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In tali studi la gemcitabina ha dato buoni risultati contro molti tumori epiteliali presentando una discreta tollerabilità (Aapro et al., 1998)

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2 GEMCITABINA

2.1 Caratteristiche generali

La gemcitabina fa parte della classe degli analoghi nucleosidici, farmaci molto efficaci nel trattamento di numerose neoplasie sia ematologiche che solide. Gli analoghi nucleosidici sono, infatti, chemioterapici antitumorali, descritti nella categoria degli antimetaboliti, poiché il loro meccanismo d’azione consiste principalmente nell’alterare la sintesi degli acidi nucleici mediante meccanismi d'inibizione competitiva e d'incorporazione di falsi substrati.

Tutti questi farmaci sono stati sintetizzati a partire dalla struttura dei nucleosidi endogeni, inserendo diversi sostituenti a livello delle basi puriniche o pirimidiniche o modificando la componente glucidica. In particolare la gemcitabina (2',2'-difluoro-deossicitidina, dFdC) è stato il primo analogo della deossicitidina che si è dimostrato attivo contro i tumori solidi. Fu sintetizzata per la prima volta dalla Lilly Research Laboratories, Eli Lilly & Co., e, a differenza della citarabina, usata già da tempo nel trattamento delle leucemie mieloidi acute, presenta due atomi di fluoro gemelli (da cui il nome) nella posizione 2’ della componente glucidica della molecola (Figura 4) (Hertel et al., 1990).

Inizialmente gli studi su questa molecola erano indirizzati all’uso come antivirale, vista la sua capacità di inibire tanto i virus a DNA quanto quelli a RNA (Noble e Goa, 1997). Il suo indice di selettività, tuttavia, risultò sfavorevole per cui fu abbandonata l’idea di utilizzarla per questo scopo e si cominciò a saggiarla come farmaco antitumorale. In tali studi la gemcitabina ha dato buoni risultati contro molti tumori epiteliali presentando una discreta tollerabilità (Aapro et al., 1998).

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O N

F

F OH

HO

N

O

NH2

O N

H

H OH

HO

N

O

NH2

Deossicitidina Gemcitabina

Figura 4. Struttura chimica della deossicitidina e della gemcitabina

In particolare l’attività della gemcitabina contro i tumori del polmonari è stata ampiamente documentata sia in monoterapia, sia in associazione con cisplatino, docetaxel, carboplatino e paclitaxel (Bergman et al., 1996; Zoli et al., 1999; Edelman et al., 2001).

2.2 Meccanismo d'azione

Il meccanismo d’azione della gemcitabina consiste principalmente nell’inibizione della sintesi del DNA (Figura 5). Essendo un profarmaco, per esercitare la sua funzione antitumorale, dopo aver oltrepassato la membrana cellulare mediante il sistema di trasporto dei nucleosidi, deve essere fosforilato prima in 2’,2’- difluoro-2’-deossicitidina monofosfato (dFdCMP), successivamente nella 2',2'- difluoro-2'-deossiciditidina difosfato (dFdCDP) e infine nella 2',2'-difluoro-2'- deossiciditidina trifosfato (dFdCTP).

La prima fosforilazione, essenziale per l’attività della gemcitabina, avviene ad opera della deossicitidina chinasi (deossicitidina 5’-fosfotrasferasi), enzima implicato nella fosforilazione di numerosi deossinucleotidi purinici e pirimidinici, la cui attività è regolata da un meccanismo a feedback negativo da parte della deossicitidina trifosfato (dCTP) (Ruiz van Haperen e Peters, 1994).

Il principale metabolita citotossico della gemcitabina è la dFdCTP, che compete direttamente con la dCTP per l’incorporazione del DNA. La dFdCTP inserita

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nella catena del DNA determina, dopo l’aggiunta di un altro deossinucleotide, una modificazione conformazionale con la costituzione di un blocco sterico che inibisce la DNA polimerasi (Gandhi et al., 1995).

Questa modalità di inibizione della polimerasi, denominata “terminazione mascherata della sintesi del DNA” per la presenza della dFdCTP in posizione non- terminale, ostacola il riconoscimento e la riparazione del danno al DNA da parte della esonucleasi. Si verifica quindi l’arresto nella sintesi della catena del DNA e il blocco del ciclo riproduttivo e conseguentemente la morte della cellula a causa dell’impossibilità della riparazione

Allo stesso modo la dFdCTP è incorporata nell’RNA e ne inibisce la sintesi (Ruiz van Haperen et al., 1994).

L’attivita citotossica della gemcitabina è inoltre incrementata dall’azione dei suoi metaboliti mediante due meccanismi di autopotenziamento:

1. l’inibizione della attività della ribonucleotide reduttasi, enzima fondamentale per la sintesi dei deossiribonucleotidi, da parte della dFdCDP (Hui e Retz, 1997), che determina una diminuzione della concentrazione dei deossiribonucleotidi con conseguente potenziamento della citotossicità della gemcitabina sia per aumento della fosforilazione, visto che una minore concentrazione della dCTP riduce il meccanismo di inibizione a feedback sulla deossicitidina chinasi, sia per la maggiore incorporazione della dFdCTP nel DNA, facilitata dalle ridotte concentrazioni dei substrati fisiologici (Plunkett et al., 1995).

L’aumento di espressione della ribonucleotide reduttasi determina infatti la presenza di meccanismi di resistenza alla gemcitabina poiché l’aumento del pool dei deossinucleotidi inibisce competitivamente l’incorporazione della dFCTP nel DNA e riduce, con meccanismo a feedback inibitorio, l’attività della deossicitidina chinasi (Goan et al., 1999).

2. l’inibizione della attività della deossicitidina monofosfato deaminasi, enzima implicato nel metabolismo della dFdCMP nel derivato inattivo 2’,2’- diflorodeossiuridina monofosfato (dFdUMP), da parte della dFdCTP, con conseguente ridotta eliminazione del farmaco e potenziamento della sua attività (Heinemann et al., 1992).

Altri studi hanno anche dimostrato che la dFdCTP inibisce l’attività della citidina trifosfato sintetasi, enzima che catalizza la reazione di conversione dell’uridina trifosfato (UTP) nella citidina trifosfato (CPT) (Ruiz van Haperen et al., 1994 A; Heinmann et al., 1995), che compete con la stessa dFdCTP per

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l’incorporazione nell’RNA; la dFdUMP inibisce l’attività della timidilato sintetasi, enzima implicato nella conversione della deossiuridina monofosfato (dUMP) nella deossitimidina monofosfato (dTMP) che, dopo la fosforilazione nella deossitimidina difosfato (dTDP) e nella deossitimidina trifosfato (dTTP), compete con la dFdCTP per l’incorporazione nel DNA (Ren et al., 1998; Poplin et al., 1999).

Deossicitidina chinasi

Deossicitidina Monofosfato

deaminasi

DNA Ribonucleotide

riduttasi

RNA

Deossicitidina deaminasi

5’Nucleotidasi Deossicitidina

chinasi 5’Nucleotidasi

dFdCDP deossicitidina

dCMP

dCDP

dCTP

CDP

Gemcitabina (dFdC)

dFdCMP

dFdCTP

dFdUMP dFdU

Citidina Trifosfato

sintetasi

Timidilato sintasi

dTTP

dTDP CTP UTP

dUMP

dTMP Deossicitidina

chinasi

Deossicitidina Monofosfato

deaminasi

DNA Ribonucleotide

riduttasi

RNA

Deossicitidina deaminasi

5’Nucleotidasi Deossicitidina

chinasi 5’Nucleotidasi

dFdCDP deossicitidina

dCMP

dCDP

dCTP

CDP

Gemcitabina (dFdC)

dFdCMP

dFdCTP

dFdUMP dFdU

Citidina Trifosfato

sintetasi

Timidilato sintasi

dTTP

dTDP CTP UTP

dUMP

dTMP

Figura 5. Meccanismo d’azione della gemcitabina

Glossario: CDP: citidina difosfato; CTP: citidina trifosfato; dCMP: deossicitidina monofosfato; dCDP: deossicitidina difosfato; dCTP: deossicitidina trifosfato; dFdC: difluoro deossicitidina; dFdCMP: difluoro deossicitidina monofosfato; dFdCDP: difluoro deossicitidina difosfato; dFdCTP: difluoro deossicitidina trifosfato; dFdU: difluoro deossiuridina; dFdUMP: difluoro deossiuridina monofosfato; dTMP: deossitimidina monofosfato; dTDP: deossitimidina difosfato; dTTP: deossitimidina trifosfato; dUMP:

deossiuridina monofosfato; UTP: uridina trifosfato.

2.3 Determinanti molecolari dell'azione della gemcitabina

La gemcitabina è un analogo nucleosidico e come tale è una molecola idrofila che richiede la presenza di specifiche proteine di trasporto per permeare attraverso la

(-)

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membrana plasmatica, quindi, il pattern di espressione di questi carriers può influenzare la sensibilità al farmaco.

Inoltre, la citotossicità indotta dalla gemcitabina è strettamente correlata all’attività degli enzimi implicati nel suo metabolismo. La gemcitabina come tale è un profarmaco, da qui la fondamentale importanza dell’enzima deputato alla sua attivazione: deossicitidina chinasi. Un ruolo altrettanto significativo nel mantenimento della biodisponibilità del farmaco è svolto dalle due principeli vie di catabolismo, mediate rispettivamente dalla 5’-nucleotidasi e dalla citidina deaminasi.

In più, poiché l’azione citotossica della gemcitabina si estrinseca attraverso l’inibizione della ribonucleotide reduttasi, un contributo significativo all’efficacia di questo farmaco è dato anche dall’espressione e attività di questo enzima responsabile dei processi di sintesi dei deossiribonucleotidi (Figura 6).

Figura 6. Determinanti genetici dell'azione della gemcitabina

Infine, la sensibilità alla gemcitabina, in quanto chemioterapico antimetabolita e capace di indurre apoptosi, è determinata anche da fattori coinvolti nella regolazione dei processi di crescita, divisione e morte cellulare.

WT

Gemcitabina (dFdC )

p16

CdA

dFdC Fegato

dFdCDP

dFdCTP

Metabolismo

Cellula neoplastica TP53

Gemcitabina (dFdC )

WT INK4a

CdA

dFdC Fegato

Metabolismo

RR CDP

dCDP

dCTP

Citotossicit à Citotossicit à

( -) dFdU

WT

Gemcitabina (dFdC )

p16

CdA

dFdC Fegato

dFdCDP

dFdCTP

Metabolismo

Cellula neoplastica TP53

Gemcitabina (dFdC )

Bcl Bcl - Chemioresistenza

- 2 Chemioresistenza

Bcl - xL Chemioresistenza Chemioresistenza Chemiosensibilit à Chemiosensibilit à Chemiosensibilit à Chemiosensibilità

WT INK4a

CdA

dFdC Fegato

dFdC 5’-NT dFdCMP

dFdU Metabolita deaminato inattivo

5’-NT CDA

dFdU Metabolita deaminato inattivo dFdC

DCK DCK

5’-NT dFdCMP

dFdU Metabolita deaminato inattivo

5’-NT CDA

dFdU Metabolita deaminato inattivo

Metabolismo

RR CDP

dCDP

dCTP

Citotossicit à Citotossicità

( -) dFdU

Carrier

WT

Gemcitabina (dFdC )

p16

CdA

dFdC Fegato

dFdCDP

dFdCTP

Metabolismo

Cellula neoplastica TP53

Gemcitabina (dFdC )

WT INK4a

CdA

dFdC Fegato

Metabolismo

RR CDP

dCDP

dCTP

Citotossicit à Citotossicit à

( -) dFdU

WT

Gemcitabina (dFdC )

p16

CdA

dFdC Fegato

dFdCDP

dFdCTP

Metabolismo

Cellula neoplastica TP53

Gemcitabina (dFdC )

Bcl Bcl - Chemioresistenza

- 2 Chemioresistenza

Bcl - xL Chemioresistenza Chemioresistenza Chemiosensibilit à Chemiosensibilit à Chemiosensibilit à Chemiosensibilità Chemiosensibilit à Chemiosensibilit à Chemiosensibilit à Chemiosensibilità

WT INK4a

CdA

dFdC Fegato

dFdC 5’-NT dFdCMP

dFdU Metabolita deaminato inattivo

5’-NT CDA

dFdU Metabolita deaminato inattivo dFdC

DCK DCK DCK DCK

5’-NT dFdCMP

dFdU Metabolita deaminato inattivo

5’-NT CDA

dFdU Metabolita deaminato inattivo

Metabolismo

RR CDP

dCDP

dCTP

Citotossicit à Citotossicità

( -) dFdU

Carrier Carrier

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2.3.1 Ruolo dei trasportatori

I bersagli molecolari dell’azione della gemcitabina sono intracellulari, per cui la permeazione del farmaco attraverso la membrana plasmatica si configura come un passaggio obbligatorio per la realizzazione del suo effetto citotossico. Tale passaggio sfrutta la presenza, sulla membrana citoplasmatica, di specifiche proteine di trasporto che permettono il superamento della barriera lipidica ai nucleosidi endogeni, che, come gli analoghi utilizzati in terapia, sono idrofilici. Queste proteine sono denominate trasportatori nucleosidici e si dividono in due famiglie a seconda del tipo di trasporto da esse mediato: i trasportatori nucleosidici equilibrativi (hENT) permettono un passaggio bidirezionale guidato dal gradiente di concentrazione (diffusione facilitata), mentre per mezzo dei trasportatori nucleosidici concentrativi (hCNT) si realizza un processo unidirezionale che sfrutta il gradiente elettrochimico del sodio per introdurre all’interno della cellule i nucleosidi contro il loro gradiente di concentrazione (trasporto attivo secondario). La prima famiglia comprende due tipi di proteine e la seconda cinque, che si differenziano per la sensibilità nei confronti dell’inibizione attuata dalla nitrobenziltioinosina (NBMPR) e per la specificità verso alcuni substrati. Nell'uomo, hENT1 è inibito da concentrazioni nanomolari di NBMPR, mentre per hENT2 non si riscontra un blocco apprezzabile fino a valori di concentrazione pari a 1μM, ma entrambi accettano come substrati sia nucleosidi purinici che pirimidinici; questi due tipi di trasportatori vengono anche indicati rispettivamente con le sigle es (equilibrativo NBMPR-sensibile) ed ei (equilibrativo NBMPR-insensibile). Le cinque proteine responsabili del trasporto sodio-dipendente vengono invece identificate come segue: hCNT1 o concentrativo NBMPR-insensibile timidina sepecifico (cit), che trasporta preferenzialmente nucleosidi pirimidinici, hCNT2 o concentrativo NBMPR-insensibile formicina B specifico (cif), il cui substrato principale è rappresentato dalle purine, hCNT3 o concentrativo NBMPR- insensibile a specificità ampia (cib), il quale accetta purine e pirimidine; esistono infine le isoforme concentrativo NBMPR-sensibile (cs) e concentrativo NBMPR- sensibile guanosina specifico (csg) (Griffith e Jarvis, 1996). La distribuzione tissutale e l’espressione da parte delle cellule tumorali di questi trasportatori non è ancora pienamente definita, ma è noto che hENT1 è presente nella maggior parte dei differenti tipi cellulari, mentre sembra che gli hCNT siano espressi solo da tessuti specializzati quali epitelio intestinale, epatico, renale, plessi corioidei e da alcune linee cellulari tumorali.

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Nel 1998 uno studio condotto da Machey e collaboratori ha dimostrato che l’attività dei trasportatori è un requisito primario per l’inibizione della crescita cellulare indotta dalla gemcitabina in vitro, ed ha rilevato che tale farmaco può essere un substrato per i trasportatori es, ei, cit e cib, con il seguente grado di affinità: cit >

es > ei > cib; tuttavia il più importante mediatore del passaggio della gemcitabina attraverso la membrana plasmatica sembra essere hENT1, in virtù della sua più ampia distribuzione.

In particolare, è stato recentemente oggetto di analisi il rapporto tra la citotossicità indotta dalla gemcitabina e la concentrazione di trasportatori di tipo hENT1 in linee cellulari tumorali di pancreas (PANC-1, HS-766T e PK-8) e vescica (MGH-U1). In queste cellule i ricercatori hanno riscontrato la mancanza di correlazione tra i livelli basali del trasportatore hENT1 presente sulla membrana cellulare e la sensibilità al farmaco, suggerendo che, in condizioni normali, altri fattori, come ad esempio l’attivazione intracellulare, rivestano un ruolo primario nella realizzazione dell’effetto citotossico. Tuttavia è stato ipotizzato che un incremento nell’espressione dei trasportatori, indotto farmacologicamente, potesse portare ad una maggiore efficacia nell’azione delle gemcitabina. E' stata pertanto esaminata la combinazione di questo chemioterapico con farmaci inibitori dell’enzima timidilato sintetasi, come il 5-fluorouracile e il raltitrexed, che sono in grado aumentare il numero di hENT1 presenti sulla superficie cellulare (Pressacco et al, 1995). I risultati ottenuti hanno confermato che, attuando un regime di associazione in cui il trattamento con gli inibitori della timidilato sintetasi precede quello con gemcitabina, il contributo dei trasportatori hENT1 alla modulazione della citotossicità diventa determinante, infatti, nelle due linee cellulari (PANC-1 e HS-766T), che risultavano sensibilizzate nei confronti della gemcitabina, è stato possibile riscontrare anche un aumento statisticamente significativo (P<0.05) dell’espressione di tali trasportatori nucleosidici sulla membrana plasmatica (Rauchwerger et al, 2000).

Altri studi, incentrati sempre su linee cellulari di adenocarcinoma pancreatico (NP9, NP18, NP29 e NP31), hanno avuto il merito di chiarire la funzione assunta dalla proteina hCNT1 nell’effetto citotossico mediato dalla gemcitabina. Nel corso di queste ricerche è stata rilevata una intensa attività di hENT1, che ha confermato il suo ruolo primario nella captazione del farmaco, ma è stata anche messa in luce la capacità delle linee analizzate di realizzare un trasporto di tipo concentrativo nella fase della crescita cellulare che precede il raggiungimento della confluenza; questo fenomeno è stato attribuito alla proteina hCNT1 in virtù della sua specificità nei

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confronti dei nucleosidi pirimidinici. Gli studiosi hanno poi eseguito la trasfezione di una delle linee cellulari con cDNA di hCNT1, inserito in un vettore in grado di garantire un alto livello di espressione del gene, indipendentemente dalle condizioni di crescita cellulare, dimostrando che la presenza di tale trasportatore porta alla sensibilizzazione delle cellule nei confronti dell’azione citotossica della gemcitabina (Garcia-Manteiga et al, 2003). Questi risultati suggeriscono che un’apparente mancanza di una delle isoforme dei trasportatori non è sempre correlata ad una totale incapacità di espressione del gene codificante, e che è possibile indurre la trascrizione del gene latente al fine di incrementare la sensibilità delle cellule verso il farmaco.

Le ricerche sui trasportatori nucleosidici hanno quindi aperto un nuovo fronte di indagine che può portare all'ideazione di interventi terapeutici per ottenere il superamento di fenomeni di resistenza e il miglioramento della risposta clinica nelle patologie tumorali per cui la gemcitabina costituisce il chemioterapico d’elezione.

2.3.2 Ruolo degli enzimi coinvolti nel metabolismo

La gemcitabina, per esercitare la sua azione citotossica, deve essere fosforilata nel metabolita trifosfato. L'enzima responsabile della prima fosforilazione, che rappresenta la reazione limitante nella formazione dei metaboliti attivi (Bouffard et al., 1993), è la deossicitidina chinasi, mentre la endo-5’-nucleotidasi e la citidina deaminasi catalizzano le principali reazioni del catabolismo (Bergman et al., 2002). Il ruolo degli enzimi responsabili dell’attivazione e degradazione della gemcitabina è attualmente oggetto di numerosi studi perché è possibile ipotizzarne un’importante influenza sulla sensibilità delle cellule neoplastiche a tale terapia (Ruiz van Haperen e Peters, 1994; Kroep et al., 1998).

2.3.2.1 Deossicitidina chinasi

La deossicitidina chinasi (dCK) appartiene alla famiglia delle nucleosidi chinasi, enzimi in grado di attivare i nucleosidi naturali e gli analoghi nucleosidici antivirali e antineoplastici, catalizzando la loro fosforilazione. Le proprietà cinetiche delle nucleosidi chinasi sono pertanto importanti sia per la regolazione del normale metabolismo dei nucleosidi che per l’attività farmacologica degli analoghi nucleosidici.

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In particolare, la dCK catalizza una delle reazioni enzimatiche della sintesi di salvataggio dei deossiribonucleotidi. Questa via sintetica di recupero fornisce deossiribonucleotidi per la sintesi e la riparazione del DNA riutilizzando basi e nucleosidi purinici e pirimidinici provenienti dal catabolismo di nucleotidi endogeni ed esogeni che sono introdotti nella cellula per mezzo di specifiche proteine carrier. I nucleosidi presenti all’interno della cellula possono essere infatti fosforilati ad opera di diverse chinasi, fra cui la dCK, nelle loro rispettive forme monofosfato, così da impedirne l’efflusso nell'ambiente extracellulare e garantire un importante risparmio energetico

La dCK ha una funzione fondamentale nel mantenimento dei pools dei deossiribonucleotidi naturali. E’ stato inizialmente ipotizzato che in presenza di un nucleoside trifosfato come donatore di un gruppo fosfato l’enzima fosse in grado di catalizzare la reazione che converte la 2’-deossicitidina nel corrispondente derivato 5’-monofosfato, con un basso valore della costante di Michaelis-Menten (Km). Allo stesso modo è stata avanzata l'ipotesi che esso fosse anche in grado di fosforilare la 2’- deossiguanosina e la 2’-deossiadenosina con un valore di Km significativamente più alto (Datta et al., 1989). Successivamente, Chottiner et al. (1991), dopo aver transfettato cellule murine prive dell’attività della dCK con un vettore d’espressione contenente un cDNA codificante per l’enzima, hanno confermato che la dCK ha una bassa Km per la deossicitidina (1 μM) ed è in grado di fosforilare anche gli altri due deossinucleotidi con Km rispettivamente di 120 e 150 μM.

Oltre ai deossiribonucleotidi naturali sopra citati, l’enzima fosforila diversi analoghi nucleotidici correntemente usati nella pratica clinica come la 1-β-D- arabinofuranosilcitosina (citosina arabinoside), la 2-clorodeossiadenosina (cladribina), la fludarabina e la gemcitabina (Plunkett et al., 1995; Dumontet et al., 1999). In particolare, la gemcitabina è il substrato per cui l’efficienza di fosforilazione da parte della dCK è maggiore, con un rapporto Vmax/Km pari a 19 (Iwasaki et al., 1997), ed esiste una notevole specificità nell’azione della dCK su tale farmaco (Shewach et al., 1992). In accordo con queste osservazioni, quando tutte le nucleoside chinasi delle cellule di leucemia mieloide umana K562 sono state separate per mezzo della cromatografia, la fosforilazione della gemcitabina è stata associata solamente con le frazioni contenenti dCK e non con quelle contenenti le altre nucleosidi chinasi citoplasmatiche (Gandhi e Plunkett, 2002). E’ stato inoltre dimostrato che linee cellulari mutanti dei carcinomi ovarici murino e umano CHO e A2780, essendo prive

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di dCK, non sono in grado di accumulare la forma trifosfata e sono resistenti alla terapia con gemcitabina (Heinemann et al., 1988; Ruiz van Haperen et al., 1994)

Per analizzare la specificità dell’azione della dCK è stata valutata anche la capacità dell’enzima, altamente purificato dai linfoblasti MOLT-4, di fosforilare la 2’- deossicitidina ed i suoi analoghi in presenza di otto nucleosidi 5’-trifosfato in concentrazioni simili a quelle presenti nell’ambiente cellulare. Tale studio ha dimostrato che l’UTP è il migliore donatore del gruppo fosfato. Lo stesso studio ha dimostrato anche che la presenza di UTP nella miscela dei nucleosidi-5’-trifosfato utilizzati come donatori fosfato determina una riduzione dell’attività inibente esercitata da dCTP sulla fosforilazione della 2’-deossicitidina catalizzata dalla dCK in presenza del solo ATP. Pertanto, nell’ambiente cellulare, nel quale dCTP è tipicamente inferiore a 20 µM e l’UTP è approssimativamente 1-2 mM, la dCK non è sostanzialmente inibita da dCTP (Shewach et al., 1992). Oltre ad essere un inibitore competitivo della dCK, dCTP è anche un cofattore richiesto per l’attività della dCMP deaminasi, enzima coinvolto nell’eliminazione dei nucleosidi monofosfati dalle cellule (Heinemann et al.,1992; Xu et al.,1992), pertanto gli studi che utilizzano uno specifico inibitore enzimatico per valutare il ruolo della dCK nell’attività della gemcitabina sono generalmente effettuati con la 2’-deossicitidina, che è il substrato naturale dell’enzima e compete direttamente con la gemcitabina per la reazione di fosforilazione, senza interferire con altri enzimi del metabolismo della dFdCMP (Heinemann et al., 1988). E’ stato infatti dimostrato che la simultanea incubazione delle cellule con 2’-deossicitidina e gemcitabina riduce l’accumulo della gemcitabina trifosfato in modo concentrazione-dipendente (Hertel et al., 1990).

Esistono numerosi studi che dimostrano l’importanza della dCK nell’azione della gemcitabina e degli altri analoghi nucleosidici attivati da tale enzima. Ad esempio, la trasduzione del gene che codifica per la dCK per mezzo del vettore retrovirale LNPO nelle linee tumorali umane di carcinoma mammario MCF-7, di adenocarcinoma del colon HT-29 e di tumore polmonare a piccole cellule H1437, determina un incremento del contenuto dell’mRNA e dell’attività enzimatica che si associa con una correlazione di tipo lineare all’aumento della sensibilità nei confronti di citarabina e cladribina (Hapke et al., 1996). Altri studi hanno invece evidenziato il ruolo del deficit della dCK nell’insorgenza di fenomeni di resistenza alla gemcitabina nelle linee cellulari di leucemia murina L4A6 e Bara-C (Bergman et al., 1999). Nelle linee di tumore polmonare umano a piccole cellule resistenti alla daunorubicina e al teniposide, H69/DAU e NYH/VM, in cui è però presente una maggiore sensibilità alla

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gemcitabina, si osserva invece un incremento di 2,0-4,3 volte dell’attività enzimatica della dCK (Bergman et al., 2001). Tutti questi risultati confermano il ruolo della dCK nell’attivazione della gemcitabina e nella conseguente efficacia di questo farmaco nella terapia.

2.3.2.2 Endo 5’-Nucleotidasi

La endo 5’-nucleotidasi (5’-NT) appartiene alla famiglia delle nucleotidasi in grado di idrolizzare i 5’-mononucleotidi. Tali enzimi sono classificati in quattro gruppi distinti, sulla base della struttura molecolare, dei differenti aspetti funzionali e delle differenti localizzazioni cellulari. Il primo gruppo comprende una forma di 5’- nucleotidasi, detta ecto-5’-nucleotidasi, localizzata sulla superficie cellulare e ancorata alla membrana tramite il glicosilfosfatidilinositolo. Questo enzima è in grado di defosforilare i ribonucleotidi e i deossiribonucleotidi purinici e pirimidinici monofosfato nella forma 5’-monofosfato, ma non nella forma 2’- o 3’-monofosfato, ed è coinvolto principalmente nell’idrolisi del 5’-AMP a adenosina (Zimmermann, 1992).

Diversi studi ne hanno dimostrato l’importanza nel metabolismo della fludarabina, perché determina la defosforilazione del farmaco 5’-monofosfato nel sangue, favorendo l’ingresso del chemioterapico all’interno delle cellule (Galmarini et al., 2001).

Nel secondo gruppo è compresa la forma detta 5’-nucleotidasi solubile, derivata verosimilmente da quella ancorata alla membrana, poiché presenta caratteristiche simili a quelle dell’ecto-enzima. Probabilmente una fosfolipasi C endogena, specifica per il glicosilfosfatidilinositolo, è responsabile della conversione della forma legata alla membrana nella forma solubile (Zimmermann, 1992).

Esistono infine due forme citoplasmatiche, anch’esse specifiche per i nucleosidi 5’-monofosfato, dette endo-5’-nucleotidasi, simili per caratteristiche, ma chiaramente distinte sulla base della loro preferenziale affinità per AMP o IMP; nel primo caso l’enzima è indicato come c-N-I e nel secondo come c-N-II, e si ritiene che tali forme siano rispettivamente coinvolte nel controllo dei livelli intracellulari di AMP e IMP. L’endo-5’-nucleotidasi con preferenziale affinità per l’AMP è stata isolata solamente nel cuore dei vertebrati, mentre l’enzima c-N-II, che idrolizza preferibilmente IMP, e per questa ragione è talvolta denominata IMPasi, è stata identificata in numerosi tessuti di invertebrati e vertebrati, tra cui il pancreas ed il polmone (Flocke e Mannherz, 1991; Itoh et al., 1992).

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La 5’-NT è un’idrolasi dotata di attività fosfotransferasica e, come nel caso di molti enzimi trasferenti fosfato, è stato ipotizzato che l’idrolisi del fosfato proceda attraverso la formazione di un intermedio enzima-fosfato, il quale può trasferire il fosfato sia all’acqua, operando così con un’attività idrolitica, sia ad alcuni appropriati accettori nucleosidici, agendo così come fosfotransferasi con attività interconvertente.

La formazione di un intermedio fosforilato è stata dimostrata recentemente, grazie all'identificazione dopo autoradiografia del fosfoenzima marcato con 32P. In questo modo si è inoltre ottenuta una prova indiretta del coinvolgimento dei residui di istidina e cisteina nella catalisi (Baiocchi et al., 1996). L’importanza dei residui di istidina nell’azione delle nucleotidasi è dimostrata anche da studi con il dietilpirocarbonato che, reagendo con l’istidina 135, determina una rapida inattivazione enzimatica sia delle endo che delle ecto-nucleotidasi (Hicks-Berger et al., 2001). L’inibizione della 5’-NT da parte del dietilpirocarbonato a concentrazione 100 μM è completamente annullata da NH2OH, che riattiva residui di istidina e serina, mentre non può agire su alterazioni dei residui di cisteina (Worku et al., 1984).

Per quanto riguarda la specificità dell’azione della 5’-NT, il destino del fosfato legato al sito attivo dell’enzima, dipende dalla presenza di un nucleoside accettore, come l’inosina o la deossiinosina, e dalla concentrazione del fosfato e di ATP. Infatti, in presenza di una concentrazione millimolare di fosfato, l’enzima si comporta principalmente come una fosfotransferasi, essendo il nucleoside un migliore accettore di fosfato rispetto all’acqua (Pesi et al., 1994). Il fosfato, però, può essere trasferito solamente ad un numero ristretto di substrati accettori, tra i quali non è compresa la gemcitabina, escludendo quindi la possibilità di una sua attivazione da parte di questo enzima. Al contrario, la 5’-NT è coinvolta nella inattivazione di questo chemioterapico, perché, determinando la defosforilazione della dFdCMP a dFdC, ostacola la formazione del metabolita attivo e favorisce l’uscita del farmaco dalla cellula. La presenza di elevati livelli e di un aumento dell’attività dell’enzima 5’-NT, è infatti alla base di fenomeni di resistenza nei confronti dell’intera famiglia di farmaci antitumorali analoghi nucleosidici in quattro varianti della linea cellulare leucemica umana K562 (Dumontet et al.,1999). In tali cellule è stata trovata una delezione nella regione del cromosoma 6 che contiene il gene della 5’-NT ed è stato ipotizzato che l’aumentata attività della nucleotidasi (da 4 a 14 volte) sia dovuta ad una sovraespressione dell’enzima. Il medesimo studio ha evidenziato anche la presenza, nelle linee cellulari resistenti alla terapia, di una riduzione di circa il 75% dei livelli

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della dCK, che potrebbe parimenti contribuire alla diminuzione delle concentrazioni degli analoghi trifosfato dimostrata in queste varianti cellulari. Una simile prova dell’ipotesi che alla base dell’attività degli analoghi nucleosidici possa esserci una variazione dell’espressione genica di vari enzimi del metabolismo è stata ottenuta tramite un’analisi di PCR quantitativa nelle linee leucemiche resistenti alla cladribina e alla fludarabina, in cui è stata osservata una diminuzione dei livelli di mRNA della dCK in parallelo con un leggero aumento dell’espressione dell’enzima 5’-NT nella linea di leucemia mieloide HL-60 resistente alla fludarabina (Månsson et al., 1999).

2.3.2.3 Citidina deaminasi

La citidina deaminasi (CDA) appartiene alla famiglia delle deaminasi, enzimi caratterizzati da una notevole conservazione filogenetica del dominio funzionale, localizzato alla terminazione 5’ di una sequenza consenso di 42 aminoacidi. In particolare, l’enzima CDA umano, di cui è stata registrata un’elevata attività nel fegato, nella milza e nella mucosa intestinale, è composto da quattro subunità identiche molto vicine, ciascuna di 16 Kda, la cui sequenza amminoacidica è stata ricavata a partire dal rispettivo cDNA (Kuhn et al., 1993; Lalibertè et al., 1994). Studi successivi hanno localizzato il gene umano che codifica per la CDA sul cromosoma 1 (Saccone et al., 1994) e analisi Southern Both effettuate su placente umane hanno dimostrato che tale gene ha una dimensione approssimativa di 31 Kb ed è formato da quattro esoni (Demontis et al., 1998).

La CDA oltre ad essere l'enzima responsabile della deaminazione di citidina e deossicitidina rispettivamente ad uridina e deossiuridina, riveste una particolare importanza dal punto di vista farmacologico nell'ambito della terapia di neoplasie solide ed ematologiche. Infatti, la CDA catalizza la principale reazione del catabolismo della gemcitabina e della citarabina, determinandone l'inattivazione, e diversi studi hanno dimostrato che la presenza di un incremento dell’attività della CDA causa la comparsa di fenomeni di resistenza all’azione di tali farmaci (Neff e Blau, 1996; Eliopoulos et al., 1998). In particolare, una ricerca effettuata su pazienti affetti da leucemia mieloide acuta ha rivelato l'esistenza di un'importante correlazione fra l'espressione genica e l'attività della CDA e la risposta terapeutica alla citarabina. L'analisi dell'espressione genica della CDA mediante una RT-PCR semiquantitativa ha infatti dimostrato che la trascrizione del gene che codifica per la CDA è direttamente proporzionale all'incremento dell'attività di tale enzima e potrebbe essere utile per lo sviluppo di interventi terapeutici mirati. Nei pazienti in

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remissione completa è stata infatti registrata una attività media di CDA significativamente inferiore rispetto ai soggetti che presentavano ancora cellule leucemiche dopo il trattamento chemioterapico (Schroeder et al., 1998). Risultati simili sono stati descritti da Jahns-Streubel et al. (1997), che, oltre alla CDA, hanno studiato la dCK, dimostrando l'esistenza di una correlazione fra l'espressione genica e l'attività di entrambi questi enzimi e la risposta terapeutica in 36 pazienti affetti da leucemia mieloide acuta in terapia con citarabina.

La scoperta del ruolo della CDA nell'azione degli analoghi nucleosidici è stata alla base di diverse ricerche per ideare nuove strategie terapeutiche per la cura delle neoplasie. Innanzitutto, sono stati effettuati studi su sostanze che agiscono da inibitori enzimatici della CDA e che, prevenendo l'inattivazione dei suddetti farmaci, potrebbero essere molto utili nella pratica clinica (Laliberté et al., 1992). La 3,4,5,6- tetraidrouridina è stato il primo potente inibitore competitivo della CDA utilizzato in studi in vitro per valutare l’influenza esercitata dalla deaminazione sull’attività antitumorale della citarabina (Yusa et al., 1992). Studi recenti dimostrano che la tetraidrouridina alla concentrazione 100 μM aumenta l’effetto inibitorio esercitato dalla gemcitabina sulla crescita di cellule 3T3-CD3-V5 dall’8,4 al 60,3-98,5%

(Eliopolous et al., 1998), mentre Eda et al. (1998) hanno dimostrato che la tetraidrouridina alla concentrazione 50 μM aumenta l’attività citotossica della gemcitabina in diverse linee cellulari tumorali, tra cui le cellule di carcinoma pancreatico AsPC-1 e BxPC-3 e le cellule di tumore polmonare non a piccole cellule LX-1.

Altre ricerche su nuovi interventi terapeutici che coinvolgono la CDA sono state rese possibili dalla caratterizzazione del cDNA (Laliberté e Momparler, 1994), che ha permesso di effettuare esperimenti di transfezione virale in fibroblasti e cellule emopoietiche di topo che potrebbero avere importanti sviluppi nella pratica clinica (Momparler et al., 1996). Poiché la tossicità ematologica rappresenta la tossicità dose-limitante nella terapia con citarabina e gemcitabina, l'inserzione del gene che codifica per la CDA potrebbe infatti essere utilizzata come terapia genica contro gli effetti nocivi esercitati da tali farmaci a livello delle cellule emopoietiche. I risultati di tali studi dimostrano in effetti che è possibile ottenere una aumentata espressione della CDA, responsabile di resistenza alla citotossicità della citarabina nelle cellule emopoietiche transfettate, ed è pertanto ipotizzabile l'ideazione di un intervento di chemoprotezione genica che potrebbe migliorare la tollerabilità nei confronti degli

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analoghi nucleosidici nella terapia antitumorale (Eliopoulos et al., 1998; Beausejour et al., 2001).

Infine, sono stati effettuati recentemente anche diversi studi su nuovi analoghi nucleosidici caratterizzati da una minore suscettibilità alla deaminazione da parte della CDA rispetto alla gemcitabina. Ad esempio la 2'-deossi-2'-metilencitidina (DMDC) è un nuovo antimetabolita la cui efficacia è correlata in maniera statisticamente significativa (P=0,0071) con i livelli di CDA presenti in tessuti tumorali ottenuti in seguito al trapianto di diverse linee cellulari fra cui le cellule di tumore polmonare A549 (Miwa et al., 1998). Poiché la tetraidrouridina riduce l'effetto antiproliferativo della DMDC è stato ipotizzato che il fattore determinante per l'azione di tale sostanza sia in realtà la concentrazione della deossicitidina, che è il substrato naturale della dCK. Il contenuto di deossicitidina è infatti inversamente proporzionale all'attività della CDA e, nei tumori caratterizzati dalla maggiore attività della CDA, la ridotta concentrazione intracellulare di deossicitidina può favorire l'attivazione della DMDC a DMDCCMP ad opera della dCK (Eda et al., 1998).

Osservazioni simili sono state effettuate con la β-L-dioxolano citidina (troxacitabina), che ha dimostrato di possedere una maggiore efficacia nei confronti di neoplasie solide ed ematologiche resistenti alla citarabina a causa della sovraespressione della CDA (Gourdeau et al., 2001). Successivi studi sui meccanismi di resistenza a tale farmaco hanno poi dimostrato che la ridotta deaminazione della deossicitidina può contribuire, così come il deficit della dCK, alla ridotta suscettibilità delle cellule tumorali (Gourdeau et al., 2001).

Tutti questi risultati permettono di ipotizzare che la conoscenza dei livelli di espressione ed attività degli enzimi responsabili del metabolismo presenti nelle cellule neoplastiche possa predire l'efficacia della terapia con gli analoghi nucleosidici, e che, sulla base delle caratteristiche enzimatiche dei tumori, possa essere ideata una chemioterapia antitumorale mirata.

2.3.3 Inibizione della ribonucleotide reduttasi

La ribonucleotide reduttasi (RR) appartiene alla famiglia degli enzimi che catalizzano la reazione limitante nella sintesi dei desossinucleotidi a partire dai ribonucleotidi difosfato mediante la sostituzione del gruppo ossidrilico con un atomo di idrogeno nella posizione 2' dell'unità di ribosio. Esistono tre tipi di ribonucleotide reduttasi di cui quello contenente Ferro non eme nei siti attivi dell'enzima,

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rappresenta la varietà distribuita negli eucarioti. Il meccanismo attraverso cui questo enzima catalizza la reazione di riduzione dei ribonucleotidi è molto complesso. La RR è infatti costituita da due subunità, chimate M1 ed M2. La subunità M1, oltre a contenere i siti di legame per i substrati ribonucleotidici, contiene due siti allosterici, che controllano l'attività totale dell'enzima. Tale controllo avviene tramite il legame di dATP o ATP: il primo costituisce il segnale della presenza di elevate quantità di desossiribonucleotidi e determina, con un meccanismo di feedback negativo, la riduzione dell'attività dell'enzima; viceversa il legame con ATP ne facilita l'azione (Wright et al., 1990). La subunità M2 è invece coinvolta direttamente nell'azione dell'enzima che è correlata alla sintesi del DNA ed è pertanto più attiva in fase S del ciclo cellulare. Tale subunità inoltre contiene un radicale libero tirosile che costituisce il bersaglio su cui agisce specificamente l'inibitore idrossiurea (Wong et al ., 1999).

Poiché le cellule tumorali sono caratterizzate da una proliferazione abnorme e richiedono un abbondante rifornimento di nucleotidi, sono stati studiati diversi farmaci che, inibendo selettivamente la formazione degli acidi nucleici o dei loro precursori, possono arrestare la crescita incontrollata dei tumori.

Anche la gemcitabina esercita la sua azione antitumorale principalmente mediante l'inibizione della DNA polimerasi e l'arresto della sintesi del DNA (Huang et al., 1991).

Inoltre, diversi metaboliti della gemcitabina possono influenzare l'attività degli enzimi implicati nel mantenimento dei pools dei nucleotidi. In particolare, l’intermedio dFdCDP inibisce la ribonucleotide reduttasi che catalizza la reazione limitante nella sintesi dei deossiribonucleotidi a partire dai ribonucleotidi difosfato.

Diversi studi hanno dimostrato che l'analogo nucleosidico fludarabina trifosfato inibisce la ribonucleotide reduttasi interagendo con il sito allosterico per il dATP (White et al., 1982; Gandhi e Plunkett, 2002). Per quanto riguarda invece l'azione inibitoria della gemcitabina, la presenza di una coppia di atomi di fluoro al posto dei due atomi di idrogeno al livello del carbonio 2' permette di ipotizzare che tale farmaco possa colpire l’attività della ribonucleotide reduttasi mediante un'inibizione di tipo competitivo, essendo proprio il carbonio 2’ il sito nel quale si focalizzano le azioni di questo enzima (Plunkett et al., 1996). In accordo con tale ipotesi, nelle cellule trattate con gemcitabina è stata osservata una diminuzione dei deossiribonucleotidi e tale decremento è direttamente proporzionale alla concentrazione della gemcitabina e al periodo d’incubazione (Heinemann et al., 1990). Studi successivi, eseguiti utilizzando l’enzima umano parzialmente purificato,

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hanno permesso di individuare come metabolita inibitore la dFdCDP (Heinemann et al.,1990) e questo risultato è stato confermato ed ampliato da Baker che, usando l’enzima di E. Coli, ha dimostrato che la dFdCDP agisce come un substrato alternativo in grado di inibire irreversibilmente la ribonucleotide reduttasi (Baker et al.,1991). Però, sebbene lo studio dell’enzima purificato in vitro consenta di impostare gli esperimenti a concentrazioni note dei reagenti e fornisca informazioni utili, l’atto stesso di rompere la cellula per purificare la proteina annulla i meccanismi regolatori che sono presenti nelle cellule intatte. Per valutare la reale azione inibitoria della gemcitabina sull’enzima sottoposto ai fisiologici fenomeni di regolazione, è stato pertanto necessario effettuare prove in situ, che hanno permesso di stimare l’attività della ribonucleotide reduttasi nelle cellule intatte. La misurazione della sintesi intracellulare dei deossiribonucleotidi a partire da ribonucleosidi radioattivi, forniti dall’esterno, ha permesso di osservare, nelle cellule linfoblastoidi CCRF-CEM, una diminuzione nella conversione della citidina difosfato al rispettivo deossiribonucleotide, inversamente proporzionale all’accumulo di gemcitabina (Heinemann et al.,1990). L’attività della ribonucleotide reduttasi è stata infatti inibita di valori del 50% e del 90% quando le cellule hanno accumulato rispettivamente 0,3 e 1 μmol/L di dFdCDP. La notevole potenza inibitoria della gemcitabina sulla ribonucleotide reduttasi è stata infine dimostrata dal fatto che una simile inibizione dell’enzima è stata osservata nelle stesse cellule incubate con una concentrazione di almeno 1 mmol/L di idrossiurea, che è un inibitore specifico della ribonucleotide reduttasi (Heinemann et al., 1990).

2.3.4 Modulazione del ciclo cellulare

Il ciclo cellulare è il meccanismo alla base della proliferazione cellulare.

Durante il ciclo, le cellule passano da una fase presintetica (G1) a una fase di sintesi del DNA (S) a cui fa seguito una fase postsintetica (G2) e una di mitosi (M), in cui avviene la ripartizione del contenuto di DNA in due cellule figlie. Terminata la mitosi una cellula può rientrare nella fase G1 e quindi andare incontro ad un altro ciclo replicativo, o passare in uno stato non proliferativo detto G0, dal quale, in presenza di opprotuni stimoli, può uscire nuovamente per rientrare nel ciclo o per avviarsi al differenziamento terminale (Barnes et al., 1995).

Esistono numerosi meccanismi che regolano il ciclo cellulare e che possono essere influenzati sia da stimoli endogeni che da fattori esterni, fra cui i farmaci che

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agiscono sui sistemi che modulano la replicazione delle cellule, come la maggior parte dei chemioterapici.

La conoscenza degli effetti dei farmaci antitumorali sulla progressione cellulare nelle varie fasi del ciclo cellulare riveste una notevole importanza nella pratica clinica, in particolar modo nei casi in cui sia effettuata una terapia combinata (Shah e Schwartz, 2001). Infatti, se due farmaci agiscono su due fasi del ciclo diverse e sequenziali, il chemioterapico che agisce sulla fase più precoce potrebbe bloccare le cellule in questa fase e non permettere l’azione del secondo farmaco producendo così, nel caso di trattamento simultaneo, un’azione antagonista.

La gemcitabina, come tutti gli antimetaboliti, esercita la sua azione su cellule in attiva replicazione e diversi studi citofluorimetrici hanno dimostrato la sua capacità di modulare il ciclo cellulare favorendo l’accumulo in fase S. Ad esempio, Ostruszka e Shewach (2000), studiando le due linee di glioblastoma umano U251 e D54, esposte a concentrazioni di gemcitabina di 10 e 25 nM per 24 ore, hanno registrato un aumento del numero di cellule in fase S, che permane per le successive 72 ore. Però, mentre nella linea U251, al termine del trattamento, più del 70% di cellule si trovavano in fase S, nell’altra linea la percentuale di cellule in attiva replicazione era solo del 37%. Quest’ultimo risultato è simile a quello riportato in diversi studi sulla linea cellulare di carcinoma del colon HT-29 (Shewach et al., 1994;

Lawrence et al., 1997) e permette di ipotizzare che la presenza di una proteina p53 mutata, che caratterizza sia le cellule D54 che le HT-29, determini un blocco in fase G1 che riduce in modo statisticamente significativo il passaggio delle cellule in fase S.

Tale blocco sembra anche essere implicato, nella riduzione della tipica radiosensibilizzazione indotta dalla gemcitabina in vari modelli sperimentali in vitro ed in vivo (Milas et al., 1999; Mason et al., 1999). L’azione della gemcitabina sul ciclo cellulare può essere infatti influenzata da numerosi fattori attivi sul controllo della proliferazione delle cellule e, anche in base a tali determinanti molecolari, le diverse linee cellulari tumorali possono di conseguenza avere una differente sensibilità nei confronti del farmaco in studio.

Alcune linee cellulari di tumore pancreatico sono state oggetto di studi per valutare l’effetto della gemcitabina sul ciclo cellulare. Ng et al. (2000) hanno studiato le linee cellulari di adenocarcinoma pancreatico PK1 e PK8, che, come l’80% dei tumori del pancreas studiati nella pratica clinica (Pellegata et al., 1994), hanno una mutazione del gene K-RAS e sono molto resistenti all’azione dei farmaci. In queste cellule l’esposizione per 48 ore alla gemcitabina ad una concentrazione pari a 20 μM

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determina una perturbazione del ciclo cellulare, con aumento del contenuto di cellule della fase G1/S e contemporanea riduzione delle cellule in fase G2/M. Risultati simili sono stati ottenuti in studi sul ciclo cellulare effettuati sulle linee di carcinoma pancreatico BxPC-3 e MIA PaCa-2. Utilizzando concentrazioni di gemcitabina pari a 10 e 20 nM per periodi di esposizione di 24 e 3 giorni, in entrambe le suddette linee cellulari è stata infatti registrata una modulazione del ciclo cellulare dose dipendente, con un aumento statisticamente significativo (P<0,005) del contenuto percentuale di cellule in fase S rispetto al controllo. In particolare, nelle cellule MIA PaCa-2, dopo il trattamento per 24 ore con gemcitabina alla concentrazione 20 nM, la percentuale di cellule in fase S aumenta dal 26 al 49% e, dopo il trattamento per 3 giorni, arriva addirittura all’81% (Yip-Schneider et al., 2001).

Anche per quanto riguarda le neoplasie polmonari non a piccole cellule sono stati eseguiti vari studi al fine di valutare l’effetto della gemcitabina sul ciclo cellulare.

Ad esempio Kroep et al. (2000) hanno analizzato le variazioni del ciclo cellulare indotte dalla gemcitabina sulle linee tumorali umane H322 e H460. In tale studio, gli istogrammi sul contenuto di DNA registrati dopo 4, 24 e 72 ore di esposizione a concentrazioni pari all’IC50 seguite da wash-out rispettivamente di 68, 48 e 0 ore, dimostrano che la gemcitabina causa un accumulo delle cellule nella fase S; così come nelle cellule A549 esposte per un periodo di 24 ore ad una concentrazione di gemcitabina pari a 10 μM (Bandala et al., 2001).

2.3.5 Induzione di apoptosi

Il termine apoptosi indica una particolare modalità di morte cellulare che richiede una partecipazione attiva della cellula. Essa è caratterizzata da una serie di variazioni morfologiche, biochimiche e molecolari, ampiamente descritte in letteratura (Wyllie, 1992; Hickman, 1992). Durante il processo apoptotico, la cellula, in risposta ad un appropriato stimolo endogeno o esogeno, mette in azione una serie di eventi programmati che determinano degradazione del DNA, condensazione della cromatina e frammentazione nei corpi apoptotici che in vivo vengono rapidamente fagocitati dai macrofagi o dalle cellule epiteliali e fibroblasti confinanti, senza reazioni infiammatorie (Compton, 1992; Dive e Hickman, 1991).

In oncologia l’interesse nei confronti dell’apoptosi nasce dall’osservazione che le cellule di diverse neoplasie sottoposte a trattamenti con farmaci antitumorali e radiazioni ionizzanti possono morire con tali modalità (Hickman, 1992). Inoltre,

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molti studi hanno dimostrato che l’efficacia di vari farmaci chemioterapici è correlata alla capacità di indurre apoptosi (Kaufmann, 1996; Szende et al., 1989; Tritton, 1991).

La possibilità di modulare questo processo fornisce pertanto uno strumento molto importante per l’ideazione di nuove strategie atte a migliorare l’azione dei chemioterapici.

Numerose ricerche hanno dimostrato che la gemcitabina esercita parte della sua azione citotossica mediante l’induzione di apoptosi. In particolare, Huang e Plunkett (1995), per primi, hanno studiato l’apoptosi indotta dalla gemcitabina nella linea leucemica CCRF-CEM. L’incubazione di tali cellule con gemcitabina a una concentrazione 1 μmol/L, determina infatti, dopo un periodo di 4 ore, la comparsa di tutte le anomalie morfologiche descritte durante il processo apoptotico. Inoltre, l’analisi della migrazione del DNA mediante elettroforesi su gel di agarosio, ha permesso di osservare la presenza dei tipici frammenti multipli di 180 paia di basi, che si formano per l’azione delle specifiche endonucleasi attivate durante la fase finale dell’apoptosi.

Studi successivi hanno dimostrato la capacità della gemcitabina di innescare il processo apoptotico anche in diverse linee cellulari di tumori solidi. Ad esempio, l’analisi con il microscopio elettronico ha rivelato la presenza delle alterazioni morfologiche associate all’apoptosi in cellule di carcinoma ovarico BG-1 esposte per 8 ore a concentrazioni di gemcitabina comprese fra 0,5 e 10 μM (Cartee e Kucera, 1998), mentre la misurazione citofluorimetrica del contenuto di DNA nel picco sub- G1 ha dimostrato che il trattamento per 24 ore con gemcitabina in concentrazioni pari all’IC10 e all’IC50 determina l’induzione di apoptosi nel 16,9-21,1% delle cellule di glioblastoma U251 (Ostruszka e Shewach, 2000). Ferreira et al. (2000) hanno invece studiato sei linee cellulari di tumore polmonare (H460, H322, GLC4, GLC4/ADR, H187 e N417), valutando i meccanismi alla base dell’apoptosi innescata dalla gemcitabina e da altri chemioterapici.

In questi meccanismi sono coinvolte a vari livelli le vie di traduzione del segnale che regolano i processi di crescita e divisione, quelle direttamente collegate agli eventi tipici della morte cellulare programmata e quelle che svolgono invece un ruolo protettivo indirizzando la cellula verso la sopravvivenza.

A tale proposito negli ultimi anni è stato dimostrato che la via di trasduzione del segnale che comprende le proteine Akt svolge un ruolo primario non solo nello sviluppo del cancro ma anche nella risposta al trattamento con vari antiblastici, fra

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cui la gemcitabina; questo sistema di trasduzione infatti contribuisce in modo decisivo alla resistenza delle cellule tumorali (Fresno Vara et al., 2004).

Strutturalmente le proteine chinasi B o Akt costituiscono una famiglia di chinasi che comprende tre isoforme, Akt1, Akt2 e Akt3, strettamente correlate tra loro. Ciascuna isoforma presenta nella regione N-terminale un dominio plexstrina omologo (PH) comprendente circa 100 aminoacidi a cui fa seguito un dominio ad attività chinasica che presenta analogia con quelli delle protein chinasi A e C; in questa regione è presente un residuo di treonina (T308 in Akt1) la cui fosforilazione è essenziale per l’attivazione di Akt. All’estremità C-terminale, contenuto all’interno di un motivo idrofobico, è presente un secondo sito regolatorio rappresentato da un residuo di serina (S473 in Akt1); la completa attivazione dell’azione enzimatica di Akt richiede la fosforilazione di entrambi i suddetti siti (Alessi et al., 1996).

Tale fosforilazione è promossa da vari stimoli extracellulari mediante i recettori tirosin chinasici, la cui attivazione porta alla produzione del secondo messaggero fosfatidilinositolo-3,4,5-trifosfato (PI-3,4,5-P3) per mezzo dell’enzima fosfatidilinositol-3 chinasi (PI3K) (Fruman et al., 1998) . L’interazione di Akt con il secondo messaggero avviene per mezzo del dominio PH (Pawson et al., 2000), e provoca la migrazione della proteina verso la faccia citoplasmatica della membrana dove il fosfolipide è localizzato, determinando anche un cambiamento conformazionale che permette l’esposizione dei due residui aminoacidici che fungono da siti regolatori. Il sito T308 viene fosforilato ad opera di un chinasi fosfoinositide- dipendente chiamata PDK1; per tale fosforilazione è necessaria la medesima localizzazione delle due proteine coinvolte, e ciò avviene per mezzo dello stesso PI- 3,4,5-P3 che lega PDK1 agendo da molecola ponte (Biondi et al., 2001; Collins et al., 2003). Anche la fosforilazione del residuo S473 avviene ad opera di una chinasi fosfoinositide-dipendente, la cui identificazione è però tuttora controversa (Hanada et al., 2004). La fosforilazione di entrambi i residui consente alla proteina Akt di esplicare la sua attività di serina/treonina chinasi.

L’attivazione di Akt è in grado di modulare le funzioni di numerosi substrati coinvolti nella regolazione della crescita, del ciclo e della sopravvivenza cellulare. In particolare, la fosforilazione della proteina Akt può promuovere la sopravvivenza cellulare mediante diversi meccanismi:

Interagisce con BAD, una proteina che lega Bcl-2 e Bcl-x, formando un complesso localizzato sulla membrana miticondriale, e ne inibisce la potenziale attività anti- apoptotica; una volta fosforilata da Akt, BAD è rilasciata dal complesso e non può

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più esercitare la sua azione antagonista su Bcl-2 e Bcl-x (Del Peso et al., 1997;

Datta et al., 1997).

Fosforila la pro-caspasi 9 inibendo così la scissione proteolitica, indotta dal citocromo C , necessaria per la formazione dell’enzima attivo caspasi 9 che agisce da iniziatore e da effettore delle reazioni a cascata alla base del processo apoptotico (Cardone et al, 1998).

Fosforila tre chinasi a monte della protein chinasi attivata da stress (SAPK), causandone l’inibizione. Poiché una delle principali conseguenze dell’attivazione della via della SAPK è la promozione dell’apoptosi, anche in questo caso l’azione di Akt costituisce un importante fattore di sopravvivenza cellulare (Barthwal et al., 2003; Kim et al., 2001; Park et al., 2002).

Sono state effettuate numerose ricerche sulla capacità di vari agenti chemioterapici di indurre morte cellulare programmata interferendo con i segnali anti-apoptotici mediati da Akt. Ad esempio, esperimenti sull'azione citotossica del topotecano nei confronti delle cellule di adenocarcinoma polmonare A549 hanno dimostrato che tale farmaco, oltre ad essere un inibitore dell’enzima topoisomerasi I, è anche in grado di ridurre la fosforilazione di Akt, inattivando le chinasi a monte di quest’ultima: concentrazioni di topotecano superiori a 1 μM causano la completa soppressione dell’attività enzimatica sia di PDK1 che di PI3K (Nakashio et al., 2000).

Altri recenti lavori sperimentali hanno invece avuto il merito di chiarire il ruolo del sistema di traduzione PI3K-Akt nell’induzione di apoptosi mediata dalla gemcitabina nelle linee cellulari di tumore pancreatico PK1 e PK8. L’analisi del ciclo cellulare eseguita su tali linee, dopo il trattamento con gemcitabina alla concentrazione di 20 μM per 48 ore, ha rilevato un accumulo di cellule nella fase S precoce, in accordo con il meccanismo d’azione del farmaco, ma, allo stesso tempo, ha messo in luce come solo una piccola percentuale di cellule andasse incontro ad apoptosi. Questa evidenza sperimentale può essere spiegata sulla base delle anomalie genetiche espresse dalle linee cellulari in studio; tali mutazioni, infatti, possono portare ad un aumento dell’attività della via PI3K-Akt, garantendo la sopravvivenza cellulare anche in presenza di stimoli citotossici. I ricercatori hanno pertanto analizzato l’apoptosi indotta dalla gemcitabina in presenza di specifici inibitori del suddetto sistema di trasduzione, quali la wortmannina e l'LY294002, rilevando un notevole aumento delle cellule che andavano incontro a morte cellulare programmata. E' stato inoltre dimostrato che tale risultato è strettamente correlato con la riduzione del livello di proteina Akt fosforilata, che ne rappresenta la

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componente attiva (Ng et al., 2000).

Simili conclusioni incoraggiano ulteriori ricerche riguardo la potenziale attività terapeutica degli inibitori specifici del sistema PI3K-Akt, e sottolineano anche l’importanza della valutazione della modulazione dei livelli di Akt fosforilata nell’ambito di uno studio farmacologico di combinazione di altri chemioterapici con la gemcitabina, al fine di individuare associazioni che possano favorire il superamento di fenomeni di resistenza nei confronti dell’induzione di apoptosi e incrementare l’attività antitumorale di tale farmaco.

2.4 Studi in vitro

Gli studi in vitro rappresentano una tappa essenziale nella ricerca e nello sviluppo di nuovi farmaci. Infatti, una volta identificate sostanze potenzialmente attive in terapia, è necessario disporre di modelli sperimentali validi, cioè modelli preclinici che riproducono le caratteristiche della malattia su cui si vuole intervenire.

In particolare, per l'ideazione di strategie innovative per l'associazione di chemioterapici che possano garantire risultati più soddisfacenti in termini di efficacia antitumorale e di tollerabilità, è fondamentale la valutazione dell’azione delle molecole su linee cellulari tumorali in coltura. Tali studi in vitro permettono infatti di studiare gli effetti di un farmaco sulla modulazione del ciclo cellulare e sull'espressione genica di molecole coinvolte nell'azione di altri chemioterapici, in modo da comprenderne il tipo di interazione e progettare associazioni che possiedano maggiore attività contro la massa tumorale in vivo.

Numerosi studi su modelli sperimentali in vitro hanno dimostrato che la gemcitabina possiede un'importante attività antiproliferativa contro un'ampia varietà di neoplasie, fra cui diverse linee cellulari di tumore polmonare (Pace et al., 2000).

2.4.1 Studi in monoterapia

Sono stati effettuati numerosi studi per valutare la citotossicità della gemcitabina su varie linee cellulari tumorali. In particolare sono state prese in considerazione le cellule delle più importanti neoplasie solide tra cui quella dell'ovaio, del colon, del pancreas e del polmone ed in molti casi è stata riscontrata una notevole attività citotossica, correlata sia alla dose che al tempo di esposizione (Bergman et al., 1996).

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Ad esempio, van Moorsel et al. (1998) hanno studiato 19 linee cellulari di tumori solidi (9 polmonari, 6 di colon retto, 3 ovarici e 1 di testa e collo) dimostrando che la sensibilità alla gemcitabina dipende dal tipo istologico e che esiste un'evidente correlazione fra l'azione citotossica e l'accumulo di dFdCTP. E' stato anche ipotizzato che proprio la prolungata ritenzione di dFdCTP a livello intracellulare sia alla base della maggiore efficacia nei confronti delle neoplasie solide dimostrata dalla gemcitabina rispetto agli altri analoghi nucleosidici, fra cui in particolare la citarabina, utilizzata solo nella terapia della leucemia (Rajkumar e Adjei, 1998). Studi successivi su diverse linee di cellule tumorali hanno dimostrato che, oltre all'accumulo di dFdCTP, la sensibilità alla gemcitabina è correlata sia al contenuto dei diversi nucleotidi presenti all'interno delle cellule esposte (van Moorsel et al., 2000), che alle differenti attività degli enzimi implicati nel metabolismo, ed in particolare all’azione della dCK (Bergman et al., 2002).

Per quanto riguarda i tumori polmonari non a piccole cellule, l'effetto antiproliferativo della gemcitabina è stato saggiato sia su adenocarcinomi che su carcinomi di tipo squamoso. Loprevite et al. (1999), utilizzando tempi di esposizione al farmaco di 48, 72 e 96 ore e concentrazioni che variano da 0,001-100 μM, hanno osservato che la gemcitabina ha una citotossicità che cresce proporzionalmente con la concentrazione ed è circa 102 volte più potente del cisplatino, con un valore di IC50 medio di 0,1 μM dopo 72 ore. Tale effetto antiproliferativo è influenzato dal sottotipo istologico e dalle caratteristiche biologiche della linea cellulare. Ad esempio, a concentrazioni di 0,005-0,05 e 0,5 μM e tempi di esposizione di 24, 48 e 72 ore, la gemcitabina esercita un'azione più precoce e più intensa sulla linea di carcinoma mucoepidermoide NCI-H292 rispetto alle linee di adenocarcinoma NCI-Colo699 e di carcinoma a cellule squamose NCI-CorL23. Questo diverso effetto sembra essere correlato, almeno in parte, alla capacità della gemcitabina di indurre apoptosi modulando l'espressione e la sensibilità del recettore Fas. Infatti, nella linea cellulare NCI-H292, in cui già l'espressione costitutiva di Fas è più elevata, la gemcitabina ne può maggiormente incrementare il trasferimento alla superficie cellulare e modulare l'attività rendendo le cellule più sensibili agli stimoli pro-apoptotici (Pace et al., 2000).

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2.4.2 Studi in associazione

Dopo aver dimostrato che la gemcitabina possiede singolarmente un'importante attività citotossica contro le linee cellulari di molti tumori, la ricerca ha dato spazio a studi volti a trovare delle combinazioni con altri chemioterapici che dessero luogo ad un effetto sinergico.

In particolare Kanzawa e Saijo (1997) hanno studiato gli effetti della combinazione della gemcitabina con il cisplatino e la vindesina sulla linea di carcinoma polmonare umano non a piccole cellule PC-14 e hanno riscontrato l'esistenza di un sinergismo dipendente dalla concentrazione dei farmaci. La combinazione tra gemcitabina e vindesina ha un effetto sinergico maggiore, a concentrazioni rispettivamente di 50-500 pg/ml e di 1-10 ng/ml mentre la gemcitabina ed il cisplatino hanno un'azione sinergica a concentrazioni di 0.5-1 ng/ml e 25-250 ng/ml. L'interazione sinergica tra gemcitabina e cisplatino è stata riscontrata anche in cellule di adenocarcinoma polmonare A549 esposte per un'ora al cisplatino dopo un periodo di 24 ore di esposizione alla gemcitabina (Theodossiou et al, 1998) e potrebbe essere dovuta o all'effetto inibitorio esercitato dal cisplatino sull'enzima ribonucleotide reduttasi con conseguente deplezione di dCTP ed induzione della deossicitidina chinasi, responsabile della fosforilazione della gemcitabina, o alla facilitazione alla formazione di addotti a livello del DNA in seguito alla distorsione conseguente all'incorporazione della dFdCTP (Bergman et al, 1996).

A tale proposito studi recenti hanno evidenziato l’esistenza di un’interazione sinergica tra gemcitabina e carboplatino nelle linee cellulari polmonari A549, Calu-1 e H596 simile a quella con il cisplatino in quanto può essere attribuita ai medesimi meccanismi molecolari (Edelman et al., 2001).

L'alterazione dell'integrità della struttura del DNA conseguente all'inibizione dei meccanismi di riparazione da parte della gemcitabina, è probabilmente alla base anche dell'effetto sinergico riscontrato nella linea cellulare murina di carcinoma non a piccole cellule Lewis Lung utilizzando la combinazione di gemcitabina ed etoposide in rapporto di 1:4 e 1:0,125 per tempi di esposizione di 4 e 24 ore. Infatti, la somministrazione di etoposide per un periodo di 4 ore, seguito da un'esposizione per 24 ore alla gemcitabina, è responsabile solo di un effetto additivo perché determina un minor aumento dei fenomeni di rottura della doppia elica del DNA rispetto alla somministrazione contemporanea di tali chemioterapici (van Moorsel et al, 2000).

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2.4.3 Studi dell'associazione gemcitabina-pemetrexed

L’associazione tra gemcitabina e pemetrexed è stata oggetto di diversi studi preclinici che hanno esaminato vari schemi di trattamento in modelli sperimentali di neoplasie solide in cui tali farmaci erano risultati singolarmente attivi.

Adjei et al. (2000) hanno valutato la citotossicità di questa associazione nelle cellule di carcinoma colico HCT-8 che sono state esposte sia ai singoli farmaci per 24 ore che a combinazioni sequenziali con trattamenti con la gemcitabina per 4 ore seguita o preceduta dall’esposizione al pemetrexed per 24 ore. Nella sequenza gemcitabina-pemetrexed, con valori di concentrazioni pari all’IC50 per entrambi i farmaci, l’indice di combinazione è risultato inferiore a 1, indicando la presenza di un’interazione di tipo sinergico, mentre nella sequenza inversa è stato riscontrato un evidente antagonismo. Infine, nell’esposizione simultanea è stata registrata un’interazione additiva.

Risultati simili sono stati osservati in esperimenti effettuati su altre tre linee di carcinoma del colon (LoVo, WiDr, LRWZ), in cui è stata analizzata sia la citototossicità dei singoli chemioterapici, utilizzati a concentrazioni comprese tra 0,01 e 10 µg/ml per un periodo di esposizione di 48 ore, sia l’attività dell’associazione simultanea e delle combinazioni in cui la gemcitabina precede o segue il pemetrexed.

In tutti gli studi di combinazione i farmaci sono stati usati in rapporto 1:1, a quattro concentrazioni, 0,01-0,1-1-10 μg/ml. La combinazione sequenziale gemcitabina- pemetrexed ha dimostrato uno spiccato sinergismo, mentre sono stati registrati interazioni di tipo sinergico-additivo nella sequenza inversa e addittivo-antagonista nel trattamento simultaneo (Tesei et al., 2002).

Tonkinson et al. (1999) hanno invece studiato le cellule di carcinoma del colon HT-29, esposte per 24 ore al pemetrexed in concentrazioni comprese tra 0,1 e 1 μM.

Negli esperimenti di combinazione a tale esposizione è stato associato il trattamento con gemcitabina in concentrazioni comprese tra 3 e 300 µM, utilizzando tre differenti schemi temporali: una combinazione simultanea; una combinazione sequenziale in cui il pemetrexed precedeva l’esposizione per 24 ore alla gemcitabina e una combinazione sequenziale simile in cui il trattamento con la gemcitabina era di 1 ora.

L’iniziale esposizione al pemetrexed ha aumentato di 7 volte la citotossicità della gemcitabina, mentre l’associazione simultanea non ha determinato nessuna variazione dell’azione citotossica dei due farmaci. Risultati simili sono stati osservati anche in studi in vivo in xenotrapianti di cellule HT-29 in topi atimici. In questi tumori la gemcitabina, alla dose 80 mg/kg, ha determinato un ritardo della crescita

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