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Parte prima PER UN PROFILO STORICO

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Parte prima

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ER UN PROFILO STORICO

-

CULTURALE DI

V

IAREGGIO

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A BORGO DI PESCATORI A CITTÀ

,

CULLA DELLA NOBLESSE EUROPEA

,

DI

ARTISTI E LETTERATI

Viareggio è una città relativamente giovane, non affonda le sue radice in epoche remote, nasce infatti nel Medioevo, ma quello che la contraddistingue è l’aver vissuto, nel giro di pochi anni, un’esistenza ricca di eventi, soprattutto nel corso del Novecento quando vide ospiti illustri in tutti i campi della cultura, tanto che facendo la sua storia è possibile seguire la storia d’Italia, ma anche fare storia dell’arte, del teatro e della letteratura novecentesche. Nei capitoli seguenti si cercherà di scoprirne la nascita, l’ascesa e le maggiori conquiste ottenute seguendo le parole di chi ne ha descritto il percorso storico, da scrittore appassionato o da addetto ai lavori. In questo iter attraverso i secoli emergeranno la particolare originalità di questa terra e dei suoi abitanti, ma anche scontri e battaglie da cui si può intuire il carattere fiero e ribelle della gente viareggina maturato fin dai suoi albori. E mentre la vis anarchica degli abitanti di Viareggio già emerge nel Settecento, in quello stesso periodo si assiste anche, parallelamente, alla fioritura del turismo in città, il quale modificherà il volto e le abitudini urbane e che esploderà definitivamente nell’Ottocento perdurando per tutto il Novecento, accompagnato da una migrazione non solo di bagnanti e forestieri, ma anche di artisti e letterati italiani e stranieri che lasceranno la loro impronta con scritti e testimonianze legate alla “Perla del Tirreno” e alle altre località versiliesi prescelte per il loro paesaggio incontaminato: Torre del Lago e, più tardi, Forte dei Marmi.

Capitolo Primo

UNA CITTÀ IN CONTINUA TRASFORMAZIONE: LA VIAREGGIO CHE FU. CENNI DI STORIA, CULTURA E SOCIETÀ

“Viareggio nasce nella storia in epoca medievale, eppure il suo naturale retroterra campestre conserva, nei verdeggianti dintorni del limpido lago di Massaciuccoli, tracce cospicue della colonizzazione romana.”1

Così esordisce il primo dei sette libri che Francesco Bergamini (1924-2004), lo storico principale di Viareggio, dedica alla storia della sua città, con l’intento di far scoprire al lettore una Versilia ignota, più umile e nascosta di quella moderna legata alle

1 F

RANCESCO BERGAMINI-MARCO PALMERINI, Dalla genesi del territorio all’anno Mille, Viareggio, Pezzini, 1964, p. 7.

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vacanze e al turismo balneare. Una cavalcata attraverso lo spazio di tempo che va dal Quaternario preistorico, alle orme lasciate dai Liguri-Apuani, abitanti del territorio dal Vara al Serchio, fino alla colonizzazione romana e al dramma travolgente delle invasioni barbariche, quando i Goti, i Longobardi e i Franchi, giungeranno anche in Versilia e qui instaureranno il rigido feudalesimo. Ai volumi che seguono spettano invece la trattazione della nascita del primo vero insediamento viareggino e i suoi futuri sviluppi tra Sei, Sette e Ottocento, tra Comune e Principato, 2 mentre, gradualmente, l’originario e modesto borgo di pescatori diviene città e poi stazione balneare famosa in tutto il mondo. Con questa trasformazione epocale siamo ormai verso la seconda metà del XIX secolo, ma il vero trionfo arriverà nel Novecento, epoca di rivolte e progresso, che scriverà la sua storia su quotidiani e giornali locali, numerosissimi in questo periodo.3 La cronaca viareggina che trapela dai periodici di quei giorni è fitta di eventi mondani, politici, culturali, il cui svolgersi trasforma ulteriormente e costruisce un nuovo e moderno profilo della città proiettando quest’ultima nel più ampio scenario nazionale e mondiale.

1.1 Dalle origini al Settecento: una nascita tarda e una lenta affermazione

La storia ci racconta, attraverso le sue testimonianze archeologiche, che, in epoca pre-romana e anche in seguito, la lunga fascia di terreno pianeggiante ai piedi delle Apuane, su cui sarebbe in seguito sorto il primo insediamento viareggino, era coperto dal mare, mentre la zona dell’entroterra era costituita da grandi ed estese paludi, da dune sabbiose e tomboli e da vasti specchi acquitrinosi che ne avevano impedito lo stanziamento di un nucleo umano consistente. L’unico bosco presente, fitto di lecci e indicato negli antichi documenti come “Selva Regia” o “Selva Parantina”, era impervio, ma ricco di selvaggina e occupava la bassura compresa tra il litorale e la linea pedemontana, da Malaventre giungeva fino alla fossa di Motrone. Geograficamente il territorio era dominato da un lago di Massaciuccoli molto più grande di quello che vediamo oggi e dai suoi emissari, le Fossae Papirianae, ossia la Fossa di Mal Fante, quella di Stiavola, quella delle Quindici, quella delle Venti e, tra queste, la Fossa maggiore, poi chiamata Fossa della Selice e successivamente Fossa detta la Burlamacca dal

2 F

RANCESCO BERGAMINI-MARCO PALMERINI, Viareggio si affaccia alla ribalta della storia (1000-1400), Viareggio, Pezzini, 1964; IDEM, Viareggio scalo marittimo dei lucchesi (1400-1600), Viareggio, Pezzini, 1964; IDEM,Viareggio terra del diavolo (1600-1700), Viareggio, Pezzini, 1965; IDEM,Viareggio nel Settecento (1700-1799), Viareggio, Pezzini, 1964; IDEM, Gli ultimi anni del Principato (1813-1814), Viareggio, Pezzini, 1964.

3 La descrizione in nota dei diversi periodici consultati nel mio lavoro è frutto, in modo particolare, del testo

esplicativo e sintetico di MARIA D’ARRIGO, I periodici lucchesi posseduti dalla Regia Biblioteca governativa di Lucca, Lucca, Tip. Editr. G. Giusti, 1933.

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nome di una nobile famiglia lucchese, i Burlamacchi che si distinsero particolarmente nella mercatura e nella politica cittadina nei secoli XIV-XVI. 4

Le sole arterie presenti erano la Via Romana, che collegava Pisa con Motrone, e, ai piedi del Quiesa, la via Francesca o Romea, quella famosa Francigena che verrà percorsa da mercanti, pellegrini e crociati; gli altri confini naturali si collocavano, a sud, con la foce del fiume Serchio, e a nord, col fiume Magra.

Le tracce di vita erano scarse, poche capanne emergevano qua e là tra le lame ed erano povere, costruite col falasco, un’ erba palustre qui reperibile. Era semmai sulle colline che si potevano scorgere piccoli borghi o casolari di coloni e pastori. In pianura, le condizioni difficilissime di agibilità e l’insalubrità dell’aria non consentivano certo la possibilità di una dimora stabile. La futura Viareggio, in poche parole, appariva invivibile, tanto che verrà rinominata “terra del diavolo”.5

Sarà solo nel Medioevo, in particolare attorno al 1170-1172, che Viareggio o Vioreggio come si legge nei documenti antichi nascerà, dalle dispute fra Pisa e Lucca per la supremazia e il controllo del territorio litorale. Tale conflitto traeva le sue origini da una parte dal desiderio di Lucca di avere uno sbocco sul mare, e, dall’altra, dalle preoccupazioni di Pisa che, potenza marinara nel Mediterraneo insieme a Genova, Amalfi e Venezia, temeva la concorrenza economica della rivale. Risale infatti a quella data l’erezione del famoso Castrum o Turris de

Via Regia, 6 voluto dal Comune di Lucca insieme all’alleata Genova per difesa da possibili

attacchi pisani e dal cui nome apparirebbe evidente il nesso con il futuro toponimo della città. L’impresa del castello presentava però molte difficoltà, sia dovute alla natura paludosa e dunosa del terreno, sia all’assenza di strade che permettessero di portare sul luogo il materiale necessario alla costruzione. Per ovviare alla seconda incombenza si decise di realizzare quella che è l’attuale via di Montramito, chiamata a suo tempo via Regia. Fu un lavoro grandioso e ingegnoso, si pensi che la strada doveva elevarsi al di sopra delle acque e su terreno franoso.

4 Cfr. “Fossis Papirianis”, nella Tabula Peutingeriana (pars IV, segmentum IV), un itinerarium pictum del

mondo conosciuto. Si tratta di un documento risalente al periodo romano-imperiale, giuntoci in una copia medievale, e precursore, se così si può dire, delle più moderne guide Michelin. Riproduzione della Tabula su Internet nella collezione digitale “Bibliotheca Augustana”. Sull’origine toponomastica del Canale Burlamacca, cfr. GABRIELLA PANIGADA, Nel nome del Burlamacca. Riflessioni linguistiche sul celebre idronimo viareggino, in “Quaderni di storia e cultura viareggina”, n. 6, A., 2013. La Panigada sostiene che, oltre al riferimento alla famiglia, nell’idronimo si celi anche un rimando al tipo di territorio su cui il canale scorre, un acquitrino rossastro dovuto alla forte presenza di torba e alla natura paludosa del luogo attraversato (Burlamacca sarebbe un composto di burrus, “rosso”; lama, “pantano, palude, stagno” e –acco, suffisso che sopravvive al Centro-Nord in cognomi e in alcuni nome comuni).

5

FRANCESCO BERGAMINI-MARCO PALMERINI, Viareggio terra del diavolo (1600-1700), cit., p. 5. Gli autori definiscono la città con questo appellativo già nel titolo del volume, come si vede, e sottolineano come le primissime generazioni di viareggini abbiano avuto la tenacia e la forza di resistere.

6 Oggi di questa torre, probabilmente individuabile dove esistono gli insediamenti della raffineria di olii SALOV,

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Si sfruttarono allora le dune esistenti, fatto che testimonia la tortuosità che il tracciato ha tutt’oggi, e poi si procedette a gettate alternate di sassi, terra e altri materiali, con il risultato di “una strada «pensile», tantoché bastava che un carro più pesante del solito la percorresse, per vedere la strada abbassarsi nella palude”. 7

Ultimati i lavori, fu realizzato il castello. Come ci informa un testimone del tempo, l’annalista Oberto, cancelliere del Comune di Genova, si trattava di un nucleo fortificato a tutti gli effetti, che raggiunse i 45 metri di altezza (80 braccia) e una circonferenza massima di 35 metri (60 braccia) . All’interno della fortezza nacquero i primi insediamenti di botteghe e abitazioni, si fa largo un germe di umanità e “Viareggio, non solo si affaccia alla ribalta della storia, ma vi si inserisce concretamente”,8 per usare le parole di Francesco Bergamini. L’estratto che segue, tradotto dal latino, è tratto dal documento redatto da Oberto ed è considerato il primo atto di nascita della città:

Il fortilizio è stato edificato su terreno dunoso prossimo al mare, a distanza di circa due miglia dal castello di Montramito, alla cui radice sgorga una fonte d’acqua viva, che forma addirittura un lago esteso fin quasi al fiume Serchio ed alimenta paludi così vaste che dal piede del colle fino al lido del mare nessuno può attraversare, se non lungo una gittata di pietre poco più alta delle acque circostanti, chiamata Via Regia [l’attuale via di Montramito].9

Si collocano probabilmente a questa altezza i primi viareggini, quei quattrocento “liberi, anarchici, ignoti, fanciulli” a cui Mario Tobino dedica il primo capitolo del suo libro Sulla

spiaggia e di là dal molo, omaggio al passato, meno e più recente, della sua terra. È l’inizio

della storia di Viareggio e del suo popolo, ecco perché la posizione incipitaria di questo testo, di gusto più leggendario che storico, e da cui sembra emergere una fondazione quasi mitica della città:

Viareggio viene da lontanissimo. Nel dodicesimo secolo, tantissimi anni fa, in quella zona contesa tra lucchesi, fiorentini, genovesi e pisani, a salvaguardia di un qualche interesse si costruì una torre, una difesa. La torre si ergeva in mezzo alla palude; le dune dalla parte del mare, a ogni sconquassata del libeccio, mutavano la posizione del piccolo dorso come pecore che trotterellano qua e là impaurite. Per ogni raggio piccoli canali, fossi, acquitrino.

7R

OLANDO DINI, Un borgo che diventa città. Appunti per una storia urbanistica della città, Viareggio, Tip. Nepi, 1968, p. 2.

8

FRANCESCO BERGAMINI, Viareggio si affaccia alla ribalta della storia (1000-1400), cit., p. 5.

9F

RANCESCO BERGAMINI, Le mille e una… notizia di Viareggio 1169/1940, Viareggio, Pezzini Editore, 1995, p.16. Il Bergamini, come Emanuele Repetti (Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana, Firenze, 1843) e Cesare Sardi (Viareggio dal 1740 al 1820: studio di tradizioni e costumi, Lucca, 1899), instaurano un nesso tra l’originaria denominazione del castrum Turris de Via Regia, con l’attuale nome della città. Ma il primo storico, a differenza degli altri due, fa coincidere questa strada con l’odierna via di Montramito, quell’arteria principale poi rifatta completamente nel 1468 per facilitare il trasporti delle mercanzie in arrivo e in partenza dalla foce e per garantire più agevoli comunicazioni tra Lucca e Viareggio. Sulla via di Montramito e sul suo ruolo di vecchio quartiere viareggino, cfr. FRANCESCO BERGAMINI, La più antica periferia, in AA. VV., Viareggio racconta…ancora, a cura di F. Bergamini, Viareggio, Pezzini Editore, 1995, pp. 29-33.

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Intorno alla torre si radunarono in alcune capanne, che presto si trasformarono in casolari, delle persone che non avevano trovato ospitalità da altre parti. Erano quattrocento e per secoli rimasero dello stesso numero. I primi viareggini furono loro, e si attaccarono a quel suolo.10

Anche Leone Sbrana (1912-1975), scrittore e politico viareggino, particolarmente legato alla sua città, immagina, in un racconto per sua ammissione dalle “implicazioni letterarie, cioè fantasiose”,11

la faticosa costruzione del castrum. Usando il “noi”, finge di aver partecipato a quelle vicende e si fa portavoce dei suoi valorosi concittadini che, affrontando una natura impervia, offrirono le proprie braccia e il loro sudore per l’impresa voluta dai lucchesi. Sia Tobino che Sbrana sfidano la storiografia ufficiale portando avanti l’ipotesi che un embrione di civiltà potesse esistere, una civiltà viareggina mossa, fin dagli albori, da spirito libertario e anarchico. Sarà esistito davvero un certo numero di uomini che, riunitisi attorno alla fortezza, dettero avvio ad una prima comunità? Probabilmente no, oppure erano molti meno di quattrocento, vista l’aria malsana che si respirava. Diciamo che non è possibile stabilire con certezza il numero esatto della popolazione a questa altezza vista l’assenza di una documentazione così retrodatata nel tempo. All’Archivio storico cittadino esiste il primo

Libro dei Morti che ci riporta al 1633 e esistono alcune carte che testimonierebbero

l’andamento demografico nel Cinquecento presso l’archivio parrocchiale della Pieve a Elici che fino all’anno Mille ha provveduto anche alla cura delle anime presenti nella terra di Viareggio. Ma, prima, niente. Dati più consistenti arrivano coi primi censimenti risalenti al Settecento quando davvero si afferma una comunità più consistente e tali conteggi parlano di un totale di “Anime 389”. 12

10 M

ARIO TOBINO, Sulla spiaggia e di là dal molo, Milano, Oscar Mondadori, 2011, p. 5. La prima citazione è a p.6.

11 L

EONE SBRANA, Il Castello di Viareggio, in «La Provincia di Lucca», XII, 2, aprile-giugno 1972. L’autore, così legato alla sua Viareggio, è anche autore di un saggio storico-cronachistico in cui compare l’articolo citato e che si sofferma sui momenti salienti di cui la città è stata protagonista, abbracciando un arco temporale che va dalle origini fino al 1945. Il libro nasce, per ammissione dello Sbrana, dall’amore per la sua Viareggio e lo stile non è da storiografo, ma da narratore. Infatti gli avvenimenti sono sì frutto di ricerche, ma attingono soprattutto dalla propria memoria di ragazzo o di adulto, trasformando così l’opera, se si vuole, anche in un diario. “Cercando, ricostruendo, immaginando, talvolta, sempre animato da passione, e senza ambizioni letterarie, anche perché intenzionato di ridurre il linguaggio a quello di un «narratore»”. LEONE SBRANA, Viareggio momenti di storia e cronaca, Viareggio, L’Ancora, 1972.

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Il numero è ricavato dal primo registro o “bacchetta” dello Stato delle Anime conservato presso l’Archivio cittadino con sede nella chiesa di Sant’Antonio. Tale elenco nominativo delle persone abitanti nel territorio di pertinenza della parrocchia che era compilato ogni anno dal parroco in occasione della benedizione pasquale delle case risale al 1705 e rappresenta la prima documentazione arrivata a noi oggi che ci attesta il numero dei cittadini di Viareggio. Questo e gli altri elenchi fino al 1714 sono stati pubblicati dall’Associazione culturale “Terra di Viareggio” in Stato delle Anime della Cura di Viareggio 1705-1714, Viareggio, Pezzini Editore, 2009. Nella preziosa introduzione viene ribadito che prima di quella data non si possiedono informazioni certe sulla consistenza della popolazione e si riportano alcuni dati dal citato Libro dei Morti e dalle carte parrocchiali di Pieve a Elici; certamente doveva essere scarsa a causa dell’aria mefitica, della miseria, di scarsità igienica e criticità sanitaria, oltre che per ladrocini, razzie e scorribande particolarmente presenti tra Cinque e Seicento.

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Le ipotesi di Tobino e Sbrana non hanno quindi fondamento storico, quello che conta per i due scrittori è forse mettere in evidenza un altro aspetto che va al di là del dato reale, una peculiarità che sarà propria di questo popolo, cioè la tenacia e il senso di indipendenza, la lotta coraggiosa e continua, ora con la zanzara malarica e la palude, domani col salmastro e con le insidie del mare e della navigazione, fino alla ribellione contro l’invasore fascista. Tornando alla realtà storica, è indubbio che questo momento è stato cruciale per la storia di Viareggio, in quanto ne ha sancito l’origine. “Simbolo della lotta eroica dell’uomo per la conquista e il dominio della natura” ,13 da quel castello, eretto nel terreno melmoso, hanno attecchito le radici della futura località di mare; dopo, diverse sono state le tappe che si sono susseguite prima di arrivare ai secolo più importante per la città, cioè l’Ottocento, periodo di affermazione, e il Novecento, tempo del successo e della fioritura delle attività principali che l’ hanno reso famosa in tutto il mondo. Dalla difficoltosa e costosa impresa di bonifica che inizia, per mano dei lucchesi, nel Quattrocento e si spinge fino al Cinquecento, con svariati tentativi di vincere una natura ostile e insalubre attraverso nuovi argini, nuovi canali, deviazioni di corsi d’acqua, ingegnose opere idriche, 14

agli scontri cinquecenteschi di Lucca con la Firenze dei Medici, che decreteranno la cessione ai fiorentini del porto di Motrone (1513) da parte dei lucchesi sconfitti. Con la perdita dello scalo marittimo più importante per gli scambi commerciali da e per la città, si apre un nuovo capitolo nelle vicende di Viareggio. Infatti, per necessità di un nuovo centro per i propri commerci, Lucca concentra i suoi sforzi su questa località per renderla sua roccaforte e luogo strategico negli scambi di merci. Prima di tutto l’attenzione va al vecchio castello, distrutto e riedificato più volte e continuamente attaccato ora dai pisani, ora dai fiorentini. Esso viene ridimensionato perché malridotto e troppo lontano dalla spiaggia a causa del ritirarsi del mare, fatto che lascia i magazzini stivati di merci, in balìa degli attacchi delle flotte nemiche e soprattutto delle razzie dei pirati barbareschi che, partendo dalla Tunisia, dall’Algeria e dal Marocco giungevano nel Tirreno con sempre maggiore frequenza. Come si addice alla parsimonia famosa dei lucchesi, quell’antica Turris viene abbattuta e dal riuso delle bozze di pietra squadrata, tra il 1534 e il 1541, il Senato di Lucca farà costruire una nuova Torre impropriamente chiamata Torre

13

FRANCESCO BERGAMINI, Viareggio si affaccia alla ribalta della storia, cit., p. 73.

14 Nel 1488 viene istituita la società della “Maona” costituita da cinquanta cittadini per dare avvio a razionali

lavori di bonifica delle paludi della Marina. Iniziano lavori di escavazione di nuove fosse e ripulitura di quelle esistenti da erbe palustri, di innalzamento di argini e essiccazione di stagni, ma tutto risulta vano. Come vani si rivelano i successivi interventi dell’ingegnere idraulico Niccolino Rosselmi (1559), di Piero della Lena, agrimensore, il cui argine costruito tra il Quiesa e Montramito cadrà in abbandono (1565) e dell’ingegnere fiammingo Guglielmo De Reat che aveva proposto un’arginatura sulla riva settentrionale del lago di Massaciuccoli (1577). Per una ricognizione dettagliata sul territorio prima delle bonifiche e per seguire gli interventi messi a punto tra ‘400 e ‘700, cfr. il libro di CORRADO BENZIO, Viareggio. Storia di un territorio. Le marine lucchesi tra XV e XVI secolo; introduzione di Piero Pierotti, Pisa, Pacini Editore, 1986.

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Matilde.15 Questo fortilizio quadrato, posto in un sito strategico alla foce del Burlamacca, fu armato di cannoni e presidiato da una guarnigione di soldati scelti, ma non riuscì però a difendere adeguatamente Viareggio dai predoni musulmani di cui i viareggini avranno sempre, fino alla caduta dell’impero turco, una paura terribile.16

Con il suo orologio e le campane a scandire il tempo e a regolare la quotidianità, il massiccio resterà comunque il fulcro della storia e della vita viareggine, protagonista di leggende e misteri come la tragica vicenda di Massimiliano Arnolfini, l’amante sfortunato di Lucrezia Buonvisi, detenuto qui ingiustamente nel 1615 per quattordici lunghissimi anni e creduto impropriamente murato in una delle sue celle.

Diversi furono inoltre gli usi che toccarono a questo gigante di pietra. Dalla fine del Settecento ai primi venti anni dell’Ottocento divenne luogo di correzione e prigionia di criminali minori, poi bagno penale dei forzati, infine dal 1867 agli anni Quaranta del ‘900 un carcere vero e proprio. Nel tempo resterà “un caro monumento” 17 abbandonato, “simbolo di una Viareggio scomparsa, il simbolo dei padri che, protagonisti silenziosi del periodo più umile e più eroico della nostra terra, seppero, con la loro saggezza e con i loro sacrifici, preparare un terreno fecondo per la nascita di una città”.18 Chiunque abbia scritto di Viareggio dedica qualche parola a tale edificio, cuore della città vecchia, icona di resistenza e di lotte. Uno degli autori di cui mi occuperò, Lorenzo Viani, ce la descrive nelle sue varie funzioni, con lo stile che lo contraddistingue, intriso di un linguaggio vernacolare affiancato a termini desueti e fortemente espressionistico:

Sui cespi e le vincaie del Gombo nel ‘500, fu elevata una torre pentagonale, cento braccia distante dal mare placido, e la battezzarono: Torre della Principessa Matilde. Erba scianguinella e semprevivi l’aggraziavano fiorendo sulle commettiture del pietrame. Gli uccelli pellegrini, posandosi sui cornicioni, le davano il canto di uno spettacoloso paretaio. La torre fu un braccio forte della Repubblica di Lucca, proteso contro Genova e Pisa. Spenti i bagliori degli arrembaggi notturni, gli strepiti delle scalate, i nepoti ridussero la Torre a più modesto uso: carcere mandamentale e orologio dei poveri. Un disco bianco calcina fu dipinto sull’ultimo torrione e stampato di lettere romane, una sesta nera fu perniata nel centro. L’orologio, visto di dentro, dava l’idea di un girarrosto

15 Impropriamente perché se ne attribuì la costruzione alla Duchessa Matilde di Canossa, morta in realtà nel

lontano 1115. Sulla storia della Torre Matilde e sulle vicende che l’hanno vista coinvolta, cfr. CENTRO

DOCUMENTARIO STORICO DI VIAREGGIO, La Torre Matilde: cenni storici, “Quaderno n. 12”; a cura di Paolo Fornaciari, Massarosa, Tipografia Massarosa Offset, 2000. Utile anche la digressione sulla storia della Torre Matilde o Matildica di MARIO PELLEGRINI, Il restauro della Torre Matilde, in «La Provincia di Lucca», X, n. 4, ottobre-dicembre 1970, pp. 19-24.

16

Si ricordi in particolare l’assalto subìto l’ 11 luglio del 1565 quando la flotta di Dragut Rais sbarca sul litorale e una novantina di uomini si spinge fino a Massarosa catturando 42 persone tra uomini, donne e bambini, ostaggi che verranno liberati il giorno dopo dai lucchesi Baldassare Antelminelli e Geronimo Gaspari. Cfr.MARCO

LENCI, Viareggio e la grande guerra mediterranea nel cinquecento, in IDEM, Viareggio dai corsari ai fascisti, Massarosa, Marco Del Bucchia Editore, 2006, pp. 13-20; MARIO PELLEGRINI, Il restauro della Torre Matilde, cit., p. 21; FRANCESCO BERGAMINI, “Mamma, li turchi”!, in AA.VV., Viareggio racconta… ancora, cit., pp. 23-29.

17 F

RANCESCO BERGAMINI, Un caro monumento, in AA.VV., Viareggio racconta, Viareggio, L’Ancora, 1970, pp. 21-25.

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gigantesco cigolante tra due catenacci, i quali a intervalli monotoni facevano suonare una lugubre campana. In quell’ingranaggio diabolico, il tempo perdeva la vertigine e andava lento e a salti. Un pendolo, nella gran cisterna, dondolava una luna eclissata che diceva eternamente «no». Il popolo battezzò la Torre: Carbonaia.19

Anche Tobino ce ne parla, ma il tono è diverso. Essa, quasi antropomorfizzata, è “una costruzione che si erge tozza, con un certo broncio, amata in sostanza dai cittadini che l’han sempre vista bonaria, le sue spesse mura capaci di rinchiudere soltanto, e per breve tempo, piccoli ladri”. 20 È imponente, ma non ha niente di funebre, né di terribile o sinistro.

Per i viareggini, quindi, la Torre è stata da sempre importante e centrale nella loro vita quotidiana, perché ha costituito il primo nucleo architettonico attorno a cui è poi cresciuto il reticolo urbano della Viareggio moderna. Infatti, ai lati di quel bastione, lo scalo viareggino a poco a poco si è ampliato e potenziato con edifici pubblici e infrastrutture per finalità militari e economiche21, avviando il borgo, tra Cinque e Seicento, ad un lungo percorso di normalizzazione. La popolazione, scarsa fino alla metà del Cinquecento, aumenta nella seconda metà, periodo in cui si assiste anche alla fioritura di attività commerciali, botteghe, luoghi di ristoro e alla edificazione della prima chiesa intitolata a S. Pietro, che, in seguito, ampliata, diverrà la chiesa della SS. Annunziata. Venne anche tracciata un’altra strada oltre alla via Regia, parallela al mare e utile a collegare, attraverso la spiaggia, Viareggio con Pisa e Pietrasanta; il ponte che si nota sul canale ancora oggi è quello su cui passava il tracciato stradale e infatti prenderà il nome di “ponte di Pisa”.

Il Seicento sarà il secolo più difficile, a causa della piaga malarica, ma anche quello di un primo mutamento. Due date modificarono il volto della cittadina aumentando l’attrazione a trasferirvisi e agevolando l’afflusso di persone: il 1601 e il 1617. Da una parte, la decretazione di Viareggio come porto franco, zona libera da imposte doganali e dazi, e dall’altra, l’innalzamento della cittadina a capoluogo della Vicaria del Litorale. La prima decisione provocò un immediato aumento di traffici e scambi nel piccolo scalo, la nomina, invece, estese i confini e la giurisdizione del paese a tutte le Comunità situate sui colli vicini e nei luoghi da dove si poteva vedere il mare ed i segnali del castello e della torre. 22

19 L

ORENZO VIANI, Le vie, in IDEM, Il nano e la statua nera; scritti inediti, scelti e ordinati da Carlo Cordié, Firenze, Vallecchi, 1943, p. 110.

20

MARIO TOBINO, Il clandestino; prefazione di Vincenzo Pardini, Torino, UTET,2007,p. 27.

21 Tra queste, da ricordare, la creazione nel 1549 del palazzo del Commissario di spiaggia (la massima autorità

locale con l’incarico di disciplinare il movimento delle merci in transito dallo scalo marittimo), la costruzione della prima locanda, l’“hostaria grande” di via Regia (1549) e l’Offizio sopra la Foce (1576), composto da sei cittadini lucchesi, col compito di provvedere alla manutenzione e all’efficienza del piccolo scalo marittimo.

22

Tali comunità furono Massaciuccoli, Quiesa, Compignano, Chiatri, Bozzano, Pieve a Elici, Montramito, Corsanico Conca, Stiava, Luciano, Bargecchia e Mommio (queste ultime nove sottratte alla Vicaria di Camaiore, atto che creerà tensioni tra i due paesi. Oltre alle attribuzioni ordinarie in materia di giustizia civile e penale, la Vicaria era organo tenuto a svolgere compiti d’ordine amministrativo e politico. Cfr. FRANCESCO BERGAMINI, Le mille e una… notizia di vita viareggina 1169/1940, cit., p. 42. Il fine di questa elevazione era quello di popolare

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Proseguirono intanto, con lo scopo di popolare il piccolo borgo, le attività per sanare il territorio dalle paludi e dalla malaria e in particolare si elaborano, grazie alle proposte di diversi ingegneri, tra cui Sebastiano Roccatagliata, soluzioni per evitare l’insabbiamento della foce e per completare il prolungamento in muratura dei moli. Bisognerà però aspettare il Settecento per avere dei risultati concreti, anche perché il territorio di Lucca e Viareggio sarà falcidiato, negli anni ’30, dalla famosa peste narrata dal Manzoni, che metterà a dura prova la volontà di un’espansione timidamente avviatasi. Nel processo di lenta normalizzazione va anche ricordato l’assestamento della vita religiosa con l’arrivo, nel 1619, dei Francescani23 che andarono ad abitare nella chiesa di S. Pietro, poi elevata a parrocchia e futura chiesa della SS. Annunziata. La loro presenza fu di basilare importanza perché l’ordine promosse, in quella landa malarica che era Viareggio, la costituzione della prima forma assistenziale per i bisognosi, la Compagnia della “Nunziata” (1621) 24, e la costruzione della chiesa di Sant’Antonio (1624). Partendo da zero i religiosi dettero vita ad una vera comunità cristiana, aiutando i viareggini, perlopiù in miseria, sia dal punto di vista medico che spirituale.

Il XVIII secolo si apre in modo positivo con la nomina di Viareggio a Comune (1701). I suoi abitanti possono quindi darsi delle leggi e un assetto amministrativo, avviandosi verso una prima forma di organizzazione sociale: nasce una comunità. Fino ad allora, infatti, coloro che dimoravano sul territorio viareggino, i più scesi dai monti Apuani, i meno venuti da Lucca, abitavano in capanne squallide, si dedicavano alla pesca, a qualche traffico e riuscivano a creare una parvenza di vita sociale solo in inverno, mentre in estate, spesso, se ne tornavano sui monti, lasciando strade e acquitrini alle infezioni, ai banditi e alle bestie. Col prosieguo degli anni la realtà viareggina migliorò sempre di più grazie all’opera dell’ingegnere idraulico veneziano Bernardino Zendrini, il quale propose all’Offizio sopra la Foce di Viareggio un progetto di bonifica del territorio finalmente vincente, che riuscì a risanare la marina lucchese (1735). La “Relazione che concerne il Miglioramento dell’Aria e la riforma di quel Porto”, attuata a partire dal 1739, prevedeva l’abbattimento totale della macchia affinché il terreno potesse asciugarsi e i venti disperdere i miasmi nocivi, la risoluzione del problema

la cittadina per difenderla meglio lo scalo dai corsari. Cfr. CORRADO BENZIO, Viareggio. Storia di un territorio. Le marine lucchesi tra XV e XVI secolo, cit., pp. 71-76. Qui si riporta anche la trascrizione completa dell’atto di approvazione della Vicaria.

23 Per ricostruire l’arrivo e lo stabilirsi dei Francescani a Viareggio, l’inizio del loro apostolato e le loro

mansioni, fino alla costruzione della chiesa di Sant’Antonio e il successivo ampliamento, cfr. I Francescani a Viareggio; a cura di Francesco Bergamini, Viareggio, Pezzini Editore, 1995.

24

GIUSEPPE GENOVALI, Della origine di Viareggio e fatti più rimarchevoli di storia viareggina: trascrizione del manoscritto autografo 1896, Viareggio, Pezzini Editore, 2010. Importante fonte documentaria è la seconda parte in cui il cancelliere della Compagnia della SS. Annunziata registra lo svolgersi della vicenda di tale congregazione e i riflessi che su di essa ebbero fatti e personaggi che, a vario titolo, segnarono la vita religiosa, civile e sociale della comunità di Viareggio dal 1621 al 1896.

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dell’insabbiamento della foce con la costruzione di una barriera a mezzaluna all’imboccatura del porto e, soprattutto, l’applicazione delle cataratte a bilico. Questi sbarramenti, a chiusura del canale Burlamacca verso la foce, impedirono alle acque del mare di andare a gonfiare quelle del lago di Massaciuccoli provocandone lo straripamento e la conseguente inondazione dei territori circostanti. Ancora una volta è Tobino, nel secondo capitolo del già citato libro, a parlarci dell’operato di questo grande personaggio ricordato quasi fosse un genio o un miracolo tanto aspettato e finalmente giunto a salvare l’amata città rendendola ricca e prospera e libera dalla malaria. Ed è proprio il caso di dire, quasi come una preghiera, “sia benedetto lo Zendrini”. Infatti, con “quegli sportelli, quelle porte che si chiudono e aprono secondo il bisogno come nel loro interno si muovesse un gentile e diabolico folletto”25

, e con l’abbattimento della macchia nell’entroterra, il paesaggio, prima mortifero, divenne più vivibile, anche se la malaria, a tratti, continuerà a mietere vittime. Un primo testimone di questa svolta fu il pittore Georg Christoph Martini, più noto con l’appellativo “il Sassone”, che nel suo giornale di viaggio annota come vide Viareggio all’arrivo nella località, nel marzo del 1731, ma anche l’evoluzione che subirà in seguito grazie alle cateratte e al disboscamento pensati dallo Zendrini e descritti con dovizia di particolari.26 Al suo primo soggiorno trovò il terreno intorno alla città malsano e paludoso, tanto che scrisse:

Intorno al lago vi sono larghe distese di paduli dove vegetano i cannicci; questi paludi con le loro nocive esalazioni sulfuree, quando d’estate l’acqua imputridisce, rendono l’aria così insalubre che coloro che vi si trattengono vengono assaliti da febbri, dalla idropisia e talvolta visitati dalla morte stessa. […] Le dannose influenze che prevalgono nell’estate hanno depauperato la popolazione dei villaggi intorno e sopra le colline che circondano la grande pianura; quelli un tempo ben popolati contano oggi 6, 10 o 12 persone, mentre alcuni sono stati del tutto abbandonati e sono caduti in rovina.27

Ma, due anni dopo, ritornandoci, fu informato da un farmacista che “tutti erano in buona salute”28 e non erano “più pallidi e gonfi”.29 La bonifica aveva quindi giovato al paese, dove si assiste, a partire dalla metà del secolo, ad una svolta tanto attesa: il piccolo borgo iniziale, fatto di pescatori e marinai sulla costa, di agricoltori e cacciatori nell’interno, diventa paese e la pianta del 1748 dell’architetto Valentini ne traccia lo sviluppo, lungo il canale Burlamacca e verso il mare, con strade parallele e perpendicolari, la tipica fisionomia a scacchiera che

25M

ARIO TOBINO, Sulla spiaggia e di là dal molo, cit., p. 8. La prima citazione si riferisce al titolo del secondo capitolo, pp. 7-9.

26 G

EORG CHRISTOPH MARTINI, Viaggio in Toscana, 1725-1745, riproduzione anastatica dell’edizione originale a cura di Oscar Trumpy, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 1990. L’arrivo del viaggiatore nella “piccola località”, una simpatica digressione sulla pesca praticata dai viareggini e il suo soggiorno nella “bella villa con una grande scala esterna tutta di marmo” dell’abate Cittadella, “cavaliere gioviale e di grande istruzione”, pp. 280-283. La descrizione meticolosa del sistema idraulico elaborato dallo Zendrini, accompagnata anche da un disegno, è alle pp. 390-394. Sul disboscamento e il riuso del legname, p. 395.

27 Ivi, p. 371. 28 Ivi, p. 394. 29

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manterrà anche in futuro. L’antico villaggio si avvia a divenire città e si amplia, accogliendo molti nobili lucchesi che si costruiscono qui eleganti ville per trascorrervi i periodi primaverili delle quaresime, ma anche quelli invernali e autunnali. Lungo il canale Burlamacca e intorno alla Vecchia Torre sorsero così, in gran parte frutto di ristrutturazione di ex magazzini, le abitazioni di illustri famiglie di Lucca, tra cui, come ci illustra una splendida pagina di Cesare Sardi, 30 i Guinigi, i Santini, i Gigli, i Bernardini, i Frediani e i Fatinelli. Queste grandi casate non nascosero di certo i propri averi. I loro palazzi erano sontuosi, con ampi saloni per i ricevimenti e scaloni in marmo di Carrara, e fuori, giardini ricchi di statue. Giunti qui da Lucca con le loro carrozze, passando dal Magno o dal Quiesa, si portarono dietro il loro spirito libertino e frivolo, espresso in usi e costumi aristocratici e alle volte discinti, ben visibili dalle loro abitudini. Le giornate trascorrevano con galoppate lungo la marina, scambi di visite, “gite di piacere sul mare e sul monte”, “giuoco sfrenato del biribisso e dei tarocchi” e, magari, con “concerti di mandolino e di chitarra al chiaro di luna sotto le discrete ombre della pineta giovinetta”31. Non mancavano le conversazioni femminili incentrate su pettegolezzi e avvenimenti del giorno, ma anche su maldicenze, addolcite magari da una tazza di cioccolata o una di caffè e latte. E le stesse dame potevano intrattenere “relazioni pericolose” con i propri cicisbei, come fa anche la lucchese Luisa Palma Mansi a Viareggio nel 1794 col suo cavalier servente Costantino de Nobili, solito accompagnarla a ricevimenti, in teatro, in chiese e nelle sue gite nei luoghi circostanti.32

Ma era la sera che l’atmosfera si animava, con balli, giochi di società e piccole rappresentazioni teatrali nei saloni dei vari palazzi, tra cui quello dell’abate Vincenzo Cittadella, tutore della comunità viareggina. Non erano ancora di moda gli stabilimenti balneari, che sorgeranno solo in seguito, nel corso dell’Ottocento; non si praticavano nemmeno i bagni marini frequentati solo dalla popolazione locale per motivi di igiene. Un’attività molto in voga e assai praticata era invece il gioco d’azzardo. Racconta Cesare Sardi, cronista di quegli anni:

30

CESARE SARDI in un suo contributo del 1899, Viareggio dal 1740 al 1820 fornisce una dettagliata descrizione delle dimore signorili dei lucchesi (pp. 6-8). Nel suo complesso il contributo del Sardi va considerato semplicemente per questo affresco, da storiografo “patrizio” e benpensante, degli usi e dei vizi di quella nobiltà settecentesca, non tanto per i fatti storici, spesso impastati di moralismi e errori, come rileva l’introduzione curata da Leone Sbrana. (CESARE SARDI, Viareggio dal 1740 al 1820, ristampa anastatica dell’edizione del 1899 con introduzione di Leone Sbrana, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 1972).

31 Tutte le citazioni sono in E

UGENIO LAZZARESCHI, Lucca e le sue stazioni di cura e di delizia: Viareggio, Montecatini, Bagni di Lucca, Milano, Sonzogno, 1935, pp. 31-32.

32 R

EMIGIO COLI-MARIA GIOVANNA TONELLI, Dame e cicisbei a Lucca nel tardo Settecento, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 2008, pp. 73-83. Sono riportate, come fonte storica attendibile, le testimonianze dai diari di Luisa Palma Mansi in un cattivo francese conservati all’Archivio di Stato di Lucca e da cui emergono i passatempi della donna in villeggiatura e le famose “Coversazioni di cioccolata”, “di Caffè e latte” o “di sorbetti”, cioè le chiacchere su vari argomenti frivoli unite a maldicenze, giochi di società e partite di carte, che si snodavano nelle diverse ore della giornata accompagnate da cioccolata calda, caffè e latte, sorbetti o gelati.

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[…] E il gioco, quel viziaccio dei signori che a metà del settecento aveva preso proporzioni gravissime, formava per essi a Viareggio un passatempo rovinoso […] Le veglie di casa Santini eran quelle per avventura dove più allegramente si giocava. Il mio bisavolo che era giovinetto nel 1761 vi fece una perdituccia non rovinosa ed il padre suo, pover’uomo, nel metter fuori que’ denari, confidava curiosamente alla penna non solamente la partita di spesa ma l’impressione dell’animo scrivendo nel suo libro di Cassa ai 29 di marzo - A Meuccio per averli perduti al gioco a Viareggio in casa Santini pagatili a malincuore - Zecchini 20.33

Mentre sulla via Regia i signori lucchesi vivevano tra i loro ozi, nelle terre bonificate dell’interno, che furono suddivise in “chiuse” (per le palizzate con cui vennero recintate), accorsero i coltivatori. Ben presto però i venti marini, non più impediti dalla macchia, inaridirono e danneggiarono le colture, cosicché fu deliberato dall’Offizio sopra la Foce, organo che presiedeva l’amministrazione di queste terre demaniali, di ripristinare una barriera sul fronte del mare, e da tale bisogno nacque la pineta, una selva di pini iniziata a seminare nel 1747 e proseguita fino al 1812, quando una larga zona di arenile fu consegnata al comune dal principe Baciocchi affinché vi fossero piantati questi alberi. 34

Ma le carestie, la miseria e le malattie furono dure nemiche da battere e si protrassero fino alla fine del secolo. Solo a quest’altezza Viareggio tornò a vivere una fase espansiva, con il lavoro marittimo, la pesca e gli scambi per i mari del mondo che vedremo essere il soggetto di molte delle opere degli autori analizzati, e sulla terraferma con l’impiego di manodopera nella costruzione di abitazioni finalmente in muratura. Si iniziarono anche a battere le strade e con questi accorgimenti la cittadina si animò degli svaghi dei primi villeggianti. Nel frattempo, però, il clamore degli eventi, che dalla Francia si propagò in Europa dopo la rivoluzione del 1789, arrivò anche qui. Inizialmente i viareggini, a differenza dei lucchesi occupati dal generale napoleonico Seurier il 4 gennaio 1799, non videro di cattivo occhio i francesi, infatti nell’aprile del 1799, nell’allora Piazza delle Erbe (oggi piazza Ragghianti nei pressi della Torre Matilde), innalzarono l’Albero della Libertà sormontato dal rosso berretto frigio e adornato di coccarde e bandiere tricolori francesi. Niente lasciava prevedere che di lì a poco il pese sarebbe stato teatro di una grave sommossa. Essa arrivò un mese dopo quando si diffusero i primi fermenti antifrancesi in seguito alla notizia delle sconfitte subìte dagli eserciti di Napoleone. Alle prime luci dell’alba del 4 maggio, la campana della Torre Matilde chiamò il popolo alla riscossa: molti viareggini si armano spontaneamente e organizzarono una specie di milizia della controrivoluzione. Iniziò così la caccia al giacobino e al francese. La sommossa fu fomentata dai sanfedisti che, al grido di “Viva Maria!”, “Morte ai francesi!”,

33C

ESARE SARDI, Viareggio dal 1740 al 1820, cit., p. 9.

34 L

IVIO VANNINI, La pineta di Viareggio: contributo storico e botanico, Viareggio, Tipografia Pietrini, 1937, p. 11;FRANCESCO BERGAMINI, Appunti storici sulle pinete di Viareggio, in AA.VV.,La nascita delle pinete; a cura di Antonella Serafini, Firenze-Siena, Maschietto & Musolino, 2000, pp. 19-30.

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“Forca ai giacobini!”, percorsero le strade aizzando la gente a colpire, il nemico laico e anticlericale. Venne abbattuto l’Albero della Libertà e vennero date alle fiamme le bandiere francesi. I soldati della guarnigione furono disarmati e sulla Torre, occupata, i viareggini issarono la bandiera della vecchia repubblica lucchese. Il fine ultimo era quello di instaurare, ribellandosi, una piccola repubblica autonoma, atteggiamento che sembra anticipare quello spirito battagliero che animerà nuovamente i viareggini negli anni Venti del ‘900. Ma il 7 maggio la rivolta verrà sedata da Nadal: egli promise clemenza verso gli insorti, un perdono generale se questi avessero cessato ogni atto armato; l’accordo venne concluso, ma allorché le truppe francesi ebbero in salda mano Viareggio, Nadal tradì il patto e fece catturare alcuni uomini, caporioni durante l’insurrezione. Il giorno successivo Viareggio tornò nuovamente sotto la soggezione francese e nel borgo si nominò un governo municipale. 35

Questa sommossa, seppur breve, non è da sottovalutare perché ribadisce lo spirito fiero dei viareggini, i quali “dimostrano che non sono più disposti a subire passivamente le altrui decisioni: sono diventati massa, popolo, protagonisti, capaci anche di ribellarsi per una causa”.36

Nonostante questa presa forte di autocoscienza, seguono anni turbolenti in cui Viareggio si allinea alle sorti della capitale, contesa e occupata o rioccupata, a fasi alterne, da austriaci e napoleonici; aumenta però di prestigio divenendo capoluogo e estendendo così le proprie competenze amministrative. Inoltre, cosa non da poco, si alfabetizza visto che l’istruzione era uno degli obiettivi delle riforme francesi, insieme all’aiuto ai meno abbienti che spinge a incentivare le attività economiche.

1.2 L’Ottocento: il secolo d’oro

Siamo in piena epoca napoleonica e regni e principati sostituiscono le antiche repubbliche, nuovi stati vengono creati per essere assegnati ai membri della famiglia di Napoleone, neo imperatore dei francesi e Re d’Italia, che diverrà il personaggio più famoso dell’Ottocento. Tra questi recenti domini c’è anche il Principato di Lucca. Qui Elisa Bonaparte, nominata nel 1805 dal fratello sovrana insieme al marito Felice Baciocchi, fu in realtà, come ci dice Paul Marmottan, sola nell’occuparsi dell’amministrazione locale, per il suo carattere deciso e

35 Per ripercorrere le tappe della rivolta antigiacobina a Viareggio e a Lucca e scoprirne gli antefatti e le

conseguenze, cfr. FRANCESCO BERGAMINI, “Viva Maria!”. La rivolta antigiacobina a Viareggio, Viareggio, Pezzini Editore, 1995.

36

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pronto e per la sua intelligenza e superiorità istituzionale, riconosciute dal marito, che si dedicò al ruolo di comandante militare.37

Di Viareggio come porto di mare Elisa ben poco si interessò avendo a disposizione, in quanto Principessa di Piombino, del più noto e importante scalo di Livorno. Anche come luogo di villeggiatura la località non entrò nei favori della sovrana data la sua preferenza per Bagni di Lucca. La Baciocchi considerò Viareggio come baluardo militare sul mare, non come risorsa economica e gli unici provvedimenti che prende sono di carattere difensivo e amministrativo: dotò Viareggio di cannoni per difenderla dalle flotte inglesi e sostituì, nel governo della comunità, il commissario di nomina governativa, con un maire, un sindaco.

Fu semmai la sorella Paolina che apprezzò molto la mitezza del clima e la salubrità dell’aria, tanto che scelse la cittadina come luogo per poter vivere, riposarsi e svagarsi dopo il dolore per la morte del caro fratello Napoleone. Qui, nel 1822, fece costruire la sua dimora dalla tipica facies neoclassica38, incaricando il lucchese Giovanni Lazzarini della progettazione, che però avrebbe dovuto seguire le sue direttive e il suo gusto personale, come si legge in una lettera datata “Villa Gattaiola 29.07.1822” contenete indicazioni precise indirizzate all’amico viareggino Giacomo Belluomini, incaricato di “sorvegliare il lavoro e fare i pagamenti e di andare d’accordo in tutto con l’architetto perché si faccia una casa decente”. 39

L’alloggio, chiamato anche “rifugio di Venere”, fu veramente un “asilo di privacy”40

essendo edificato su un territorio vergine e isolato, in riva al mare, “ai confini naturali della città costruita”. 41

Il sito scelto fu l’attuale Piazza Shelley, luogo dove si ritiene che le acque del Tirreno restituirono il corpo del poeta Percy Bysshe Shelley, morto a Viareggio quello stesso anno a seguito di un naufragio, avvenuto l’8 luglio, insieme all’amico e capitano Williams, e al giovane mozzo Charles Vivian, mentre erano in viaggio sull’ Ariel, salpata da Livorno e diretta a Lerici. Una morte violenta e nell’impeto della natura, il ritrovamento del corpo, il rogo rituale e mistico per mano di Byron, tutti elementi che sembrano tratteggiare una storia

37 “Mite di natura e posato, dotato di tatto, modesto fino alla riservatezza, Felice Baciocchi approvava in anticipo

gli atti di Elisa […] Baciocchi accettò di buon grado la superiorità di Elisa […] Se si ammette questa interpretazione, si avrà forse anche la spiegazione del suo carattere piuttosto serioso e leggermente schivo”. Cfr. PAUL MARMOTTAN, Ritratto della Principessa Elisa Baciocchi, in AA.VV., La giornata di Elisa. Vita pubblica e privata di una principessa; mostra e catalogo a cura di Roberta Martinelli, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 2003, pp. 65-66. Il testo è anche e soprattutto utile per una raffigurazione sia caratteriale che fisica di Elisa Baciocchi, “un secondo Napoleone” per carattere e idee.

38 In merito alla villa, studi specialistici, con informazioni architettoniche, stilistiche e artistiche, ma anche cenni

storici, in MARIA ADRIANA GIUSTI, Villa Paolina a Viareggio e le dimore napoleoniche nel principato di Lucca, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 1996; GLAUCO BORELLA, I palazzi pubblici di Viareggio: Villa Paolina, Villa Borbone, Palazzo delle Muse e il vecchio mercato ittico, Pisa, ETS, 2003.

39

Parte della lettera inviata al Belluomini è riportata in MARIA ADRIANA GIUSTI, Villa Paolina a Viareggio e le dimore napoleoniche nel principato di Lucca, cit., p. 41.

40 M

ARIA ADRIANA GIUSTI, Viareggio 1828-1938. Villeggiatura Moda Architettura, Milano, Idea Books, 1989, p.23.

41

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che ha del leggendario, intrisa della temperie romantica che in quegli anni si respirava, ma in realtà fatto veramente accaduto. Esso ci viene riportato con esattezza storica e fonti documentarie da Guido Biagi,42 poi ripreso da Francesco Bergamini43 e da Paolo Fornaciari44 e va menzionato perché concorrerà alla creazione di un mito letterario destinato a far divenire Viareggio luogo di culto per scrittori d’ogni sorta e nazionalità, meta di villeggiatura e sosta di viaggiatori europei, inglesi nello specifico, cioè il mito prometeico del liberato mondo e dell’umanità affrancata, finalmente destinata a regnare nel Bene e nell’Amore, eco dell’omonima opera shelleyana, il Prometeo Liberato (1820). 45

L’episodio può essere seguito agevolmente dalla sintetica ricostruzione di Bergamini. La fonte da cui parte lo studioso per affrontare l’accaduto è la lettera dell’allora governatore di Viareggio, Giuseppe Pellegrino Frediani, inviata il 18 luglio 1822 al Ministro degli Affari Esteri e Interni di Lucca con l’annuncio del ritrovamento di un cadavere “in molte parti consumato”, il quale “si crede che possa essere uno dei giovani Inglesi che diconsi naufragati nel viaggio intrapreso fin dal giorno 8 corrente”. Seguono l’accertamento dell’identità, l’interramento nella sabbia secondo le disposizioni igieniche vigenti a quel tempo e la successiva decisione, dibattuta tra il Governo di Lucca e gli amici del poeta, Byron e Edward John Trelawny accorsi sul posto, di riesumare il cadavere per riportarlo in patria. Accettata

42G

UIDO BIAGI, Gli ultimi giorni di Percy Bysshe Shelley: con nuovi documenti, Firenze, La Voce, 1922. Valida fonte per ricostruire gli ultimi giorni di vita del poeta, la preparazione per il viaggio a San Terenzo, la sua morte e, in particolare, il suo naufragio e la cremazione che fu allestita successivamente a Viareggio. Grazie a una ricca rassegna di documenti d’archivio e alle testimonianze di otto viareggini testimoni oculari all’evento nel 1822 e intervistati nel 1890, il Biagi cerca di stabilire il luogo preciso in cui fu straccato il cadavere di Shelley e tenta anche di capire cosa ci fu di vero e cosa di poetico nella descrizione riportata da Trelawny. Il libro è stato riedito di recente, nel 2013, dalla casa editrice EdizioniCinquemarzo con sede a Lido di Camaiore.

43F

RANCESCO BERGAMINI, Il rogo del poeta, inAA.VV., Viareggio racconta, cit., pp.63-68; IDEM, Le mille e una…notizia di vita viareggina (1169/1940), cit., pp. 126-129.

44 P

AOLO FORNACIARI, Viareggio 1922, “luogo del Mito”: il centenario del rogo di Shelley, Viareggio, Pezzini Editore, 2001. Importante per rivivere l’atmosfera, peraltro assai tesa, che si visse a Viareggio durante l’inaugurazione del busto e a cento anni di distanza, per il centenario della morte. Riporta la trascrizione di importanti documenti come il testo del 1891 in cui il Comitato onorario decide la costruzione del monumento e motiva questa scelta, e la relazione della conferenza di Cesare Riccioni su Shelley a Firenze e a Viareggio, presso il bagno “Nettuno”, nel 1894.

45 Rivisitazione della celebre tragedia perduta di Eschilo in una chiave tutta personale che rifiuta la finale

riconciliazione tra Giove e Prometeo. Con l’introduzione di un quarto atto, Shelley compie una scelta drammaturgica nuova. Attraverso le iniziali voci delle morte Ore che passano il poeta vuole affermare il trionfo del Bene, eterno, sul Male, caduco; nell’epilogo trionfale in cui gli Spiriti della Luna e della Terra cantano la detronizzazione di Giove e la vittoria di Prometeo liberato da Ercole dalle catene a cui era avvinto, Shelley vuole riflettere una visione tipicamente romantica in cui la ribellione contro il tiranno può sfociare solo nel suo rovesciamento e affermare inoltre che Amore ha liberato gli uomini dall’illusione dell’individualità rendendoli partecipi dello stesso spirito d’armonia universale. Infine, con le parole finali di Demogorgone, egli ci trasmette la nuova legge morale che reggerà la Terra dopo la gloriosa Liberazione, una legge basata su “Gentless, Virtue, Wisdom, and Endurance”, virtù morali che sono i mezzi attraverso i quali l’uomo si può eternare e ritrovare il Bene anche quando gli capiterà di ricadere nella contingenza. Per una sintesi e un commento dell’opera, cfr. l’introduzione e le note ai singoli atti curate da Raffaello Piccoli inP.B.SHELLEY,Prometeo Liberato; versione col testo a fronte, introduzione e commento a cura di Raffaello Piccoli, Firenze, Sansoni, 1924. Esiste un’edizione più recente, sempre curata dal Piccoli, del 1946 per la Sansoni di Firenze; non sembra che il testo sia stato riedito ulteriormente.

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infine l’esumazione a patto di bruciare il corpo, l’antica pratica di incenerimento ha luogo e lo svolgimento della macabra cerimonia è riportato da Trelawny nei suoi Records.46 ma noi riprendiamo, per comodità di lettura, la traduzione fatta dal Biagi. Si tratta di una descrizione raccapricciante e minuziosa, che principia con il dissotterramento del cadavere “d’un colore turchino cupo che gli dava un aspetto spettrale”, e segue con la deposizione nel fornello ardente per la crematura:

[…] Dopo che il fuoco fu ben acceso, […] si gettò sul cadavere di Shelley molto più vino di quello ch’e’ non abbia consumato in tutta la vita. Questo, mischiato all’olio e al sale, fece scintillare e tremolare le fiamme gialle. Il calore del sole e del fuoco era così intenso che l’atmosfera diventò tremola e ondeggiante. Il cadavere si squarciò, e il cuore apparve nudo. L’osso frontale del teschio, nel punto che era stato colpito dalla zappa, si ruppe, e siccome il di dietro della testa poggiava sulle sbarre arroventate del fornello, il cervello letteralmente friggeva e bolliva gorgogliando come in un paiolo; e così durò un bel pezzo.47

In questa testimonianza un passaggio è da sottolineare: “The heart was laid bare”,48 ecco da dove l’appellativo poetico “Cuore dei cuori” con cui sarà sempre menzionato Shelley, e che contribuirà a divinizzare la sua figura, circondandola da un’aurea gloriosa e mitica.

Col passare del tempo anche il ricordo del tragico avvenimento assunse toni leggendari. Nei primi anni del Novecento, numerosi Inglesi si riversarono nella città, sì per villeggiatura, ma anche per pellegrinaggio costituendo una vera e propria colonia riunitasi intorno ad una chiesina anglicana tra via Leonardo Da Vinci e via della Costa (tristemente divenuta dal ’78 una pizzeria). 49 Questo brano di Carlo Pellegrini del 1962 costituisce una delle rare testimonianze intorno alla comunità inglese e al loro arrivo a Viareggio:

Venivano all’avvicinarsi della primavera, salvo qualcuno che ci stava tutto l’anno, e la notizia si diffondeva rapidamente nella cittadina, che allora finiva a via Mazzini. Ma era un arrivo silenzioso e discreto, alla spicciolata, anche perché stavano molto a sé, non facendo lega con gli abitanti. Si vedevano aggirarsi, in genere a coppie, nella pineta o lungo il mare: nel pomeriggio spesso si riunivano a prendere il tè in qualche casa di amici.. Erano per lo più persone di una certa età, di rado accompagnate da bambini, vestiti alla marinara; le signore con strani cappelli su cui si vedevano – secondo la moda del tempo – uccelli o fiori, e molti veli, che spesso specie nelle giornate di libeccio, venivano abbassati sui volti severi […]. Un avvenimento per la piccola colonia fu la costruzione della Chiesa di rito protestante che tuttora si vede, silenziosa e raccolta, in quella che è oggi la via Leonardo da Vinci, all’ombra di alcuni pini. Nei giorni festivi, dopo le funzioni religiose, il gruppo restava per

46

EDWARD JOHN TRELAWNY, Records of Shelley, Byron, and the author, vol. I, London, Basil Montagu Pickering, 1878, pp. 211-213.

47 G

UIDO BIAGI, Gli ultimi giorni di Percy Bysshe Shelley: con nuovi documenti, cit., pp. 82-83.

48 E

DWARD JOHN TRELAWNY, Records of Shelley, Byron, and the author, cit., p. 212.

49

Così afferma Paolo Fornaciari: “Una chiesina anglicana, costruita nel 1909 in un appezzamento di terreno di proprietà della contessa Louise Jenison, tra la via Leonardo da Vinci e la via della Costa (attuale via IV Novembre), oggi trasformata in pizzeria ed un piccolo cimitero “acattolico”, adiacente al camposanto comunale, testimoniano la presenza di una consistente comunità inglese nella Viareggio fra la fine dell’Ottocento ed i primi anni del Novecento.” PAOLO FORNACIARI, Microstoria di Viareggio. Avvenimenti e personaggi della Viareggio di ieri, Viareggio, Pezzini Editore, 2005, p. 18. Sulla colonia inglese di Viareggio, sulla chiesina neogotica del 1909 e sull’importanza delle sorelle Jenison come animatrici della comunità, cfr. anche FEDERICA GHISELLI -RICCARDO MAZZONI, La “colonia” inglese a Viareggio nel primo Novecento e la Chiesina Anglicana del Redentore e di Tutti i Santi, in AA. VV., Presenze straniere e minoranze religiose a Viareggio: figure, documenti, testimonianze, “Quaderni di storia e cultura viareggina”, n. 2, 2001, pp. 7-30.

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qualche tempo davanti alla chiesa, parlando a voce bassa, prima di congedarsi con una cordialità misurata, che non cessava mai di avere qualche cosa di cerimonioso.50

Ma prima dell’arrivo di questi discreti e misurati Inglesi, i viareggini avevano già provveduto a onorare la memoria del naufragio e il rogo del sommo poeta, eventi rimasti indelebili e venerati insieme al cannocchiale ritrovato sul fondo del mare pochi mesi dopo l’affondamento dell’Ariel. Per non dimenticare quel tremendo fatto, il 30 settembre 1894, fu inaugurato in Piazza Shelley, laddove ancora svetta, il busto bronzeo del poeta. Tra le avverse condizioni meteorologiche e le violente polemiche che coinvolsero la stampa nazionale e le correnti liberal-radicali opposte alle cattoliche, la statua si vide tuttavia attorniata da una folla numerosa. Era opera dello scultore Urbano Lucchesi e frutto dell’impegno di un Comitato onorario guidato dall’allora consigliere comunale Cesare Riccioni.51 Viareggio aveva eretto un altare all’oppositore di ogni tirannide, al poeta ateo che aveva creduto nella forza e nella libertà dell’uomo, e ciò a molti non andava bene. Ma a altri sì. Alcuni decenni dopo, in via di Mezzo, nel cuore della vecchia Viareggio, sarà nella “Taverna del Prometeo” che, come ci testimonia Lorenzo Viani, si radunerà un’eterogenea umanità di giovani intellettuali, anarchici, emarginati, con lo scopo di venerare l’Inglese, mescolando vino a inni, dediche rivolte al poeta a stralci di poesie e a versi improvvisati nell’ebrezza del bere. Sarà in questo covo che nasceranno epigrafi in sua memoria, quella dell’amico di Viani, il poeta Ceccardo Roccatagliata – su cui avrò modo di tornare in seguito – o del repubblicano massone Giovanni Bovio (1837-1903), insofferente per temperamento a ogni sistema. E Shelley qui rivivrà anche attraverso lettere di elogi inviate da illustri personalità del tempo, come il lucchese Giovanni Rosadi (1862-1925), avvocato, scrittore, studioso di arte e sensibile alla letteratura e alla musica; o come Felice Cavallotti (1892-1948), poeta e leader dell’Estrema Sinistra Storica in età giolittiana.

Le parole di Viani, che citano a loro volta battute estemporanee e versi scambiati dagli strani ospiti, meglio di altre, ci descrivono quale era il clima in questa bettola e cosa essa partorì:

Poco nota è la storia della taverna «Prometeo», che era proprio all’imbocco della popolare «via di Mezzo». Se ti dà l’animo

d’andar per vezzo vicino all’angolo

50 C

ARLO PELLEGRINI, Viareggio al principio del Novecento, in «Rassegna Lucchese», n. 32, 1962.

51 Le personalità che lo componevano erano: lo statista William Ewart Gladstone, il poeta Charles Swinburne, e

personaggi politici come Felice Cavallotti e Giovanni Bovio; il poeta civile catanese e repubblicano mazziniano di fede politica, Mario Rapisardi; lo scrittore Edmondo De Amicis; l’emiliano critico d’arte e di musica, oltre che poeta lodato da Carducci e Pascoli, Enrico Panzacchi; Enrico Ferri, avvocato di diritto penale e teorico di criminologia, politico radicale, poi socialista e direttore dell’«Avanti!»; Gabriele D’Annunzio; lo storico e scrittore Cesare Cantù e Michele Coppino, Ministro della Pubblica Istruzione nel primo e nel secondo governo Depretis e ideatore della riforma nota come “Legge Coppino” che prevedeva una scuola elementare obbligatoria, gratuita e aconfessionale.

(18)

28 di via di mezzo vedrai l’insegna con la lanterna del «Prometeo» fatto taverna.

Su quei tavoli, sonori come tamburi, dove rullavano pugni e bicchieri è stata martellata l’epigrafe che fu poi murata sulla facciata della villa Magni-Maccarani in San Terenzo:– Da questo portico in cui s’abbatteva l’antica ombra di un leccio – il luglio del MDCCCXXII – Mary Godwin e Jane Williams attesero con lacrimante ansia – Percy Bysshe Shelley – che da Livorno su fragile legno veleggiando – era approdato per improvvisa fortuna – ai silenzi de le isole elisee.

O benedette spiagge, ove l’amore, la libertà, i sogni non hanno catene.

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. – Nella taverna del «Prometeo» dotti e indotti veneravano Shelley: lo veneravano tanto che quando, per tempestose vicende, il «Prometeo» si chiuse, ne fecero aprire un’altra che si chiamava addirittura «Shelley». I tavernieri erano geldra varia: da Ceccardo Roccatagliata andavano al “gobbo Carnot”; santi e manigoldi s’impancavano a quei tavoli. Ceccardo declamava estasiato:

Rude, vento, che diffondi in suon di pianto un dolore troppo triste per un canto; fiero vento che se il ciel di nubi è fosco fai suonar di notte a morto le campane; uragano, le cui lacrime son vane….

e “Carnot” di sull’uscio urlava spavaldamente ai passanti:– Alto là! Noi siamo i figli di Prometeo!

Ai tavernieri capitavano lettere di Bovio, di Rosadi e di Felice Cavallotti, i quali non ignoravano la «taverna» perchè molte commemorazioni del «Poeta» sono state organizzate al «Prometeo» o alla «Shelley».

Per l’autorevole intercessione del commendatore avvocato Cesare Riccione, che pur essendo allora sindaco di Viareggio qualche volta capitò nelle taverne, il Bovio dettò l’epigrafe per il monumento di Viareggio: «Percy Bisshe Shelley – Cuor dei cuori – L’agosto del 1822 – Annegato in questo mare – Arso in questo lido – Lungo il quale meditava – al Prometeo liberato – Una pagina postrema – In cui – Ogni generazione avrebbe – Segnato – La lotta, Le lacrime, La redenzione – Sua».

E il Rosadi:

«Cari amici. Quante cose sono mutate in cent’anni. Mutata questa spiaggia, dove le strade attestano al nome i suoi termini antichi – Via della Costa, oggi remota strada a più di quattrocento metri dal mare placido –; mutate le fortune d’Italia da quando le salme dello Shelley naufragò e del suo compagno Williams straccate (anche il Rosadi usò il gergo marinaresco) a breve distanza su questo medesimo lido, appartennero a due diversi Stati, chè Viareggio e Migliarino erano stranieri tra loro».

E il Cavallotti:

«Così da oggi le aure della Versilia, che ebbero gli atomi delle ceneri di lui, carezzeranno la bella giovane e immagine di genio tutelare del luogo». Ecco un telegramma di Novaro, della Reale Accademia d’Italia:

«Percy Bisshe Shelley, creatura mattutina armoniosa d’amore e di luce destinata agli spazi ai silenzi alle solitudini sacre, giunta con smarrita gioia ai margini dell’infinito».52

Un secolo prima il caso o la fatalità vollero che Paolina avesse scelto il luogo dove il corpo del poeta naufragò per costruire la sua villa. Amanti entrambi della bellezza, Shelley e Paolina si ritrovarono insieme, nello stesso posto, per una singolare coincidenza, restando nella storia della città, l’uno con una statua, l’altra con la sua dimora principesca. Per ribadire il legame

52 L

ORENZO VIANI, Il cipresso e la vite; scritti inediti, scelti e ordinati da Carlo Cordiè, Firenze, Vallecchi, 1943, pp.181-182. L’ammirazione dello scrittore per quel poeta inglese si dimostrò soprattutto nel 1922, in occasione del centenario della morte di Shelley, quando dette alle stampe il Numero unico P.B. Shelley “stampato a Pescia nello stabilimento grafico Benedetti & Niccolai il XV agosto MCMXXII”. Il foglio riporta in prima pagina la xilografia originale che l’artista aveva dedicato al Poeta e la lirica di D’annunzio, Anniversario Orfico, con all’interno, varie testimonianze da Alceste De Ambris, a Carducci, da Bovio a Ceccardo e a Angelo Silvio Novaro.

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