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Come la Religione e Tradizione influenzano il Diritto

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INTRODUZIONE

La poligamia è senza dubbio uno tra gli istituti più conosciuti del diritto di famiglia islamico, e certamente, l’aspetto dell’Islam che suscita maggiore curiosità nonché perplessità nei Paesi non a maggioranza musulmana. I più considerano l’islam quale religione arretrata che continua a consentire pratiche come quella della poligamia, portatrici di ingiustizie ed abusi. Non sorprende, poi, che i “media” occidentali non perdano, sovente, occasione, per sottolineare anche attraverso i fatti di cronaca, una presunta diversità sostanziale tra il “noi” ed il “loro”.

Sarebbe, probabilmente, una visione parziale quella che riduce l’islam, religione importante e sfaccettata, a “immagini” estremamente semplicistiche, facendo prevalere cliché, rispetto alle sue concrete manifestazioni. Il tutto è ancora più preoccupante se si osservano i dati oggettivi che ci mostrano come nel mondo musulmano la poligamia sia, oggidì, relativamente rara, poiché nella maggior parte dei casi viene praticata da chi, per ricchezza e potere, consideri l’avere più mogli o ampie famiglie, come indicativo di un certo status quo. Additare l’islam per queste immagini deformanti che vengono diffuse in giro per il mondo, equivarrebbe a colpevolizzare il Cristianesimo per gli abusi ed eccessi commessi da una ristretta cerchia di ricchi e potenti del mondo occidentale. Ciò nonostante, i matrimoni poligamici sono, tuttora, celebrati nel mondo musulmano e coloro che li contraggono affermano di essere in perfetta linea con quanto previsto dalla legge islamica. Come si spiega? Per poter rispondere a questa domanda sarà necessario, forse,

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“sollevare il velo” che i Fuqaha1 hanno diffuso sulla realtà del messaggio islamico, con tutte le conseguenze che possono derivare dal recupero della

“tradizione”. In questo processo, sarà di fondamentale importanza rintracciare e cogliere le relazioni tra religione, tradizione e diritto, nonché le evoluzioni che l’istituto del matrimonio poligamico ha registrato nel corso del tempo.

1Il Faqih (plurale Fuqaha) è il tradizionale giurista di diritto islamico, esperto in materia di fiqh, o di giurisprudenza e legge islamica.

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CAPITOLO I

La shari’a e le sue fonti

1. Una piramide di fonti

Prima di immergerci completamente nella nostra attività di ricerca, è certamente opportuno analizzare, seppur brevemente, il sistema di fonti su cui si fonda il diritto islamico. Questo aiuterà a meglio comprendere la portata di alcune prescrizioni e l’importanza di modifiche apportate alla legislazione in materia di diritto della famiglia e, in particolare, del matrimonio poligamico.

Anche il diritto islamico presenta, infatti, la propria piramide di fonti, e, probabilmente, sarebbe più appropriato vederla come in forma capovolta, al pari di quella relativa al Talmud2. Essa appare basata, principalmente, sul Corano, il quale impronta e sorregge l’intero modello. Le fonti ulteriori si sviluppano e si estendono ancora oltre, dipendendo ciascuna da quella che la precede e ognuna, ancora, dal Corano stesso. Lo sviluppo del diritto e delle sue fonti ulteriori ha richiesto secoli, così come è avvenuto anche per l’ebraismo ed il cristianesimo. L’era islamica inizia, nel suo I secolo, nel VII dell’era cristiana e diventa, dunque, il I/VII secolo3.

2Il Talmud è uno dei testi sacri dell'ebraismo. Il termine Talmud normalmente si riferisce alla raccolta di scritti intitolati specificamente Talmud babilonese (Talmud Bavli), sebbene ci sia anche un'altra raccolta precedente nota come Talmud di Gerusalemme, o Talmud

palestinese (Talmud Yerushalmi, gerosolimitano).

3Più precisamente, la fuga di Maometto a Medina nel 622 d.C, l’egira, segna l’inizio dell’era islamica e del calendario islamico. Esso è l’anno dell’egira, e nell’islam gli anni seguenti si contano a partire da tale anno e sono indicati come AH. Tuttavia, il rapporto fra anni occidentali ed anni islamici non è costante a causa della differenza di durata degli anni del calendario. Per una tavola delle corrispondenze, CALDER, Studies in Early Muslim Jurisprudence, 1993, p. 12.

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L’insieme del diritto islamico è noto come shari’a e significa la via o il percorso da seguire. La nozione di modo o “stile di vita” era fondamentale anche per il pensiero ctonio4, cosicché in tali tradizioni troviamo il tentativo di illustrarne l’importanza per la vita quotidiana delle persone.

La maggior parte della shari’a islamica si rinviene nel corpus del fiqh (o fikh), tradotta, sovente, con il termine di “scienza” del diritto islamico o giurisprudenza, nonostante il significato letterale rimandi semplicemente a quello di “comprensione”5.

Tutto ciò che deriva direttamente dal Corano può essere considerato come un commento o una spiegazione dello stesso, e naturalmente, il commento o la spiegazione che godono della massima autorità sono quelli derivanti dal Profeta, Maometto. Da questo punto di vista, il diritto islamico è paragonabile al diritto talmudico6, dal momento in cui entrambi hanno conosciuto rivelazioni formali scritte e uno sviluppo meno formale, orale, della Rivelazione del Profeta. “Gesù, viceversa, si limitava a parlare e il Cristianesimo è stato descritto come una religione “a debole intensità

4Il termine ctonio viene usato per indicare un particolare legame con la terra. Nel caso specifico si fa riferimento al pensiero tipico di popolazioni “native”, “aborigene”, con un particolare legame con la natura.

5L’espressione shari’a è talvolta limitata allo stesso Corano, alla pratica e ai detti del Profeta, la Sunna; il fiqh deriverebbe dalle restanti fonti, più evidentemente umane, esaminate infra. La distinzione shari’a/fiqh, però sarebbe “modernista” o “riformista”, del XX sec.; BLEUCHOT, Droit musulman, vol. I, 2000, p.p 18, 19 (“per emancipare”).

Pertanto essa è usata dai “laici” ma anche dagli “islamici” interessati al concetto di “Stato islamico”, sul quale v. la discussione infra, Scambi contrappuntistici con gli islam; R.

BAKER, Islam without Fear, Cmabridge (Mass.), Harvard University Press, 2003, pp 112- 113 (“contingenti elaborazioni del fiqh”). Il fiqh è anche variamente descritto come conoscenza del sé e di ciò che è contrario al sé, o come ciò che è permesso o richiesto, oppure permesso o vietato. RAHIM, Muhammadan Jurisprudence, cit., pp. 48, 49. Da ciò lo studio e la comprensione delle fonti (o radici) del diritto, usul al-fiqh, e lo studio delle sue branche o la sostanza, furu al-fiqh. Per un testo recente e completo, scritto in inglese, sul usul al-fiqh, CAMALI, Principles of Islamic Jurisprudence, cit., in contrappostizione (p. XVII).

Ai lavori occidentali “soprattutto interessati […] alla storia”.

6Il Talmud è uno dei testi sacri dell’ebraismo e con diritto talmudico di fa riferimento proprio a le scritture contenuto in esso.

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giuridica” (anche se non è certamente debole quanto alle sue conseguenze giuridiche)7”.

Così, come nel diritto talmudico si ritrova il Pentateuco (rivelazione scritta di Mosè) e la tradizione orale (cioè la Mishnah) scaturita in origine dallo stesso Mosè, analogamente, nell’Islam, troviamo il Corano e “i fatti e detti” del Profeta. Questi ultimi costituiscono la Sunna, scaturente dagli ahadith, o tradizioni8, cioè in enunciati che sono stati tramandati o trasmessi in una catena continua e affidabile, a partire dal Profeta fino ad oggi. Un hadith contiene fondamentalmente due parti: l’enunciato normativo e, come prova di legittimità, la catena (isnad) della traditio che ha seguito9. Dunque, un hadith dovrebbe essere valutato non in base alla sua “saggezza”, ma alla luce del criterio dell’affidabilità. Col tempo sono stati raccolti numerosi ahadith, addirittura, si stima, nell’ordine delle centinaia di migliaia10. L’attività di selezione e scelta di questi è divenuta

7La frase è del Professor Y. B. ACHOUR, di Tunisi, nella presentazione orale della sua relazione Nature, raison et révelation dans la philosophie du droit des auteurs sunnites, al XVII Congresso Mondiale di Filosofia del Diritto (IVR), Bologna, 1995.

8Il sostantivo hadith deriva dal verbo hadatha, “essere nuovo” (come nell’ebraico hadash):

A. GUILLAUME, The Traditions of Islam, Oxford, Clarendon Press, 1924, p. 10.

Conosciamo ciò che per noi è nuovo attraverso i mezzi con i quali esso ci viene comunicato, che in questo caso sono i discorsi, in seguito gli altri mezzi di comunicazione. Le notizie portano il nuovo, ma esso è nuovo soltanto per l’ascoltatore e costituisce già parte di quella più ampia base di informazioni che l’Occidente chiama tradizione. Nelle lingue occidentali la nozione di tradizione, è stata in larga misura inglobata dal procedimento di trasmissione, dalla traditio, che, per chi riceve le informazioni trasmesse, rispecchia il nuovo (spesso rivelatore) in modo inadeguato. L’uso del termine “tradizione” per tradurre “hadith” è diffuso, ma giustamente controverso. Sarebbe stato lo stesso, il pensiero occidentale, se qualcuno avesse pensato a una parola che indicasse “ciò che rivela il nuovo” per descrivere le informazioni e l’insegnamento esistenti, visti, però, dalla prospettiva di chi li riceve per la prima volta? Per una critica della traduzione di “hadith” come “tradizione”, HODGSON, The Ventura of Islam, cit., p. 64.

9GUILLAME, The Traditions of Islam, cit.; M. A. MAULANA, A Manual of Hadith, London, Curzon Press, 1977; COULSON, A History of Islam Law, 1964, p. 63; DOI, Shari’ah, cit., pp. 24, 25, 45, 49, 53, che fornisce tempi e catene di hadith (˂˂Secondo Bukhari (capitolo XXX, Tradizione, p. 26) “abdan ci ha riferito (dicendo): Hisham ci ha riferito dicendo: Ibn Sirin ci ha riferito da Abu Huraria dal Profeta […] che gli ha detto […]”˃˃) e individua le sei raccolte canoniche di hadith, pp. 52-54.

10 I criteri prendono in considerazione il numero di ripetizioni dell’hadith, l’interruzione o la continuità della trasmissione, la reputazione di chi li riferisce, ed ogni evidente motivazione politica nel contenuto della tradizione.

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un aspetto essenziale del fiqh. Alcuni di questi sono stati ricevuti direttamente dal Profeta e, nonostante legittimi, molti non furono trascritti.

Altri semplicemente sono stati, probabilmente nel corso del tempo, inventati11. La necessità di procedere a “inventario” e il metodo a tal fine eletto sono di fondamentale importanza per la nascita e la formazione del diritto islamico.

Proprio come il diritto talmudico non poteva reggersi esclusivamente sulla Torah scritta e la Mishnah, giungendo, infine, al Talmud, allo stesso modo, il diritto islamico ebbe la necessità di “farsi sistema” in modo coerente e organico. Questa si concretizzò nel cosiddetto consenso dottrinale, o ijma12. L’ijma è costituito da una comune convinzione religiosa, ma, il consenso si può conseguire solo attraverso il dibattito e la discussione, e comunemente si deve ammettere che, quanto meno nel secolo successivo al Profeta, il dibattito ed il ragionamento abbiano portato a notevoli divisioni nel mondo islamico13. Come avrebbe mostrato dopo qualche tempo l’esperienza euro-occidentale, il dibattito razionale non produce affatto generale consenso. La maggior parte delle volte, contrariamente a quanto si pensi, si incorre nella creazione di “poli di consenso”, ognuno dei quali dipende da un’autorità, che lo legittima.

Questo ha portato, nell’esperienza di diritto islamico, alla comparsa di differenti scuole giuridiche e persino di movimenti interni all’islam. Così facendo, per comprendere al meglio la stessa nozione di ijma, è opportuno pensare ad un consenso di tipo plurale. In buona parte, questo consenso è

11H. P. GLENN, Tradizioni giuridiche nel mondo: La sostenibilità della differenza, Società editrice il Mulino.

12Nel diritto occidentale nozioni analoghe (benché non identiche) sono quelle di communi opinio doctorum del tardo medioevo, i Restatements del diritto degli Stati Uniti e il herrschende Meinung del diritto tedesco contemporaneo.

13V. ad esempio, NOTH, Scharia, das religiose Gesetz des Islam, 1980, p. 428 (l’originaria differenza di opinioni manifestata dalle scuole, la cui comparsa impedì la monopolizzazione del diritto).

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scaturito da un hadith particolare, uno specifico detto dal Profeta, il quale afferma che

“il mio popolo non concorderà mai sull’errore”

Il consenso plurale tanto ricercato, viene quindi posto come fondamento dalla più alta autorità. Questa potrebbe essere solo superata, per

“importanza” delle fonti, dallo stesso Corano o dalla Sunna. In generale, l’ijma infatti è riconosciuta come terza fonte del diritto islamico.

Dopo il Corano, la Sunna e l’ijma, la “piramide” delle fonti del diritto islamico presenta un quarto gradino, il qiyas, o ragionamento analogico (dal verbo gaya, “paragonare”)14. La presenza della categoria dei ragionamenti logici nella piramide delle fonti, sicuramente sorprenderà il giurista occidentale inesperto. Questo infatti non è affatto abituato a considerare tale categoria quale fonte del diritto. Oggi in Occidente vengono prese in considerazione solo fonti positive e formali, mentre quelle islamiche, anche se per lo più scritte, non sono né positive né formali. È opportuno, quindi, stabilire quale dei tipi di ragionamento logico possa essere adoperato per completare le fonti esistenti. Il punto fondamentale non è semplicemente quello di autorizzare il ragionamento analogico, quanto quello di escludere i tipi più assertivi. Per meglio comprendere, basti vedere come l’aver ammesso il qiyas come fonte abbia realizzato una sorta di “compromesso”, tra quello che è l’attenersi strettamente ad un hadith ed ammettere forme di ragionamento logico15.

14PANSIER e GUELLATY, Le droit musulman, 2000, p. 28; HALLAQ, A History of Islamic Legal Theories, 1997, p. 83 ss.

15COULSON, Conflicts and Tensions in Islamic Jurisprudence, 1969, p. 6, in particolare sul ruolo di Shafi’i; N. HURVITZ, The Formation of Hanbalism, London, RoutledgeCurzon, 2002, p. 103, 104 (sull’opposizione di Hanbali); sulla riduzione, da parte di Shafi’i, sia dell’ijma che del qiyas a meri espedienti interpretativi piuttosto che fonti, J. E. LOWRY, Early Islamic Legal Theory, Leiden, Brill, 2007, in particolare pp. 62, 319-320, 365, benché riconosca (p. 12) che l’interpretazione “quadripartita” delle fonti sia “dotata di ubiquità”. Sul disaccordo nella comunità islamica in merito al ricorso a tipi di ragione umana più assertivi.

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In questo modo, nella trattazione di quelle che sono le fonti islamiche, inizia a delinearsi, non solo la struttura concreta delle fonti, ma anche l’esclusione di alcune di esse. Una volta che il consenso si è stabilizzato, viene, a questo punto, sanzionato come norma. Così facendo, gli si attribuisce una sorta di “valore maggiore”, che lo rende, alla stregua di una norma, più difficile da modificare. Diversamente, fosse continuato esso, ad essere considerato come mero consenso, sarebbe rimasto soggetto a tutte le correnti e mutamenti di pensiero che si succedono nel corso del tempo. Tuttavia, le fonti islamiche “autorizzate” forniscono, un importante quantitativo di diritto scritto, che richiede altrettante istituzioni che lo attuino.

2. Due ruoli fondamentali: qadì e muftì

Conclusa la breve trattazione, che ci eravamo riproposti, in merito alle fonti del diritto, risulta, altresì, importante fare riferimento a due soggetti del diritto che senza dubbio giocano un ruolo fondamentale nell’attività applicativa dello stesso. Stiamo parlando del qadì del muftì.

Il qadì (il giudice) è la figura più nota, forse, quando si parla di diritto islamico. Questo, in buona parte, è dovuto ai giudizi molto spesso negativi avanzati dai giudici di common law in merito all’impronta discrezionale data alla sua funzione1617. Queste critiche provenivano da un common law in cui si nutriva piena fiducia nel diritto giurisprudenziale e nella sua applicazione, molto più grande di quanto avvenga oggigiorno. Ora come

16H. P. GLENN, op. cit., p. 303.

17Per esempio, J. MAKDISI, Legal Logic and Equity in Islamic Law, in “AM. J. Comp.

Law”, 1985, 33, pp. 63-65 (descrive, con diplomazia, l’immagine della magistratura islamica che ne risulta come “davvero errata”).

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ora, sarebbero in pochi a negare l’esistenza del potere di apprezzamento e disposizione da parte dei giudici.

La funzione del qadì consiste nel risolvere le liti alla luce delle disposizioni di diritto islamico, e il procedimento è delineato, senza dubbio, da un alto grado sia di integrità che di imparzialità. È importante tenere bene a mente che, secondo la tradizione islamica, la posizione del qadì non è affatto la stessa di quella che riveste il giudice nella tradizione di common law. Infatti, le prospettive riguardanti il processo e la decisione giudiziaria sono nettamente diverse. Andando a dare un’occhiata da vicino ai mutamenti più recenti, vedremmo sicuramente che il common law sembra in qualche modo essersi avvicinato al punto di vista islamico.

La risoluzione della controversia, condotta dal qadì, avviene in quello che in Occidente è stato descritto come un “procedimento per trovare il diritto”18. L’iter processuale assume quasi completamente un altro volto, rispetto alle caratteristiche conosciute in Occidente. La nozione di mera applicazione di norme preesistenti, o di semplice sussunzione dei fatti nelle norme va svanendo, lasciando il posto a tutto un altro tipo di attività.

Il processo diventa un “percorso dinamico”, nel quale tutti i casi sono considerati diversi e singolari. Per ciascuno di questi è necessario cercare con la massima cura e attenzione il diritto più appropriato. Il diritto di uno specifico caso sarà, dunque, certamente diverso dal diritto di un altro.

Cardine del processo è sicuramente l’obbligo, per tutti (le parti e il qadì), di far combaciare al meglio le circostanze del caso concreto, determinate in maniera obiettiva. Poiché hanno questo dovere, le parti non sono affatto libere di ostacolare il processo e vengono anzi considerate come veri e

18FALATURI e MAY, Gerichtsverfahren, cit., pp. 47, 50. Sulla nozione di “ricerca del diritto” nella storia giuridica continentale, specialmente in Germania, G. STRAUSS, Law, Resistance and the State, Princeton, Princeton University Press, 1986, p. 48.

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propri “collaboratori” del qadì nella ricerca del diritto da applicarsi al caso concreto.

Questo fa senza dubbio tornare in mente quella che era l’antica concezione del processo di common law. È presente ancora qualcosa che fa rimando al moderno case-management, alla conciliazione pregiudiziale e anche alla mediazione. Anche per quanto riguarda la rappresentanza legale processuale, possiamo assistere a un avvicinamento e convergenza tra i due modelli. Infatti, nonostante la rappresentanza non sia mai stata nel diritto islamico un aspetto particolarmente centrale, la pratica recente non ha trovato in merito nessun aspetto di incompatibilità con i principi fondamentali19. Le parti sono sottoposte all’obbligo di coadiuvare il giudice nel far sì che si possa giungere ad una completa comprensione del caso in esame. In questo tipo di attività di ricerca, viene data una posizione di rilievo e gioca un ruolo importante anche la testimonianza orale. Inoltre, in linea di massima, sotto l’aspetto probatorio, sono escluse le prove scritte, ma queste possono essere ammesse al processo in casi particolari ed eccezionali o a sostegno di una testimonianza resa in forma orale.

Una volta che il qadì abbia formato la propria decisione, questa viene semplicemente resa. Non sono richieste particolari motivazioni scritte o ragioni esplicite. Dal momento in cui viene emanata la decisione, ci si aspetta che le parti, avendo anche collaborato nell’iter processuale, comprendano quanto sia avvenuto e perché. Negli ordinamenti giuridici che adottano tale modello di decisione, priva quindi di una qualsivoglia motivazione, non esiste di certo una qualche forma di case-reporting20. In

19FALATURI e MAY, Gerichtsverfahren, cit., p. 73. La giustizia islamica in linea di principio è “assolutamente gratuita”, senza “tasse e senza costi”.

20MILLIOT e BLANC, Introduction à l’etude du droit musulman, cit., p. 256 (tutte le decisioni possono essere rivedute dal giudice che le ha rese o da un altro giudice). Per l’insegnamento di Maometto al giudice “non devi sentirti ostacolato dal tuo primo giudizio nel ritrattarlo”, KHALDUN, The Muqaddimah, cit., p. 173.

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assenza di quest’ultimo non sussisterà, nel diritto processuale, una nozione di precedente, e di conseguenza, neanche un concetto ancor più vincolante quale quello dello stare decisis.

Il diritto islamico non conosceva affatto le corti d’appello. Per la parte soccombente l’unico rimedio era quello di fare ritorno dallo stesso qadì che aveva emanato la decisone. In ogni caso, anche un mutamento del giudizio, non avrebbe certo cambiato lo status delle parti agli occhi di Dio.

Si poteva anche aver vinto la causa, ma di fronte a Dio, essere ancora

“perdenti”. In quanto arbitro, il qadì non contribuisce allo sviluppo del diritto, né si colloca tra quelli che sono considerati sapienti e conoscitori del diritto. Detto questo, vediamo come (così come avviene anche nel civil law), vi sia ampio spazio per gli esperti del settore anche al di fuori delle corti.

È proprio in questo campo che il mufti, il giureconsulto, gioca un ruolo fondamentale e notevolmente simile a quello del giurista romano o un moderno esperto di diritto, che fornisce pareri alle corti. Questo, libero da responsabilità formali, tuttavia, dotato di conoscenze approfondite e grandi capacità, è senza dubbio la risorsa più efficace per fornire la giusta guida per districarsi nell’enorme massa di diritto, al fine di risolvere il caso particolare. L’opinione del muftì, la fatwa, è spesso conservata negli archivi dei tribunali come strumento per le decisioni. Inoltre, come hanno mostrato studi recenti, le fatwa non erano semplicemente accantonate negli archivi. Queste sono oggetto di raccolte e incorporazione sistematica di importanti lavori della dottrina, i furu. “A questo punto ci si potrebbe chiedere se il diritto islamico non sia altro, come spesso si afferma, che la mera enunciazione ideale di come si dovrebbe vivere e di cosa

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dovrebbero fare le corti, senza alcun reale contatto con la pratica comune”21.

Nella “quotidianità” del diritto islamico si va spesso in contro ad una chiara carenza di sostegno delle istituzioni. Il diritto islamico, rimane sotto questo particolare aspetto, molto simile a quello che era il diritto ctonio arabo. Benché vi sia la presenza del qadì, con una posizione formale, è la comunità che fa da cardine principale per il diritto islamico. Analizzando lo scenario con occhio euro-occidentale, si potrebbe affermare che non sia presente un vero e proprio legislatore. Questo, in ogni caso, non è completamente esatto. Infatti, nei singoli ordinamenti, oggi vi sono degli specifici legislatori statali. Ad ogni modo, però, è certamente vero che, nel diritto islamico, non esista una figura che possa essere in qualche modo paragonata, come funzioni, ad un Gran Sinedrio, per fare un esempio22. L’imam è una guida spirituale, il muezzin, colui che richiama ed invita alla preghiera e alla cura dell’anima l’intera comunità. Gli stessi esperti di diritto non ricevono alcuna autorizzazione, né laurea. Diventano esperti, semplicemente perché riconosciuti come tali. Questo è indice di come, in tale realtà, si tenda ad attribuire l’autorità legale a figure private o religiose, piuttosto che politiche.

21H. P. GLENN, op. cit., p. 308

22S. M. HAIDER, Islamic Concept of Human Rights, Lahore, The Book House, 1978, p. 69.

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CAPITOLO II

Come la Religione e Tradizione influenzano il Diritto

Nella ricerca di come si sia originato e successivamente sviluppato e diffuso l’istituto del matrimonio poligamico, è inevitabile dover affrontare la questione di come la religione e la tradizione siano in grado di influenzare il diritto.

I giuristi e comparatisti Mattei e Monateri, nella tassonomia da loro formulata23, individuano una particolare famiglia di sistemi giuridici in cui la separazione tra legge e religione e/o tradizione non ha preso piede. È facile notare come, anche nel modello giuridico euro- occidentale, la legge possa essere giustificata e spiegata alla luce di basi etiche e come, talvolta, vi siano leggi che trovino origine in una fonte religiosa o tradizionale. Quando, poi, conseguentemente allo sviluppo delle istituzioni, è diventata possibile una divisione del lavoro, nella tradizione occidentale, si è dato vita ad una classe sociale di giuristi specializzati, la cui “retorica di legittimazione del soprannaturale” è diventata man a mano sempre più professionale.

Basti pensare a come lo stesso Corpus Iuris Civilis per moltissimo tempo abbia goduto di una legittimazione quasi “divina”, non troppo dissimile da quella della Bibbia. Per fare un parallelismo, se guardassimo alla figura dell’avvocato moderno, non potremmo che notare come questo svolga molte delle funzioni, che, in altre società,

23 U. MATTEI, Three Patterns of Law: Taxonomy and Change in the World's Legal Systems,

1997.

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vengono solitamente eseguite da sacerdoti o rappresentanti di culto.

Come evidenzia lo stesso Mattei, anche nella società e negli ordinamenti contemporanei, dove sembra che la religione e la tradizione svolgano un ruolo marginale, è certamente innegabile che molte delle decisioni emesse da tribunali moderni siano improntate su e caricate di sfumature religiose. Sarebbe interessante vedere gli avvocati moderni come dei “sacerdoti travestiti”24, ciò non cambierebbe il fatto che la secolarizzazione della legge è stata portata a termine in Inghilterra nel corso del XV secolo, con la presa di controllo sulla Cancelleria da parte degli avvocati. Nei paesi continentali che non presentano un sistema giuridico di common law invece, il clero, che era fortemente rappresentato nei parlamenti, è stato completamente escluso dal processo legale solo con la rivoluzione francese25. Conseguenza della secolarizzazione fu che, nella tradizione odierna della legge “occidentale”, così come formulata nel contesto giuridico, la professione legale (avvocati, giudici e professori di legge) sia chiaramente distinta da quella del sacerdozio. La relazione tra l’individuo e la sua coscienza interiore, e/o tra l’individuo e i misteri trascendentali o soprannaturali è stretta competenza delle figure spirituali, come i sacerdoti26. Questo non si può invece dire in merito alle regole che derivano dalla tradizione.

Nella legge che trova origine da una fonte tradizionale, l’elemento egemonico è costituito dalla religione o dalla filosofia, per cui la dimensione interna dell’individuo e la dimensione sociale non sempre

24 Cfr. supra.

25J. BAKER, An Introduction to English Legal History, 1990; H. BERMAN, Law and Revolution: The Formation of the Western Legal Tradition, 1983.

26Certamente, in alcuni casi, possono esserci ancora delle sovrapposizioni e, come al solito, i confini non possono essere definiti con assoluta precisione. Potrebbe esserci ancora contrasto tra i vari settori sociali. Ad esempio, il sacerdote o il mediatore potrebbero competere con l’avvocato in materia di matrimonio così come lo psicoanalista potrebbe competere con il sacerdote in materia di coscienza.

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sono separate, ma coesistono27. Per avviare una comparazione con il modello euro-occidentale, la terza famiglia di sistemi giuridici è costituita dalla tradizione giuridica orientale, soggetta agli stessi limiti sottesi alla definizione del termine “tradizione giuridica occidentale”.

E così, proprio come nella prima troviamo Paesi che, da un punto di vista geografico, non si trovano nell'emisfero occidentale (ad esempio l’Oceania), nel novero della tradizione giuridica orientale vi sono Paesi che non sono situati nell’emisfero orientale (Marocco, Tunisia, Algeria, ecc.). Quindi, anziché impiegare il criterio della collocazione geografica, potrebbe risultare più utile focalizzarsi sulla presenza del sostrato giuridico tradizionale, al fine di inquadrare al meglio la natura stessa del sistema. Poste le suddette premesse, appare più agevole individuare il metodo attraverso il quale inserire, all’interno di tale famiglia, i Paesi in cui vige (per lo più parzialmente) il diritto islamico, quelli in cui si rinviene il diritto indù, al pari dei sistemi in cui sono predominanti concezioni di stampo asiatico e confuciano.

Naturalmente, il diritto professionale (Rule of Professional Law) è un elemento egemonico nei sistemi riconducibili alla famiglia della tradizione giuridica euro-occidentale28. La presenza di uno strato di diritto civile o di diritto comune, in praticamente tutti i sistemi giuridici del mondo, è ampiamente riconosciuto nella letteratura comparata29 ed è un tradizionale elemento alla base di un qualsivoglia confronto e distinzione tra diritto comune e diritto civile. In esso, cioè, le norme che trovano la propria fonte nella tradizione, quando ancora

27Vedi MATTEI, sopra n. 23

28Ibidem

29R.B. SCHLESINGER, H. BAADE, M. DAMASKA, & P. HERZOG, Comparative Law:

Cases, Text Materials, 1998.

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presente, sono, sovente, relegate a rivestire prevalentemente un ruolo informale.

Una conclusione eccessivamente frettolosa sarebbe, però, probabilmente errata. Per cominciare, si deve solo pensare a come la legge islamica sia altamente formalizzata o ricordare, del pari, che anche la natura informale della tradizione legale cinese (lasciando a parte i legisti) sia “sotto attacco”. Lo strato di diritto professionale (occidentale e formalizzato) nei Paesi che appartengono alla famiglia giuridica tradizionale risente della presenza e della forte influenza sociale della legge tradizionale non professionale (formale o informale), e il risultato della competizione tra modelli potrebbe essere un modello di diritto tradizionale simile, nella sua forma, alla legge occidentale. In altre parole, non si dovrebbe confondere la presenza della tradizione con l'assenza della legge, oppure con l'insufficienza di istituzioni giuridiche “formali”.

Ancora una volta, senza pretese di completezza, alcuni aspetti comuni a questi sistemi giuridici sono: un ruolo ridotto svolto dal ceto forense rispetto ad altri soggetti incaricati della risoluzione delle dispute giuridiche (mediatori, saggi, autorità religiose); occidentalizzazione forzata e conseguente trapianto di modelli professionali in rapporti giuridici tradizionalmente regolati con altri mezzi; l'esistenza di codici e statuti di matrice euro-occidentale; l'alto valore legale della penitenza; l'importanza dell'omogeneità della popolazione come mezzo per preservare una particolare struttura sociale; gruppi familiari piuttosto che individui come elementi costitutivi della società; un alto livello di discrezionalità lasciato ai decisori; un alto tasso di sopravvivenza di abitudini locali molto diversificate; ampio ricorso

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alla coercizione giudiziaria; una visione fortemente gerarchica della società; un valore elevato posto sull'armonia; una grande enfasi sul ruolo del genere nella società; un ordine sociale basato sui doveri piuttosto che sui diritti; struttura gerarchica della società che controbilancia l'organizzazione egualitaria; disparate fonti di diritto in campagna e in contesti urbani. Il differente equilibrio che acquista la dicotomia “democrazia”/“gerarchia”, genera l’indice che caratterizza ogni famiglia legale. Questo ci consente di poter meglio distinguere quando un determinato ordinamento giuridico appartiene ad una famiglia legale orientale o occidentale.

Si dovrebbe anche notare che la retorica della legittimazione30 nei sistemi di diritto tradizionale è differente da quella prevalente oggi in un sistema di diritto professionale o di diritto politico. Troviamo in gioco, qui, una retorica di legittimazione soprannaturale. Una retorica forte, antica e rispettata, che può competere con successo sia con quella della democrazia sia con quella della politica. Come già accennato in precedenza, la stessa retorica è stata utilizzata per legittimare l'autorità del Corpus Iuris Civilis nella fase di fondazione della tradizione del diritto civile. La stessa retorica è stata usata anche in diversi Paesi per sostenere il potere illimitato del leader carismatico (o del partito politico). Questa è, quindi, un'altra importante analogia strutturale tra la famiglia dei sistemi giuridici di diritto politico e quella dei sistemi giuridici di diritto tradizionale.

30Vedi MATTEI, sopra n. 23. Motivazioni apportate per giustificare l’esistenza di un determinato impianto di norme. Nel caso specifico si tratta della retorica di legittimazione del diritto tradizionale, come e perché la tradizione abbia influenzato il diritto e le sue fonti.

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CAPITOLO III Il Diritto di Famiglia

1. Introduzione

Il diritto di famiglia è solitamente descritto come il “nocciolo duro”

del sistema giuridico islamico, ovvero come quell’insieme di norme comunemente riconosciute quali intangibili da parte di tutta la comunità dei fedeli e non solo da esperti del diritto, praticanti più attenti o correnti più radicali31. Questa visione ha superato, senza particolari cambiamenti, il corso del tempo, resistendo anche ai momenti di maggiore crisi della disciplina tradizionale. Ancora oggi, che si trovi in un Paese a maggioranza musulmana o meno, una gran parte dei fedeli sarebbe, forse, disposta a condurre una vita pubblica laicizzata, seguendo i canoni della “modernità”, in cambio di una vita privata all’insegna della tradizione e fede islamica32. Questa particolare “resistenza”, segno inconfondibile della forza che porta con sé l’antica visione patriarcale della famiglia e della società, trae vigore anche dalla particolare puntualità di cui gode, tale branca del diritto, nella shari’a. Sono una moltitudine le disposizioni, in merito al matrimonio e alla famiglia, che hanno come fonte la stessa Rivelazione. Anzi, dei versetti a contenuto normativo presenti all’interno del Corano, una gran parte riguarda proprio le relazioni familiari. È importante notare come la tendenza a riservare una certa attenzione alla disciplina di questi aspetti sia una caratteristica

31N. FIORITA, L’Islam spiegato ai miei studenti. Undici lezioni sul diritto islamico, Firenze University Press, 2010.

32O. GIOLO, Giudici, giustizia e diritto nella tradizione arabo-mussulmana, Giappichelli, 2005, p. 109 ss.

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ricorrente nella maggioranza degli ordinamenti con un sostrato tradizionale. Il diritto di famiglia è oggetto, nel Corano, di una disciplina abbastanza ampia e per certi versi, anche esaustiva.

Tuttavia, frequentemente, le norme presentano una formulazione abbastanza vaga, oscura, che può risultare talvolta inadeguata ad una comprensione precisa ed univoca del contenuto prescrittivo. A questo deve essere aggiunto che, per quanto riguarda in generale questa materia (relazioni familiari), nel Testo Sacro le formulazioni tecniche, relative agli effetti giuridici di fatti o atti rilevanti, possano risultare a tratti alquanto approssimative. Sono questi i due elementi che ci mostrano come, benché il matrimonio ed altri istituti abbiano riferimenti nella Legge, la loro completa definizione deve essere attribuita agli interpreti e alle scuole di diritto. La disciplina della shari’a che regola l’istituto della famiglia si fonda su un nucleo di valori, principi e regole condivisi, ma, allo stesso tempo, su un complesso di soluzioni giuridiche adottate, tra loro, talvolta, anche molto distanti, se non addirittura inconciliabili. Alla base di così tanta incertezza e confusione, secondo alcune ricostruzioni della dottrina, andrebbe collocata la difficoltà di Muhammad di portare a compimento la propria strategia di riforma della famiglia e la scelta di accontentarsi, in questa materia, del possibile compromesso tra novità e tradizione33. Allora, lo stravolgimento che si era delineato a partire dalla diffusione dell’islam34 avrebbe incontrato, fin dal principio, le maggiori resistenze proprio in materia di rapporti familiari e dei rapporti tra generi. Saremmo giunti al punto in cui la Rivelazione si sarebbe posta solo ai margini della famiglia tradizionale, con tutto il

33Cfr. supra, FIORITA, n. 31

34A. VENTURA, L’Islām sunnita nel periodo classico (VII-XVI secolo), Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 149.

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suo bagaglio di innovazioni parziali e prescrizioni volutamente ambigue35. Volendo scendere maggiormente nel dettaglio, si potrebbe sostenere che lo spirito riformatore di Muhammad abbia raggiunto, comunque, alcuni tra i principali obiettivi che si era prefissato, indebolendo lo strapotere dell’uomo, con l’introduzione di misure di protezione economica della donna e di regole e procedure specifiche a tutela del matrimonio. In alcuni casi, ha dovuto però optare per compromessi, talvolta particolarmente ardui, come quello della poligamia, istituto considerato legittimo, ma pur sempre oggetto di alcune limitazioni. Altre volte, l’esito della sua riforma è stato meno positivo del previsto, come nella “lotta” al ripudio, per la quale, oltre alla riprovazione morale presente nello stesso Testo Sacro, sarebbe presente anche la volontà di Maometto di abolire tale istituto e l’impossibilità di trasformarlo in un divieto inderogabile. “Quel che è certo è che i semi innovativi che sono sparsi nella disciplina coranica della famiglia sono stati però lasciati appassire dall’interpretazione classica”36.

Una lettura e una interpretazione estremamente conservatrici e rigorose (dei primi secoli dell’islam), si sono appropriate delle caratteristiche di eternità e immutabilità che solitamente appartengono a disposizioni divine, impedendo, per molti secoli, qualsivoglia modifica o evoluzione. Potremmo dire che, per la maggior parte dei Paesi a maggioranza musulmana, sia da poco tempo, forse solo da qualche decennio, grazie alla spinta data dai processi di sviluppo e

“modernizzazione”, che il diritto di famiglia islamico ha conosciuto

35Il matrimonio diviene l’unica forma legittima di unione, la donna acquisisce capacità giuridica e indipendenza economica e lo strapotere dell’uomo è soggetto ai suoi primi condizionamenti giuridici.

36Cfr. supra FIORITA n. 31

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una “nuova e controversa stagione”37. La tendenza che contrassegna in maniera più significativa gli sforzi interpretativi dei cosiddetti

“modernizzatori” è il tentativo di introdurre dei correttivi che possano stemperare la rigidità della norma tradizionale. Il fine è quello di elevare la posizione dei membri più vulnerabili della famiglia, ossia donne e minori, e di equiparare diritti e doveri dei coniugi. Le norme sciaraitiche riformulate in tal senso, sono state accolte, certo non in maniera indolore38, dai diversi codici di diritto della famiglia di Paesi a maggioranza musulmana, nonostante i traguardi raggiunti dai legislatori nazionali siano stati comunque i più vari, sia nello stile sia nel contenuto. Questi codici vengono normalmente presentati con la denominazione di “Statuto personale”, ciò in virtù della applicabilità su base personale e non territoriale delle norme contenute39. Esistono, attualmente, numerosi codici che trattano, sebbene con impianti anche visibilmente differenti, la condizione giuridica della donna. Alcuni conservano una ispirazione purista e rigorosa (Arabia saudita e Oman), altri si fondano su principi che maggiormente si riconducono a un impianto liberale (Siria, Giordania ed Egitto) o alla ricerca di compromessi sempre più avanzati (Marocco). Solo nel caso della Tunisia40, la disciplina si è spinta fino a soluzioni praticamente in linea

37Ibidem

38Si ricordi che il diritto di famiglia marocchino è stato recentemente oggetto di una importante e corposa riforma (su cui si veda A. CILARDO, Persistenza della tradizione giuridica islamica, Napoli, 2006), che ha dovuto superare le fortissime resistenze opposte dalle correnti islamiste, entrando alla fine in vigore solo grazie al sostegno del re che ne ha sancito la conformità al diritto islamico.

39Mi rifaccio alla definizione utilizzata da R. ALUFFI BECK-PECCOZ, Le leggi del diritto di famiglia negli stati arabi del Nord Africa, Torino, 1997, p. 1, secondo cui “La sharî’a è applicata ai mussulmani dal giudice mussulmano, lasciando che i non mussulmani vengano retti dai diritti loro propri, amministrati dai rispettivi giudici confessionali”. A questo testo farò ripetutamente riferimento nelle pagine seguenti.

40Le particolarità adottate dai due ordinamenti di Tunisia e Marocco, verranno affrontate più nello specifico nei capitoli seguenti.

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con i modelli euro-occidentali di tutela, seppur attraverso direttrici autoctone.

2. Shari’a e matrimonio

Secondo la shari’a islamica, il matrimonio (nikâh) è un’istituzione giuridica volta, in primo luogo, a garantire l’ordine sociale.

L’obiettivo principale, ancora più della procreazione e del mantenimento e cura dei figli, è la legalizzazione dei rapporti sessuali41. L’unione tra uomo e donna segue e rispetta una precisa prescrizione coranica:

“e unite in matrimonio quelli fra voi che sono celibi e gli onesti fra i vostri servi e le vostre serve; e se saran poveri certo dio gli arricchirà della sua grazia, che Dio è ampio sapiente”42.

Il matrimonio rappresenta, quindi, per il buon musulmano, un atto lodevole e meritevole. La famiglia rappresenta un ambiente naturale e preferibile, in particolare perché questo si pone come prevenzione a tutte le tentazioni, conducendo, quindi, l’uomo a realizzare nel modo più completo possibile la parola divina. Ma il diritto islamico non eleva, a differenza del diritto canonico, il matrimonio alla dignità di sacramento, né tenta di attribuire uno specifico rilievo giuridico alla

41 La sharî’a valuta con estremo rigore il rapporto sessuale consumato al di fuori delle sfere cosiddette lecite, che per lo più coincidono solo con il matrimonio, dato che non è più considerato dalla disciplina il rinvio al rapporto di concubinato (rapporto dell’uomo con la propria schiava). Il Corano in molte occasioni fa chiaro riferimento al tema e, tra le altre cose, prescrive che «L’adultera e l’adultero sono puniti con cento colpi di frusta ciascuno»

(Corano, XXIV, 2).

42Corano, XXIV, 32.

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componente affettiva tra i due coniugi. Il matrimonio si esaurisce in un vero e proprio contratto bilaterale di diritto civile delineato da una forte componente sinallagmatica. Ad un primo sguardo, tale negozio giuridico si fonda su un complesso di prestazioni e controprestazioni, marcatamente sbilanciate a favore di una delle due parti (tradizionalmente, il marito). Per il marito, rilevano tutti i diritti che gli sono conferiti sulla moglie (godimento sessuale e autorità maritale), mentre sulla donna, l’oggetto del contratto coincide, per lo più, con il semplice donativo nuziale, obbligatorio ai fini del soddisfacimento dei bisogni materiali della stessa. Così come ogni contratto, anche quello matrimoniale prevede una serie di requisiti, la cui sussistenza è necessaria affinché il matrimonio possa concludersi validamente e sia idoneo a produrre i propri effetti tipici. Accanto a quelli che sono i requisiti tradizionali, come la capacità giuridica delle parti, il consenso a contrarre, l’inesistenza di impedimenti (temporanei o permanenti) e la forma, il diritto islamico affianca a questi altri due elementi: la costituzione del donativo e la tutela legale per la futura moglie. Con riferimento a questo secondo elemento, deve essere precisato che il diritto islamico non stabilisce un’età minima per contrarre matrimonio. Alcuni giuristi sono giunti, perfino, a riconoscere la validità del matrimonio celebrato in età infantile43.

Le differenti teorie dei giuristi hanno come punto di incontro il collegare, generalmente, la capacità a contrarre matrimonio al raggiungimento della fase della pubertà. Le soluzioni che sono state accolte sono, comunque, varie e l’età minima oscilla, per la donna, tra i 15 e i 17 anni, e, per l’uomo, tra i 15 e i 18 anni. Per quanto riguarda

43R. ALUFFI BECK-PECCOZ, op. cit., p. 206.

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il requisito del consenso, invece, il diritto islamico prevede che i soggetti che non abbiano raggiunto ancora l’età matura debbano sottostare alla tutela matrimoniale esercitata dal walî44. I legislatori moderni e contemporanei, opponendosi ai matrimoni conclusi in età non consona, hanno tentato di mitigare gran parte delle perplessità sollevate in merito. Questo, anche in virtù del fatto che il tutore matrimoniale è, di regola, privo del potere di costringere gli sposi contro la loro volontà a stipulare il contratto. Ad ogni modo, la perenne rilevanza che si riscontra essere attribuita ai tutori, trova ulteriore fonte di conferma nel fatto di essere conservata nella stragrande maggioranza dei Codici di Statuto personale. Sono rare, infatti, le leggi concernenti il diritto di famiglia che impongono che il contratto matrimoniale sia concluso direttamente dai due coniugi. L’istituto in esame, che, per il credente musulmano è senza dubbio la più auspicabile condizione di vita cui aspirare, che, peraltro, può diventare un atto assai riprovevole o finanche proibito in presenza di alcuni specifici impedimenti. Il diritto islamico, a tal fine, fa distinzione tra impedimenti perpetui e temporanei. Nella prima categoria rientrano la parentela, l’affinità e l’allattamento: la parentela di latte costituisce tra il lattante, da un lato, e la nutrice e i suoi parenti, dall’altro, un rapporto assimilabile alla parentela di sangue45. In merito agli impedimenti temporanei, molto più numerosi di quelli perpetui, occorre fare richiamo a due fattispecie che, più di altre, continuano a condizionare la libertà matrimoniale dei futuri sposi. In primo luogo, un riferimento deve essere fatto alla disposizione coranica che esclude la possibilità per l’uomo di avere rapporti con la donna che da lui sia stata

44Walī è il parente maschio della sposa il cui assenso è (a seconda delle legislazioni e delle scuole giuridiche) necessario o semplicemente raccomandato per la celebrazione del matrimonio islamico.

45R. ALUFFI BECK-PECCOZ, op. cit., p.4.

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definitivamente46 ripudiata, e, in secondo luogo, al divieto (valevole solo per la donna) di concludere un matrimonio misto. Questa seconda fattispecie necessita, indubbiamente, di qualche riflessione specifica, in particolar modo in quanto essa tende a mostrarsi come uno dei momenti di più intensa discriminazione femminile, se non anche come uno dei principali elementi che limitano l’esercizio della libertà religiosa. La Legge stabilisce che la donna musulmana non possa, in alcun caso, sposare un non musulmano, mentre l’uomo può sposare una donna appartenente a un credo monoteista, ovvero alle cosiddette

“Religioni del Libro”47. La giustificazione di tale differenza di trattamento deve essere ricercata nella trasmissione per linea paterna dell’appartenenza all’islam. Per questo, è sempre musulmano il figlio di padre musulmano, a qualunque confessione appartenga la madre, ma non l’inverso. Questa regola ricorre ancora, senza alcuna modifica, in alcune normative in materia attualmente vigenti nei Paesi a maggioranza musulmana e si ritiene applicabile anche in Tunisia, unico Stato che non ha provveduto espressamente ad affermarla.

L’unico atto giuridicamente vincolante da un punto di vista, per così dire, della Rule of Traditional Law, al fine di celebrare il matrimonio, è il vero e proprio contratto matrimoniale. Tutte le cerimonie che precedono o seguono questo atto non sono sancite dalla Parola di Dio e fanno esclusivamente parte dei “rituali tradizionali”. Nonostante questo, simili cerimonie svolgono una funzione sociale fondamentale e importantissima, assicurando pubblicità all’atto e quindi agevolando la verifica della sussistenza degli elementi previsti come indispensabili

46Ove la donna contragga un nuovo matrimonio, cui segua un successivo scioglimento, l’impedimento deve considerarsi neutralizzato e la libertà matrimoniale perfettamente ripristinata.

47Le religioni del Libro sono il Cristianesimo, Ebraismo ed Islamismo, dette così perché hanno in comune lo stesso ed unico Dio, che però si è rivelato all’uomo in diversi modi, forme e tramite diversi profeti.

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per la conclusione del contratto, al punto che alcune scuole giuridiche sono arrivate ad imporre la necessaria presenza di due testimoni al rito celebrativo. Secondo la giurisprudenza classica non era possibile apporre clausole di qualsivoglia tipologia al contratto matrimoniale.

Solo la scuola hanbalita ha ammesso nel tempo la possibilità che i coniugi modificassero gli effetti tipici del contratto matrimoniale (purché rimanendo fedeli ai principi generali della sharî’a)48. I più moderni legislatori, occupandosi di tale problematiche, hanno deciso di optare per una impostazione che concedesse alla futura moglie la possibilità di avanzare alcune pretese. Tra queste, ad esempio, figurano quella di richiedere di non trasferire il domicilio dalla città d’origine o di non contrarre un matrimonio poligamico, di lasciarle la libertà di esercitare una professione, così come anche di poter partecipare alla vita pubblica. Devono, comunque, essere considerati nulli a tutti gli effetti eventuali accordi che abbiano ad oggetto l’educazione religiosa dei figli, laddove si pongano in contrasto con il principio della trasmissione per linea paterna.

48Cfr. supra FIORITA n. 31

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3. Mahr: il donativo nuziale

Come anticipato, uno degli elementi giuridicamente indispensabili per la valida conclusione del contratto matrimoniale è la costituzione del mahr, ossia del donativo nuziale che lo sposo è obbligato a versare49. L’istituto è prescritto dallo stesso Testo Sacro, che lo cita in vari versetti sempre in relazione al matrimonio in quanto contratto. Il versetto che in tal senso risulta più emblematico, afferma

“e date alle vostre spose la dote. se graziosamente esse ve ne cedono una parte, godetevela pure e che vi sia propizia”50.

Il marito è tenuto a corrispondere il mahr alla moglie, divenendone, questa, proprietaria a tutti gli effetti. Parte della giurisprudenza ritiene, inoltre, che il pagamento della somma possa essere anche posticipato.

Generalmente, una prima parte viene consegnata al momento del perfezionamento del contratto matrimoniale, mentre il rimanente sarà concesso alla morte del marito o al momento di un eventuale ripudio.

Queste ipotesi fanno ben comprendere come il donativo nuziale abbia esercitato e ancora oggi possa esercitare una importante funzione di parziale tutela della donna, “tradizionalmente” esposta, nel caso di scioglimento del matrimonio o di decesso del coniuge, a gravissime conseguenze dal punto di vista economico. Il dovuto pagamento del mahr è stato, cioè, impiegato come un vero e proprio deterrente nei confronti di un esercizio arbitrario e capriccioso del ripudio da parte

49L’obbligatorietà del donativo è confermata dal fatto che questo rappresenti un elemento indispensabile anche nel caso di matrimoni tra uomini musulmani e donne cristiane o ebree.

Ciò è sancito esplicitamente dal Corano (V, 5).

50Corano, IV, 4.

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dell’uomo e, dunque, in prospettiva rimediale rispetto all’insufficiente tutela della moglie sotto il profilo ereditario. Ancora una volta, sulla scia di queste considerazioni, è necessario avere un giudizio prudente per quanto riguarda gli istituti islamici tradizionali. Tale giudizio non può prescindere dal contenuto immediatamente percepibile del donativo, non a caso spesso descritto come il prezzo della sposa (ricco, quindi, di significato umiliante), ma deve valorizzare la funzione sociale di questa previsione. Il mahr, infatti, viene, così, reso uno dei più importanti strumenti attraverso il quale si è tentato (come ancora avviene) di “stemperare” gli effetti prodotti dalla dipendenza economica della donna dall’uomo. Lo stesso ordine di pensiero dovrebbe orientare ogni tentativo di valutazione del sistema giuridico islamico, così che analoghe considerazioni possano svolgersi ove si guardi alla condizione complessiva dei diritti di genere. Se, infatti, appare plausibile concordare con gli autori che insistono sui miglioramenti introdotti dall’Islam rispetto alla situazione precedente, è, però, altresì necessario ribadire come il diritto islamico presenti una visione dei diritti e doveri delle donne che, senza dubbio, necessita, per essere al meglio compresa, di un’analisi approfondita e di opportune considerazioni. Riprendendo la descrizione delle principali proprietà del mahr, si deve ricordare, ancora, come la moglie possa rifiutarsi di consumare il matrimonio se il marito non le abbia precedentemente versato almeno parte del donativo e come un ripudio, dichiarato prima della consumazione, obblighi il marito a pagare esclusivamente la metà del donativo nuziale fissato. Un profilo problematico, che il Corano non affronta esplicitamente, pertiene proprio alla determinazione del donativo. Generalmente, l’ammontare viene fissato nello stesso contratto di matrimonio. Qualora, invece, ciò non avvenga, esso sarà stabilito in un momento successivo secondo

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