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1) I DISTURBI DELL’UMORE INTRODUZIONE

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

1) I DISTURBI DELL’UMORE

L’umore è il tono affettivo di base che colora l’intera esperienza del soggetto. L’umore va normalmente incontro a fluttuazioni e improvvisi cambiamenti e questo suo elevato grado di plasticità permette adeguate risposte a eventi diversi, situazioni esterne ed interne, senza che assuma caratteri patologici. Le oscillazioni dell’affettività tra i due poli opposti della tristezza e dell’euforia svolgono, quindi, importanti funzioni adattative, permettendo al singolo individuo di adottare strategie comportamentali adeguate al mutare delle circostanze. Nel caso, però, si verifichi una disfunzione dei sistemi neurofisiologici alla base della nostra affettività, l’ampiezza e la durata delle oscillazioni dell’umore oltrepassano la soglia dei bisogni adattativi, sfociando in condizioni psicopatologiche caratterizzate dall’incapacità di mantenere un equilibrio affettivo con l’ambiente circostante e da sintomi psicomotori, cognitivi e neurovegetativi.

a) Epidemiologia e fattori di rischio

I disturbi dell’umore costituiscono una patologia molto diffusa nella popolazione generale ed in particolar modo la depressione costituisce un motivo frequente di consultazione del medico di base. Circa il 20% della popolazione nell’arco della vita va incontro ad episodi depressivi o maniacali con un rapporto di 1:3 fra forme unipolari e bipolari.

La depressione maggiore nel corso della vita ha una prevalenza del 21,3% nelle donne e del 12,7% negli uomini (Kessler, 2003), con una frequenza doppia nelle donne documentata in diversi Paesi ed in diversi gruppi etnici (Weissman e Klerman, 1997; Weissman e coll, 1996; Lutch e Kasper, 1999). Il disturbo bipolare ha una prevalenza che varia tra l’1% e il 5% nella popolazione generale (Muller-Oerlinghanusen e coll, 2002; Jonas e coll, 2003); la prevalenza lifetime del disturbo bipolare I è dello 0,4% (Kessler e coll, 1994) e per il disturbo bipolare II varia dallo 0,5

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al 3% (Bauer e Pfennig, 2005). L’esistenza di una suscettibilità genetica per molti disturbi mentali è un dato ampiamente riportato in letteratura. In particolare, per i disturbi dell’umore la percentuale dei casi con una componente ereditaria è stata calcolata fra il 50% e l’80%(Merikangas e Kupfer, 1995)

Alla familiarità si aggiungono altri fattori di rischio:

 sesso: la depressione maggiore ha una frequenza doppia tra le donne, il disturbo bipolare I ha una pari distribuzione fra i due sessi (Bauer e Pfennig, 2005), il disturbo bipolare II viene descritto con una frequenza maggiore nelle donne (American Psychiatric Association, 2000), anche se alcuni studi non riportano alcuna differenza di genere (Hendrick e coll, 2000).

 età: i disturbi dell’umore possono presentarsi a qualsiasi età, ma hanno un picco di incidenza tra i 18 e i 44 anni (in media 30 anni). Le forme familiari, come larga parte delle malattie ereditarie, hanno un esordio precoce.

 stato civile: tra i pazienti bipolari sono frequenti i celibi, i nubili ed i separati. Tale evenienza può essere spiegata con la giovane età dei pazienti, con l’influenza negativa della malattia sui rapporti affettivi, o con la possibilità che lo stress da separazione costituisca un fattore scatenante.

 classe sociale: il disturbo bipolare risulta più frequente nelle classi sociali più elevate, forse come conseguenza delle caratteristiche temperamentali di questi pazienti, che hanno loro permesso il raggiungimento di livelli sociali elevati, o come conseguenza dello stress a cui tali individui sono sottoposti.

b) Eziopatogenesi ed eventi scatenanti

L’eziopatogenesi dei disturbi dell’umore è di tipo multifattoriale, con basi sia biologiche che psicologiche. I fattori che, interagendo fra loro a diversi livelli ed in misura differente sembrano contribuire alla comparsa di un disturbo dell’umore sono: i caratteri genetici, eventi che avvengono precocemente nella vita, stress fisici o psicosociali recenti o in corso.

Tali fattori agiscono a livello dei sistemi neurobiologici coinvolti nei disturbi dell'umore, con un effetto cumulativo e talora sinergico, sebbene l'eziologia della patologia affettiva non sia ancora ben chiara e definita.

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monoaminergica, secondo cui i pazienti depressi presentano bassi livelli dei

neurotrasmettitori serotonina e noradrenalina. Gli antidepressivi incrementano rapidamente i livelli delle monoamine tuttavia l'effetto terapeutico si verifica solo dopo 2-3 settimane dall'assunzione, senza considerare che alcuni pazienti non rispondono al trattamento. Sono stati proposti meccanismi di desensibilizzazione recettoriale per spiegare tale discrepanza, tuttavia vari aspetti dei disturbi dell'umore non appaiono completamente chiariti da questa teoria.

Studi in cui si provoca una riduzione acuta dei livelli di serotonina, tramite ingestione di una miscela di aminoacidi senza triptofano, hanno evidenziato la comparsa di sintomi depressivi solo in pazienti in corso di trattamento antidepressivo o da poco in remissione, ma non in soggetti sani o con familiarita` per disturbi dell'umore (Ruhe e coll, 2007).

E` probabile che un precedente episodio depressivo alteri il sistema serotoninergico in modo da renderlo piu` vulnerabile agli effetti di future variazioni dei livelli di serotonina (aan het Rot e coll, 2009).

Certe varianti genetiche, dette polimorfismi, possono aumentare il rischio di depressione, ed in particolare si tratta proprio dei geni che controllano il metabolismo o i recettori delle monoamine.

Il gene del trasportatore della serotonina e` sicuramente il piu` studiato per quanto riguarda i disturbi dell'umore; esso contiene un polimorfismo che da` origine a due differenti alleli, long e short. L'allele short rallenta la sintesi del trasportatore, la cui funzione e` di ricaptare la serotonina presente nel vallo sinaptico.

Si pensa che tale variante riduca la velocita` di adattamento del neurone serotoninergico a cambiamenti nella sua stimolazione (Lesch e coll, 1996).

Lo stress acuto aumenta il rilascio di serotonina per cui possedere tale polimorfismo potrebbe influenzare la sensibilita` del soggetto allo stress. In effetti soggetti sani con l'allele short mostrano un'attivazione esagerata dell'amigdala quando esposti ad uno stimolo stressante (Munafo e coll, 2008), inoltre hanno una probabilita` maggiore di peggioramento dell'umore in seguito a deplezione di triptofano (Neumeister e coll, 2002).

Recentemente e` stata evidenziata un'associazione tra i disturbi dell'umore e i fenomeni di plasticita` neuronale.

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dell'ippocampo adulto in corso di stress e depressione (Warner-Schmidt e Duman, 2006). Tali alterazioni sono reversibili in seguito a trattamento cronico con antidepressivi (Warner-Schmidt e Duman, 2006).

I fenomeni di plasticita` neuronale coinvolgono l'azione dei fattori neurotrofici, come il brain-derived neurotrophic factor (BDNF), la cui espressione e` regolata dall'attivita` neuronale. L'ipotesi neurotrofica della depressione propone che essa sia associata a ridotti livelli cerebrali di BDNF, e che i trattamenti antidepressivi agiscano tramite un aumento dei livelli di BDNF (Duman, 2002).

Uno studio di meta-analisi ha mostrato una forte evidenza di livelli di BDNF piu` bassi in soggetti depressi rispetto ai controlli, e un aumento significativo dei livelli di BDNF dopo trattamento antidepressivo (Sen e coll, 2008). E` stato riportato un aumento del BDNF sia sierico che plasmatico dopo terapia ECT in depressi farmacoresistenti (Bocchio-Chiavetto e coll, 2006; Marano e coll, 2007; Okamoto e coll, 2008; Hu e coll, 2010).

I livelli di BDNF appaiono ridotti sia nella fase depressiva che in quella maniacale del disturbo bipolare ed aumentano dopo trattamento farmacologico della fase maniacale (Lin, 2009).

Un polimorfismo genico che modula l'interazione tra sistema serotoninergico e stress psicosociale riguarda proprio il gene del BDNF. L'abilita` del sistema serotoninergico di adattarsi ai cambiamenti in risposta a stimoli sembra mediata da questo fattore neurotrofico (Martinowich e Lu, 2008).

Una stretta correlazione e` presente tra disturbi dell'umore e sistema endocrino; quadri depressivi o maniacali possono manifestarsi in corso di patologie endocrine (disfunzioni tiroidee, morbo di Cushing), di fisiologici cambiamenti ormonali (fase premestruale, post-partum) o in seguito a somministrazione di ormoni (corticosteroidi, anticoncezionali orali).

Il sistema piu` intensivamente studiato e` l'asse ipotalamo ipofisi-surrene. Rispetto ai soggetti normali i pazienti depressi presentano piu` alti livelli di cortisolo e un'alterazione delle variazioni diurne di secrezione dello stesso.

Le esperienze stressanti, in particolare nell'infanzia, sembrano alterare la reattivita` dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene, tramite cambiamenti epigenetici, cioe` riguardanti la trascrizione genica (Tsankova e coll, 2007), che possono avvenire gia` in utero (Abe e coll, 2007).

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E` da sottolineare come i cambiamenti epigenetici siano influenzati dalla serotonina (Szyf e coll, 2008).

Lo stress attiva l'asse ipotalamo-ipofisi-surrene sia direttamente a livello dell'ipotalamo, sia indirettamente tramite rilascio del fattore CRF (corticotropin-releasing factor) da altre regioni cerebrali come ad esempio l'amigdala, con aumento dei livelli di cortisolo e di noradrenalina (Wong e coll, 2000).

Tali alterazioni neuroendocrine, presenti anche nei pazienti depressi, si riflettono in una risposta esagerata allo stress (Wong e coll, 2000).

Le anormalita` funzionali a livello dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene sembrano inoltre responsabili dei cambiamenti strutturali cerebrali osservati nei soggetti depressi (aan het Rot e coll, 2009).

Lo stato di ipercortisolemia cronica determina una down-regulation dei recettori per i glucocorticoidi nell'ippocampo, da cui deriva una ridotta sintesi di BDNF che puo` contribuire all'atrofia ippocampale (Charney e Manji, 2004; Duman e Monteggia, 2006).

c) Quadri clinici

I disturbi dell’umore comprendono due quadri clinici principali, la depressione e la mania, ed una varietà di condizioni intermedie, gli stati misti, in cui sono presenti elementi dell’uno e dell’altro quadro sindromico. Ciascuna di queste forme è caratterizzata da una serie di sintomi, variamente associati fra loro, riguardanti il tono dell’umore, la psicomotricità, il sistema cognitivo e neurovegetativo.

Episodio depressivo. La tristezza rappresenta una fisiologica oscillazione del tono

affettivo in risposta a numerose condizioni fisiche e mentali, ma può costituire anche la manifestazione centrale di un disturbo primario dell’umore, patologia complessa che tende a manifestarsi in maniera episodica.

Esordio. L’episodio depressivo maggiore, diagnosticato secondo i criteri del Diagnostic

and statistical manual of mental disorders, Fourth revised edition, (DSM-IV-TR), può avere un esordio improvviso o, più spesso, per giorni o settimane può essere preceduto da prodromi quali labilità emotiva, astenia, difficoltà di concentrazione,

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diminuzione degli interessi, inappetenza, insonnia, cefalea, senza però particolari ripercussioni sul piano lavorativo e sociale. L’esordio brusco è più frequente nelle forme con decorso bipolare e si verifica con un improvviso passaggio da una situazione di benessere, talvolta di tipo ipertimico, ad una condizione depressiva caratterizzata da una sintomatologia piena.

Periodo di stato. Con il progredire della malattia il quadro clinico si evidenzia in

maniera completa determinando la compromissione di ogni tipo di attività che richieda un impegno fisico o intellettivo. Il periodo di stato ha una durata spontanea di circa 6-12 mesi, ma in alcuni casi può essere più breve o superare i 2 anni. La sintomatologia è costituita da una serie di disturbi a carico dell’umore, della psicomotricità, della sfera cognitiva e neurovegetativa. L’umore è abitualmente depresso, il paziente si sente triste, cupo, sfiduciato, angosciato, disperato; intenso è il dolore psichico. Particolare è la fissità dello stato d’animo che risulta impermeabile agli eventi esterni, è persa la capacità di provare emozioni, specialmente la gioia ed il piacere (anedonia). Prevale la sensazione di indifferenza, noia, aridità e vuoto interiore; in questo modo si configurano quadri di depersonalizzazione affettiva: il paziente soffre per l’incapacità di provare sentimenti ed emozioni e la sensazione di svuotamento può essere così intensa da indurlo a pensare che la propria vita abbia perso qualsiasi significato. Inoltre, l’esperienza di aridità affettiva, di distacco dagli altri, dà adito a sentimenti di colpa. In altri casi, un incessante stato di agitazione, di irrequietezza, di irritabilità, di ansia, di nervosismo lo rende incapace di stare fermo o di rilassarsi.

L’attività psicomotoria risulta nella maggior parte dei casi rallentata ed è evidente già all’aspetto esteriore del paziente, che si presenta trascurato, stanco, triste, invecchiato, senza la normale ricchezza e varietà di gesti; la mimica è ridotta, ma il volto è atteggiato ad un’ espressione di profondo dolore, lo sguardo è spento, gli angoli della bocca abbassati. I movimenti sono lenti, esitanti, trascinati. Il linguaggio è anch’esso lento, privo di intonazione, monotono e raramente spontaneo. Il rallentamento delle funzioni psichiche superiori determina disturbi della memoria e difficoltà di concentrazione, incertezza e indecisione per la difficoltà di ideazione. Anche la nozione del tempo è modificata: i giorni sembrano interminabili per il lento scorrere delle ore tanto da sembrare impossibile giungere al giorno dopo. In alcuni casi, più frequentemente nel sesso femminile, la depressione può al contrario

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manifestarsi con agitazione, profonda irrequietezza, continua necessità di muoversi, pianto drammatico, mimica vivace che esprime una grande sofferenza, aumentata loquacità. Sul piano cognitivo, la compromissione delle prestazioni intellettuali, la sensazione di aridità affettiva e di inefficienza portano il paziente al disprezzo di sé, all’autosvalutazione; si fanno strada i sentimenti di colpa, il passato appare pieno di sbagli ed il futuro privo di possibilità. Possono essere presenti deliri incongrui con tematiche di persecuzione, influenzamento, veneficio. Meno frequenti sono i fenomeni dispercettivi costituiti essenzialmente da allucinazioni uditive di tipo denigratorio. L’ideazione suicida ed il desiderio di morire sono presenti in almeno i due terzi dei pazienti; il rischio di suicidio deve sempre essere preso in considerazione soprattutto in quei pazienti che già in precedenza hanno effettuato dei tentativi o che hanno una storia familiare di suicidio. Per quanto riguarda i sintomi neurovegetativi: uno dei più precoci è l’insonnia (caratterizzata da risvegli notturni o da risvegli precoci), ma nelle depressioni atipiche prevale l’ipersonnia fino alla letargia; il paziente lamenta un sonno non ristoratore e disturbato da incubi. Sono frequenti la riduzione dell’appetito e sintomi gastrointestinali, con dimagramento e, nei casi più gravi, malnutrizione e squilibri idroelettrolitici; nella fase depressiva del disturbo bipolare può essere presente iperfagia. Precocemente, inoltre, può presentarsi la riduzione della libido fino al completo disinteresse sessuale.

Risoluzione. Nella maggior parte dei casi la risoluzione è graduale ed il paziente

avverte un’attenuazione progressiva dei disturbi. Nelle fasi finali si hanno caratteristiche fluttuazioni di intensità, con l’alternarsi di giorni di miglioramento e giorni di peggioramento. Non sempre si ha una completa risoluzione del quadro; infatti nel 30%-60% dei casi si instaura una sintomatologia residua con manifestazioni depressive attenuate che determinano compromissione sul piano lavorativo, familiare e sociale. Se l’episodio depressivo fa parte del disturbo bipolare può avvenire che si risolva in maniera improvvisa, nel giro di poche ore.

La consapevolezza di malattia è in genere conservata nel corso della depressione; inizialmente può essere parziale con attribuzione dei primi sintomi ad una patologia organica, ad una normale reazione a situazioni avverse, a “pigrizia” o “mancanza di buona volontà”. La consapevolezza può mancare del tutto nei casi più gravi

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caratterizzati da profonde alterazioni cognitive.

Episodio maniacale. L’episodio maniacale si caratterizza per l’esaltazione dei

sentimenti fisiologici di benessere e di forza, per sentimenti di gioia e potenza eccessivi per intensità e durata. Già nel 150 d.C. Areteo di Cappadocia aveva notato che “la forma e i modi in cui si manifesta la mania sono molteplici. Alcuni sono allegri e vogliono giocare… altri, di natura passionale e distruttiva, cercano di uccidere gli altri e anche se stessi…”.

Esordio. L’esordio della mania può essere graduale, e spesso non riconosciuto dal

paziente e dai familiari, ma più rapido in confronto alla depressione. I prodromi della mania sono più facilmente individuati in quei soggetti con caratteristiche temperamentali depressive ed in cui, quindi, si ravvisano cambiamenti improvvisi e radicali di carattere. L’esordio può essere brusco in quei soggetti sottoposti ad eventi stressanti o che hanno fatto uso di sostanze ad azione stimolante. La durata media della fase prodromica è di 3-4 giorni, durante i quali il paziente avverte una sensazione di benessere, di energia, un ridotto bisogno di dormire, un aumentato appetito ed una maggiore spinta sessuale. Il maniaco perde la capacità critica e può arrivare a lanciarsi in ogni tipo di impresa e a prendere decisioni importanti senza valutarne le conseguenze.

Periodo di stato. La sintomatologia raggiunge rapidamente la sua piena espressione e

possono sommarsi complicanze quali l’abuso di alcol e sostanze eccitanti, con frequenti ripercussioni negative nell’ambito sia familiare che sociale. Nella maggior parte dei casi manca la coscienza di malattia e il paziente, nonostante possa aver superato episodi analoghi in passato, sostiene di star bene e può reagire con aggressività se contraddetto. L’umore del paziente maniaco è elevato e questo costituisce il sintomo cardine: il soggetto è allegro, euforico, felice, gioioso, ha atteggiamenti di tipo scherzoso, ride, è molto vivace, comunicativo, iperattivo. Si tratta però di un umore instabile che può trasformarsi in rabbia, risentimento, ira, aggressività o in tristezza profonda che spariscono bruscamente lasciando di nuovo spazio alla gioia. La labilità emotiva è tipica del maniaco, tanto che Schule nel 1880 scriveva “nulla è durevole in mania se non la perpetua trasformazione”. L’incremento

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dell’attività motoria è anch’esso tipico e evidente alla prima osservazione: il paziente non riesce a stare fermo, è irrequieto, ha una gestualità esagerata, lo sguardo mobile e vivace, una mimica mutevole. Il paziente si presenta molto curato, spesso con abiti particolari, molto vistosi, dai colori accesi; le donne sono truccate in maniera appariscente e assumono atteggiamenti seduttivi e provocanti. L’eloquio è fluido, il paziente è logorroico e può arrivare a parlare per ore, con tono di voce alto, a ritmi elevati, usando un linguaggio ricercato, ampolloso, retorico, ricco di giochi di parole, battute divertenti, scherzi. Talvolta il linguaggio può farsi aggressivo, offensivo, data l’incapacità del soggetto di prestare attenzione al proprio interlocutore. Nei casi estremi la logorrea riflette un’estrema ideorrea, un affollamento di pensieri, idee, che il soggetto non riesce ad esprimere per intero, così il suo linguaggio si fa frammentato, incompleto e senza senso. Sul piano cognitivo caratteristico è l’aumento dell’autostima, della fiducia in sé, nelle proprie capacità, nei propri poteri con una scarsa consapevolezza dei propri limiti. Il pensiero si fa accelerato e frammentato, si trasforma nelle fasi più avanzate in fuga delle idee. Il contenuto del pensiero, nelle forme più lievi, è rappresentato da idee di grandezza con ipervalutazione di se stessi da un punto di vista fisico e intellettuale. Il vissuto temporale è alterato con la perdita della soluzione di continuo fra ieri oggi e domani, il paziente vive solo nel presente, i cui confini vengono però dilatati al punto da comprendere sia il passato che il futuro. Le capacità mnemoniche sono anch’esse alterate: il paziente ha una capacità di rievocazione molto efficiente, con un’ invasione di ricordi relativi ad episodi lontani nel tempo; la capacità di fissazione del presente è, però, molto ridotta a causa anche di una marcata distraibilità. La presenza di deliri è stata documentata in oltre il 50% dei casi, con un contenuto congruo o incongruo all’umore. Nel primo caso si tratta di deliri di grandezza a tema genealogico, storico, politico, culturale, finanziario, sessuale e sono strettamente correlati con i sentimenti di aumentata autostima, potenza fisica ed intellettiva. Talvolta però le manifestazioni psicotiche sono incongrue con l’umore e i deliri sono di persecuzione, non collegati alle idee di grandezza, di influenzamento corporeo e del pensiero. Non sono rari anche i disturbi psicosensoriali come le allucinazioni di tipo uditivo e visivo. Come nella depressione, anche nella mania si ha un’alterazione delle funzioni neurovegetative: si riduce il bisogno di dormire, l’appetito è aumentato senza che però vi sia un aumento di peso a causa dell’iperattività, l’attività sessuale risulta esaltata.

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Risoluzione. L’episodio maniacale ha una durata che va da almeno una settimana (o

qualsiasi durata se è necessaria l’ospedalizzazione) fino a 4-6 mesi; raramente ha un’evoluzione cronica. Si risolve bruscamente nell’arco di qualche giorno con il ritorno all’eutimia o con il passaggio in depressione o in uno stato misto. In caso di recidiva, la sintomatologia tende a ripresentarsi con le stesse caratteristiche degli episodi precedenti.

Ipomania. Per ipomania si intende una varietà di mania, che dura ininterrottamente

per almeno 4 giorni, la cui sintomatologia è meno grave e meno intensa, mancano i deliri, non è richiesta l’ospedalizzazione, è ridotto il grado di sofferenza soggettivo ed è minore la compromissione sul piano familiare, sociale e lavorativo.

Stati misti. Con il termine stati misti si indicano quei quadri clinici in cui la

sintomatologia depressiva e quella maniacale sono contemporaneamente presenti senza, però, che vi sia un chiaro orientamento polare.

d) Decorso

La caratteristica principale della malattia maniaco-depressiva è rappresentata dal suo decorso, con la ripetizione o l’alternanza in vario modo di episodi depressivi, maniacali o misti, intervallati o meno da periodi di benessere completo o parziale. Questo aspetto è fondamentale ai fini della diagnosi, della prognosi e della terapia.

In base alla polarità degli episodi, i disturbi dell’umore vengono distinti in due grandi categorie diagnostiche: i disturbi unipolari e quelli bipolari.

Disturbi unipolari. Comprendono quelle forme le cui manifestazioni cliniche sono

rappresentate esclusivamente dalla depressione. Il DSM IV-TR riporta quattro forme principali di disturbo unipolare: il disturbo depressivo maggiore, l’episodio singolo e

ricorrente, il disturbo distimico e la categoria del disturbo depressivo non altrimenti specificato, in cui sono compresi il disturbo depressivo minore e il disturbo depressivo

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Disturbi bipolari. Comprendono le forme in cui sono presenti entrambe le polarità e si

dividono in:

 Disturbo bipolare I. Si caratterizza per l’alternarsi di episodi depressivi e maniacali o misti, con o senza manifestazioni psicotiche. E’ la forma più grave, anche per la forte familiarità, l’insorgenza precoce, le frequenti ospedalizzazioni, la frequenza dei suicidi e dei tentativi di suicidio, l’elevato numero di ricadute, le ripercussioni sul piano familiare, sociale e lavorativo.

 Disturbo bipolare II. Comprende quelle forme caratterizzate da uno o più episodi depressivi maggiori alternati ad almeno un episodio ipomaniacale spontaneo. Presenta gravità intermedia tra il disturbo bipolare I e la depressione maggiore ricorrente: la sintomatologia espansiva è più sfumata, ma la fase depressiva può essere particolarmente intensa.

 Disturbo ciclotimico. E’ un disturbo a esordio precoce, che si caratterizza per la presenza, per almeno 2 anni, di numerosi episodi ipomaniacali e periodi depressivi che non soddisfano i criteri per l’episodio depressivo maggiore.

e) Complicanze

I disturbi dell’umore possono condizionare pesantemente l’esistenza del paziente, deteriorandone la vita affettiva, sociale e lavorativa. E’ importante che vengano messe in atto tempestive misure terapeutiche per evitare l’aggravarsi di eventuali altre patologie organiche e il verificarsi di condotte autolesive e l’abuso di alcool e sostanze.

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2) TERAPIA ELETTROCONVULSIVANTE

La terapia elettroconvulsivante (TEC) è una tecnica terapeutica che consiste nell’induzione di una crisi convulsiva attraverso l’applicazione di uno stimolo elettrico sul cervello. L'effettiva utilità ed opportunità di questa tecnica è tutt'oggi molto dibattuta, nonostante ci siano ampie dimostrazioni della sua efficacia. Infatti alcune tipologie di pazienti presentano oggettivi miglioramenti in seguito al trattamento. Tuttavia la TEC ha comunemente una fama negativa presso parte dell'opinione pubblica, a causa dell'abuso e della pratica aggressiva che se ne è fatta in taluni casi, ma anche della presentazione che ne è stata a volte data in letteratura e cinematografia.

a) Cenni storici

L’opinione che uno stress psichico o fisico potesse avere un effetto benefico sui disturbi mentali ha fondamenta antichissime. Ad esempio gli antichi Greci, intorno al 1200 a.C. solevano rinchiudere i malati mentali in un tempio, in cui gli unici rumori percepibili erano i fruscii prodotti da serpenti che si muovevano sotto il pavimento, all’insaputa dei “pazienti”; in questo modo si produceva una condizione di isolamento sensoriale che si riteneva avesse un effetto terapeutico.

In tempi più recenti, ed in particolare nel corso dell’Ottocento, molti medici analizzarono l’effetto terapeutico della febbre su talune affezioni psichiche e fisiche croniche. Tra questi Wagner-Juaregg (1857-1940), psichiatra austriaco, osservò che, nel corso di epidemie di tifo, vaiolo ed altre malattie, dopo che i pazienti con disturbi mentali erano stati colpiti da febbre alta, a volte mostravano uno straordinario miglioramento delle condizioni fisiche e psichiche. Nel 1927 allo studioso fu attribuito il premio Nobel per la medicina e la fisiologia, quale riconoscimento per lascoperta della possibilità di curare una malattia inducendone un’altra. Klaesi nel 1922 introdusse la terapia del sonno, effettuata mantenendo i pazienti sotto sedazione farmacologica per 10 giorni o più. La prima shock-terapia a larga diffusione fu l'induzione del coma insulinico, messa a punto e praticata per la prima volta nel 1933 da Sakel. La terapia, che doveva servire a curare la schizofrenia e la tossicomania, generando crisi convulsive, permetteva di ottenere un miglioramento del quadro clinico. Sempre negli anni Trenta Von Meduna osservò nei preparati istologici del cervello di soggetti

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epilettici un’iperplasia gliale non riscontrabile in quelli degli schizofrenici, traendo l’ipotesi secondo cui esistesse un antagonismo biologico tra le due condizioni patologiche. In un primo momento tentò quindi di trattare pazienti epilettici con trasfusioni di sangue prelevato da pazienti schizofrenici. Tuttavia, non ottenendo alcun risultato, intraprese la strada opposta inducendo negli schizofrenici crisi convulsive con l’impiego prima della canfora, poi del cardiazolo. Nel 1938, dopo ampi studi sull’animale, Cerletti usò per la prima volta la terapia elettroconvulsivante, in collaborazione con Lucio Bini, su un paziente affetto da schizofrenia con sintomi di delirio, allucinazione e confusione; una serie di elettroshock terapeutici permisero al paziente di tornare ad uno stato mentale di normalità. Negli anni successivi Cerletti e i suoi collaboratori effettuarono regolarmente gli elettroshock terapeutici, sia su animali sia su pazienti neuropsichiatrici, arrivando a determinare l'affidabilità della terapia e la sua sicurezza e utilità nella pratica clinica, soprattutto per il trattamento della psicosi maniaco-depressiva, e dei casi più gravi di depressione. Il suo lavoro e le sue ricerche ebbero un’influenza notevole, e l'uso della TEC si diffuse velocemente in tutto il mondo. Nondimeno, la mancanza di valide alternative terapeutiche favorì un uso indiscriminato e talvolta inappropriato di tale trattamento, contribuendo alla diffusione della sua cattiva fama. Negli anni Cinquanta si ebbe un sostanziale miglioramento della TEC con l’impiego dell’anestesia e del rilasciamento muscolare che eliminarono gli effetti collaterali più gravi ed eliminarono il trauma emotivo associato al trattamento. In seguito all’impiego degli psicofarmaci il ruolo della TEC è stato ridimensionato, ma anche approfondito sotto l’aspetto tecnico (apparecchiature più sicure, monitoraggio delle crisi convulsive), operativo (sulla base delle varie casistiche d’impiego) e conoscitivo (per quel che concerne il meccanismo d’azione). In questo modo anche gli effetti sulla sfera cognitiva si sono notevolmente ridotti.

Negli anni Settanta la TEC subì ulteriori restrizioni sotto l’influenza di alcuni movimenti libertari, i quali stimolarono l’attenzione dei ricercatori, soprattutto statunitensi, a rivedere criticamente questa tecnica, così da valutare le indicazioni ed i limiti di un trattamento che, nonostante i progressi della psicofarmacoterapia, rappresenta ancora oggi uno strumento indispensabile e talora risolutore.

Le critiche dei movimenti contrari alla TEC trovarono diverse smentite nel corso degli anni. Nel 1977 il Royal College of Psychiatrists riconobbe ufficialmente l’efficacia della TEC nella depressione, definendo il suo impiego “sostanziale ed incontrovertibile”. Nel

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1985 il National Institute of Mental Health (NIMH) organizzò una conferenza internazionale sulla TEC, la quale si concluse con le seguenti dichiarazioni: “… l’efficacia terapeutica e la rapidità d’azione della TEC sono ormai chiaramente dimostrate nella depressione grave, nella depressione psicotica e nella melancolia, condizioni nelle quali nessun altro tipo di trattamento si è dimostrato superiore, almeno nel breve periodo; la TEC si è dimostrata spesso efficace anche in quei pazienti in cui gli antidepressivi erano risultati inefficaci; mancano adeguate informazioni circa l’effetto a medio e a lungo temine…”.

Nel 1990 un gruppo di specialisti dell’American Psychiatric Association concluse una sperimentazione clinica durata 3 anni affermando che: “… a mezzo secolo dalla sua introduzione, la TEC è ancora un trattamento importante…”.

Nel 1993 The New England Journal of Medicine pubblicò un articolo intitolato “Terapia elettroconvulsivante- una moderna procedura medica”, in cui si dichiarava che: “… la TEC si è ormai affermata come un importante metodo per il trattamento di alcune forme di depressione… Nei pazienti depressi i più forti indicatori di risposta alla TEC sono i deliri ed il rallentamento psicomotorio: circa il 90% dei pazienti con depressione psicotica rispondono a questo trattamento…” (Potter & Rudorfer, 1993). Nel 1996 in Italia il Consiglio Superiore della Sanità nominò una commissione di esperti al fine di valutare l’utilità terapeutica e le indicazioni della TEC. La Commissione si espresse affermando che: “…vi è una accreditata letteratura che, partendo dalla primaria attenzione per la personalità e la dignità del paziente, ritiene che il trattamento elettroconvulsivante costituisca uno strumento terapeutico, talora indispensabile, per la riduzione della sofferenza dell’individuo se riferita a quadri clinici ben definiti…”. In particolare, in merito alle indicazioni cliniche dichiarò che: “…la TEC è efficace in diverse forme di depressione, soprattutto in quelle con sintomi deliranti e/o rallentamento motorio, nella depressione resistente agli antidepressivi triciclici… La percentuale di risposta oscilla tra il 70 ed il 90% dei casi”.

Ancora nel 1996 il Comitato Nazionale di Bioetica, dopo un’analisi approfondita delle tesi favorevoli e contrarie alla TEC, concludeva che: “…Il diritto fondamentale del malato alla tutela della vita, della salute e della sua piena dignità di persona umana, non può costituirsi in un’opposizione alla Scienza, né può anteporle affermazioni o teorie di natura ideologica. Uno dei più grandi errori metodologici infatti, è quello dell’inquinamento ideologico del sapere scientifico, errore che può condurre a

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devastanti conseguenze etiche… La TEC rappresenta un presidio terapeutico di provata efficacia la cui rinuncia aumenterebbe il rischio di peggioramento clinico e di potenziale morte del paziente. Pertanto la qualità di questo trattamento viene motivata con l’obbligo primario ed ineludibile di salvare la vita del paziente e di tutelarne la salute, ciò che rappresenta il primo obbligo deontologico del medico nei confronti della dignità e dei diritti umani del paziente. La TEC è proposta come trattamento elettivo ed adeguato per le seguenti indicazioni specifiche: depressione endogena grave, gravissima sofferenza del paziente, evoluzione amenziale, impossibilità o rischio elevato dell’uso degli psicofarmaci in caso di mancata risposta o di intolleranza o di controindicazioni mediche o nell’anziano o, infine, nei primi tre mesi di gravidanza.” In aggiunta a quanto detto, le critiche degli oppositori della TEC non trovano riscontro neanche nelle evidenze clinico-scientifiche. Ad esempio, in uno studio mirato a valutare i possibili danni cerebrali causati dalla TEC alla base dei deficit cognitivi, Zachrisson e collaboratori (2000) determinarono le concentrazioni nel liquido cerebrospinale di tre markers di degenerazione neuronale/gliale in un gruppo di pazienti con depressione maggiore: proteina tau, NFL e proteina beta S100, prima e dopo un ciclo di sei applicazioni della TEC. Oltre a questo fu determinato anche il rapporto albumina nel liquor/albumina serica, riflettente una potenziale disfunzione di barriera ematoencefalica (BEE). Il trattamento risultò clinicamente efficace con un declino significativo dei sintomi depressivi in tutti i pazienti, molti dei quali avevano segni di disfunzione di BEE o di danneggiamento neuronale prima dell'inizio del trattamento. I livelli dei tre markers non risultarono significativamente modificati dalla TEC come pure il rapporto dell'albumina. In conclusione, non fu dimostrata alcuna evidenza biochimica di danneggiamento neuronale/gliale o di disfunzione della BEE a seguito di un ciclo terapeutico di TEC.

Al momento la TEC risulta essere il trattamento antidepressivo con i più alti tassi di risposta. Infatti è efficace nell’85-90% dei casi di depressione maggiore, mentre i farmaci antidepressivi lo sono nel 60-65% dei casi (Nobler & Sackheim, 2001; Shergill & Katona, 2001). Di conseguenza, la comprensione del meccanismo d’azione della TEC rappresenta un’importante tappa nell’individuazione dell’eziologia della depressione.

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b) Indicazioni

La scelta di trattare un paziente con la TEC deve essere sempre preceduta da un’attenta valutazione della diagnosi, delle caratteristiche del quadro clinico, della risposta alle terapie precedenti, del rapporto rischio/beneficio tra questa tecnica e le altre opzioni terapeutiche disponibili, e della preferenza del paziente. In Italia la TEC viene utilizzata come terapia di prima scelta solo in rari casi (arresto psicomotorio, elevato rischio autolesivo); abitualmente il suo impiego è invece limitato ai casi di farmacoresistenza e/o di intolleranza ai trattamenti farmacologici.

La TEC che inizialmente era stata proposta per la cura della schizofrenia, ha oggi come sua indicazione principale il trattamento della depressione. In particolare, è prevalentemente utilizzata nei casi resistenti, cioè quelli che non hanno risposto a due o più trattamenti antidepressivi appartenenti a classi diverse assunti a dosaggi e per tempi adeguati. La TEC è efficace sia nelle forme depressive bipolari che in quelle unipolari; tuttavia le prime presentano una risoluzione più rapida del quadro clinico e necessitano di un numero minore di applicazioni. Nei pazienti anziani depressi la TEC viene impiegata sia perché spesso in questi soggetti le terapie farmacologiche sono poco tollerate, sia perché è stata osservata una risposta migliore in questo periodo della vita rispetto agli altri. Le risposte migliori si ottengono, secondo alcune evidenze, in presenza di rallentamento psicomotorio e di sintomi psicotici; al contrario la lunga durata di malattia e la scarsa risposta ai trattamenti farmacologici avrebbero una minor probabilità di risposta.

La TEC viene impiegata anche nel trattamento della mania come seconda scelta terapeutica quando non si è ottenuta una risposta appropriata ai Sali di Litio, ai neurolettici o agli anticonvulsivanti. Invece rappresenta il trattamento di prima scelta nei casi di mania confusa o nei pazienti con disturbo bipolare a cicli rapidi poco responsivo ai farmaci. La TEC risulta inoltre molto efficace negli stati misti, una grave forma di disturbo bipolare (soprattutto se presenti anche sintomi psicotici), in cui raramente i farmaci risultano efficaci, mentre frequentemente il rischio autolesivo è elevato. Per tali motivi in nelle forme miste la TEC rappresenta la prima scelta terapeutica.

Come per le prime applicazioni, ancora oggi la TEC è utilizzata nei disturbi dello spettro schizofrenico, in particolare nelle forme farmacoresistenti. L’efficacia aumenta se la tecnica viene utilizzata in combinazione con i neurolettici tipici e atipici. Inoltre le

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risposte migliori si ottengono nelle forme catatoniche e schizoaffettive, in quelle con fasi ad esordio improvviso e di breve durata, ed infine in presenza di sintomi positivi. Infine la TEC viene impiegata nei casi di catatonia e nelle fasi depressive del disturbo ossessivo-compulsivo.

c) Controindicazioni

Non esistono controindicazioni assolute, ma in ogni paziente è necessaria una valutazione psichiatrica ed internistica del rapporto rischio/beneficio. In ogni caso le patologie degli apparati cardiovascolare, respiratorio e del sistema nervoso centrale rappresentano le condizioni a maggior rischio. Pertanto l’infarto miocardico recente, lo scompenso cardiaco, l’insufficienza coronarica grave, l’ipertensione grave non trattata sono condizioni che escludono l’uso della TEC. E’ a rischio anche la presenza di aneurismi che potrebbero andare incontro a rottura in seguito agli aumenti pressori che si verificano durante le applicazioni.

Rappresentano una controindicazione le patologie cerebrali che determinano un aumento della pressione endocranica, come i tumori o altre lesioni occupanti spazio. Infatti in queste condizioni l’ulteriore aumento della pressione indotto dalla TEC potrebbe provocare erniazioni dell’encefalo. Allo stesso modo la presenza di un infarto cerebrale recente, per le modificazioni emodinamiche indotte dalla TEC, rappresenta una limitazione.

Le patologie dell’apparato respiratorio (bronco-pneumopatie croniche ostruttive, asma, polmonite) devono essere valutate dal punto di vista anestesiologico perché possono compromettere le tecniche di ventilazione durante e dopo la TEC.

Nei pazienti epilettici è necessaria una maggior copertura con farmaci anticonvulsivanti così da evitare crisi comiziali o uno stato di male epilettico. Analogamente in caso di frattura o di schiacciamento dei corpi vertebrali è necessaria una più completa curarizzazione. La gravidanza non rappresenta una controindicazione assoluta, anzi nei primi tre mesi la TEC deve essere preferita ai farmaci. Nei pazienti con distacco retinico e diabete mellito è preferibile non applicare la TEC.

d) Preparazione e trattamento

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A) Valutazione medica: raccolta di un’anamnesi generale con esame obiettivo, esami ematochimici, elettrocardiogramma con visita cardiologica. La radiografia del torace viene effettuata dai pazienti affetti da patologie cardiovascolari, polmonari e forti fumatori (> di 20 sigarette/die). Qualora non fosse stato fatto in precedenza i pazienti vengono sottoposti ad esame TC o RMN dell’encefalo.

B) Valutazione anestesiologica: è indagata la presenza di un’anamnesi positiva di intolleranza all’anestesia, di reflusso gastroesofageo, la presenza di trattamenti farmacologici in atto, e la presenza di forme allergiche. Di particolare importanza sono i valori del numero di dibucaina e della pseudocolinesterasi perché un loro deficit può rallentare il metabolismo della succinilcolina con conseguente incremento della fase di apnea respiratoria.

C) Valutazione farmacologica: prima di ogni applicazione devono essere considerati i farmaci assunti dal paziente. Infatti i Sali di Litio devono essere sospesi o dimezzati per tutta la durata del ciclo (l’associazione litio/TEC incrementa gli effetti collaterali cognitivi); allo stesso modo vanno ridotte le dosi degli antidepressivi triciclici e serotoninergici. Gli IMAO vanno sospesi almeno 2 settimane prima dell’inizio del ciclo onde evitare una grave crisi ipertensiva. Anche le benzodiazepine ed i farmaci antiepilettici devono essere sospesi o ridotti perché innalzano la soglia convulsiva. Al contrario devono essere assunti tutti quei trattamenti che compensano le patologie internistiche concomitanti (antipertensivi, antianginosi, antiaritmici, broncodilatatori, farmaci per il glaucoma e corticosteroidi).

Per l’esecuzione dell’anestesia si utilizza la seguente procedura: somministrazione come preanestesia di un farmaco anticolinergico vagolitico (atropina solfato), 30-45 minuti prima di eseguire la TEC, alla dose di 0,02 mg/Kg per via intramuscolare. Per l’induzione dell’anestesia e del rilassamento muscolare vengono somministrati endovena il Tiopentale sodico (barbiturico a breve durata d’azione), alla dose di 3-4 mg/Kg, e la succinilcolina (un leptocuraro), alla dose di 0,5-1 mg/Kg. Dopo aver raggiunto una narcosi profonda con completo rilassamento muscolare, si procede all’ossigenazione del paziente mediante ossigeno puro con maschera facciale a R.P.P.I. (respirazione a pressione positiva intermittente) che viene mantenuta fino alla ripresa della respirazione spontanea. Dopo circa due minuti viene praticata la TEC. Nel nostro studio è stato utilizzato un apparecchio MECTA, modello SPECTRUM 5000, capace di generare stimoli ad onda quadra bidirezionale. Per realizzare un

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contatto elettrico adeguato con il cuoio capelluto si applica uno strato di gel elettroconduttivo sulla superficie degli elettrodi. La TEC viene somministrata secondo la tecnica bilaterale, posizionando gli elettrodi su entrambi i lati della testa nella zona fronto-temporale, con il punto centrale dell’elettrodo localizzato 3-4 cm al di sopra del punto mediano della linea che collega il meato acustico esterno all’angolo palpebrale esterno. La quantità di energia necessaria ad indurre la convulsione viene calcolata con il metodo dell’età (Petrides & Fink, 1996), secondo la formula joule = ½ età. La crisi è considerata adeguata se la durata della convulsione registrata con elettroencefalogramma è superiore a 25 secondi e/o quella motoria è maggiore a 20 secondi. Nel caso di durata inferiore, dopo un intervallo di 20 secondi, viene incrementato il livello dell’intensità dello stimolo secondo tabelle definite nei protocolli internazionali, fino a produrre una convulsione adeguata.

Durante la somministrazione della TEC vengono monitorati i parametri cardio-respiratori mediante la registrazione elettrocardiografica e l’impiego del pulsossimetro. L’insorgenza della convulsione, la durata e altre informazioni riguardanti le caratteristiche di quest’ultima vengono registrate tramite l’elettroencefalogramma. I due elettrodi di registrazione vengono posti uno a livello frontale sinistro a circa 1 cm al di sopra del punto medio sopracciliare, e l’altro a livello mastoideo sinistro, al di sopra del processo osseo, dietro l’orecchio.

I pazienti effettuano sedute di TEC con cadenza bisettimanale. Il numero complessivo di trattamenti per ogni paziente è stabilito in base al giudizio clinico del medico specialista curante.

e) Effetti collaterali

Gli effetti collaterali più comuni della TEC sono rappresentati dalle alterazioni della sfera cognitiva, anche se non è stato evidenziato nessun danno organico secondario al trattamento. In ogni caso tali alterazioni sono proporzionali all’intensità dello stimolo e al numero di applicazioni. Sono più frequenti e durature nell’anziano e si attenuano incrementando l’intervallo tra una seduta e l’altra. Alla fine di ogni applicazione la maggior parte dei pazienti presenta un breve periodo (pochi minuti fino a qualche ora) di confusione, con disturbi della concentrazione e delle prassie. Raramente si verifica uno stato confusionale post-ictale che non regredisce spontaneamente ma che può evolvere verso uno stato confusionale intercritico o verso il delirium. I disturbi della

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memoria (presenti nel 75% dei casi e reversibili) si manifestano come amnesia anterograda e retrograda. La prima determina una certa difficoltà nel ricordare gli avvenimenti accaduti nel periodo del ciclo di TEC e solitamente scompare nei giorni o nelle settimane successive all’ultima applicazione. La seconda è caratterizzata dalla difficoltà a ricordare alcuni eventi accaduti prima del ciclo di TEC, mentre gli avvenimenti remoti vengono comunque ricordati.

Un altro effetto collaterale è la cefalea che può essere ricondotta alle contrazioni dei muscoli massetere e temporale oppure alle modificazioni emodinamiche durante la seduta; risponde bene ai FANS. Con gli stessi farmaci recedono anche i dolori muscolari, un effetto collaterale molto frequente e secondario alle fascicolazioni indotte dalla TEC. La nausea, invece, può essere posta in relazione all’anestesia, alla convulsione o all’insufflazione di aria nello stomaco durante la ventilazione assistita. Se si manifesta frequentemente, per prevenirla può esseresomministrata prometazina prima di ogni seduta.

Nonostante la sua invasività la TEC ha un tasso di mortalità estremamente basso, circa 1 paziente su 10.000 trattati, inferiore a quello dell’anestesia generale e del parto.

f) TEC e disturbi dell'umore

Vari studi hanno dimostrato l’efficacia della TEC nel trattamento del disturbo bipolare. Mukherjee e collaboratori (1994) hanno riportato un tasso di risposta dell’ 80% nel trattamento della mania e più di recente ne è stata dimostrata l’efficacia nel trattamento della depressione bipolare (Daly e coll, 2001) e degli episodi misti che non rispondono alla farmacoterapia (Devanand e coll, 2000; Gruber e coll, 2000; Macedo-Soares e coll., 2005).

Sono state individuate alcune variabili del disturbo che ne influenzano il decorso, la risposta ai trattamenti farmacologici ed alla TEC.

Per quanto riguarda la risposta della depressione bipolare alla TEC sembra vi sia una correlazione con la durata dell’episodio in atto e con la resistenza alla terapia farmacologica. I pazienti con una più lunga durata dell’episodio depressivo hanno un decorso peggiore (Black e coll, 1993; Prudic e coll, 1996) così come i pazienti che non hanno risposto ad uno o più adeguati trials farmacologici nell’episodio indice (McCall e coll, 2000). Inoltre sembra vi sia risposta maggiore alla TEC nei pazienti depressi con

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sintomi psicotici rispetto ai pazienti senza sintomi psicotici (Parker e coll, 1992; O’Leary e coll, 1995; Sobin e coll, 1996).

La comorbidità del disturbo bipolare con l’abuso di alcool e con l’abuso di sostanze si associa ad una ridotta risposta ai trattamenti, ad un maggior numero di ricorrenze e ad una più alta instabilità timica interepisodica (Sonne e coll, 1999; Strakowski e coll, 2000). La gravità degli episodi del Disturbo Bipolare correla con una minore risposta al litio ed alla TEC (Small e coll, 1998). Schnur e collaboratori (1992) hanno dimostrato che i pazienti bipolari i quali durante l’episodio maniacale hanno più alti punteggi degli

item sospettosità, irritabilità e rabbia hanno una minore risposta al litio e alla TEC.

Daly e collaboratori (2001) hanno riportato un tasso di risposta e remissione alla TEC analogo nella depressione unipolare e bipolare senza differenze nei sottotipi bipolare I e bipolare II. Tuttavia nei pazienti bipolari la velocità di risposta è più rapida e gli autori hanno riscontrato una differenza statisticamente significativa nel numero di trattamenti effettuati: i pazienti unipolari necessitano di un numero più elevato di trattamenti (9,68 ± 2,499) rispetto ai bipolari I (8,16 ± 2,43) ed ai bipolari II (8,20 ± 2,63). Questi risultati sono stati confermati da Prudic e colleghi (2004) che non hanno riscontrato differenze nelle percentuali di risposta/remissione in pazienti unipolari e bipolari sottoposti a TEC ma hanno riportato che i pazienti unipolari con episodi di più lunga durata e resistenti ai trattamenti farmacologici necessitano di un numero maggiore di trattamenti. Poiché la TEC può indurre l’insorgenza di ipomania/mania nei pazienti bipolari (Devanand e coll, 1988), gli Autori hanno ipotizzato che un viraggio ipomaniacale precoce possa essere responsabile del rapido effetto antidepressivo osservato nei pazienti bipolari. Inoltre è stato ipotizzato che nei pazienti bipolari ci sia un maggiore incremento nella soglia convulsiva per trattamento, rispetto ai pazienti unipolari, che indicherebbe un più rapido effetto anticonvulsivante.

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3) DISTURBI DELL’UMORE, DETERIORAMENTO COGNITIVO E

DEMENZA

a) Disturbi dell'umore e compromissione cognitiva

La presenza di alterazioni cognitive, stato-dipendenti, durante le fasi sintomatiche dei disturbi dell'umore, e` stata riconosciuta sin dall'inizio del Novecento da Kraepelin.

Deficit dell'attenzione, della flessibilita' mentale, dell'apprendimento verbale e non verbale e della memoria sono stati riportati sia nella fase depressiva che nella fase maniacale del disturbo bipolare (Wolfe e coll, 1987; Gruzelier e coll, 1988; Waddington e coll, 1989; Morice, 1990; Bulbena e Berrios, 1993; McGrath e coll, 1997).

Piu` recentemente si sono accumulati dati sulla presenza di tali deficit anche nei periodi asintomatici della malattia. Ferrier e colleghi (1999) hanno riportato una compromissione delle funzioni esecutive in pazienti bipolari in fase eutimica, il gruppo di Zubieta (2001) ha dimostrato la riduzione nei punteggi di vari domini cognitivi in pazienti bipolari I in prolungata fase eutimica, compromissione che si correlava con la severita` e il decorso di malattia.

Torrent e colleghi (2006) hanno riscontrato una compromissione persistente di alcune funzioni cognitive anche nei pazienti bipolari tipo II.

Gualtieri e Johnson (2008) hanno riscontrato un'accelerazione del declino cognitivo eta` correlato nei pazienti con disturbi dell'umore.

Vari studi hanno esplorato la correlazione tra i deficit neurocognitivi e le caratteristiche cliniche del disturbo dell'umore quali l'eta` d'esordio e la durata di malattia, con risultati spesso contrastanti. Nel complesso appare come evidente fattore di rischio la presenza di ricorrenti episodi maniacali (Robinson e coll, 2006), cosi` come la presenza di caratteristiche psicotiche del disturbo (Bora e coll, 2007; Glahn e coll, 2007; Martinez-Aran e coll 2008; Selva e coll, 2007).

Il gruppo di Arts (2008) ha condotto una metanalisi in cui ha esplorato la funzione cognitiva in pazienti bipolari in fase eutimica e nei parenti di primo grado degli stessi riscontrando ampi deficit della funzione esecutiva e della memoria verbale nei pazienti, nonche` deficit minori ma comunque significativi, nelle stesse aree, nei parenti. Gli autori hanno quindi proposto tali specifici deficit cognitivi quali endofenotipi del disturbo bipolare, ovvero caratteristiche di tratto, precedenti l'esordio del disturbo dell'umore.

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verifica nelle malattie del neurosviluppo (Goodwin e coll, 2008). Reichenberg e colleghi (2002) hanno riscontrato valori di QI normali in adolescenti che in seguito hanno sviluppato un disturbo bipolare non psicotico, mentre hanno confermato la presenza di un basso funzionamento intellettuale premorboso in quelli che hanno poi sviluppato la schizofrenia. Lo studio Dunedin ha riscontrato un funzionamento superiore alla media, in alcuni domini cognitivi, nei bambini che in seguito hanno sviluppato un disturbo bipolare, e inferiore alla media nei soggetti andati incontro ad un disturbo schizofrenico (Cannon e coll, 1997). Possiamo sostenere che la maggior parte degli studi hanno riscontrato abilita` cognitive superiori alla media in coloro che hanno in seguito presentato un disturbo bipolare, mentre la compromissione di tali abilita` sembra verificarsi in seguito all'esordio del disturbo dell'umore (Goodwin e coll, 2008).

D'altra parte studi come quello di Arts e colleghi (2008), in cui particolari deficit cognitivi si associano ad una suscettibilita` genetica per disturbo bipolare, non implicano necessariamente una patologia del neurosviluppo. D'altra parte anche patologie chiaramente di tipo neurodegenerativo come la demenza appaiono significativamente influenzate da fattori genetici.

Nella valutazione della compromissione cognitiva nei disturbi dell'umore vanno tenuti presenti i numerosi fattori di confondimento quali la presenza di una sintomatologia residua, la variabilita` tra i diversi studi nella definizione di eutimia, la presenza di sintomi psicotici, la polarita` predominante (Colom e coll, 2006; Rosa e coll, 2008) (gli episodi maniacali potrebbero avere un impatto maggiore rispetto a quelli depressivi), la comorbidita`, ad esempio con uso di sostanze, che potrebbe peggiorare le performances neuropsicologiche.

Anche la terapia farmacologica potrebbe essere associata o interagire a vario livello con i fattori sopradescritti, nel determinare una compromissione cognitiva. D'altra parte un trattamento inadeguato o una scarsa aderenza allo stesso potrebbe aumentare il rischio di ricadute o la persistenza di sintomatologia residua, con conseguente peggioramento del funzionamento cognitivo (Goodwin e coll, 2008).

La presenza di deficit neurocognitivi nei pazienti con disturbi dell'umore e` un elemento da non trascurare anche nella pratica clinica, infatti si correla ad un peggior funzionamento psicosociale ancor piu` della presenza di sintomi residui di malattia (Martinez-Aran e coll, 2004 e 2007). Per tale motivo la compromissione cognitiva costituisce un target terapeutico, tramite farmaci che vadano ad influenzare la trasmissione glutammatergica o

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intervento precoce (Conus e coll, 2006).

b) Disturbi dell'umore e alterazioni strutturali cerebrali

Gli studi di neuroimaging nell'ambito dei disturbi dell'umore sono complementari a quelli di tipo neuropsicologico, seppur questi ultimi siano in genere piu` sensibili.

Nella meta-analisi di McDonald e colleghi (2004) e` stato riscontrato nei pazienti bipolari solo un significativo ingrandimento del ventricolo destro.

Studi di tipo trasversale, in cui venivano confrontati pazienti e controlli, hanno mostrato anormalita` a livello mediotemporale (ingrandimento dell'amigdala) e prefrontale (diminuzione di volume del giro cingolato anteriore), nonche` un'iperintensita` della sostanza bianca, nel disturbo bipolare (Brambilla e coll, 2005).

Strakowsky e colleghi (2005) hanno proposto un modello neuroanatomico del disturbo dell'umore, secondo il quale una ridotta modulazione prefrontale delle strutture subcorticali e temporali mediali facenti parte del sistema limbico anteriore (amigdala, striato anteriore e talamo) sarebbe alla base della disregolazione del'umore.

L'ingrandimento dell'amigdala e` stato documentato nei pazienti bipolari ma non negli schizofrenici, suggerendo che si tratti di un'alterazione specifica per la patologia affettiva (Velakoulis e coll, 2006). Inoltre Strakowsky e colleghi (2005) hanno notato che alcune anormalita`(cingolato anteriore, striato, amigdala) sono gia` presenti precocemente nel corso della malattia e possono anche anticiparne l'esordio, mentre altre regioni anatomiche sembrano degenerare in conseguenza del ripetersi degli episodi affettivi (verme cerebellare, ventricoli laterali e regioni prefrontali inferiori), potendo quindi rappresentare gli effetti della progressione di malattia.

L'ipotesi che il progredire del disturbo dell'umore produca alterazioni cognitive e di pari passo alterazioni cerebrali strutturali e` suggerita dallo studio di Moorhead e colleghi (2007), in cui la riduzione della funzione mnesica e la riduzione della materia grigia nella corteccia temporale mediale appaiono correlati all'intensita` di malattia.

Questa appare l'evidenza piu` forte in favore di una correlazione diretta tra decorso di malattia, cambiamenti strutturali cerebrali e cognitivita`, tuttavia non chiarisce il rapporto di causa-effetto. Si e` tuttavia ipotizzato che le alterazioni strutturali rappresentino l'effetto sul cervello del ripetersi delle ipercortisolemie intraepisodiche (Daban e coll, 2005) o, alternativamente, e` stato proposto che una non-specifica accelerazione dell'invecchiamento cellulare possa determinare una malattia piu` grave (Kapczinski e coll, 2008).

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c) Disturbi dell'umore e demenza

Studi di tipo epidemiologico hanno mostrato un'associazione tra la presenza di depressione o di sintomi depressivi e rischio di declino cognitivo o di demenza (Jorm, 2000; Jorm, 2001). Il gruppo di Pateniti ha evidenziato negli anziani una correlazione tra sintomi depressivi persistenti ed entita` del declino cognitivo (Paterniti e coll, 2002).

Il Rotterdam Scan Study (Geerlings e coll, 2008), uno studio prospettico di popolazione, ha dimostrato che i pazienti con una storia di depressione hanno un rischio circa doppio di sviluppare demenza di Alzheimer (AD) rispetto alla popolazione generale, ed il rischio e` ancora maggiore se si considera il gruppo con depressione early-onset (esordio < 60 anni).

Altri due studi prospettici (Kessing e coll, 1999; Kessing e Nillson, 2003) hanno dimostrato che la presenza di depressione singola o ricorrente o di disturbo bipolare determina un maggior rischio di demenza non solo rispetto alla popolazione generale, ma anche rispetto a pazienti con nevrosi, osteoartrite o diabete.

Il rischio di demenza, inoltre, aumenta in relazione al numero di episodi sia nei disturbi depressivi che bipolari (Geerlings e coll. 2008, Kessing e Andersen, 2004).

Studi di tipo retrospettivo condotti in pazienti con malattia di Alzheimer suggeriscono che una storia di depressione puo` essere associata con un rischio aumentato di sviluppare late-onset AD (Jorm e coll, 1991; Steffens e coll, 1997; Green e coll, 2003).

Pazienti dementi con storia di depressione manifestano una maggiore gravità del quadro anatomo-patologico, come emerge dal riscontro di placche più estese e numerose a livello ippocampale (Rapp e coll, 2006).

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4) BETA-AMILOIDE

L'amiloide e` una sostanza proteica fibrosa insolubile, cosi` chiamata da Virchow, nel 1854, in base al colore che essa assume con acido solforico e iodio. Tutte le proteine dell'amiloide hanno un'identica struttura secondaria a foglietto beta e un loro anormale ripiegamento puo` determinarne l' accumulo in vari organi e tessuti. Le proteine che costituiscono le fibrille di amiloide variano a seconda del precursore da cui si generano. La proteina β-amiloide (Aβ), che rappresenta il costituente maggiore delle placche neuritiche extracellulari dell'AD, deriva dal clivaggio sequenziale della proteina precursore dell'amiloide (APP) e puo` essere un peptide di 40 (Aβ40) o 42 (Aβ42) aminoacidi.

Con il termine Aβ solubile si intendono tutte le forme di Aβ (prevalentemente monomeri e oligomeri) capaci di restare in soluzione in mezzi acquosi anche dopo centrifugazione veloce.

APP e` una proteina transmembrana codificata in un gene situato sul cromosoma 21 ed e` espressa in diversi tipi di cellule, in particolare nel cervello, nel cuore, nella milza e nei reni. Ne sono state fino ad ora identificate almeno 10 isoforme derivate da splicing alternativo; le tre più comuni sono chiamate C (presente soprattutto nei neuroni), B (comune nei linfociti T) ed A. La maggior parte della APP prodotta è degradata durante il processo di trasporto sulla superficie cellulare. Ciò è indice di una fine regolazione dell'attività di questa proteina. La funzione fisiologica di APP nella sua forma a lunghezza completa non e` ancora stata chiarita, sebbene venga ipotizzato un suo ruolo nella sinaptogenesi, nei fenomeni di trasduzione del segnale, di adesione cellulare o del metabolismo del calcio (Zheng e Koo, 2006).

Il processo di degradazione della APP vede coinvolti tre enzimi: la α-, la β- e la γ-secretasi (Shoji e coll, 1992).

La generazione di Aβ avviene attraverso il “pathway amiloidogenico” in cui APP subisce prima un clivaggio proteolitico da parte della β-secretasi, da cui si genera un frammento APP C-terminale di 12 kDa, quindi da parte della secretasi. L'azione proteolitica della γ-secretasi si esplica a livello del dominio transmembrana di APP, sebbene il sito preciso possa variare, a determinare pertanto la formazione alternativa di Aβ40 o Aβ42, oltre al rilascio del dominio intracellulare della APP (AICD) (Zhang e coll, 2011).

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essendo il suo sito di taglio proteolitico all'interno della sequenza aminoacidica della β-amiloide. La α-secretasi genera un lungo frammento solubile di APP detto sAPPα, che alcuni autori hanno suggerito possa avere un'azione neuroprotettiva (Furukawa e coll, 1996; Mattson, 1997; Han e coll, 2005)

Per quanto riguarda Aβ si e` a lungo pensato che fosse un prodotto anormale e tossico, in realtà è un normale sottoprodotto della APP, presente nel cervello e nel fluido cerebrospinale dei soggetti normali durante tutto l'arco della vita (Seubert e coll, 1992; Ida e coll, 1996; Walsh e coll, 2000).

Sebbene livelli eccessivi di Aβ causino disfunzione e distruzione sinaptica (Shankar e Walsh, 2009), bassi livelli di Aβ aumentano la long-term-potentiation (LTP) ippocampale e la memoria, ad indicarne un ruolo modulatorio di tipo positivo sulla neurotrasmissione e la funzione mnesica (Puzzo e coll, 2008; Morley e coll, 2010). Inoltre l'esposizione a livelli picomolari di Aβ impedisce la morte neuronale indotta dall'assenza completa di Aβ dovuta all' esposizione ad inibitori della β o γ-secretasi (Plant e coll, 2003).

Tra i peptidi Aβ la specie Aβ40 e` prodotta in quantita` maggiori, tuttavia la Aβ42 e` la piu` amiloidogenica essendo più idrofobica e portata all’aggregazione in fibrille, quindi responsabile di una maggiore tossicita` a livello neuronale (Burdick e coll, 1992).

In effetti in alcune patologie neurodegenerative come la AD, la Aβ viene prodotta in modo abnorme a causa dell’iperfunzione selettiva della via di degradazione amiloidogenica della APP.

Sono state individuate mutazioni del gene per la APP che hanno mostrato una correlazione con lo sviluppo precoce dell'Alzheimer familiare (early onset familial

Alzheimer's disease – EO-FAD), favorendo la sua degradazione attraverso il “pathway

amiloidogenico”. Una mutazione a livello dell'amminoacido 717 (detta “London mutation”) e` stata la prima ad essere descritta e sembra causare un aumento del rapporto tra Aβ42/Aβ40 a livello cerebrale. Anche mutazioni a carico dei geni per le preseniline 1 e 2, proteine costituenti il sito proteolitico della γ-secretasi (Wolfe e coll, 1999), sono state associate alle forme familiari di AD e ad un aumento del rapporto Aβ42/Aβ40 nel cervello di modelli murini (Borchelt e coll, 1996; Kumar-Singh e coll, 2006). Inoltre, è stato dimostrato che l’iperespressione del gene per la APP a causa di mutazioni, o per eccesso di copie come accade nella trisomia 21, determina un decadimento cognitivo tipo AD, e che, sia in vitro che in modelli animali, l’espressione delle sovracitate mutazioni responsabili delle forme familiari di AD, risulta in una iperproduzione ed in una

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quelli sporadici (con esordio tardivo), sembrano da attribuirsi a difetti di clearance della Aβ dal compartimento cerebrale (Holtzman e Zlokovic, 2007; Zlokovic, 2008; Zlokovic e coll, 2000; Tanzi e coll, 2004), per alterazione di fini meccanismi regolatori, in particolare a livello della barriera ematoencefalica (BEE).

a) Effetti neurotossici e depressogeni della beta-amiloide

Molte patologie degenerative dell'invecchiamento tra cui AD, malattia di Parkinson, morbo di Huntington e diabete mellito tipo II si associano all'accumulo di fibrille di amiloide (Glabe, 2006). Numerose evidenze recenti suggeriscono che i responsabili dei fenomeni patogenetici siano, piu` che i monomeri o le fibrille mature, gli oligomeri di amiloide, che rappresentano il prodotto intermedio nel processo di formazione delle fibrille (Lambert e coll, 1998; Hardy e Selkoe, 2002).

Dato che i differenti oligomeri di amiloide hanno la medesima struttura e sono tutti genericamente tossici a livello cellulare, la loro azione dannosa deve avvenire su un target comune; poiche` alcune forme oligomeriche sono citosoliche mentre altre sono extracellulari, il target aggredibile da entrambi i compartimenti appare la membrana plasmatica (Glabe, 2006).

Secondo la cosiddetta “channel hypothesis” i peptidi amiloidogenici, tra cui Aβ, determinano una pemeabilizzazione di membrana attraverso la creazione di pori e canali, da cui l'innesco di una serie di eventi patologici, alla base delle patologie degenerative amiloide-associate (Kagan e coll, 2004). Tali eventi includono la produzione di specie reattive dell'ossigeno (ROS) (Shubert e coll, 1995), alterazione dei meccanismi di trasduzione del segnale (Saitoh e coll, 1993; Mattson, 1995), disfunzione mitocondriale (Shoffner, 1997) , che in ultima analisi conducono a disfunzione e morte cellulare (Glabe, 2006).

Per ogni patologia amiloide-associata esiste ovviamente una specificita` di danno, che si configura in termini di tipi cellulari specifici che vanno incontro a degenerazione. In molti casi le cellule target dei fenomeni patogenetici sono solo una piccola percentuale delle cellule in cui una particolare proteina amiloidogenica e` espressa. E` possibile che il tipo cellulare coinvolto possa riflettere la sua capacita` di rigenerazione, in effetti la tossicita` dell'amiloide non avrebbe conseguenze se le cellule colpite venissero costantemente rimpiazzate da altre perfettamente funzionanti.

Cio` puo` spiegarci come mai la maggior parte delle patologie amiloide-associate siano in effetti patologie neurodegenerative (Glabe, 2006).

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