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Capitolo 1: I due termini dell‟opposizione lessicale

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Capitolo 1: I due termini dell‟opposizione lessicale

1.1 

La dicotomia tra “essere” e “divenire”, cruciale all‟interno del Timeo, trova una immediata estrinsecazione nell‟uso deliberatamente antitetico dei verbi e Tale polarità si configura, oltre che come opposizione semantica, anche e soprattutto in termini azionali: è, infatti, un verbo intrinsecamente stativo (Vendler, 1957 e 1967; cfr. Romagno, 2005). In ambito indo-europeo, non a caso, la radice di “essere” «bildet ursprünglich nur ein duratives Präsens, wird daher einzelsprachlich vielfach durch die Wurzel bheuə- : bhū- suppliert»1 (Pokorny, 1959: s.v. es-; cfr. LIV: s.v. *h1es). Ciò dipende dal prevalere di una dimensione aspettuale che ha ricadute nella strutturazione dei paradigmi, per cui il verbo per “essere”, per il suo valore azionale intrinseco, non si presta ad articolazioni aspettuali incompatibili con esso, o superflue in quanto ribadiscono un valore che gli è già proprio2: «the suppletive nature of IE. *əes- „be‟, whereby perfective derivatives on this stem are rare and never original, has its basis in the semantic restrictions on „be‟» (Coigneallaig, 1968: 47)3

. A questo proposito, le riflessioni di Platone in Timeo 38 (v. infra), in riferimento all‟inadeguatezza delle articolazioni del verbo per “essere” al passato e al futuro, per quanto siano motivate da un interesse essenzialmente filosofico e spostino l‟attenzione sulla scansione temporale, sembrano contenere in nuce l‟intuizione che la nozione di essere è incompatibile con certi tipi di articolazione che pertengono piuttosto alla dimensione del mutamento.

La controparte dinamica di  è, appunto, a cui, come si è anticipato nell‟Introduzione, sarà dedicata la maggior parte della trattazione. Lo studio si propone, infatti, di indagare l‟espressione linguistica di una polarità concettuale tra “essere” e “divenire”, investita, nel dialogo, di particolare pregnanza filosofica. Le funzioni di  non si riducono però, ovviamente, al ruolo svolto nella dicotomia in oggetto, ma sono numerose e diversificate (copula, verbo di esistenza, espressione veridica in opposizione a etc.) e sono state, peraltro, più volte oggetto di indagine nella bibliografia precedente4, in prospettiva linguistica e filosofica. Una ricerca che volesse dedicare pari

1

Si consideri, ad esempio, il latino fui, connesso etimologicamente con fio, “diventare”: v. LIV (s.v.

*bhueh2). In realtà, il suppletivismo potrebbe coinvolge anche altre radici: i preteriti dell‟inglese e del tedesco sono stati ricondotti, ad esempio, alla radice *h2ues, «(ver)weilen, die Nacht verbringen», la stessa da cui si originerebbe l‟armeno goy (LIV: s.v. 2.*h2ues; cfr. Walde – Pokorny, 1927-1932: s.v.

ues-; Pokorny, 1959: s.v. ues-). Un‟altra proposta etimologica (Kortlandt, 1998) riconduce invece

tanto i preteriti germanici quanto goy (che sarebbe una retroformazione) a un composto della radice *h1es stessa.

2

Cfr. Kahn (1973: 196). V. Romagno (2005) per l‟incompatibilità tra il perfetto e i verbi che rappresentano uno stato del soggetto; Berrettoni (1976) per i rapporti tra il semantismo di un verbo e il suo comportamento morfologico.

3

Si noti che Coigneallaig suggerisce che il verbo per “essere” fosse semelfattivo (che esprimesse cioè un evento puntuale privo di stato risultante) nelle più antiche connotazioni; Lehmann (1999: 273) lo colloca invece tra le radici che «indicano un‟azione continua», segnalando peraltro che forme perfettive di *bhū, “diventare”, riconducibile alla radice *bhew-, hanno in vedico significato

risultativo, «e quindi corrispondono alle forme di presente del verbo „essere‟». 4

Cfr. ad es. i numerosi studi di Kahn, tra cui Kahn (1973), (1976), (1981); O‟Brien (2005); Séguy-Duclot (2007), etc.

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attenzione ad entrambi i verbi, con una valutazione sistematica e una casistica di tutte le loro attestazioni nel Timeo anche in assenza di co-occorrenza, finirebbe dunque, in realtà, per risultare sbilanciata a vantaggio di , e a distogliere il focus dall‟opposizione stessa. Per questo motivo,  sarà considerato soprattutto in quanto espressione dell‟essere stativo e polo di una dicotomia lessicale che assume in Platone rilevanza terminologica (nell‟accezione lata definita supra)e analizzato in ottica prevalentemente contrastiva, nelle sole occorrenze in cui è usato, esplicitamente e contestualmente, in associazione e/o opposizione rispetto a .

L‟opposizione stativo ‒ dinamico, del resto, può risultare trasversale rispetto alle funzioni linguistiche, interessando tanto la copula quanto gli impieghi assoluti del verbo (es. “sono saggio” vs. “divento saggio”; “sono” vs. “passo a un diverso stato”). D‟altro canto,non è solo l‟espressione di una immutabilità in opposizione a una trasformazione, ma, in funzione esistenziale e in associazione con l‟avverbio  (“esistere [per] sempre”) costituisce l‟antonimo della coppia - (“nascere” e “morire”). In un brano del

Simposio (210 e), significativamente,  “ciò che sempre è” (ovvero, “ciò che è

sempre immutabile”, ma anche “ciò che sempre esiste”) è definito sia come “ciò che non aumenta né diminuisce” (), sia come “ciò che non nasce né muore”o5

. Evidentemente, in questo caso è inteso nell‟accezione più ristretta di “nascere”, mentre altrove, nell‟accezione più ampia di “diventare” e quindi “essere soggetto a trasformazione” (v. infra), è di fatto un olonimo del binomio 

Kahn (1981) mette inoltre in luce come, nel discorso filosofico di Platone, si riscontrino frequenti passaggi di funzione, per cui una stessa voce di  può svolgere ad esempio, in un brano, funzione copulativa e veridica: «between the veridical and the copula the move is an easy one in both directions» (113); «(…) how easily Plato oscillates back and forth between absolute and predicative constructions of when the veridical idea is in play» (118). Il passaggio dalla funzione esistenziale a quella predicativa, inoltre, è facilitato dal fatto che «the notions of existence and predication, which we distinguish as two separate logical or linguistic functions, are conceived in Greek as two sides of a single coin» (123), probabilmente anche in ragione della comunanza lessicale (per cui un parlante grecofono non si sarebbe necessariamente posto il problema di decidere se stava utilizzando , in quel momento, nel senso di “essere” o di “esistere”: la difficoltà riguarda, soprattutto, gli interpreti alloglotti e/o cronologicamente distanti dalla fonte). significherebbe dunque, in tale ottica, “esistere come soggetto di cui si può predicare qualcosa”6

.

Si noti che, in base all‟analisi delle occorrenze di in una serie di brani platonici ad alto tenore speculativoKahn delinea un aspetto del metodo e della lingua del filosofo, che troverà un perfetto riscontro nel presente studio per quanto riguarda . Si tratta della tendenza a sfruttare per fini filosofici un accumulo di significazione, fino a coltivare volutamente, in taluni casi, l‟ambiguità: «if Plato had wanted to impose a particolar understanding (…) he would presumably have given us more clues» (125)7

. In relazione all‟interpretazione di una sequenza a livello sintattico e/o funzionale («grammatical reading»: cfr. 105), Kahn parla di „iperdeterminazione‟ («overdetermination»), quando un cumulo di significazioni diverse è indispensabile per una corretta comprensione del passo, e „ipodeterminazione‟ («underdetermination»), quando il contesto non consente di decidere per

5

V. infra per l‟occorrenza di questa opposizione nel Timeo. 6

Cfr. Kahn (1973: 257; cfr. 249, 252 ss.) e Idem (1976). 7

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un‟interpretazione o per l‟altra. Lo stesso fenomeno si applica, del resto, al sostantivo chepuò fungere da nominalizzazione per diversi usi del verbo, anche contemporaneamente. Nel caso di come si vedrà, nella maggior parte dei casi i problemi di interpretazione non nascono a livello dell‟analisi sintattica, ma traggono piuttosto origine nella sua semantica molto articolata e nelle differenti articolazioni aspettual-azionali.

L‟opposizione “essere” ‒ “divenire” si rispecchia inoltre, nel contesto del pensiero platonico ed eleatico, nell‟antitesi tra “essere” come affermazione di un valore di verità e “sembrare, apparire” (es. come chiave di una conoscenza imperfetta e solo apparente (cfr. la parmenidea). Dal punto di vista linguistico, del resto, lo stesso può opporsi alla funzione veridica di assumendo la sfumatura semantica di “risultare” al giudizio, ovvero esprimendo un passaggio di stato non effettivo, ma concettuale, con trasformatività ridotta; ciò viene sfruttato da Platone in almeno un caso anche nel discorso di Timeo (63 e 3, v. infra), seppur trasversalmente all‟opposizione ontologica tra “essere” e “divenire”.

Più rilevante dal punto di vista filosofico e più produttivo nel Timeo è però il fatto che, per la sua componente dinamica, è selezionato da Platone come parola caratterizzante il mondo fenomenico, ovvero il mondo della conoscenza sensibile: il parallelismo tra la dimensione ontologica e quella cognitiva è chiaramente espresso, ad esempio, in Timeo 29 c 3 (8. Ancora una volta, Kahn (1981: 114-115) esplicita la correlazione con esemplare chiarezza:

this convergence of veridical and static-immutable values finds a natural justification in the predicative construction. A particular F [i.e. una manifestazione della Forma: n. d. A.] which comes to be, perishes, and changes in the meantime, is only provisionally and fitfully F. For Plato these time-qualifications on “is F” are just as damaging to the epistemic and ontological credentials of particular F‟s as are the relative or perspectival conditions on “appearing F”9.

Proprio nell‟individuare nelle formule predicative di ovvero nella «definitional copula or “is” of whatness» (111) il punto di convergenza delle due opposizioni (realtà vs. apparenza e immutabilità vs. trasformazione), oltre che nell‟introduzione di una maggior chiarezza concettuale nell‟esposizione della teoria, risiede, secondo Kahn, l‟ulteriore apporto di Platone rispetto al dualismo eleatico.

La citazione appena riportata rende inoltre evidente il secondo motivo per cui una trattazione dedicata soprattutto a contiene, nel titolo, un riferimento alla nozione di “essere”: come si è anticipato e come si vedrà nel dettaglio nel prossimo paragrafo, ricopre infatti un ambito semantico molto più esteso dell‟italiano “divenire”, e, oltre a veicolare la nozione di mutamento di stato, assume, al perfetto, proprio una azionalità di tipo stativo (v. infra): può dunque esprimere un tipo di “essere”, per quanto, in prospettiva platonica, si tratti di un “essere” secondario e momentaneo.

1.2:

Semantica, azionalità, articolazione aspettuale

8

Cfr. l‟Introduzione. 9

Alla fonte si rimanda per alcuni passi platonici che esprimono un contenuto analogo a quello sintetizzato in Tim 29 c 3 (peraltro non menzionato da Kahn).

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15

Se l‟essere proprio dei principi permanenti trova nel Timeo (con scelta compatibile, come si è visto, con l‟azionalità tipicamente stativa del verbo), un‟espressione linguistica in , (con gli elementi nominali ad esso etimologicamente e semanticamente connessi) è invece selezionato come cifra del secondo elemento dell‟opposizione, ovvero il mondo fenomenico. La dicotomia non è solo di natura semantica: Kahn (1973: 196) definisce «kinetic or mutative pendant to » e afferma che «the be-become contrast in Greek is practically co-extensive with the static-kinetic aspectual opposition». Volendo mantenere una opportuna distinzione terminologica10, tuttavia, è più coerente parlare, appunto, di opposizione azionale:  è, di per sé, il verbo trasformativo per definizione11. Significativamente il LSJ (s.v.), prima di procedere ad un‟enumerazione delle possibili sfumature di significato, dipendenti dal tema selezionato e dal contesto, ne riassume il nucleo essenziale tramite la glossa «come into a new state of being».

Come si è accennato, e come si mostrerà nel dettaglio in seguito, su tale opposizione di base può impostarsi una ulteriore articolazione aspettuale-azionale (che interagisce talora con la dimensione temporale). Innanzitutto «there is room within the is-becomes contrast in Greek for a further opposition between durative and non-durative expression for becomes»12 o, in altre parole, tra usi imperfettivi e perfettivi, a seconda che l‟evento sia considerato da un punto di vista parziale o globale13. In secondo luogo, elementi di azionalità configurazionale14, e in certa misura anche dati di natura cotestuale, possono alterare la telicità e trasformatività tipiche di Tali possibilità sono sfruttate, nel sottocodice filosofico del Timeo, in modo particolarmente produttivo, in quanto funzionali a veicolare le diverse manifestazioni che il divenire stesso, ossia il mutamento in uno stato di esistenza, assume. Questa ultima constatazione non sottintende, evidentemente, una valutazione della presenza di categorie quali aspetto e azionalità nella consapevolezza metalinguistica di Platone, ma piuttosto la sua salda competenza di parlante attento alle possibilità della lingua e capace di sfruttarle per veicolare contenuti di natura filosofica15.

Prima di procedere all‟analisi dei passi in cui è investito di un valore “tecnico” nel senso precisato supra (par. 1 dell‟Introduzione), spesso in diretta ed esplicita opposizione ad , è necessario tuttavia procedere a una doppia contestualizzazione, che permetta di procedere all‟analisi prefissata anche in un‟ottica contrastiva.

Innanzitutto, prescindendo momentaneamente dallo specifico uso platonico, è utile soffermarsi, in una prospettiva più ampia, su alcuni elementi dello spettro semantico del verbo

10

Cfr. Bertinetto (1997: cap. 2, Aspect vs. Actionality, scritto in collaborazione con Denis Delfitto) e Bertinetto ‒ Delfitto (2000). Si tratta, sostanzialmente, dello stesso testo, con alcune modifiche: la miscellanea del 2000, che contiene il saggio presente, nel volume del 1997, come capitolo 2, è indicata come «in stampa» nella Premessa (7) del volume del 1997 stesso.

11

Vendler (1957; 1967); cfr. Romagno (2005). 12

Kahn (1973: 197). 13

Cfr. Bertinetto (1986); Bertinetto ‒ Delfitto (2000: 193; qui si propone di usare, in proposito, la coppia non terminativo-terminativo; cfr. Bertinetto, 1997: 31); Romagno (2005).

14

Ossia dipendenti dalla struttura morfosintattica della frase e dalla eventuale combinazione delle proprietà semantiche lessicali con sintagmi che delimitano il processo verbale (Romagno 2005:

passim, in particolare 20, 24). Cfr. Bertinetto (1997: 19): «le prerogative azionali dei diversi predicati

possono variare in funzione del contesto. Esse non si applicano dunque al verbo di per sé, bensì al verbo in quanto corredato dai suoi argomenti entro una specifica accezione (ossia, entro una ben definita classe di contesti)».

15

Essi costituiscono del resto, come si è detto, il tema e il fine primario dell‟argomentazione anche nei casi in cui Platone presenta riflessioni di natura esplicitamente metalinguistica (cfr. Berrettoni 2001:

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16

in esame, che risulteranno poi particolarmente rilevanti e riconoscibili all‟interno della terminologia filosofica. ha, infatti, una portata più ampia, ad esempio, dell‟italiano

divenire o dell‟inglese become: anche il verbo greco è ascrivibile all‟ambito dell‟essere non

statico, ma, mentre l‟italiano e l‟inglese hanno bisogno di un predicato che esplichi il punto di arrivo del processo trasformativo, può avere valore telico (ovvero esprimere un processo «directed towards an inherent goal»)16 pure in assenza dell‟indicazione del punto terminale, perché può significare anche “venire all‟esistenza”, “nascere”.

Si potrebbe ragionevolmente obiettare che tentare di distinguere, in presenza di una scelta lessicale omogenea e coerente, le sfumature di significato di volta in volta veicolate è impresa poco produttiva, difficilmente realizzabile secondo parametri discreti e quindi, in certa misura, poco significativa. Evidentemente, se Platone sceglieva di utilizzare in contesti differenti un unico significante non sentiva la necessità, o forse evitava programmaticamente17, di chiarire in modo inambiguo quale delle possibili accezioni del verbo fosse rilevante. La polisemia, è del resto, in larga misura, un fenomeno relazionale, che colpisce con particolare forza l‟attenzione del parlante e dello studioso nel momento in cui si riscontri, a livello intersistemico, una diversa categorizzazione linguistica del continuum semantico. Il problema di optare per l‟una o per l‟altra accezione è, in molti casi, più pressante per un traduttore o un lettore alloglotto che non per l‟autore e per i suoi fruitori immediati. Nel caso specifico, tuttavia, un esame di questo tipo, pur nei limiti appena delineati, è imprescindibile, non solo perché parte del lavoro verterà su un‟indagine traduttologia che prevede, appunto, un confronto interlinguistico, ma anche perché almeno le due sfumature di significato citate rimandano a elementi chiaramente distinti a livello esperienziale e cognitivo18. Di fatto, nella maggior parte dei casi, in un dettato non filosoficamente connotato elementi di natura contestuale permettono di decidere per l‟una o per l‟altra: se nel prosieguo dell‟indagine riscontreremo per il Timeo ‒ come in effetti accadrà ‒ una difficoltà significativamente maggiore a questo proposito, sarà quantomeno lecito interrogarsi sul motivo.

Il secondo e più cogente livello di contestualizzazione, a cui si procederà nel prossimo capitolo, riguarda un‟analisi delle occorrenze non tecniche all‟interno del Timeo stesso, le quali costituiranno un ulteriore elemento contrastivo ai fini di una valutazione dell‟uso tecnico.

Le due accezioni principali in cui il valore trasformativo di  è particolarmente manifesto, sono, come si diceva, “nascere” e “divenire”. Ciò risulta ovvio a chiunque abbia familiarità con il greco antico, e trova riscontro nei principali strumenti lessicografici: il TGL (s.v.) riporta ad esempio, come primi elementi di glossa, «Nascor, Orior. Item, Fio»; analogamente il DGE (s.v.) cita innanzitutto «nacer» e, successivamente, «llegar a ser»19. Che

tanto “nascere” quanto “diventare” rappresentino passaggi di natura discreta relativi ad uno

16

Bertinetto (1997: 31); Bertinetto – Delfitto (2000: 193). 17

Cfr. in proposito Baltes (1999: 323 ss.); le osservazioni non riguardano nello specifico l‟adozione di un lessema polisemico, ma piuttosto la scelta di forme verbali che darebbero volutamente adito ad interpretazioni divergenti (v. infra). Quanto Baltes afferma a proposito degli effetti che il metodo filosofico di Platone avrebbe sul dettato dei dialoghi è tuttavia applicabile anche al caso in esame. 18

Come si vedrà, anche gli interpreti e commentatori grecofoni di Platone erano ben consapevoli della polisemia del verbo, che generava problemi interpretativi e offriva, nello stesso tempo, possibili soluzioni a problemi di natura dottrinale.

19 Significativamente tutti i dizionari, nella disamina delle diverse sfumature semantiche ricoperte dal verbo, non integrano solo la casistica, prevedibilmente, con indicazioni di carattere configurazionale, ma evidenziano la rilevanza dell‟articolazione tempo-aspettuale nella determinazione del significato specifico.

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stato di esistenza è ben espresso dal LSJ, sia nella formulazione riassuntiva «come into a new state of being»20, menzionata in precedenza, sia nelle glosse più specifiche: «come into being» (e quindi «to be born», «take place», «come to pass») si oppone a «come into a certain state» (quindi, «become»).

La possibilità di ricondurre entrambe le accezioni ad un comune nucleo di significato sembra invece risultare più problematica per Chantraine (2009: s.v.): qui si fa cenno, inizialmente, a «deux significations franchement différentes», e, in un secondo momento, si cita «devenir» come una tappa nel processo di “deterioramento” semantico (ovvero, in certa misura, di delessicalizzazione) del presente che, a partire da «le sense originel de naissance, génération, race», diverrà «presque un substitut du verbe ȇtre», e come tale sopravvivrà in greco moderno21. La riflessione di Chantraine introduce, evidentemente, considerazioni di semantica diacronica, che possono apparire di importanza relativa ai fini della presente indagine. Se stabilire una prorità cronologica tra l‟accezione di “nascere” e quella di “divenire” non rientra negli obiettivi di questo lavoro, tuttavia, è comunque opportuno soffermarsi sul loro rapporto reciproco, nella misura in cui ciò risulterà rilevante, in prospettiva sincronica, per rendere conto dei valori che  ricopre all‟interno del

Timeo. A tal proposito, è utile fare riferimento (per lo più, come si vedrà, in senso oppositivo)

a Sauge (2000)22, che, prendendo le mosse proprio dall‟affermazione di Chantraine sulla diversità delle due nozioni23, effettua un‟analisi della semantica di e di come essa si manifesti, in particolare, nel perfetto (il che consentirà anche di affrontare, in prospettiva generale, uno dei casi più tipici in cui l‟azionalità trasformativa del verbo viene meno).

Contrariamente a Chantraine, Sauge ritiene che “nascere” e “divenire” possano essere ricondotti ad un unico significato: nello specifico, egli pensa che «le centre organisateur de la notion est celui de devenir» (307), e che “nascere” possa essere considerato una particolare manifestazione del “divenire” stesso. Questa affermazione sarebbe, di per sé, assolutamente condivisibile, qualora si intendesse con “divenire” un “passare ad un diverso stato di essere”, nel senso enucleato dal LSJ, e qualora si affrontasse la questione in termini di estensione concettuale e non, appunto, di priorità cronologica (sulla quale non è rilevante, in questo momento, prendere posizione). Ciò è vero, in particolare, se si considera che il francese

devenir ha a sua volta una semantica più ampia del corrispettivo italiano e, può, in effetti,

significare anche “avvenire” (comprendendo quindi, agevolmente, l‟idea di “venire ad essere”).

Gli elementi invocati a sostegno di tale punto di vista sono, tuttavia, meno solidi. Innanzitutto, il collegamento tra le due nozioni è impostato su basi più filosofiche che linguistiche24: “nascere” sarebbe secondo Sauge una forma di divenire non in quanto “passaggio dal non essere all‟essere”, ma in quanto «naître c‟est, en quelque sorte, “ȇtre inscrit une première fois dans un ordre en devenir”»; «celui qui “naît”, “devient” (“est inscrit dans le devenir”)». La nascita sarebbe, quindi, condizione imprescindibile per il successivo “divenire”: «un devenir s‟ensuit d‟une nassaince» (308).

Si noti che, in questo caso, Sauge non fa riferimento al valore trasformativo di devenir nell‟accezione di “accadere”: il senso di queste affermazioni risulta chiaro se si considera che egli ritiene un paradosso caratteristico di  il comportare «une valeur de continuité

20

Si noti che a partire da tale significazione generale si giustificano senza difficoltà anche gli «emplois particuliers comme “arriver, pervenir” (en un lieu)» segnalati da Chantraine (2009: s.v.). 21

Sull‟uso di come sostituto del verbo per “essere”, soprattutto in alcune articolazioni tempo-aspettuali, si tornerà in seguito.

22

Cap. 7, 307-338. 23

L‟edizione citata è quella del 1968, ma il passo in questione è identico.

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18

(“devenir”) articulée à une discontinuité, le passage d‟un état (“non-ȇtre) à un autre (“ȇtre inscrit désormais dans l‟ȇtre”)». In sostanza, egli non vede nell‟azionalità tipicamente trasformativa l‟elemento che accomuna il “nascere” e il “divenire”, perché non riconosce al “divenire” un‟azionalità di questo tipo25

. Tale riflessione è, da un punto di vista filosofico, coerente con la prospettiva platonica: il mondo fenomenico è, come si è detto, il regno del divenire, della trasformazione continua26. Da un punto di vista linguistico, inoltre, è altrettanto vero che non sempre  manifesta una azionalità di tipo telico: casi emblematici si ritrovano, come si vedrà, proprio all‟interno del lessico filosofico del Timeo, in particolare per quanto riguarda i participi, oggetto privilegiato della terminologizzazione. È però palesemente errato ascrivere, come fa Sauge «conformément à la valeur de l‟aspect», l‟accezione di “nascere” all‟aoristo e quella di “divenire” «à l‟aspect exstensif (présent ou passé)» (308): innanzitutto, le due accezioni più frequenti non esauriscono lo spettro semantico di ;in secondo luogo, l‟aspetto non è l‟unica variabile che condiziona la semantica del verbo, ma dati di natura configurazionale, come la presenza o meno di un predicato, rivestono un ruolo significativo. Per quanto riguarda inoltre la “continuità” del divenire, cioè l‟intrinseca mancanza di stato che si configura come condizione inalienabile del mondo fenomenico27, essa è spiegabile, in termini azionali, in ragione della «iterazione indefinita di singoli microeventi» che «annulla la valenza telica di un predicato» (Romagno, 2005: 20), e quindi appunto come una successione di discontinuità. In questo senso, “nascere” e “divenire” non sono affatto disomogenei, e proprio in questo risiede, al contrario, la loro contiguità semantico-concettuale.

Dopo aver postulato, senza di fatto dimostrarla, una priorità cognitiva del “divenire”, Sauge cerca di corroborare la propria tesi esaminando forme verbali con valore fattitivo, riconducibili alla medesima radice e presenti nelle più antiche attestazioni di greco letterario, e sforzandosi di ascriverle ad una ipotetica significazione primaria di “far divenire” piuttosto che a quella di “mettere al mondo”. Non è evidentemente necessario, in questa sede, analizzare tutti gli esempi (prevalentemente ma non esclusivamente tratti dai poemi omerici) citati da Sauge, e discutere la plausibilità o meno delle singole proposte interpretative (alcune delle quali paiono, francamente, delle forzature); è tuttavia opportuno presentarne una selezione, per mostrare come il loro valore probante sia, in generale, limitato.

Innanzitutto, anche qualora l‟esegesi proposta per Odissea , 202-203 fosse valida ‒ cosa che competerebbe ad esperti della lingua omerica accertare ‒ e alla voce in si dovesse effettivamente attribuire un valore causativo in relazione all‟infinito («lorsque justement, toi-même, tu fais […] qu‟ils se confondent avec la troupe commune»: 309)28, questo non sarebbe una prova della priorità concettuale del “(far) divenire” sul “(far) nascere”. Che un verbo per “far accadere”, “mettere

25

Si noti che Sauge non parla mai di azione o azionalità, ma genericamente di «valeur». 26

Sauge cita peraltro, in proposito, proprio Parmenide e Platone, che, postulando la priorità dell‟essere sul divenire, procederebbero ad un ribaltamento della “concezione comune”, la quale vedrebbe il divenire come primitivo e l‟essere solo come il risultato di una stabilizzazione. Si noti che, se si considera solo la semantica di si riscontra effettivamente la priorità dell‟azionalità trasformativa rispetto a quella stativa (la quale si manifesta ad esempio nelle forme di perfetto ed è dovuta, come vedremo, alla azionalità del perfetto stesso): a giudicare dal riferimento a Platone, comunque, Sauge ha in mente l‟opposizione /  più che opposizioni costruite su diverse forme di Riguardo alla presunta priorità semantica e cognitiva del divenire sull‟essere, inoltre, vale la pena ricordare che, in termini di struttura logica (Dowty, 1979; cfr. Romagno, 2005: 14 e indicazioni bibliografiche riportate ibidem, nota 5), anche un verbo trasformativo come “diventare” presuppone in realtà un predicato di stato: lo stato è, infatti un primitivo semantico.

27

V. infra, in particolare l‟analisi di Tim 27 d 5 – 28 a 1. 28

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19

in essere” sia usato in costruzioni causative non è affatto sorprendente, anche in ottica interlinguistica29; di fatto, quando Sauge stesso (310) interpreta la costruzione «faire que» come «faire devenir que», la sfumatura semantica rilevante in devenir è appunto quella di “avvenire”, non quella di “divenire”.

In generale, riconoscere nelle più antiche testimonianze di greco letterario passi in cui o le forme causative corradicali esprimono un passaggio da uno stato di esistenza ad un altro, più che dalla non esistenza all‟esistenza, non prova la maggiore rilevanza della prima accezione, dal momento che la seconda è altrettanto inequivocabilmente attestata. Si consideri ad esempio Odissea 208: Sauge ipotizza, forse correttamente, che nel nesso riferito a Nestore, il participio non vada inteso come equivalente di un participio aoristo  con allungamento metri causa, ma piuttosto come participio presente riconducibile alla medesima radice che dà origine alle forme di aoristo con valore causativo, ben attestate in Omero30. L‟elemento di attrattiva di questa proposta risiede, più che nell‟eliminare la coordinazione di due forme disomogenee dal punto di vista temporal-aspettuale, nel ricostruire l‟immagine di un Nestore fortunato «nel prender moglie e nel generare»31, rendendo superflua l‟interpretazione della sequenza come esempio di hysteron-proteron («le mariage précédant la naissance [sc. di Nestore stesso]»: 311)32. Non sembra necessario né appropriato, invece, riconoscere in un‟allusione al ruolo educativo, e non solo generativo, di Nestore, che «“fait devenir” des enfants (favorise leur

croissance)» (ibidem), né attribuire in questo contesto specifico al presente *un

valore durativo33, più di quanto non lo si attribuisca a .

Ulteriori controesempi alla formulazione generalizzante secondo la quale «dans le contexte homérique, “mettre au monde” (ou “concevoir”), c‟est “faire devenir” (“inscrire, en un processus désormais irréversibile, un individu dans l‟ordre du devenir”)» (ibidem), o almeno casi che autorizzano a metterla in discussione, si trovano tra i passi che Sauge cita a sostegno della propria ipotesi. Ciò è tanto più significativo in quanto, si noti, pur affermando che esse non esauriscono la totalità dei casi (312), egli seleziona in particolare, per rafforzare

29

Cfr. la casistica riportata in Shibatani (1973: 6 ss.). 30

V. Gehring (1970: 155); cfr. Chantraine (2009) e TGL (s.v. ;LSJ (s.v.). 31

Calzecchi Onesti (1989: ad loc.); il corsivo è di chi scrive. 32

Il DGE (s.v. ),pur riconducendo evidentemente l‟occorrenza ad un tema di presente e non all‟aoristo di , mantiene, qui e altrove, l‟interpretazione intransitiva di «nacer»; significativamente, però, riconduce  di Odissea , 202 al valore transitivo di «originar». Nella prospettiva impostata da Sauge, invece, riconoscere nella forma un presente piuttosto che un aoristo significa innanzitutto privilegiare l‟interpretazione transitiva: questa sembra essere una possibilità da prendere seriamente in considerazione caso per caso, senza però dover necessariamente attribuire a tale causativo il valore di “far diventare”, che, di fatto, raramente offre significativi vantaggi ermeneutici. Nel passo dell‟Inno ad Afrodite, 265 ss., per esempio, l‟interpretazione di come participio presente, e quindi con valore causativo, trova riscontro nel valore transitivo che Sauge (318) restituisce ad in contrasto con la spiegazione tradizionale che vi riconosce un equivalente di . A prescindere dal caso specifico (la cui decifrazione resta problematica, anche se, si noti, un‟allusione alla attività generatrice delle ninfe e di conseguenza degli alberi non sarebbe incongrua con la precedente menzione degli accoppiamenti con i sileni), è condivisibile lo scetticismo di Sauge nei confronti delle spiegazioni ad hoc che fanno leva sulla cosiddetta “licenza poetica”, postulando «ces comportements supposés de poètes qui, pour les besoins de l‟expression, auraient la possibilité de travestir une forme verbal de l‟actif en celle correspondante du passif» (ibidem), o meglio, in questo caso, una forma transitiva in una intransitiva.

33

Con ciò non si vuole escludere che, per fattori configurazionali o per l‟interazione con la categoria dell‟aspetto, possano darsi casi in cui anche le forme causative della radice mostrino, effettivamente, un‟azionalità di tipo durativo; la sua azionalità primaria è tuttavia, di fatto, trasformativa.

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20

l‟argomentazione, occorrenze in cui le voci verbali si accompagnano a dei predicati. Si tratta quindi, almeno potenzialmente, di candidate ideali per essere ascritte alla sfera semantica del “rendere x” più che a quella della generazione: è quasi superfluo sottolineare che, anche qualora si potesse provare al di là di ogni ragionevole dubbio che tutte le occorrenze di questo

tipo sono interpretabili in riferimento a un cambiamento di stato, ciò non sarebbe rilevante ai

fini di accertare che “far nascere” è solo una forma di “far divenire” nell‟accezione sostenuta da Sauge. Questo non è, comunque, il caso: cercare di dimostrare che in Odissea , 223, deve essere inteso come “dal momento che Penelope ti ha fatto diventare tale quale sei” piuttosto che come “poiché tale ti ha generato Penelope”, o che in “Nausicaa, che dunque? Così trascurata ti ha reso [o “generato”] tua madre?” di Odissea , 25, l‟uso dell‟aggettivo riferendosi ad un tratto di comportamento,«implique une allusion à son education (…) et non à sa naissance» (312), significa infatti addentrasi pericolosamente in un dibattito del tipo nature vs nurture. Ciò comporterebbe tanto un interrogarsi su quali qualità possano considerarsi intrinseche e quali debbano ritenersi acquisite, quanto una valutazione sull‟effettivo impatto educativo che una madre omerica avrebbe potuto esercitare nei confronti di una figlia femmina piuttosto che di un figlio maschio.

Contestabile pare anche l‟affermazione secondo la quale «reconnaître que la notion comportée par le verbe est celle de “faire devenir” permet de lever des difficultés qui ressortissent à la tradition narrative» (313; cfr. 516). Si consideri solo un caso: nella sequenza  “e vidi Leda, la sposa di Tindaro, che mentre era sposata con Tindaro [o “da Tindaro”] generò due figli dall‟animo saldo, Castore domatore di cavalli e Polluce dal forte pugno”di Od. 298-300, attribuire a un valore diverso da quello generativo non sembra funzionale a risolvere il problema della paternità di Polluce. Innanzitutto, Castore e Polluce erano conosciuti come i

Tindaridi, indipendentemente dall‟intervento di Zeus nel concepimento di uno dei due. In

secondo luogo, come Sauge stesso ammette,non è la formula consueta per dire “avere un figlio da qualcuno”: affermare che Leda, sposa di Tindaromentre era sotto il giogo maritale di Tindaro stessogenerò Castore e Polluce, non significa implicare che entrambi erano figli del marito. La stessa constatazione vale qualora si preferisca leggere in questo un‟allusione di natura sessuale (“coperta da Tindaro, generò…”), dal momento che la tradizione vuole che Leda si sia unita al marito e al divino amante nella stessa notte. In ogni caso, la soluzione, se proprio se ne vuole cercare una, non risiede certo nella semantica di ; nel contesto della rassegna degli spiriti illustri, Leda è menzionata in quanto madre di figli famosi, non in quanto loro ipotetica educatrice: si tratta di una sorta di matronimico al contrario, che non implica una valutazione dell‟impatto di Leda sulla crescita della sua progenie.

Piuttosto sorprendente è infine il fatto che, dopo aver ricordato che «le sujet du verbe désigne le plus souvent un personnage féminin» (il che è, di per sé, un dato tutt‟altro che neutro ai fini del dibattito “generare” vs “far divenire”), Sauge si appoggi alla constatazione che l‟azione può essere attribuita a entrambi i genitori, per affermare che, in questi casi, «le contexte laisse (…) clairement entendre que le verbe signifie “être à l‟origine du devenir d‟un être”, “concevoir”» (313), il che non suffraga, ma semmai contrasta, l‟ipotesi della secondarietà della nozione di “generare”34

.

34

Vale la pena sottolineare che in alcuni casi ‒ come nella discussione del passo dell‟Inno ad Apollo, 308-309, in cui si fa riferimento alla nascita di Atena ‒ Sauge è portato a preferire l‟accezione di “far diventare” / “rendere” perché attribuisce a “generare” una portata semantica molto ristretta, il che lo

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21

Senza addentrarsi ulteriormente nell‟esemplificazione, è opportuno trarre alcune conclusioni: l‟argomentazione di Sauge, coinvolgendo e talora confondendo l‟opposizione intransitivo / causativo con elementi di semantica del verbo, azionalità, aspetto35, non porta nel complesso prove convincenti di una priorità della nozione di “divenire” su quella di “nascere”, né di quella di “rendere” su “generare” per le forme transitive, e non dimostra il presunto valore eminentemente durativo di * Ciò che emerge con chiarezza da tale rassegna di occorrenze è solo la compresenza delle due accezioni fondamentali già nelle più antiche testimonianze della letteratura greca, senza che questo consenta, di per sé, di chiarire quale sia, eventualmente, da considerare primaria a livello monoglottico.

Tale coesistenza non fa altro che confermare, del resto, una contiguità concettuale tra le due nozioni della quale esistono numerose testimonianze. Rimanendo in ambito indoeuropeo, è possibile riscontrare tanto casi di polisemia (si consideri il latino fio, che può veicolare sia l‟idea di “venire ad essere”, “accadere”, “essere fatto” sia quella di “diventare”)36

, quanto, ancora più frequentemente, casi di comunanza etimologica (a livello intra- o interlinguistico) tra lessemi deputati ad esprimerle. Ciò risulta particolarmente evidente nei casi in cui il nucleo semantico comune rimanda alla sfera dello “spostamento”, “traslazione”, “provenienza” (da cui i significati di “venire ad essere”, quindi “nascere”, e “venire ad essere X”, quindi “diventare”): si considerino ad esempio i verbi latini devenio e advenio37

, con i

loro continuatori nelle lingue romanze, o, in prospettiva comparativa, l‟inglese moderno

become, ascrivibile ad una radice con il significato di “(pro)venire”38, alla quale il LIV riconduce, sebbene con riserve, le forme lituane gemù («geboren werden») e gamìnti («zeugen, erzeugen»)39.

Nel caso di  e dei corradicali, dunque, almeno a livello teorico, è possibile postulare tanto una specializzazione semantica che avrebbe portato ad utilizzare una radice adatta a veicolare genericamente un passaggio di stato per indicare anche, in particolare, un induce a sostenere, per esempio, che non è corretto dire che Zeus “ha generato” Atena nella propria testa, dato che il concepimento era avvenuto precedentemente nel grembo di Metis (314). Evidentemente tale difficoltà è superabile se si considera “generare” nel senso più ampio di “portare all‟esistenza”; lo stesso Sauge (ibidem) ammette del resto, commentando l’Inno ad Atena, che «l‟on peut, si l‟on veut, par analogie, traiter ce jaillissement [sc. di Atena dalla testa di Zeus] de “naissance”».

35

Questa sovrapposizione ‒ e in certa misura confusione ‒ di piani emerge in particolare nelle circostanze in cui Sauge (cfr. 315 ss.) si sforza di dimostrare che determinate occorrenze di participio sono interpretabili come forme di presente con valore causativo, piuttosto che come aoristi intransitivi: la presunta preminenza del “divenire” sul “porre in essere” è nei fatti, se non a livello teorico, smentita, quando egli stesso ricorre nella traduzione a «faire advenir», evidentemente ascrivibile alla seconda nozione piuttosto che alla prima. Altrove (318), nell‟interpretazione della forma  in Moscodi per sé un‟emendazione!, è la distinzione tra causativo e intransitivo a venire meno a vantaggio del mantenimento di una forma di imperfetto invece che di aoristo. L‟elenco potrebbe continuare.

36

V. Souter et al. (1968-1982: s.v.). Il LIV (s.v. *bhueh2) attribuisce a tale radice i significati di «wachsen, entstehen, werden»; Mann (1984-1987: s.v. bhū bhu ) glossa con «bring into being; become, be». In Walde – Pokorny (1927-1932: s.v. bheu-), «wachsen» ‒ anche nel senso di «schwellen»; Pokorny (1959: s.v.) aggiunge «gedeihen» ‒ è considerato il significato originario, dal quale si sarebbero poi sviluppati quelli di «entstehen, werden, sein» (per la funzione suppletiva nei confronti del verbo per “essere”, testimoniata ad esempio dal perfetto latino fui, v. supra), e inoltre «gewohnheitsmäßig wo sein, sich aufhalten, wohnen».

37

V. Souter et al. (1968-1982: s.v.). 38

Cfr. Onions (1966: s.v.): significativamente, oltre al significato desueto di «come», «arrive», il dizionario menziona «come to be».

39

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“(far) venire ad essere”, quanto una estensione dall‟accezione di “(far) nascere” a quella di “(far) passare ad un diverso stato di essere”. Nella misura in cui è lecito cercare di stabilire una priorità cronologica tra due nozioni la cui contiguità favorisce un trapasso di significazione continuo e bidirezionale, comunque, a livello etimologico e in prospettiva indoeuropea è piuttosto considerata primaria la nozione di “(far) venire ad essere”, che è testimoniata dalla quasi totalità degli esiti storici in varie lingue (si consideri soltanto, a titolo di esempio e perché risulterà rilevante nel prosieguo dell‟indagine, l‟armeno cnanim: “genero” e “nasco”). Mann (1984-1987: s.v. ĝĭĝěn ), effettivamente, non glossa il tema reduplicato solo con «bear» ma anche, per l‟intransitivo, con «become», molto probabilmente in ragione del significato di ; per la radice ĝen-, tuttavia, menziona i significati di «beget», «be born», «happen». Walde – Pokorny (1927-1932: s.v. 1. ĝen-) assegna alla radice il significato primario di «erzeugen», e glossa peraltro lo stesso con «werde geboren», mentre Pokorny (1959: s.v. 1. ĝen-), pur continuando ad assegnare alla radice il significato di «erzeugen» (come farà, del resto, il LIV: s.v. *ĝenh1), glossa il verbo greco con «werde, entstehe». Il recente dizionario etimologico greco di Beekes (2010:

s.v.ascrive a sua volta alla radice indoeuropea i significati di «beget, arise».

Oggetto di discussione è, invece, il rapporto originario tra il valore causativo e quello intransitivo40: su questo è particolarmente importante soffermarsi, perché l‟argomento acquista rilevanza ai fini di giustificare il rapporto sincronico tra il presente e il perfetto Il LIV (s.v. *ĝenh1), pur ammettendo che «hatte gewiß schon grundsprachlich der mediale Wurzelaorist und das e- Präsens die fientive Bedeutung „geboren werden‟», considera primario, come si è detto, il valore transitivo di «erzeugen» ‒ conservato ad esempio nel latino gigno, sanscrito janati, avestico zīzanənti ‒ anche in ragione dell‟esistenza, nelle lingue storiche (segnatamente in vedico, greco e latino), di forme riconducibili ad un nomen agentis *ĝénh1-tor. L‟unico elemento esplicitamente definito «problematisch» ai fini di postulare una priorità del valore agentivo della radice è proprio il perfetto greco, il cui valore intransitivo viene giustificato alla luce di una estensione o generalizzazione («Verallgemeinerung») del significato del medio.

In realtà, proprio la correlazione paradigmatica con un presente di tipo transitivo consente a Romagno (2005) di ascrivere il perfetto intransitivo ad una categoria bene attestata in greco, ovvero quella dei perfetti di verbi causativi biargomentali che «promuovono a soggetto l‟oggetto del costrutto transitivo corrispondente» (57) e spostano quindi il ruolo tematico del soggetto verso il macroruolo dell‟inattività (115)41. L‟argomentazione di Romagno verte infatti a dimostrare, a partire dai dati del greco e, secondariamente, da un confronto con la documentazione vedica, che la funzione del perfetto indoeuropeo è quella di significare uno stato del soggetto «coi verbi che non incorporano tale nozione nel lessema verbale» (9). Esso dovrebbe essere perciò originariamente incompatibile con i media tantum, che contengono a propria volta un predicato di stato ‒ avente come argomento il soggetto ‒ incorporato nel lessema verbale come primitivo semantico o presente nella struttura logica42, e selezionano quindi un ruolo tematico inattivo del soggetto stesso (qualificandosi come inaccusativi)43.

40

Parlando di transitivo e intransitivo si fa riferimento, dove non altrimenti specificato, ad una transitività di tipo sintattico.

41

Tali forme non esauriscono, evidentemente, la totalità dei perfetti omerici: poiché questa tipologia è l‟unica che risulti rilevante ai fini della presente trattazione, tuttavia, non sembra necessario riportare la casistica completa, che è comunque reperibile in Romagno (2005).

42

Si vedano in proposito Dowty (1979) e i contributi ascrivibili alla Role and Reference Grammar citati da Romagno (2005: 14, nota 5).

43

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Ora, a livello sincronico, in greco omerico e classico un presente attivo con valore transitivo che sia in rapporto sincronico e paradigmatico con non è attestato: il corradicale che «fonctionne comme un factitif de », è infatti, verosimilmente, un denominativo seriore di 44. Il perfetto intransitivo coesiste invece proprio con un presente medio, ovvero : esso, come verbo trasformativo (Vendler, 1967) inaccusativo (Perlmutter, 1978), monoargomentale e ‒ se non si considerano possibili eccezioni determinate da dati di azionalità configurazionale ‒ telico, implicando appunto il raggiungimento di un telos determinato che coincide con una modificazione dello stato dell‟argomento interno diretto, ovvero del soggetto sintattico, contiene un predicato di stato nella struttura logica. Si osservi che Romagno (2005) cita tra gli altri, come esempio di verbo trasformativo e telico, l‟italiano nascere: «il mutamento di stato significato dal verbo specifica un punto oltre il quale l‟evento non continua», cioè, nel caso in esame, il momento «in cui chi nasce passa dallo stato di „non esistente‟ allo stato di „esistente‟» (14). Adottando (su esempio di Romagno, che la applica ad altri verbi) una formulazione essenziale che riduca il numero degli operatori, la struttura logica di nelle due accezioni prototipiche sarebbe dunque riconducibile alla rappresentazione DIVENTARE predicato' (x), tipica dei traformativi; seguendo Van Valin – LaPolla (1997), l‟operatore rilevante sarebbe indicato invece come INGR(essivo), per meglio rappresentare un cambiamento istantaneo. Tale rappresentazione sarebbe poi ulteriormente specificabile, per l‟accezione di “divenire”, con la formula INGR essere' (x; y), laddove x e y rappresentano gli elementi variabili, costituiti dall‟argomento interno del verbo, cioè il soggetto, e dal predicato indicato contestualmente; per l‟accezione di “nascere”, invece, la struttura potrebbe essere rappresentata come INGR essere' (x), laddove x rappresenta l‟argomento unico del verbo. Gli elementi indicati in grassetto seguito dall‟apice sono le costanti: in questo caso, tale costante è, evidentemente, la rappresentazione dello stato.

Romagno (2005) rende ragione della coesistenza di  e , che è apparentemente in contrasto con la teoria di una antica complementarietà di medio e perfetto, sottolineando come il rapporto paradigmatico con il presente medio sia, in realtà, secondario: «opposizioni del tipo  : manifestano una correlazione semantica fra medio e perfetto, ma non costituiscono un paradigma originario» (107). Il perfetto sarebbe infatti una forma di eredità indoeuropea, costruita, appunto, su un presente causativo. In tale prospettiva, si pone dunque, rispetto a questo presente ricostruito x, nello stesso rapporto proporzionale che lega il perfetto intransitivo “sono distrutto”, con il causativo biargomentale “distruggo”. L‟oggetto del verbo transitivo, esprimente la nozione di “porto all‟esistenza”, “genero”, è promosso a soggetto del perfetto, che veicola a propria volta uno stato: “sono all‟esistenza”, “sono”. Il perfetto rappresenta infatti l‟evento coinvolgendo un solo partecipante, ovvero «l‟entità che subisce il mutamento di stato significato dal lessema verbale» (112). Evidentemente la dimensione del “mutamento”, ovvero la trasformatività del verbo, viene in questo caso meno: il perfetto esclude infatti dalla rappresentazione logica dell‟evento il predicato di attività.

non è, dunque, un medium tantum dal punto di vista etimologico: in questo senso, la presenza del perfetto attivo non osta certamente all‟interpretazione generale della funzione e distribuzione del perfetto stesso presentata da Romagno. Si noti peraltro, tangenzialmente, che le citate forme omeriche, potenzialmente riconducibili ad un presente *, qualora avessero effettivamente valore causativo conserverebbero, pur essendo morfologicamente medie, il supposto valore originario della radice, testimoniato anche dagli

44

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24

aoristi corradicali ad indubbio valore transitivo45. L‟affermazione secondo la quale stesso «è deponente solo in greco: la base è attiva» e, soprattutto, la formulazione riassuntiva per cui «in queste coppie [sc. quelle in cui un presente medio coesiste già in Omero con un perfetto attivo: n. d. A.], o è secondario il medio o è secondario il perfetto: e perciò, esse saranno epifenomeni – tra l‟altro monoglottici – della correlazione semantica fra la diatesi media e il perfetto» (44) meritano tuttavia alcune precisazioni relative al caso specifico, che non intaccano, peraltro, il quadro esplicativo più ampio.

È opportuno considerare che la possibilità di stabilire in modo inequivocabile una priorità del valore causativo per la radice *ĝenh1- non è universalmente accettata. Benedetti (2002), in un quadro teorico afferente alla grammatica relazionale, analizza possibili tracce di inaccusatività a livello indoeuropeo, concentrando l‟attenzione, oltre che sul significato lessicale delle radici, anche sulla loro funzione di predicato inteso come operatore sintattico che legittima argomenti nominali, attribuendo loro un ruolo tematico. Nel contesto di una ripartizione delle radici stesse, in base alla loro valenza, tra transitive, inergative e inaccusative, ella esamina alcuni casi di “alternanza causativa”, e sottolinea come, per alcune di esse, sia impossibile stabilire «una priorità cronologica o “logica” tra uso transitivo e uso inaccusativo» che risultano, di fatto, equipollenti (38). Tali radici avrebbero invece, ipotizza Benedetti, la possibilità di operare alternativamente una doppia inizializzazione: ciò consentirebbe, per quanto riguarda il caso rilevante ai fini della presente argomentazione, di giustificare la «varietà e apparente contraddittorietà dei dati offerti dai continuatori della radice *ĝenh1- „generare‟ / „nascere‟»46. In particolare, Benedetti osserva che, se l‟esistenza del nome d‟agente testimoniato in greco, vedico e latino (cfr. LIV: s.v. *ĝenh1) presuppone effettivamente un valore transitivo della radice, il derivato *ĝenh1-e/os-, parimenti continuato in antico indiano (jánas-), greco () e latino (genus)47, sembrerebbe rimandare piuttosto a una radice inaccusativa. La compresenza dei due tipi di derivati, alla luce delle diverse regole di selezione della radice che operano nell‟uno e nell‟altro caso, si spiegherebbe, appunto, con l‟ipotesi di una doppia possibilità di inizializzazione della radice stessa.

Qualora la proposta interpretativa di Benedetti fosse corretta, dunque, la coesistenza del presente medio con il perfetto non andrebbe necessariamente ascritta ad un fenomeno monoglottico e recenziore (per cui una delle due forme sarebbe secondaria e sviluppatasi in ragione di un‟affinità semantica con l‟altra): nello specifico, non è necessario postulare la recenziorità della forma mediale stessa, ma solo, come si diceva, quella del suo statuto di medium tantum. Tanto il medio quanto il perfetto potrebbero essere il risultato di un‟alternanza risalente ad età indoeuropea48

. In tal senso, dal punto di vista etimologico, riscontreremmo una situazione simile a quella attestata, nei testi omerici, dalle “radici diadiche”, quali, ad esempio, “brucio”,e “persuado”, che, presentando una distribuzione di forme paritaria tra le due diatesi (la cui opposizione codifica, appunto, l‟alternanza causativa), «non consentono di individuare la forma di base» (Romagno, 2005: 86). Sempre in tale prospettiva, il rapporto tra e non sarebbe dunque dissimile alla relazione che sussiste, nel greco storicamente attestato, tra un medio oppositivo e il perfetto attivo di un verbo transitivo biargomentale, quali, ad esempio,

45

Le une e gli altri non hanno comunque avuto seguito in greco classico se non, possibilmente, in quanto omerismi o epicismi non più produttivi.

46

Si noti, tangenzialmente, che anche Benedetti, discutendo della radice a livello indoeuropeo, fa riferimento al polo semantico della generazione e non a quello più generico della trasformazione. 47

Per la problematica derivazione dell‟armeno cin, “nascita”, dalla medesima forma indoeuropea, v. Olsen (1999: 99-100); Martirosyan (2008: 291-292); Idem (2010: 342) e indicazioni bibliografiche relative.

48

Con ciò non ci si riferisce, evidentemente, a fasi indoeuropee remote, ma si vuole sottolineare la portata non solo monoglottica del fenomeno. V. infra per le osservazioni di Benedetti in proposito.

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25

“perisco”, “vado in rovina” e “sono rovinato”: «tanto il medio quanto il perfetto promuovono a soggetto l‟oggetto del costrutto transitivo corrispondente, il medio raffigurando il processo come non causato esternamente, il perfetto convertendo il processo in stato» (Romagno, 2005: 57).

Si noti che l‟ipotesi di Benedetti (2002) non è necessariamente in contrasto con l‟idea che l‟assegnazione delle diatesi, in indoeuropeo, dipendesse in origine dalla base lessicale e non potesse quindi avere funzione oppositiva49. Innanzitutto, l‟autrice precisa che le osservazioni proposte «non hanno l‟obiettivo di ricostruire stadi indoeuropei remoti, ma semplicemente quello di tentare di rendere conto della situazione ereditata dalle lingue storiche» (28, nota 18). In secondo luogo, la possibilità di ricorrere tanto in costrutti transitivi quanto in costrutti inaccusativi, distinti morfologicamente solo dalle desinenze attive o medie, sarebbe stata limitata a determinate radici (35), e quindi, di fatto, lessicalmente selezionata. Da un punto di vista generale, Benedetti stessa menziona la dicotomia, legata alla distinzione tra verbi inaccusativi e inergativi, tra media e activa tantum ‒ nell‟ambito della quale alla morfologia mediale sarebbe spettata la codifica dell‟inaccusatività (28) ‒ oltre all‟esistenza, come si diceva, di radici transitive che avrebbero potuto legarsi a desinenze attive oppure medie (ad esempio per la formazione del passivo)50.

L‟excursus etimologico appena presentato mira, come si è anticipato, a favorire, in un secondo momento, la decifrazione e interpretazione in prospettiva sincronica dei dati forniti da una specifica opera di un singolo autore. Nella fase linguistica rappresentata dal Timeo non sono più presenti, nel paradigma di forme causative di eredità indoeuropea: resta un verbo a morfologia mediale e ad azionalità essenzialmente trasformativa e telica, con tutte le sue articolazioni morfologiche e le relative ricadute aspettuali, che coesiste con un perfetto intransitivo (oltre che con un perfetto secondario di forma mediale, su cui si tornerà in seguito). Cercare di chiarire la significazione “originaria” di in prospettiva monoglottica, sempre in vista di una contestualizzazione contrastiva, comporta necessariamente un riferimento all‟interpretazione che per tale forma si può ricavare dalle più antiche attestazioni del greco letterario. A tal fine, è opportuno citare, ancora una volta, tanto il recente lavoro di Romagno quanto, in ragione della ricchezza esemplificativa più che della prospettiva ermeneutica, quello di Sauge. Una puntualizzazione in tal senso permetterà infatti di delineare un insieme di aspettative e di possibili linee evolutive contro cui verificare l‟evidenza fornita dal Timeo.

Secondo Romagno (2005), dunque, il valore originario del perfetto omerico è, essenzialmente, quello di rappresentare «lo stato in sé, e non come acquisizione di una condizione nuova» (57); ciò lo distingue dal medio, con cui pure, si è visto, mostra numerose affinità. Nel caso del verbo trasformativo di forma mediale infatti, «lo stato è rappresentato come acquisizione di una condizione nuova e, perciò, come complementare a una componente semantica dinamica», nello specifico inagentiva (37). È opportuno insistere su questa differenza, poiché essa risulterà di cruciale importanza ai fini della presente indagine, costituendo parte integrante del gioco linguistico impostato da Platone all‟interno della più ampia dicotomia tra “essere” e “divenire”.

Prima di procedere oltre è necessaria una precisazione di natura terminologica. Romagno considera l‟opposizione tra forme dell‟indicativo e forme del perfetto come pertinente all‟azionalità piuttosto che all‟aspetto51

: «l‟aoristo codifica l‟aspetto verbale. Il perfetto,

49

Cfr. Romagno (2005: 27) e indicazioni bibliografiche relative. 50

Cfr. Lazzeroni (1990). 51

Tale riflessione e le puntualizzazioni che seguono non riguardano, e pertanto non escludono, il valore temporale sviluppato dal perfetto nel corso dell‟evoluzione diacronica della lingua greca: su questo si tornerà a breve.

(15)

26 invece, l‟azionalità»52

(125). La consapevolezza che un‟analisi dei valori del perfetto non rientri propriamente in un‟indagine di natura aspettuale è, in effetti, presente già in Comrie (1976), che, come è noto, descrive l‟aspetto come riguardante «different ways of representing the internal temporal constitution of a situation» (52). A prescindere dalla tradizionale spiegazione della funzione del perfetto greco ‒ ascritto alla rappresentazione della «continuing present relevance of a past situation» ‒ che non coincide esattamente con quella di Romagno, Comrie è ben cosciente che la sua definizione di aspetto, appropriata per descrivere l‟opposizione perfettivo – imperfettivo, si attaglia meno al perfetto stesso: «given the traditional terminology in which the perfect is listed as an aspect, it seems most convenient to deal with the perfect in a book on aspect, while bearing in mind continually that it is an aspect in a rather different sense from the other aspects treated so far» (ibidem)53. Bertinetto – Delfitto (2000: 190), collocandosi esplicitamente in continuità con Comrie, definiscono la categoria dell‟aspetto come «the specific perspective adopted by the speaker/writer», e oppongono l‟aspetto perfettivo, o meglio, terminativo, che riguarda l‟evento considerato da un punto di vista globale, a quello imperfettivo o non terminativo, che riguarda un punto di vista parziale sull‟evento stesso. Essi sottolineano inoltre come «aspect is normally, but not invariably, expressed by means of grammatical devices (i.e., tenses or specific periphrases)». The «“perfect” aspect» è ascritto, in questa ripartizione, al punto di vista globale: si noti, peraltro, che con il termine perfect si fa qui riferimento a una definizione analoga a quella adottata da Comrie (ovvero si intende il perfetto come funzione aspettuale che esprime il risultato di un evento o il perdurare di uno stato)54, che non sembra combaciare esattamente con le funzioni originarie del perfetto greco, e, comunque, non è applicabile a tutti i perfetti greci.

L‟azionalità è d‟altra parte definita da Bertinetto e Delfitto (ibidem) come riguardante «the type of event, specified according to a limited number of relevant properties». Essendo «essentially rooted in the lexicon», essa «normally lacks an overt morphological marking» ma ‒ e questo è rilevante ai fini della presente discussione ‒ «it may have one». È significativo notare che l‟opposizione statico vs. dinamico pertiene, in questa classificazione, alla dimensione azionale.

Di fatto, entrambe le scelte possono essere sostenibili: l‟essenziale è chiarire il contenuto inerente alle denominazioni adottate. Discutendo nel prosieguo del lavoro di mutamenti che interessano l‟azionalità propria del lessema verbale quando esso è coniugato al perfetto (nello specifico, il venir meno dell‟elemento trasformativo, quindi la conversione di un processo in uno stato), si potrebbe parlare di interazione tra aspetto e azionalità qualora si privilegiasse, nella distinzione tra le due categorie, il ricorso a strumenti di natura morfologica (cioè, l‟esistenza di un tema verbale dedicato), riservando l‟etichetta di azionalità ai fattori dipendenti unicamente da dati di natura lessicale o configurazionale. Considerando il valore proprio del perfetto greco come definito da Romagno (2005), nonché la definizione di aspetto come “punto di vista parziale o complessivo sull‟azione”, sembra però lecito comprendere questa fenomenologia nella definizione di azionalità.

Secondo Romagno, si diceva, una forma come esprime, originariamente, uno stato in sé, e non come acquisizione di un nuovo modo d‟essere o come perdurare di una

52

Romagno aggiunge di seguito: «e, infatti: l‟aoristo, a differenza del perfetto, non conosce restrizioni dipendenti dalla semantica verbale». A questo proposito si può comunque osservare che esistono radici le quali, in ragione della semantica e azionalità loro propria, che risulta incompatibile con determinate articolazioni aspettuali o, al contrario, le rende superflue, non conoscono un tema di aoristo (cfr. quanto si è detto a proposito della radice per “essere”).

53

Per constatare la tradizionale presenza del perfetto in studi dedicati all‟aspetto verbale in greco, è sufficiente sfogliare la rassegna bibliografica fornita da Conti (2004-2005).

54

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