fosse riuscito a praticare un rinnovamento concreto nella comunicazione delle scoperte scientifiche derivanti da un viaggio di esplorazione. Questa svolta, che coinvolge il genere letterario odeporico e la comunicazione scientifica in genere, ha inizio con il ritorno di Humboldt e Bonpland dal sud America – quando cioè i due iniziano a lavorare sui vari volumi dell’edizione monumentale – e ha come tappa iniziale la pubblicazione dell’Essai sur la géographie des plantes la cui tavola multidimensionale allegata inaugura, come abbiamo mostrato attraverso le immagini, un vero e proprio stile rappresentativo in geografia. Nella vicenda biografica di Humboldt, e nella produzione letteraria dell’autore, il ritorno a Berlino dopo cinque anni di assenza dall’Europa segna un ulteriore momento di svolta prettamente teorico. La Prussia di quel tempo era attraversata da impeti culturali e tempeste politiche che avrebbero lasciato un segno profondo nella storia di quel paese. La Frühromantik da una parte e l’Aufklärug dell’altra erano due fenomeni culturali che provocavano ancora grande fermento in circoli e università.1 Humboldt, che prima della sua partenza per la Francia aveva vissuto entrambi “i fuochi” della Goethezeit, prendendo parte attiva nel movimento romantico e facendosi portavoce al contempo dei valori libertari e ugualitari della Francia rivoluzionaria, attraverso una lettura attenta e critica dell’Illuminismo, viene accolto con benevolenza al suo ritorno nella capitale il 16 novembre 1805. Ricevuto con tutti gli onori venne eletto membro dell’Accademia delle scienze di Berlino, il 19 dello stesso mese, solo tre giorni dopo il suo arrivo. Certo l’assenza per così lungo tempo dalla propria patria e la scelta di pubblicare il resoconto dei viaggi presso un editore parigino, non erano state accettate di buon cuore dalle élite politico culturali, tuttavia, al rientro nella città natale egli viene comunque invitato a tenere una conferenza sul viaggio sud americano. Tra la fine del 1805 e il 1807 la

1 Su questo aspetto si confronti l’interessante ragguaglio contenuto in De Staël, M., De l’Allemagne

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Prussia è travolta anche da pesanti sconvolgimenti politici. La sconfitta contro la Francia napoleonica nella battaglia di Jena dell’ottobre 1806 aveva determinato l’assedio della capitale da parte dei francesi. In quel periodo Humboldt decise così di lavorare alle famose Ansichten der Natur,2 pubblicate nel 1808 presso l’editore Cotta. Humboldt definì sempre le Ansichten come il suo testo preferito. Non a caso uno dei maggiori biografi di Humboldt motiva la fortuna del libro al fatto che esso ben si conciliava con «la maniera di sentire dei tedeschi».3 Nei Quadri di natura, come già aveva fatto con l’apparato iconografico del saggio sulla geografia delle piante, Humboldt poneva ancora una volta al centro della propria attività editoriale un uso innovativo della comunicazione scientifica attraverso la divulgazione delle proprie scoperte con un linguaggio ibrido, a metà tra letteratura e scienza. Tale elemento è evidenziabile già nell’organizzazione materiale degli argomenti trattati. Il volume è costruito infatti da parti narrative nelle quali Humboldt “racconta” alcune delle sue conquiste nella selvaggia terra tropicale, cui fanno seguito precise spiegazioni numeriche e tavole sinottiche. L’autore spiega le ragioni di questa apparente oscillazione continua tra artificio narrativo e precisi riscontri numerici:

La maniera più efficace per arrivare [alla descrizione della natura] è raccontare con semplicità ciò che noi stesso abbiamo osservato, ciò di cui abbiamo fatto personale esperienza, e individuare, delimitandoli, il luogo e le condizioni ai quali il racconto si allaccia. Risalire dai quadri naturali ad affermazioni di carattere generale, quantificando i risultati, è proprio della scienza del cosmo, che per noi rimane un sapere induttivo.4

Oltre alla struttura testuale, giustificata proprio dal metodo praticato, ciò che importa maggiormente sottolineare ai fini della presente trattazione è il rinnovamento concettuale sul quale si fondano i vari “quadri” contenuti nel volume. Ad una analisi

2 Humboldt, A. von, Ansichten der Natur mit wissenschaftlichen Erläuterungen, Cotta, Stuttgart und

Tübingen 1808. In francese apparve nello stesso anno la traduzione Tableaux de la nature, ou

considértions sur les déserts, sur la phisionomie des végetaux, et sur les caractes, tr. par l’allemand par F.

B. B. Eyriès, 2 voll, Paris 1808. In francese vennero pubblicate ben cinque edizioni: 1808, 1828, 1850-51, 1865 e 1866. L’edizione francese del 1866, curata da Galuski e approvata da Humboldt già nel biennio 1850-51, può essere considerata quella definitiva. Vennero infatti inserite delle tavole, carte geografiche e lo stesso Humboldt dichiarò che in essa erano state aggiunti «des morceaux que l’ons ne trouvait pas dans l’édition allemande (p. VI). Noi faremo riferimento all’edizioni italiana: Humboldt, A. von, Quadri di

natura, tr. it. cit.

3 Cfr. Beck, H., Alexander von Humboldt. Studienausgabe, cit., vol. V, Ansichten der Natur, p. 361. 4

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complessiva dei differenti capitoli si può desumere che il centro di gravitazione dell’intera riflessione – elemento che troviamo ovviamente in tutte le opere ma che ha una sua prima formulazione proprio nel 1808 – è il concetto di Natur, della realtà intesa come processo dinamico e unitario, in cui forze simultanee agiscono producendo fenomeni complessi. Una natura che possiede una storia e che è nella storia, è in continuo progredi, e le testimonianze di questa progresso sono prove concrete della vita passata della terra: le radici e i tronchi secolari, le stratificazioni rocciose, gli scheletri di primati. È dalla natura, ritiene l’autore, che bisogna sempre prendere avvio quando si vuole fare scienza e soprattutto comunicare gli esiti scientifici delle esplorazioni. Nell’epistemologia di Humboldt anche l’uomo è però parte integrante di questo processo proprio perché non esiste nella sua visione del mondo un “fronteggiamento” – come la filosofia idealista del suo tempo teorizzava – tra soggetto e oggetto, tra uomo e natura. In ciò egli è certamente debitore della riflessione del botanico J. L. Leclerc de Buffon, in particolar modo quando quest’ultimo riallacciava la propria argomentazione sul rapporto uomo-strutture naturali nelle Époques de la

Natur, a quella legge segreta che muove e trasforma il creato, legge che coinvolge

l’uomo stesso in qualità di gruppo sociale. Per Humboldt l’umanità tutta può influire sulla natura con le proprie azioni, diventando fattore determinante per la velocità o le modificazioni del ciclo di sviluppo naturale (basti pensare allo spostamento di alcune coltivazioni in altri territori quando tale spostamento ha determinato anche un radicale mutamento del “paesaggio” consueto, della fertilità del suolo, della sua conformazione generale, etc. etc.). Un insediamento umano e la cultura che esso eredita, produce e sviluppa – anche in funzione e in conseguenza del territorio ove essa “lavora” – dà vita a una vera e propria realtà intellettuale, scientifica, mitologica, artistica, parallela e significante tanto quanto quella strettamente fisica. Proprio nel rinnovamento del concetto e della comunicazione del paesaggio si innestano le argomentazioni principali dei Quadri di Natura. Secondo il geografo Farinelli l’obiettivo sotterraneo del testo sarebbe quello di sovvertire, per via letteraria, il concetto stesso di realtà trasmutando quest’ultima da qualcosa di astratto e ideale a qualcosa dotata di caratteristiche quantificabili, misurabili, e per tale ragione quindi, una realtà governabile. Nel rinnovamento concettuale proposto da Humboldt l’idea e l’immagine della natura sono elementi portanti per comprendere la saldatura tra paesaggio scientifico e scorcio naturalistico. Non a caso nell’ultima sua opera egli esprime quello che sarebbe il

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fraintendimento di tutta la tradizione europea, fraintendimento che Humboldt vuole mutare con una diversa filosofia.

Con il contrapporre la natura al mondo intellettuale, come se quest’ultimo non fosse compreso nel vasto seno della natura, con l’opporre la natura all’arte, definita come una manifestazione della potenza intellettuale dell’umanità, producendo un divorzio tra natura e intelligenza, non si fa che ridurre lo studio della realtà fisica del mondo a un assemblaggio di specialità empiriche. La scienza non inizia per l’uomo se non quando l’intelletto s’impadronisce della materia; laddove esso tenti di sottomettere la massa delle esperienze a combinazioni razionali.5

L’uomo è quindi parte integrante dell’ampia Welt, è indivisibile unità di materia e spirito. Pertanto la vita intellettuale è solo una forma possibile tra le molteplici manifestazioni di natura, la quale può concorrere anch’essa nello sviluppo e nella trasformazione di un territorio. In linea di principio questa idea l’abbiamo già trovata espressa nelle immagini dell’atlante pittoresco. La fusione di arte, scienza e letteratura che vediamo realizzarsi a pieno nei Quadri non implica la perdita di riferimento dei canoni dell’epistemologia humboldtiana: epistemologia che ha proprio nel comparativismo l’atto finale di un procedere empirico che non esclude il ricorso alle “combinazioni razionali”, cioè a tutto quello che è stato anche semplicemente teorizzato o alla pura legge fisica. L’evidenza sperimentale è al vertice di ogni procedere e si pone quale ponte tra la verifica dell’insieme delle leggi, considerate accettate, e la sua possibile fallibilità. La raccolta di dati, “la materia” informe – all’interno del testo le varie sezioni intitolate “spiegazioni e aggiunte” – viene per tanto rielaborata in maniera razionale solo in un secondo momento, in un movimento quasi scandito per fasi. Nella pagine delle Ansichten possiamo ritrovare infatti i passaggi della relazione conoscitiva dell’uomo nell’ambiente naturale (non verso l’ambiente) che plasmano tutta la sua filosofia, delineati successivamente con chiarezza nelle pagine introduttive di Kosmos. Il primo gradino del processo conoscitivo è quello della

Eindruck, termine traducibile con “suggestione”, che sta a indicare il naturale

coinvolgimento dell’uomo di fronte alla varietà dei fenomeni che si svelano ai suoi sensi: «un’impressione indipendente al tutto dell’intima conoscenza dei fenomeni»6.

5 Humboldt, A. von, Cosmos, saggio di una descrizione fisica del mondo, IV voll., 2ª ed., tr. it. di G.

Vallini, Grimaldo, Venezia 1860, vol. II, libro I, p. 4.

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Letteralmente l’“impressione” che lascia la natura nell’animo di chi osserva, in riferimento a quella che potremmo chiamare percezione estetico-sensitiva del mondo, la quale scaturisce dal «piacere immediato della visione»7, e che si imprime (Drücken significa anche imprimere i caratteri tipografici di stampa, in tedesco) nel ricettacolo sensitivo della mente umana, con maggiore forza quanto più ci troviamo di fronte al cospetto di una natura dalla “bellezza lenitiva”. Questa primissima forma di relazione con l’ambiente/paesaggio è del tutto «indipendente dal carattere individuale del paese, dalla fisionomia della regione»8 e fa scaturire non una piena consapevolezza dell’ordine che regola il creato, bensì un “presentimento” (Ahnung) di tale regolarità, al primo contatto con il mondo esterno e completamente a nostra insaputa9. Il piano estetico del rapporto con l’ambiente circostante appare dotato di universalità e generalità, in questa prima fase, in ragione del fatto che i nostri sensi vengono “colpiti” da un’immagine della natura non dipendente dalle particolarità degli elementi che compongono il paesaggio. Appunto per tale motivo è di un altro tipo «il diletto che sorge dal carattere individuale del paese, dalla configurazione della superficie del globo in una regione determinata»10. Se nell’Eindruck un’immagine come quella rappresentata “dall’orizzonte nebbioso dell’Oceano” poteva rivelare il piacere (Entzücken; letteralmente “diletto”) della contemplazione del paesaggio marino quando i “confini” vengono quasi a sfumare, nel secondo caso al piacere si unisce la “durata”, la persistenza della sensazione piacevole, che può verificarsi solo grazie all’azione dell’immaginazione «la quale esercita allora liberamente la sua facoltà creatrice. Nel vago ondeggiamento della sensazione, le impressioni cambiano coi moti dell’animo, e, per un dolce e facile inganno, crediamo di ricevere dal mondo esterno ciò che idealmente noi stessi vi abbiamo deposto senza saperlo»11. Humboldt, nel tentativo di dare spiegazione del complesso procedimento di avvicinamento e di comprensione della realtà, assegna poi al gradino successivo, quello dell’Einsicht (della “comprensione”), il compito di districare l’insieme delle impressioni estetico-sensibili.

Sicht - termine presente anche nelle Ansichten che fanno da titolo all’opera del 1808 - è

“vista” nella sua accezione filosofica, cioè abilità di vedere in profondità, di comprendere l’“interno”, l’“intimo” dei meccanismi che regolano la natura. È solo in

7 Humboldt, A. v., Quadri di natura, tr. it. cit., p. 5. 8

Humboldt, A. v., Cosmos, tr. it. cit., p. 18.

9 Cfr. ibidem. 10 Ibidem. 11

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questa seconda fase che «l’esercizio del pensiero inizia a compiere l’alto suo destino; l’osservazione, fecondata dal raziocinio, indaga con ardore le cause dei fenomeni»12. La totalità estetica del primo stadio viene così dissezionata e anatomizzata per scorgere nelle sue parti i caratteri scientifici particolari, benché – in linea generale – «l’affinità delle sensazioni conduce allo stesso scopo a cui giunge successivamente la comparazione laboriosa dei fatti [ovvero] l’intima persuasione che l’intera natura è da un solo e indistruttibile nodo incatenata»13. La perdita temporanea di sguardo orizzontale sulla natura – sguardo prospettico che, ripetiamo, è proprio del primo momento della conoscenza – viene ristabilita solo nel terzo gradino della

Zusammenhang, dello “stare insieme”, del ricomporre i cocci di una stupenda anfora in

cui gli elementi si trovano ora articolati in un tutto armonico, in una complessità e globalità che siamo in grado di comprendere solo dopo aver analizzato le singole figure dipinte nell’anfora, parlando fuor di metafora14. La terza fase del processo di conoscenza, la più faticosa, è però anche la presa di coscienza della fallibilità dell’analisi particolareggiata sulla natura (cioè della seconda “tappa”) che, oltre a portare alle “cattive induzioni” cui si accennava, farebbe dissolvere quella «magia che appartiene al mondo fisico nei suoi diversi elementi» e che si rivela, al pari della potenza del cosmo, «nella connessione delle impressioni, in quell’unità di emozioni e di effetti che si producono in qualche modo in un solo tratto»15, ovvero nell’Eindruck. Questa terza fase, come si diceva, è anche la più complicata a realizzarsi. Humboldt spiega in concreto, parlando dei llanos e dei pampas dell’America meridionale, la difficoltà di giungere per via induttiva a delle supposizioni di natura geognostica su queste steppe sud americane. Nella descrizione della natura «i fatti restano a lungo isolati prima che si riesca, attraverso una faticosa ricerca, a connetterli insieme»16; per tale ragione le idee sulla fisica e la geognosia della regione montuosa occidentale dell’America del Nord, teorizzate nel saggio politico sui regni della Nuova Spagna, si possono ritenere superate dopo i viaggi e i rilievi di altri esploratori (la spedizione di Edwin James e del capitano Frémont). Coerentemente con questo sistema filogenetico di affrontare i fenomeni terrestri, che non nega ma anzi sollecita il ricorso ai risultati ottenuti sul campo da altri scienziati, i Quadri si muovono sul doppio binario della

12 Ivi, p. 28. 13

Ivi, p. 20.

14 Cfr. Humboldt, A. v., Cosmos, tr. it. cit., vol. I, libro I, pp. 4-24, 66-71. 15 Ivi, p. 21.

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descrizione della totalità della natura nella sua accezione estetica, da una parte, e scientifica dall’altra, e la duplicità di tale visione non è senza difficoltà, come lo stesso autore non esita a dichiarare. «L’unione di un intento letterario con uno puramente scientifico, il desiderio di accendere la fantasia e al tempo stesso di arricchire la vita di idee attraverso la crescita del sapere […] rende difficile l’unità della composizione»17. Anche perché, accanto al fascino che emana la semplice contemplazione della natura sorge il diletto che nasce dalla conoscenza delle leggi e della mutua concatenazione dei fenomeni stessi, cosicché l’uomo, l’esploratore, l’osservatore è sempre in qualche modo “turbato” se scegliere la via del godimento estetico o quella dell’intima comprensione scientifica delle leggi di natura. Per rimediare a queste difficoltà egli struttura, dal punto di vista strettamente “stilistico”, la propria opera in due parti: alcuni saggi o “quadri naturali” e delle “spiegazioni e aggiunte”, in allegato a ogni singolo quadro. In tal modo trattazione estetica e trattazione scientifica vengono alternate ritmicamente, anche se talvolta le glosse scientifiche sono sproporzionate rispetto ai saggi che le precedono.18 Il punto di equilibrio tra stimoli immaginativi, e quelli più propriamente razionali, sta tutto intorno alla concezione geografica di paesaggio. Se quelle proposte da Humboldt sono “vedute” sulla natura (nel senso di descrizioni) del quale egli ha potuto fare esperienza diretta nel viaggio di esplorazione – sono quindi le sue e non quelle di altri ricercatori – tali presentazioni delle terre equinoziali vogliono essere dei veri e propri quadri, nel significato di “tele di paesaggio”. Non a caso, facendo proprio il lessico della letteratura artistica, l’autore più volte mette in guardia il lettore sul proprio metodo: «potrei chiudere qui l’arrischiato tentativo di un quadro naturale della steppa […] così anche noi, prima che la grande pianura ci sfugga, gettiamo uno sguardo sulle regioni che confinano con le steppe»19. Sembra quasi che Humboldt voglia invitare il lettore ad atteggiarsi come di fronte ad un vero quadro: prima di far uscire lo sguardo dalla cornice, dobbiamo porre attenzione agli oggetti in secondo piano nella rappresentazione. La differenza più evidente sta quindi nel fatto che mentre i quadri si espongono in gallerie e musei, i suoi quadri erano stati pubblicati su riviste, bollettini o erano stati oggetti di conferenze e letture pubbliche. L’intensa attività pubblicistica di Humboldt, ma anche le copiose lettere spedite dal sud America, avevano infatti stimolato l’interesse di un vasto fronte culturale in Europa. Anche per

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Humboldt, A. v., Quadri di natura, tr. it. cit., p. 5.

18 Basta confrontare il numero di pagine per comprendere la sproporzione di cui si diceva: Sulle steppe e

sui deserti (p. 11-27), Spiegazioni e aggiunte (p. 27-123).

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tale ragione il successo dei Quadri di natura fu immediato ed ebbe una forte eco negli ambienti culturali e nei salotti di tutta Europa, coinvolgendo persino pittori e disegnatori. L’innovazione del concetto di paesaggio riposava principalmente nella convinzione di volere trasferire un’idea appartenente alla letteratura artistica e poetica al mondo geografico, cogliendo gli spunti argomentativi intorno al tema del pittoresco nell’arte e rielaborandoli a uso scientifico: una vera e propria rivoluzione nella mentalità della borghesia tedesca di tutti “i ceti colti” (die Gebildeten in tedesco) educati sulle pagine dei letterati romantici, attraverso una mutazione della loro forma

mentis.20 L’estasi della natura non avrebbe dovuto avere solo fini estetici, ma partendo dall’attrazione estetica sarebbe dovuta servire da stimolo alla comprensione scientifica e geografica: quest’ultimo, presupposto essenziale per il governo del mondo. Ai vacui giochi poetici si sostituisce “l’uso del mondo”, reminiscenza della lezione di geografia kantiana, in quanto la preparazione dello scienziato deve necessariamente passare da una cultura visiva ed estetica. Il Gebildeter humboldtiano è letteralmente “colui che si è formato sull’immagine (Bild)”, ed è proprio intorno allo statuto dell’immagine che possediamo della terra che Humboldt direziona il proprio interesse innovatore. La riprova di questa metodologia è ben visibile all’interno del problema della cartografia. Del Nuovo Mondo si avevano già delle mappe geografiche prima dei viaggi di Humboldt, ma le sue misurazioni e i suoi esperimenti, facilitati da una strumentazione maggiormente precisa, possono apportare correzioni se non addirittura stravolgere la topografia dei luoghi fino ad allora conosciuti. Il quadro geografico si serve di quello disegnato e la carta diviene spazio modellato esteticamente dall’uomo. Ma, come fece notare Rosario Assunto nelle proprie riflessioni sulla definizione di paesaggio,21 lo spazio rappresentato dalle mappe (o dalla pittura astratto-geometrica) non è affatto paesaggio, pur potendo essere definito spazio estetico, anzi artistico. La mappa in tal senso, emendata dagli errori, si può innalzare a modello di paesaggio, anche se solamente sussidiario, per l’incremento delle conoscenze geografiche: essa non è paesaggio anche se può per accuratezza e qualità di stampa diventare un quadro. La mappa mostra infatti le coordinate spaziali di luoghi geografici che non potremmo individuare altrimenti, ma è solo la narrazione a esprimere il valore reale del quadro di natura. Per affidare alla pagina scritta una descrizione quanto più fedele possibile alla natura dei fatti è necessario uno statuto epistemologico di riferimento di tipo mimetico

20 Cfr. Farinelli, F., Il pappagallo degli Atures, in Humboldt, A. von, Quadri di natura, tr. it. cit., p. X. 21

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descrittivo. Un’assoluta fedeltà nella riproduzione dei luoghi diviene centrale per la sua riconoscibilità immediata, anche se – come è stato ricordato – la descrizione humboldtiana non è semplicemente enumerazione di dati topografici: le montagne andine si trovano tra il grado “x” di latitudine e quello “y” di longitudine, la loro altezza è misurabile in piedi parigini, la pressione è rilevabile così come la temperatura ed altri elementi. Il quadro diventa soprattutto luogo ove riportare le emozioni che egli prova nel seno di una natura verginale e ricca di novità per il ricercatore. Dunque, alla descrizione esatta e precisa dei luoghi, Humboldt affiancherà «la trattazione animata e viva delle imponenti scene della natura»22 nella convinzione che sia possibile mantenere aperti entrambi gli aspetti, anzi che essi debbano svilupparsi contemporaneamente in un’opera geografica. Non deve meravigliarci allora quando egli dichiara a proposito delle vaste distese pianeggianti oltre la vallata di Caracas che, «come l’oceano, la steppa riempie l’animo del sentimento dell’infinito, e quasi con ciò liberandolo dalle impressioni sensibili dello spazio, lo colma di una più alta tensione spirituale»23. Lo spazio si dilata di fronte allo sguardo dello scienziato/spettatore, dilatando contemporaneamente la sua sfera sentimentale, le sue emozioni. Humboldt non va oltre nel coinvolgimento poetico, anche se certamente le sue pagine, scritte da filosofo naturalista, lo rivelano al lettore per nulla refrattario alle commozioni. Infatti uno dei problemi centrali della sua filosofia ruota attorno al tema del sentimento dell’uomo di fronte ad ampi spazi, a orizzonti che si perdono in lontananza e si confondono con il cielo, nel seno di una natura solo apparentemente arginabile con strumenti razionali. Humboldt, che ben conosceva la filosofia di Kant, pare però essere maggiormente influenzato dalla categoria estetica del pittoresco rispetto a quella del sublime di natura che proprio Kant aveva formulato nelle sue opere critiche: ricordiamo però che entrambi le categorie concettuali sono in stretta relazione col problema dell’infinità dello spazio.24 Un ruolo parimenti importante nella visione del mondo di Humboldt emerge inoltre dal confronto con le filosofie del suo tempo. Possiamo sostenere che Humboldt occupi una posizione particolare all’interno delle correnti di pensiero a lui coeve: prende soprattutto le distanze dalla filosofia della natura di stampo schellinghiano ed hegeliano, anche se non per tutti gli aspetti, ed è fortemente debitore della morfologia di Goethe. L’opposizione di materia e spirito, che

22 Humboldt, A. v., Cosmos, tr. it. cit., vol. I, tomo I, Prefazione dell’autore, p. V. 23 Humboldt, A. v., Quadri di natura, tr. it. cit., p. 12.

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subordina la genesi e lo sviluppo della “storia a tappe” del Geist in Hegel, è assente; come è del tutto inconciliabile la posizione dei due intorno al tema della bellezza naturale. Nelle famose Vorlesungen hegeliane, seppur non scritte nello stesso periodo dei Quadri ma pur sempre utilissima pietra di paragone per chi volesse mettere in rilievo affinità e discontinuità del pensiero di Humboldt con i “colleghi” del suo tempo – anche in considerazione del fatto che il pensiero humboldtiano intorno ai problemi estetico-filosofici rimase coerente dal momento del ritorno in Europa fino all’epoca dell’uscita di Kosmos nel 1848 – il filosofo idealista aveva dichiarato che il «bello naturale appare solo come un riflesso del bello appartenente allo spirito, come un modo imperfetto, incompleto, un modo che secondo la sua sostanza è contenuto nello spirito stesso»25. All’interno di questa prospettiva, le parole hegeliane non poterono trovare accoglienza nelle posizioni dello scienziato Humboldt, convinto, com’era, che alla bellezza naturale bisognasse affidare il massimo riconoscimento possibile, maggiore in ogni caso di quello rivolto a ogni produzione dell’uomo. Dobbiamo sottolineare che in Hegel la caratterizzazione del bello di natura è ascrivibile alla sua filosofia generale e alla visione dialettica delle manifestazioni dello Spirito. Il bello di natura non può infatti soppiantare quello dell’arte, in quanto solo nel secondo emergerebbe la “soggettività ideale” che è segno di liberazione del contenuto e progressivo distacco dalla materia e dalla finitezza. L’ulteriore sviluppo è infatti secondo Hegel quello del pensiero filosofico, della speculazione, che perde ogni contatto immediato con la realtà fisica. Le divergenze tra i due emergono poi confrontando i resoconti e le pubblicazioni di Humboldt con gli scritti più propriamente scientifici di Hegel, quali la Filosofia

della natura. Le asserzioni che mettono in risalto la diversità di vedute sarebbero

svariate ma basti considerare come viene definita l’ontogenesi scientifica da Hegel, per rendere esplicito lo iato: «Una cosa è il percorso attraverso il quale una scienza sorge e i lavori che la preparano, altra cosa è la scienza stessa; in essa quelli [i fatti sperimentali] non possono più apparire come fondamento, fondamento che qui deve piuttosto essere la necessità del concetto»26. La primissima considerazione da svolgere è che in Humboldt nessuna subordinazione è data a concetti, previa verifica diretta. Se nel viaggio ai tropici l’esploratore tedesco avesse dovuto seguire tale precetto la realtà empirica avrebbe assunto il ruolo di fonte secondaria per ogni ricerca, mentre essa diviene l’indizio di partenza. In Hegel inoltre l’atteggiamento di allontanamento

25 Hegel, G. W. F., Lezioni di estetica, tr. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Feltrinelli, Milano 1964, p. 7. 26

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progressivo dalla realtà materica è giustificato dalla necessità di coerenza all’interno del proprio sistema: il principio della superiorità del concetto su ogni altra manifestazione della natura e la riconduzione della vita spirituale al traguardo della Spirito Assoluto. In secondo luogo, se si volesse parlare di storia del globo, la visione di Humboldt si discosta nettamente da quella dialettica di Hegel. Per Humboldt infatti sarebbe stato possibile delineare la storia della terra solo se nel passato gli uomini di scienza avessero applicato quel suo stesso metodo rigoroso di misurazione che caratterizza il modo corretto di procedere del naturalista moderno. La sua fiducia nella possibilità che «la storia naturale filosofica» possa essere scritta, «pur nel mutare dei fenomeni»27, riposa nella convinzione di riuscire a mettere in connessione ragionata i fenomeni del passato con quelli a lui contemporanei. Se si volesse pertanto interpretare la cangevolezza della natura in un sistema dinamico – ma non dialettico – per portare alla luce il segno di un ricorso periodico nel progresso del creato e «soprattutto delle leggi che guidano il procedere delle trasformazioni naturali, sono necessari dei punti fermi»28, vale a dire osservazioni rigorose, effettuate in periodi ben determinati e basate su comparazioni qualitative. Ecco evidenziato in sintesi tutto un nuovo modo di fare scienza, ma soprattutto una nuova filosofia della natura, che, non dobbiamo dimenticare, ingloba anche lo studio dei fenomeni artistici, cioè dei fatti di cultura. Confrontando poi le pagine del secondo filosofo della generazione idealista, Schelling, pare delinearsi una comunanza tematica riguardo all’interesse scientifico e al godimento estetico che l’uomo può provare. La convergenza di queste due “polarità attrattive”, già presenti nel testo schellinghiano Idee per una filosofia della natura, ci mostra come la posizione di cui Humboldt si fa portavoce sia basilare per l’instaurarsi di una geografia estetica improntata sulla nozione di paesaggio. Il godimento di fronte al prorompere della bellezza, quando esso può servire da stimolo allo studio del variopinto mondo di natura, era già presente in parte della letteratura scientifica e divulgativa del Settecento, in particolar modo francese. Charles Bonnet, nel suo famoso testo Contemplation de la Natur29 aveva per primo parlato dell’interesse estetico come incentivo all’indagine naturalistica e si era posto quindi in sintonia con la tradizione di pensiero che scorgeva nell’armonia naturale la legittimazione di una lettura estetica del mondo. Queste posizioni vennero poi trasmesse alla cultura dell’Illuminismo e alla

27 Humboldt, A. v., Quadri di natura, tr. it. cit., p. 297. 28 Ibidem.

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filosofia del primo romanticismo, grazie al fondamentale anello di congiunzione rappresentato dalla figura di Jean Jacques Rousseau.30 Proprio in Schelling tale eredità si manifesta quando nelle Idee egli parla di godimento estetico “che ritorna in se stesso” e diviene “supremo godimento dell’anima”, se alimentato da un apparato di conoscenze scientifico-naturali. Questo sentimento è però in Schelling fondato sull’armonia e affinità di uomo e natura, simbolo a sua volta dell’armonia più perfetta che costituisce l’intero universo. Il concetto di armonia – base della cosmologia e della metafisica leibniziana – era stato infatti posto anche da Bonnet a fondamento della propria ammirazione della natura come opera d’arte, e successivamente aveva avuto in Schelling una evoluzione particolare all’interno della sua filosofia speculativa. Secondo Schelling all’uomo è data la possibilità di conoscere solo uno dei “lati” della natura, e parallelamente di ri-conoscere interamente l’Assoluto nel particolare; il godimento dell’anima è costantemente alimentato dell’incremento di scienza, e rivela, a suo modo di intendere, “come il tutto è meglio delle parti”. Le leggi del creato parlano infatti dell’identità di natura e spirito e della suprema armonia che sta a fondamento di queste due polarità, mentre in Humboldt le leggi di natura sono l’aspetto unificante del cosmo, che ci appare invece mutevole in un primo momento, a causa della diversità dei fenomeni locali. Humboldt non può accettare inoltre – come sostiene Schelling – che lo spirito sia uno sviluppo della materia, un’evoluzione concettuale o di idee, perché essenziali sono lo svolgimento e la modificazione dei fenomeni naturali nel loro collegamento con il mondo esterno (non di certo in base a una connessione metafisica interna a un sistema speculativo sotto l’egida dell’idea Assoluta). La Naturphilosophie metafisica di Hegel e Schelling appare, in conclusione, pur con divergenze ed eccezioni s’intende, distante da quella humboldtiana. Un significato del tutto particolare assume invece il rapporto con la figura di Goethe, che ci fornisce anche preziosi chiarimenti intorno all’estetica del paesaggio di Humboldt. Nel parlare infatti della relazione tra arte e scienza, nelle pagine di Kosmos, l’autore dichiara come il suo intento fosse quello di voler presentare «una visione empirica del tutto della natura nella forma scientifica di un dipinto»31 e, conseguentemente, chi come Goethe, applica una

30 Possiamo sostenere infatti che siano stati tre gli autori francesi maggiormente influenti nella

formazione humboldtiana: J. J. Rousseau, B. de Saint-Pierre e F. R. de Chateubriand. Dal primo Humboldt coglie l’idea della costante attenzione alle peculiarità botaniche durante il camminare (con riferimento alle “fantasticherie”); dal secondo la concezione della natura e la seduzione dei viaggi in regioni tropicali (presente negli Études de la natur); dall’ultimo l’interesse per la pittura di paesaggio (attraverso una lettera di Chateubriand del 1795).

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prospettiva “orizzontale” allo studio dei fenomeni – in particolar modo botanici e geologici – unendo alla riflessione scientifica speculazioni sulla bellezza e sulla poesia, non può che fungere «da stimolo allo studio della natura stessa»32 palesando come anche l’arte sia una manifestazione dell’universo e non un semplice prodotto dell’attività spirituale. «Chi infatti ha spinto in maniera più eloquente a risolvere il sacro enigma dell’universo, a rinnovare l’alleanza che nella gioventù dell’uomo cingeva con un unico laccio filosofia, fisica e poesia?»33. La risposta appare scontata: Goethe è stato un maestro in questo e il suo insegnamento resta da modello per una generazione di studiosi, anche se, come è stato rilevato, la particolare commistione di estetica, scienza, filosofia e biografia che in lui si verifica, non permise al contempo lo sviluppo di una “scuola di pensiero”.34 La metamorfosi delle piante e gli studi botanici, considerati da Humboldt “lavori ispirati”, meritano un posto di riguardo; cosa invece che non accade per l’“arrogante e vacua teoria dei colori” – che opponendosi a Newton – non poteva essere accettata da Humboldt. Ma è soprattutto sul metodo sperimentale e sul nettunismo che i due grandi personaggi ebbero un vero e proprio diverbio personale. Abbiamo accennato nei precedenti capitoli al parziale rifiuto goetheano di far uso della strumentazione tecnologica nell’indagine naturalistica, arroccato qual’egli era nel“empirismo delicato” che necessitava solo dell’aguzzare la vista per rendere manifesto il principio metamorfico che muove lo sviluppo delle forme vegetali. A questa posizione Humboldt contrappone invece la fiducia nelle possibilità rivelative della strumentazione. L’apparato tecnologico deve porsi quale mezzo intermedio di comprensione dei fenomeni, utile, se il fine ultimo è quello di rivelare la realtà naturale anche dove l’occhio umano non può arrivare; e soprattutto se esso può rimuovere le “falle” delle teorie passate. Senza il proprio sestante, senza i barometri, senza cronografo, i molteplici rilievi topografici di zone inesplorate non sarebbero stati possibili e quindi, banalmente, non sarebbe stata possibile la stesura di corrette mappe d’atlante e il progresso della scienza geografica. Se il buon utilizzo presuppone progresso nelle conoscenze – anzi sarebbe meglio dire “approfondimento” delle conoscenze, per usare le parole dei Quadri – lo scienziato ha il dovere di farne uso: in tal senso il procedere humboldtiano è stato interpretato in ottica positivista, anche se l’applicazione strumentale non è finalizzata a un dominio del mondo e al sogno utopico

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Ivi, p. 75.

33 Ivi, vol. II, libro I, p. 64.

34 Cfr. Engelhardt, D. von, Goethe e la scienza dell’epoca romantica, in Goethe scienziato, a cura di G.

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di sfruttarlo senza alcuna intenzionalità. Il secondo punto di rottura con Goethe era relativo alla teoria “nettunista”. Goethe si era infatti dichiarato a favore di questa posizione, muovendosi quindi sulla linea di pensiero impostata da Abraham Werner alla fine del Settecento, rifiutando l’ipotesi “vulcanista” (detta anche “plutonista”) per la spiegazione dell’attuale conformazione della crosta terrestre. Humboldt invece, a seguito dell’esplorazione dei vulcani andini, era riuscito a verificare come l’attività dei vulcani avesse provocato la formazione di stratificazioni geologiche sovrapposte, chiaro risultato dell’azione secolare del magma emerso e del suo raffreddamento. Inoltre la temperatura terrestre, crescendo sempre più nella discesa in grotte o nelle miniere, evidenziava come andando verso le profondità della litosfera, in direzione del nucleo centrale, ci si imbatte progressivamente in una sorprendente sorgente di calore: in tal maniera veniva soppiantata la teoria werneriana del nucleo interno freddo, solido e composto di pietra dura. A livello generale invece, le catene montuose appaiono a Humboldt come il risultato dell’influenza esercitata dai vulcani, in quanto in loro prossimità egli registra attività sismica costante; questa, nei secoli, avrebbe provocato modificazioni della superficie: un altro caposaldo della teoria nettunista era stato compromesso. Inoltre la presenza di fossili o conchiglie marine su alture non era, a detta di Humboldt, da imputare al ritirarsi dell’ampio mare che avvolgeva le terre emerse in ere remote – altrimenti sarebbe stato impossibile spiegare ove fosse andata tutta l’acqua prosciugatasi – ma quanto piuttosto a vere e proprie «rivoluzioni naturali (inondazioni o trasformazioni di origine vulcanica della crosta terrestre)»35 che sembrerebbero anticipare la successiva teoria della tettonica a placche. Distanziandosi quindi dalle filosofie dominanti al suo tempo Humboldt aveva tracciato, anche prima del viaggio, gli elementi della propria epistemologia. Se, come è emerso, lo sforzo di Humboldt per una revisione del linguaggio scientifico attraverso la pasigrafia – abbandonata parzialmente ed evolutasi nel linguaggio cartografico per profili zonali – sottintendeva anche una revisione generale dell’idea di natura, è pur vero che per fare questo fondamentale è ripensare la geografia fisica kantiana in termini universali, cioè di geognosia, attraverso lo sviluppo di una concezione di natura sovrapponibile all’idea stessa di paesaggio. Per conoscere la natura, per averne un contatto diretto, già Kant aveva indicato come basilare il viaggiare: quindi esplorare la natura “dal vero” e in prima persona. In questa nuova prospettiva teorica notevole spazio è dato quindi al

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riconoscere e “ritrarre” le caratteristiche essenziali delle regioni visitate, quelle stesse caratteristiche che Humboldt tenta di rappresentare nella cartografia. Il metodo comparativo si era infatti concentrato su vari aspetti corologici misurabili della superficie terrestre e sul manto vegetale, il solo che insieme al carattere cromatico del cielo, rende una contrada attraente, “pittoresca”, e riconoscibile per una certa fisionomia.

§ 2

I “Quadri di Natura” e la svolta teorica nella concezione di paesaggio

Humboldt, al momento della pubblicazione dei Quadri è consapevole che «malgrado il bel vigore e la duttilità della lingua natia (il tedesco ovviamente), la trattazione estetica degli oggetti della storia naturale presenta grande difficoltà»36, così come problematico risulta delineare una storia naturale con pochi preamboli filosofici; anche se a quell’epoca – sostiene lui stesso – era consueto dare “una veste poetica a contenuti semiseri”. Solo a titolo d’esempio, nel saggio Sulle cataratte dell’Orinoco. Atures e

Maipures, relativo alla descrizione dei momenti della risalita del fiume Orinoco alla

ricerca della sua foce, Humboldt si sofferma con attenzione sulla descrizione delle cataratte (brevi cascatelle interne al fiume causate dal dislivello e dalla presenza di grossi massi rocciosi simili a isolette) e sugli scenari naturali di Atures e Maipures, nella Guyana. Questo saggio delinea con limpidezza l’uso della categoria concettuale del pittoresco in un significato “evoluto” rispetto alla sua tradizione e al contempo segna l’allontanamento definitivo dall’uso del kantiano sublime di natura per parlare dell’emozione che la natura trasmette all’uomo. È particolarmente interessante notare l’utilizzo da parte dell’autore, in queste pagine, di tutta una lessicografia mutuata dalla pittura: “Ho dipinto le immense pianure”; “Ho osato riunire tutto in un ampio affresco naturale”; “Gli schizzi tratteggiati dalla nave”, a dimostrazione di come le sue descrizioni ambissero davvero a parlare lo stesso linguaggio della letteratura artistica. Già dal 1808 emerge una teoria estetica della natura, il cui nucleo principale consiste nell’associare piacere della visione all’interesse scientifico, e in particolar modo nel considerare il piacere estetico il vero motore dell’approfondimento naturalistico e geografico. In questa che potremmo definire “geografia estetica”, la novità principale

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sta tutta nella consapevolezza che la natura parla sempre prima all’animo, con le sue immagini eccezionali, anche se spesso “ammassate”, e solo in secondo momento essa si rivela significativa alla ratio umana. Rispetto al carattere fisico naturale delle steppe, oggetto del primo saggio,37 in cui la privazione di vegetazione e le ampie distese desolate erano state presentate entro una gamma di colori concilianti con un senso di malinconica solitudine, nel saggio sulle cataratte egli si appresta a delineare invece un “quadro piacevole”: «Una vegetazione lussureggiante e fiumi schiumosi che scorrono nel fondo delle vallate»38. L’elemento distintivo di questa seconda tavola pittorica è l’emergere di uno spettro cromatico generale che conduce la nostra attenzione verso le variazioni dei colori del cielo in quelle regioni equinoziali. Infatti:

L’impressione che lascia a noi la vista della natura è determinata, più che dallo specifico carattere del paesaggio, dalla luce sotto alla quale monti e campi ci appaiono, volta a volta, rischiarati dal limpido azzurro del cielo o dall’ombra di basse nuvole. Allo stesso modo le descrizioni della natura agiscono con maggiore o minore intensità sul nostro animo, secondo che siano più o meno in armonia con i bisogni della nostra sensibilità; poiché il mondo fisico si riflette, vivo e vero, nel nostro più intimo paesaggio, il profilo dei monti che delimitano l’orizzonte in una nebulosa lontananza, il colore scuro delle abetaie, il torrente che si getta con fragore tra le rocce a strapiombo, tutto ciò è in un’antica, misteriosa relazione con la vita interiore dell’uomo.39

La luce, le tonalità del cielo, l’influsso dell’ombra, sono tutti elementi che secondo Humboldt portano anche a variazioni dell’aspetto emotivo, o sarebbe meglio dire “suggestivo”, del paesaggio sull’uomo. È singolare notare come queste affermazioni, pubblicate nel 1808 ma annotate durante il viaggio, quindi tra il 1799 e il 1804, siano coeve, se non precedenti, alla riflessione che nella pittura di paesaggio europea di quel periodo teneva impegnati artisti come Turner.40 Le tonalità paesistiche e il cromatismo

37 Ivi, pp. 11-122. 38 Ivi, p. 123. 39

Ivi, p. 124.

40 Questi infatti già nel 1798 con l’opera Mattino fra le alture di Coniston nel Cumberland aveva tracciato

una nuova maniera di rappresentazione del paesaggio, che mirava alla resa pittorica dei cieli. In un testo teorico, il Liber studiorum, opera sulla quale Turner lavora tra gli anni 1807-1819 pubblicando delle composizioni ricavate da disegni svolti nell’arco di quasi un ventennio, è possibile – essendo lavoro teorico e pittorico al contempo – comprendere l’evoluzione interna alla propria modalità pittorica e la sempre maggior importanza degli studi sulla luminosità e sul cromatismo dei cieli per una perfetta comprensione dell’atmosfera che domina un paesaggio – aspetto che lo accomuna a Humboldt appunto –.

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dei cieli sono in Turner, ma anche in Humboldt, registro delle tonalità psichiche, come se il paesaggio naturale si mostrasse sensibilmente in qualità di “forma spirituale” alla nostra ricezione. In Humboldt il paesaggio tropicale si trasforma in oggetto estetico prima ancora di diventare oggetto scientifico e si mostra esso stesso come prodotto di una sorta di genialità naturale e spontanea che prevarica o anticipa la sua possibile comunicabilità. L’idea di genius loci, seppur non in maniera esplicita, si insinua infatti nelle pagine dei Quadri ma anche di Kosmos. La natura infonde a chi la osserva e la contempla (nel nostro caso l’Humboldt scienziato) quella genialità che è dote propria dell’artista (trasferendo a quest’ultimo il proprio ingenium). Siamo all’interno di uno dei dibattiti più prolifici della cultura di quel tempo: l’artista-narratore imita la natura, plasmandola e “lavorandola” con la propria lingua e il proprio genio, superando così la natura stessa quanto ad artificio e inventiva. Humboldt sostiene che è la natura a fornire ai sensi una «misteriosa inspirazione», quel “non so che” che diviene «diletto per la nostra immaginazione»41, la quale esercita, nel momento della contemplazione stessa, la sua potenza creatrice assegnando al paesaggio contemplato, prima ancora che a quello descritto e raccontato, il valore di opera d’arte. Parlando delle “variabili fisiche” nella percezione di un paesaggio abbiamo accennato anche allo stato d’animo di chi osserva, proprio perché in Humboldt esso si può rivelare essenziale: ma non per la topografia del luogo, che rimarrebbe tale al variare del “fattore spettatore” o al mutare delle sue sensazioni “sul posto”, quanto per la trasmissione del quadro, nel momento successivo alla fruizione quindi, veicolando così un’immagine mentale specifica di un territorio (o di territori) a una massa di possibili fruitori. Ovviamente in Humboldt nessuna immagine, né disegnata né narrata, può sostituire la visione diretta, in prima persona, nel “seno della natura” – come piace ripetere all’autore – soprattutto se vogliamo davvero restare sedotti da essa. Ciò accade in quanto è soltanto in presenza del fenomeno, o immediatamente dopo averne ricevuta l’impressione, che la freschezza e la vivacità dell’immagine colpiscono il nostro apparato sensoriale. L’uniformità, o il carattere “universale e soggettivo” – se volessimo mutuare una terminologia kantiana – delle impressioni sensibili si focalizza proprio intorno al nucleo concettuale del

Oltre a contenere una vera e propria classificazione per generi, delle polivalenti modalità di raffigurazione del paesaggio (“storico”, “montagnoso”, “pastorale”, “marino”…), che non sottovaluta l’elemento architettonico all’interno della rappresentazione, il Liber Studiorum vuole essere un’indagine del carattere dei luoghi, della loro natura intima; una vera e propria poetica della natura che si esprime con delle vedute a stampa e con annotazioni scritte. Turner si occupa anche dello studio della rifrazione e della forma delle nuvole, tema che in qualche modo è legato anche alle indagini di Humboldt sul campo. Cfr. Hunt, J. D.,

John Ruskin, la Topografia Turneriana e il genius loci, in «Eidos», 5 (1990), pp. 41-42.

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paesaggio. Infatti, pur nella indubbia differente modalità di percezione di un paesaggio raccontato, il fattore che per Humboldt resta costante è il palesarsi della vita, a ogni latitudine e sotto ogni clima, fattore che è impossibile tralasciare. Per questo:

l’uomo che esplora la natura con la mente e i sensi ben desti o che misura nella fantasia i vasti spazi del creato popolati da organismi, è certo soggetto a molte e diverse impressioni, ma nessuna è così forte e così intensa come la sensazione della universale diffusione e ricchezza della vita.42

La vita anima ogni località della terra: dai poli, ai deserti, dalle pianure europee e alle dorsali andine, rendendo l’atmosfera ebbra di una sorta di energia pulsante, il regno organico animale e vegetale, che ovunque mostra i propri attributi e le proprie peculiarità – ponendosi quindi al medesimo livello di importanza del cielo, per ciò che concerne l’identificazione di un luogo –. Sono le forme viventi a imprimere a ogni regione un “carattere fisiognomico”, come ricorderà Humboldt in una memoria letta all’Accademia di Berlino nel 1823,43 e il tipo vegetale diviene fattore di riconoscibilità immediata di un paesaggio, tratto distintivo di esso, quasi la “firma” che facilita l’interpretazione del geografo. L’“ingombro” delle figure umane è invece ridotto al minimo nel quadro, come anche la descrizione di monumenti e di ruderi passati, che nell’opera del 1808 restano rilievi di secondaria importanza rispetto a quanto si verifica nell’Atlas pictoresque. Ancora fino al 1808 l’intento principale è quello di rivestire il paesaggio di significati più prossimi alla scienza, o al massimo al pensiero politico. Non è infatti da sottovalutare il ruolo metaforico che rivestono per esempio le descrizioni entusiastiche dell’ambiente montano all’interno dei Quadri, che giustificano le intenzioni di tratteggiare la vita in altura, solitaria, e nella totale dipendenza da leggi cosmiche come il manifestarsi di una vita libera dal dispotismo europeo.44 L’esortazione poetico letteraria nell’esplorare la natura la troviamo invece anche in Hölderlin, amico e condiscepolo di Schelling ed Hegel, il quale aveva

42 Humboldt, A. v., Quadri di natura, tr. it. cit., p. 175. 43

Cfr. Ivi, pp. 289-307.

44 La montagna è il luogo simbolico della libertà come già lo era stata per l’amico Schiller che l’aveva

innalzata a luogo di riparo «dal tempestoso flutto degli eventi», fonte ristoratrice per gli “animi oppressi” e sede dell’“etere puro”. Per questo l’autore aveva esortato il pubblico sin dalle prime righe a seguirlo nell’intrico delle selve, nelle pianure andine e sopra i pericolosi vulcani sud americani: perché il lettore potesse afferrare tutto quello che egli personalmente aveva provato di fronte all’incanto pieno di mistero della natura, e allo stesso tempo sentirsi “ristorato” da una descrizione ricolma di significati ben più profondi di quelli estetici o scientifici.

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compendiato in un passo decisivo la problematica sostenendo che «la natura nelle sue belle forme ci parla in modo figurato, e l’ufficio di spiegare la sua scrittura cifrata è stato affidato al nostro sentimento morale»45. È indicativo come l’ambivalenza del termine paesaggio in Humboldt, pur essendo più vicino alla categoria estetica del pittoresco, colga alcuni aspetti del rapporto uomo-paesaggio-natura sublime che invece è propria di Kant. Anche se, è bene sottolinearlo ancora una volta, in Humboldt non c’è una trasmutazione di segno delle emozioni provate al cospetto della grandezza del cosmo: sensazione di paura e di sgomento che nel sublime kantiano diveniva positiva a seguito di riflessione al limite dei confini delle idee di ragione. Spostandoci infatti momentaneamente in alcune pagine del Kosmos, riproposizione fedele del discorso tenuto da Humboldt durante una conferenza all’Accademia di Berlino nel 1844, è ancora chiaro come i diversi gradi di godimento (Genuss) nella contemplazione siano, coerentemente alle sfaccettature degli stati d’animo emergenti dai Quadri, «eccitazione che recano in sé una forza misteriosa: rasserenanti e inquietanti; tali che ravvivano lo spirito affaticato; sovente recano pace all’animo dolorosamente commosso nel proprio profondo, oppure agitato dal tumultuoso incalzare delle passioni»46. Il contrasto tra l’infinità della natura, la sua grandezza e la sua bellezza avvolgente, e la limitatezza dell’approccio scientifico, se questo non è accompagnato dall’apprezzamento estetico (e quindi da una educazione estetica), non è qui affatto negativo, anzi pare quasi un dono di natura, una dote positiva lasciata solo all’uomo come stimolo alla ricerca di un ordine universale nella particolarità delle singole manifestazioni. La contemplazione è quindi vissuta in tutte le sue forme e così Humboldt riesce a mettere a frutto l’ambivalenza del termine paesaggio: visione pittorica particolare leggibile esteticamente, ma anche manifestazione di natura, documento da decifrare ed emblema del rivelarsi dei fatti di scienza. La sua strategia è quindi quella di assegnare al quadro di paesaggio un forte valore veritativo (avvalendosi di un principio strettamente mimetico) e rivelativo, facendo uso di un linguaggio geografico rinnovato (dal metodo e dalla strumentazione), proponendo quindi una visione quanto più esatta del territorio che sta descrivendo, per renderlo riconoscibile a prima vista. Allo stesso tempo però, “caricando” la descrizione di dati emozionali, considerati in tutto e per tutto elementi del bagaglio esperienziale, si potenzia l’intelligibilità stessa dei luoghi. Per tale ragione,

45 Hölderlin, F., Prologo dell’Inno alla bellezza in Tutte le liriche, a cura di L. Reitani, Mondadori,

Milano 2001.

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parlando dell’attività eruttiva del Vesuvio, egli non si nasconde dal dichiarare che «con una semplice occhiata ai paesaggi di Hackert nel Palazzo Reale di Portici, uno storiografo del vulcano potrebbe indovinare, dal contorno delle cime del monte, l’anno nel quale l’artista ha abbozzato lo schizzo del suo quadro»47 (e quindi come nei diversi anni è mutato il profilo del cono vulcanico) e allo stesso tempo sostenere che la scalata di quell’altura è cosa di poca emozione e di scarsa fatica se messa a confronto con i rischiosissimi passaggi percorsi per guadagnarsi la vetta del Chimborazo o del Cotopaxi. Nella presentazione dell’esperienza personale di esploratore lo spazio geografico che Humboldt ricrea nei suoi scritti, e che ha il proprio fulcro nei paesaggi, si dilata progressivamente in dimensioni che sfuggono alla possibilità di essere “cartografati”, di essere cioè individuati e fissati nelle consuete forme di scrittura di cui tutta la tradizione geografica a lui precedente, compreso Kant, si era servita. Lo stesso Goethe, riconosce l’abilità di seduzione di Humboldt scienziato, facendo annotare a Ottilia nel suo diario all’interno de Le affinità elettive l’affermazione che ogni biografo di Humboldt cita: «Come mi piacerebbe sentire raccontare Humboldt, anche una volta sola!»48. La considerazione che Humboldt aveva di se stesso come “scrittore divulgativo” non era invece così alta, in considerazione del fatto che egli si sentiva scienziato a tutti gli effetti. Ma, in qualità di innovatore in campo geografico e di teorizzatore di un sorta di funzione sociale della scienza, egli tenta con i Quadri di suscitare l’interesse verso le scienze naturali attraverso una sempre maggiore presa di coscienza dei diversi paesaggi del globo; la sua figura di scienziato e di teorico del paesaggio si pone in particolare evidenza all’interno della cultura del suo tempo. È stata anche delineata la possibilità di leggere nella sua opera – proprio a partire dai

Quadri sino a Kosmos – una vera e propria “poetica della natura”, oggettivamente

connessa all’esposizione letteraria del tema del bello di natura negli scrittori del primo romanticismo tedesco.49 Indubbiamente il ruolo da lui assegnato al paesaggio, termine che da ora in poi si porrà per importanza sullo stesso piano della mappa d’atlante quale fonte principale di informazione su un territorio, coglie e sviluppa elementi della cultura a lui più vicina: quella tedesca ma anche quella francese – in particolar modo nelle opere di letterati quali Rousseau, Chateubriand o Saint-Pierre – e, non da ultimo,

47 Humboldt, A. v., Quadri di natura, tr. it. cit., p. 299.

48 Goethe, J. W. Le affinità elettive, tr. it. di A. Vigliani, Mondadori, Milano 2002, p. 191. La citazione,

ben più ampia e meritevole di approfondimento, inizia con un chiaro elogio di Humboldt: «Degno di stima è il naturalista, che sa illustrare e rappresentare per noi le cose più strane e più rare, ciascuna nel suo luogo, con tutto il suo ambiente e nel suo particolare elemento».

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quella del panorama internazionale della storia dell’arte. A tutto ciò bisogna aggiungere il fatto che la sua formazione “polifonica” andava dal vasto mare delle scienze naturali alla poesia classica, e contemplava anche tutto il filone della cosiddetta letteratura di viaggio, alla quale anche la sua opera è certamente ascrivibile. È sul posto che occupa all’interno della sua argomentazione la morfologia del paesaggio naturale che però dovremo ritornare, in quanto uno spazio di rilievo è assegnato al problema della fisiognomica della vegetazione, unica ipotesi nella sua estetica del paesaggio che ebbe un’effettiva influenza in pensatori successivi. Per comprendere appieno la distanza però dai suoi predecessori sul tema del paesaggio bisogna soffermarsi anche sulla diversa concezione del viaggio che caratterizza l’autore, proprio perché è durante il viaggio di esplorazione che lo scienziato incontra il paesaggio e lo vive di persona. Humboldt dichiara in più luoghi il superamento che intende mettere in atto andando oltre ciò che le spedizioni per mare dei secoli precedenti avevano reputato sufficiente, ovvero la semplice registrazione della costa. L’interesse di Humboldt è rivolto alla conoscenza dell’interno, di ciò che non si rivela al viaggiatore stando ormeggiati al largo con il binocolo, ma solo penetrando nell’intricarsi della vegetazione di un continente. Lo scarto era rimarcato dal fatto che le spedizioni geografiche settecentesche erano subordinate a osservazioni geografiche spurie o di astronomia nautica – il paesaggio era quindi solo lo sfondo, era visto in lontananza e senza quella accuratezza che sola avrebbe potuto renderlo vero protagonista – mentre l’esploratore tedesco è fermamente convinto che «al di là di una brulla costa» si possano scorgere «cortine ammantate di vegetazione, che la lontananza sottrae tuttavia alle ricerche. Non è certo viaggiando sotto costa – sottolinea Humboldt – che si può riconoscere la direzione delle formazioni montuose e la loro costituzione geologica, individuando il clima tipico di ciascuna zona e le sue influenze sulle forme».50 Per questo la natura deve essere primariamente vissuta, deve essere studiata “da vicino”, anzi dal suo interno; ma esserne all’interno e viverla da vicino porta un conseguente incremento di stimoli diretti: quantitativamente avere a disposizione più materiale scientifico, e qualitativamente subirne il fascino e l’emozione in maniera più profonda. Ecco perché i suoi Quadri sono la riproposizione fedele di entrambi gli aspetti ricordati: magazzino di dati incogniti da indagare “in laboratorio”, e testimonianza del sentimento positivo di chi contempla una natura nuova. Al di là di ogni impulso filosofico e dell’impeto al continuo progresso della

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scienza che sta alla base della sua epistemologia, c’è una questione di sensibilità «alla bellezza selvaggia di una terra irta di montagne e coperta da antiche foreste»51, una sorta di predisposizione giovanile a scorgere l’ordine e la bellezza in ciò che apparentemente si mostra come caotico, senza regolarità, e che per di più era stato spesso presentato con attribuzioni del tutto negative da un’intera tradizione della letteratura di viaggio extracontinentale.52 Essendo però i presupposti scientifici dell’esploratore tedesco saldamente ancorati sulla possibilità di trovare, registrare e comunicare dei “felici Tropici” un’immagine pienamente equiparabile al continente europeo – almeno dal punto di vista delle leggi geognostiche che regolano la vita su quelle terre – anche la possibile lettura estetica ne risulta influenzata. La prima considerazione da fare a riguardo dell’atteggiamento seguito da Humboldt nella sua attività di esploratore è certamente il fatto che nulla di ciò che gli si presenta allo sguardo è definito “illimitato”, “indefinito”, “oltremisura” o non suscettibile di indagine razionale (intendendo qui genericamente la facoltà intellettiva). Con un presupposto di tal genere – che possiamo vedere in opera in ogni fase dell’esplorazione in sud America, al cospetto di qualsiasi fenomeno, naturale o umano, che egli incontra – anche l’uso di quella che Kant aveva definito “facoltà di giudizio” dimostra con chiarezza il rifiuto di ogni presentazione della bellezza paesaggistica con accenti spaventevoli. La grandiosità dei vulcani andini, l’impeto dei corsi d’acqua, l’infittirsi della foresta equatoriale non provocano quel piacere negativo caratteristico del sublime kantiano – come abbiamo già avuto modo di ricordare – né possiedono il fascino tenebroso delle atmosfere gotiche tanto in voga nella letteratura revival inglese. In nessun luogo come nei Tropici, «sotto “il cielo indiano”, come veniva chiamato nel Medioevo il clima della zona torrida», è possibile scorgere «l’aspetto più nobile del

piacere che la natura ci offre»53. Sia nell’immediatezza della visione che nel ricordo di

51 Ivi, p. 3.

52 Giustificheremo questa affermazione nelle pagine che seguono. È bene qui rimarcare che il

procedimento mentale dell’uomo europeo lungo i secoli, in relazione alle terre dell’America del Sud, è stato contrassegnato da due fasi. Una prima, immediatamente dopo la “scoperta”, nella quale immagini fiabesche si intrecciavano ai primi dati veritieri che venivano registrati – anche perché la convinzione iniziale fu quella di aver trovato le Indie –; e una seconda fase, da metà Cinquecento fino all’epoca di Humboldt, in cui il paradigma mentale del mondo occidentale fu quello di impossessamento e dominio delle terre del nuovo continente. È in questa seconda fase che l’impossessamento e la colonizzazione, per certi aspetti brutale, portò con se anche la considerazione che quelle zone fossero abitate da uomini “inferiori” culturalmente, e per conseguenza l’intero mondo abitato da quelle persone venne caratterizzato in maniera negativa e inferiore alla realtà Europea.

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un «bellissimo paese lontano […] l’animo viene alleviato e fortificato»54, non “attratto e respinto” – come ebbe a dire sempre Kant nelle immortali pagine della terza

Critica.55 L’adozione dei canoni del pittoresco in riferimento alle regioni equatoriali

può essere interpretata come il sintomo più evidente dell’evoluzione nel gusto di un epoca – a cavallo tra l’ultimo trentennio del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento – che negli autori della letteratura romantica suoi contemporanei non si verifica.56 La

Frühromantik tedesca si era infatti fatta depositaria del sublime di origine kantiana, ma

anche schilleriana, e lo aveva plasmato, attraverso l’artificio poetico-narrativo, traducendolo in scene cariche di significati simbolici, in mirabili affreschi di paesaggio che turbavano però, o emozionano profondamente, chi ne fruiva, provocando quel movimento di sistole e diastole, attrazione e repulsione, commozione e nostalgia, misto a profonda idealità, che coglierebbe il lettore immerso in quelle atmosfere. Si potrebbero addurre svariati esempi a riguardo, estrapolandoli dalle opere dei vari Novalis, Hölderlin, Tieck – anche se il tema specifico del paesaggio all’interno della letteratura romantica meriterebbe un’approfondita indagine mirata. Ma basti solo pensare alla specificità dei differenti significati simbolici del paesaggio emergenti dagli scritti di un medesimo autore, come per esempio Hölderlin, per comprendere il ruolo (o i ruoli) che la natura assume nei diversi contesti: dalle Liriche alla Morte di Empedocle sino all’Iperione, il tratto comune resta l’emergere di una esteticità diffusa grazie alla parola poetica, unica via per la figurazione del paesaggio che non conduce a un banale e freddo descrittivismo. L’infinità della natura (eredità del sublime kantiano) e il suo aspetto divino (innovazione schilleriana successivamente ripresa da tutto il “circolo di Jena”) divengono anelito per l’uomo verso una sospirata riconciliazione che si fonda sul nostos verso l’antichità aurea della bella natura e della dolce vita umana e animale.57 L’insieme di questi motivi, solo sommariamente esposti, ci può far capire, per contrasto, come l’esperienza humboldtiana si presenti in qualità di unicum

54 Ibidem.

55 Cfr. Kant, I, Critica del Giudizio, tr. it. cit., p. 92.

56 Cfr. Assunto, R., Il paesaggio e l’estetica, I, cit., in particolare i capitoli III, IVe V.

57 Basterebbe, a nostro parere, citare una delle primissime affermazioni di Iperione a Bellarmino

nell’Iperione quando il protagonista si trova nei pressi dell’istmo di Corinto, per comprendere il differente senso “romantico” per il paesaggio, la diversa Sehnsucht: «L’amato suolo natio suscita nuovamente in me gioia e dolore […]. O felice natura! Non mi so render conto di ciò che avviene in me quando levo lo sguardo verso la tua bellezza […] Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le delicate onde del vento giocano intorno al mio petto. Perduto nell’ampio azzurro del cielo, levo lo sguardo su verso l’etra e giù verso il mare sacro e mi sembra che uno spirito fraterno mi apra le breccia e che il dolore della solitudine si sciolga nella vita della divinità» (Cfr. Hölderlin, F., Iperone, tr. it. di G. V. Amoretti, 6ª ed., Feltrinelli, Milano 2004, pp. 27-29.)

Figura

Fig. 47 Heart of Andes
Fig. 49 Cayambe

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