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Ernesto Screpanti

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Academic year: 2021

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Il Ponte, LXXIII, n. 5-6, maggio-giugno 2017, pp. 5-38.

Ernesto Screpanti1

UN’ALTRA EUROPA È IMPOSSIBILE MA NECESSARIA

Mai come oggi, dalla fine della seconda guerra mondiale, sono stati così forti in Europa le rivalità tribali e i sentimenti nazionalisti e xenofobi. E questo va annoverato tra i successi dell’Unione Europea. Non parliamo poi della risorta vocazione guerrafondaia che ha portato l’UE ad alimentare i conflitti in Libia, in Siria e in Ucraina e prima ancora, quando l’Unione era in preparazione, a favorire l’esplosione di devastanti guerre civili nell’ex-Jugoslavia.

Un’altra serie di successi ha investito la sfera economico-sociale, con l’aumento della disoccupazione, della povertà, della disuguaglianza; il degrado delle condizioni di lavoro, la riduzione dei diritti dei lavoratori, l’aumento del precariato, la proletarizzazione dei ceti medi; il decadimento della sanità, della scuola, della previdenza; l’aumento dell’incertezza finanziaria con la messa a rischio dei risparmi delle famiglie ad opera di un settore bancario sempre più vocato alla profittabilità predatoria.

E quel processo di convergenza delle economie nazionali, che i padrigni fondatori prevedevano come uno dei più importanti effetti che avrebbe avuto l’Unione, si è invece rivelato essere proprio l’opposto, con le economie del Nord Europa che crescono a ritmi più elevati della media, essendo trainate da massicci surplus commerciali, e quelle del Sud che crescono a ritmi inferiori alla media e tassi di disoccupazione superiori, debiti pubblici elevati e in aumento, bilance commerciali in deficit fino a poco fa (ora tendono al surplus a causa della svalutazione dell’Euro) e con economie in lenta e prolungata deindustrializzazione. Non parliamo del tasso di sviluppo del PIL medio di tutta l’Eurozona, che secondo le previsioni dei pugilatori a pagamento avrebbe dovuto aumentare rispetto a quello asfittico degli anni ’90 e invece è diminuito.

Poi c’è l’affossamento della democrazia, una tendenza già avviata negli anni

’90 con la globalizzazione, ma che l’Unione Europea ha accelerato e approfondito. L’ha fatto attivando un processo di costituzionalizzazione dei trattati che sta portando al graduale svuotamento delle costituzioni nazionali senza il consenso popolare (visto che tutte le volte che sono stati chiamati a

1 Riservandomi la responsabilità di quanto scrivo in quest’articolo, desidero ringraziare Sergio Cesaratto, Massimo D’Antoni, Franco Russo e Maurizio Zenezini per gli utili consigli con cui mi hanno permesso di migliorarlo.

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sancire i trattati o le riforme (anti)costituzionali i popoli europei non si sono lasciati abbindolare). E l’ha fatto costruendo un mostruoso apparato buro- banco-cratico che si è arrogato poteri politici tali da riuscire a condizionare in modo decisivo le politiche dei governi nazionali.

C’è da aggiungere altro per far capire che un’Europa così “si abbatte e non si cambia”? In questo saggio cercherò di spiegare perché e come. Sosterrò che l’Unione Europea non è riformabile se non in peggio, ad esempio con le “due velocità”, la “difesa comune”, le “riforme costituzionali” alla Renzi, lo stop all’espansione monetaria. Argomenterò che l’Unione si è conformata come uno strumento di lotta di classe del capitale europeo e quindi che le forze politiche di sinistra debbono mettere l’abbattimento dell’Unione in testa ai propri programmi. Sosterrò che dobbiamo essere aperti a tutte le forme di rottura che saranno rese possibili dalle circostanze storiche, ma anche che i partiti e i movimenti popolari di ogni singola nazione debbano mettere in campo, come possibile innesco di un processo di disgregazione dell’Unione, un’ipotesi di uscita unilaterale della propria nazione.

Cercherò di spiegare che l’uscita dell’Italia dall’Eurozona non basta, che bisogna uscire proprio dall’Unione Europea. Il che farebbe dell’Italexit un processo dirompente per tutta l’Unione. Anzi, secondo alcuni osservatori, probabilmente è proprio questo l’evento che potrebbe portare alla disgregazione dell’Unione (Harrison 2011; Martin, 2016). Certamente provocherebbe nell’immediato una crisi economica di cui nessuno può prevedere l’intensità e la durata, ma che, se gestita da un governo competente e con le idee chiare, potrebbe essere non grave e non lunga. Peraltro l’esperienza storica insegna che, delle 69 rotture di unioni monetarie verificatesi negli ultimi 100 anni, quasi tutte hanno prodotto poca instabilità macroeconomica (Variant Perception, 2012, 3). Ad ogni modo si deve essere consapevoli del fatto che una crisi di passaggio è inevitabile. Dobbiamo prenderlo come il prezzo che siamo disposti a pagare nel breve periodo per liberare la nostra economia e la nostra società dalle catene che le inceppano e per farle uscire da una stagnazione e da un degrado che sono già durati troppo a lungo e promettono di durare ancora per molto se restiamo nell’Unione: “I due decenni perduti rischiano di diventare un terzo” (Evans-Prichard, 2017).

Infine argomenterò che, in una prospettiva di lungo periodo, un’economia italiana fuori dell’Unione potrebbe crescere a ritmi decorosi, ma che bisogna togliersi dalla testa l’illusione che possa espandersi ai ritmi del miracolo economico degli anni ’50 e ’60. Più facile che riesca a emulare i “successi”

attuali di Svezia, Gran Bretagna e Giappone. Bisogna però uscire da un orizzonte strettamente nazionale. L’Italexit va vista come una tappa, alla quale

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la sinistra deve dare senso entro una più ampia visione strategica. La tappa intermedia, una volta innescato il processo di disgregazione dell’Unione Europea, deve puntare a innescarne uno di riaggregazione di segno diverso.

Inoltre, mentre deve rompere quel potente strumento della lotta di classe del capitale che è la dittatura eurista, deve anche riuscire ad avviare un processo di superamento del capitalismo. Solo così si potranno ricostruire la nostra società, la nostra economia e la nostra democrazia contrastando le sfide della globalizzazione capitalistica e del neoimperialismo mercantilista.

La globalizzazione e il mercantilismo

L’ideologia neoliberista ha dimostrato di essere una potente ideologia e una bugiarda utopia. La sua egemonia sul pensiero economico e sulle prassi politiche ha consentito di attuare una rivoluzione capitalista senza precedenti, con l’abbattimento delle barriere commerciali, l’avvio di profondi processi di liberalizzazione e deregolamentazione, la realizzazione di ampi programmi di privatizzazione delle imprese pubbliche, dei monopoli naturali, delle strutture dello stato sociale, le riforme del mercato del lavoro e l’aumento dello sfruttamento, la riduzione del carico fiscale delle imprese e l’aumento di quello dei lavoratori, lo scatenamento del degrado ambientale.

Tutte queste belle cosette sono state attuate in parte con la forza delle lobby, delle oligarchie mondiali e delle grandi imprese, in parte e soprattutto con la liberalizzazione dei movimenti di capitale. Il forte aumento dei flussi d’investimenti diretti esteri verificatosi negli ultimi venti anni ha determinato un regime di “sovranità dei mercati” che ha posto dei vincoli fortissimi alle politiche nazionali. I governi, per contrastare gli effetti delle delocalizzazioni, dell’outsorcing e della costruzione di catene del valore internazionali, sono stati indotti a mettersi al servizio del capitale multinazionale (grande, piccolo e tascabile), pena il rallentamento dello sviluppo e lo smantellamento delle industrie nazionali. E per servire gli interessi del capitale i governi hanno svuotato la democrazia e le costituzioni, rendendo gli organi esecutivi dello stato sempre più indipendenti dalla volontà del popolo e sempre più dipendenti dalla “sovranità dei mercati”.

Deve essere chiaro però che il vero soggetto attivo della globalizzazione, l’attore che si nasconde dietro la maschera della “sovranità dei mercati”, è il capitale multinazionale, il quale fa profitti soprattutto in forza del potere di mercato assicurato dalle grandi dimensioni e dalla protezione della proprietà intellettuale. Il regime di concorrenza oligopolistica che si è affermato è uno schiaffo in faccia alle utopie della libera concorrenza e dell’efficienza allocativa e informativa dei mercati. In particolar modo è infondata l’opinione liberista

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secondo cui il libero movimento dei capitali, delle merci e del lavoro consentirebbero di attivare vantaggi comparati da cui tutte le nazioni e tutte le classi trarrebbero beneficio, cosicché solo con le riforme liberiste si riuscirebbe a favorire lo sviluppo della produzione e del commercio mondiali. In realtà la crescita verificatasi nel decennio precedente la crisi dei subprime è stata resa possibile dalle bolle speculative scatenate dalle politiche di espansione monetaria e di deregolamentazione finanziaria degli Stati Uniti, e a dispetto delle politiche di mercantilismo aggressivo attuate dai governi di alcuni paesi emergenti, Cina in testa, e di alcuni paesi avanzati, come la Germania. Di quest’ultimo paese dirò nella prossima sezione.

Della Cina devo dire subito che il suo intenso sviluppo è stato reso possibile da politiche di dumping sociale, ambientale e fiscale. Tenendo basso il costo del lavoro,2 i costi della tutela ambientale e la fiscalità sulle imprese, la Cina da una parte ha attirato massicci flussi d’investimenti diretti esteri, dall’altra ha potuto fare una concorrenza spietata alle imprese dei paesi del Nord del mondo. Inoltre l’aumento della competitività cinese è stato sostenuto da una politica industriale tesa a creare enormi imprese multinazionali di stato e a incoraggiare gli investimenti in ricerca e sviluppo. Insomma l’economia cinese si è potuta espandere al ritmo cui è cresciuta in quegli anni in forza di una forma particolare di mercantilismo: il mercantilismo colbertiano, quello che si avvale di politiche industriali tese a creare un’industria nazionale competitiva.

Questo dinamismo della Cina (e di altri paesi emergenti) ha indotto i governi di alcuni paesi capitalistici avanzati a giocare ancora più pesante con il giochetto del rubamazzo (beggar-my-neighbor) che praticavano già negli ultimi vent’anni del secolo scorso. Con politiche fiscali restrittive si comprimono i salari, s’intensifica lo sfruttamento e si generano dei surplus commerciali: rubo il mazzo ai lavoratori nazionali per poterlo poi rubare anche ai competitori esteri.

La compressione salariale nel Nord del mondo avrebbe dovuto determinare una tendenza alla stagnazione dell’economia globale, visto che la domanda per consumi non avrebbe tirato abbastanza. Se ciò non è accaduto, è solo perché i governi degli Stati Uniti, di concerto con le grandi imprese finanziarie americane, hanno escogitato un trucchetto molto efficace: hanno fatto espandere la domanda aggregata sostituendo la crescita salariale con la crescita dell’indebitamento, generando così delle gigantesche bolle speculative (prima

2 I salari cinesi sono bassi rispetto a quelli dei paesi capitalistici avanzati, ma sono cresciuti a ritmi sostenuti negli ultimi vent’anni. Anche la produttività è cresciuta molto, cosicché il costo del lavoro, nonostante l’alta crescita dei salari, è rimasto al di sotto di quello dei principali paesi capitalistici avanzati.

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quella delle dot.com, poi quella immobiliare e dei subprime) che sono effettivamente riuscite a sostenere la crescita interna e internazionale.

Il regime dell’accumulazione mondiale in quel periodo era basato su una sorta di combine tra cinesi e americani che funzionava così: la politica monetaria espansiva negli Stati Uniti alimentava la crescita dei consumi, degli investimenti e delle importazioni, il che permetteva l’espansione del surplus commerciale cinese; la Cina usava il surplus per accumulare attività finanziare americane, così alimentando la bolla speculativa; in tal modo contribuiva a espandere ulteriormente la liquidità e il credito con cui gli americani compravano merci prodotte in Cina.

Altro che miracoli dei vantaggi comparati e del libero scambio! Sono state invece proprio le politiche dei principali governi nazionali che hanno determinato il regime d’accumulazione nell’età dell’oro della globalizzazione (1995-2007). Deve essere chiaro quindi che quando si parla di globalizzazione oggi ci si deve riferire a un processo politico governato dalle imprese multinazionali e dai governi che si sono posti al loro servizio, non dai portenti allocativi del libero scambio, e che dietro la cosiddetta “sovranità dei mercati”

si nasconde il potere del capitale e l’efficacia delle politiche da esso imposte ai governi.

Quel modello di accumulazione su scala mondiale è saltato nel momento in cui è esplosa la bolla speculativa dei subprime. All’improvviso gli americani si sono accorti che dovevano ripagare i debiti in un momento in cui le attività acquistate a credito si erano svalutate. Si sono resi conto di essere più poveri di quanto credessero e hanno ridotto spese per consumi e investimenti. Nello stesso tempo molte banche, che avevano fatto enormi profitti con il credito facile, sono scivolate sull’orlo del fallimento quando i loro debitori non sono stati più in grado di onorare gli impegni. La crisi profonda che ne è seguita si è rapidamente estesa al resto del mondo, ha colpito tutte le nazioni e ha innescato una stagnazione (che ha preso la forma di un rallentamento in alcuni paesi BRICS come India e Cina) dalla quale l’economia mondiale non si è ancora ripresa.3

Cos’è che ha trasformato la crisi in una lunga stagnazione? Non certo le politiche monetarie espansive con cui le principali banche centrali hanno inondato i mercati di liquidità, e neanche le politiche di salvataggio delle banche e delle imprese manifatturiere con i soldi pubblici. Il primo tipo di politica avrebbe potuto servire ad alimentare la ripresa dello sviluppo industriale e dell’occupazione, invece che nuove bolle speculative, se si fosse verificata una forte crescita dei salari e dei consumi in ogni paese. E il secondo

3 Per un approfondimento di questi temi vedi Screpanti (2014).

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tipo di politica, che ha gonfiato i debiti pubblici un po’ dappertutto, non sarebbe stato un problema se il PIL fosse cresciuto a ritmi più sostenuti.

Ciò che ha realmente impedito d’innescare una vera ripresa industriale è il fatto che quei due tipi di politica sono stati accompagnati da un terzo tipo dagli effetti devastanti: l’attivazione del mercantilismo difensivo in quasi tutti i paesi.

Ogni governo si è affrettato a difendere la propria economia alzando barriere protezionistiche e/o svalutando la propria moneta e/o deprezzando il cambio reale con politiche d’austerità e di svalutazione salariale. Specialmente l’Europa germanocentrica si è distinta in quest’ultimo tipo di politica, la quale ha avuto effetti restrittivi non solo perché i salari non crescono abbastanza per sostenere un’adeguata ripresa della domanda di consumi, ma anche perché per contenere l’aumento dei salari sono state adottate politiche fiscali che hanno frenato la domanda pubblica.4

Il “si salvi chi può” è stato avviato dagli Stati Uniti, con la svalutazione del Dollaro subito dopo la crisi dei subprime. Sono seguite le svalutazioni competitive dello Yen, della Sterlina, dell’Euro (prima reale e poi nominale) e, a più riprese, tutte le altre, non ultima quella dello Yuan. Non solo, ma alle svalutazioni competitive si sono aggiunte le barriere protezionistiche.

Un’indicazione interessante al riguardo è fornita dal numero di cause arbitrate dal Dispute Settlement Body del WTO. Dal 1995 ad oggi sono state 524, con un trend decrescente fino al 2007, crescente dopo (WTO, 2017). È interessante per il trend che rivela, poiché ci fa capire che il protezionismo è andato aumentando dopo la crisi. Ma non la dice tutta sull’effettiva entità del fenomeno. Infatti, i casi discussi dal DSB sono solo la punta di un iceberg, giacché molti paesi, specialmente quelli piccoli e deboli, evitano di fare causa ai grandi. Più significativo è un dato raccolto da Global Trade Alert (2017), un dato che riguarda il numero di misure protezioniste in vigore nei vari paesi.5 Ad aprile 2017 risulta che i paesi più protezionisti sono stati quelli americani, Stati Uniti in testa con 1.438 misure.6 Il Brasile ne ha 649, l’Argentina 506. Ma neanche i paesi asiatici scherzano: India 904, Cina 391, Indonesia 391. E potevano gli europei restare indietro? Russia 878, Regno Unito 439, Germania 433, Italia 402, Francia 395.

4 Il Giappone invece ha puntato principalmente sulla svalutazione nominale, accom- pagnandola con politiche fiscali espansive. Ma la sua economia è troppo piccola perché abbia, da sola, effetti di traino sull’economia mondiale.

5 La definizione di “misure protezionistiche” adottata dal GTA è molto ampia (25 tipi di misure), comprendendo provvedimenti che vanno dai sussidi alle esportazioni e dalla proprietà pubblica di imprese esportatrici fino alle svalutazioni competitive e alla protezione della proprietà intellettuale.

6 Gli Stati Uniti sono anche al primo posto tra i paesi rispondenti nelle cause del DSB.

Erano il paese più protezionista del mondo già da prima dell’avvento di Trump.

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Insomma tutti i governi hanno puntato a rilanciare il proprio sviluppo con l’espansione delle esportazioni e il rallentamento delle importazioni. Ma accade che, se tutti riducono la crescita delle importazioni, la crescita della somma delle esportazioni diminuisce. Quindi, se tutti mirano a far trainare lo sviluppo dalle esportazioni, lo sviluppo tenderà a rallentare. Infatti la media annua del tasso di crescita del PIL globale, che era stata del 3,45% nel periodo 1997-2007, è scesa al 2,23% nel periodo 2008-2015 (World Bank, 2016a). Il commercio mondiale è diminuito ancora di più, tanto che il rapporto tra crescita del commercio e crescita del PIL in media annua è passato, nei due periodi, da 1,8 a 1 (WTO, 2016). E le cose continuano a peggiorare: sempre secondo il WTO, il tasso di crescita del commercio mondiale, che è stato pari a 2,8% nel 2016, scenderà a 1,7% nel 2017. Il mercantilismo difensivo riduce la crescita mondiale della produzione e del commercio non perché impedisce l’attivazione dei vantaggi comparati, ma semplicemente perché determina un rallentamento della crescita della domanda mondiale di importazioni.

Alcuni sostengono che questi dati rivelano un regresso della globalizzazione.

E certo che viene da pensarlo se si ritiene che la globalizzazione sia l’utopia del libero scambio espansivo. Ciò che in realtà è accaduto è una cosa molto più semplice. Prima della crisi dei subprime il mercantilismo veniva praticato massicciamente solo da alcuni paesi, Cina e Germania in testa. Dopo la crisi è stato praticato da quasi tutti. Di conseguenza il tasso di crescita del commercio e del PIL globali sono diminuiti. Questa non è una crisi della globalizzazione, è un fallimento delle politiche dei governi che hanno cercato di fare gli interessi del capitale “nazionale” in contrasto con quelli del capitale multinazionale.

Se invece s’intende la globalizzazione come la crescita del capitale delle imprese multinazionali si deve costatare che negli ultimi anni si è estesa, non contratta. Ad esempio, la ricchezza delle principali multinazionali è aumentata in confronto a quella degli stati, ed è aumentato il numero delle multinazionali tra le prime 100 entità economiche (Inman, 2016). La capitalizzazione delle prime 10 multinazionali è aumentata enormemente tra il 2009 e il 2014 (Jaworek e Kuzel, 2015, 61). Il numero delle multinazionali più grandi (con un valore maggiore di 1 miliardo di Dollari) è passato da 168 nel 2013 a 223 nel 2014. Il numero di fusioni e acquisizioni transfrontaliere è passato da 1.946 nel 2008 a 2.358 nel 2014 (UNCTAD, 2015, ix, 15). Un’altra indicazione interessante è fornita dai dati sui flussi mondiali d’investimenti diretti esteri.

Nel periodo 1995-2007 ammontavano a 1.094 miliardi di dollari in media annua. Nel periodo 2008-2015 sono saliti a 2.010, un livello anche più alto dei 1.932 raggiunti nel boom 2004-2007. In percentuale del PIL globale sembrano essere rimasti pressoché costanti: 2,74 nel periodo 2008-2015 contro 2,73 nel periodo 1995-2007, ma se si toglie il picco eccezionale del 2007, la percentuale è stata del 2,52 negli anni 1995-2006 (World Bank, 2016b).

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In sintesi, l’accumulazione capitalistica nell’era della globalizzazione contemporanea (1995-2016) è stata regolata da due processi contrastanti:

l’internazionalizzazione delle grandi imprese e il nazionalismo dei grandi stati.

Nella fase del boom (1995-2007) la crescita è stata sostenuta dalle politiche monetarie espansive americane e dal fatto che il mercantilismo era praticato solo da alcuni stati. Nella fase del rallentamento (2008-2016) pratiche di mercantilismo difensivo sono state adottate da quasi tutti gli stati, con la conseguenza che la crescita del PIL e del commercio è rallentata nonostante le politiche monetarie espansive. Il processo d’internazionalizzazione delle imprese d’altra parte non è rallentato.

La natura sociale dell’Unione Europea

L’Unione Europea non è un’unione politica con una costituzione approvata dai popoli. È un’entità statale (di fatto se non di diritto) costituita con trattati internazionali che si sovrappongo alle costituzioni nazionali tentando di demolirle (Russo, 2017). Gli organismi politici che determinano le sue politiche monetarie e fiscali sono la Banca Centrale Europa e il governo tedesco, e nessuno dei due è responsabile verso i popoli europei.

Il ruolo del governo tedesco merita di essere chiarito. Il predominio della Germania sull’economia europea si era affermato già dagli anni ’70, e divenne ingombrante dopo l’unificazione tedesca del 1990. Con la fondazione dell’Unione è accaduto che i governi di quel paese sono riusciti a conquistare per la sua industria vantaggi competitivi senza precedenti. Con le riforme Hartz (2003-2005) e le politiche fiscali restrittive, la crescita salariale è stata posta sotto controllo, completando un processo avviato già negli anni ’90. Inoltre le imprese tedesche hanno esteso le loro catene del valore verso i paesi dell’Est europeo (e in parte del Sud), dove i salari sono più bassi che in Germania. In questa maniera l’industria tedesca ha avuto un costo del lavoro che è cresciuto sistematicamente di meno rispetto a quello dei principali concorrenti, in particolare Francia, Italia e Spagna. Ciò ha permesso alla Germania di mantenere un elevato e crescente surplus commerciale, spingendo i paesi del Sud Europa verso il deficit del conto corrente (l’Italia e la Spagna fino al 2012, la Francia ancora oggi).

Siccome il conto corrente dell’Eurozona ha sempre avuto un saldo molto più basso di quello della Germania, l’Euro si è rivalutato rispetto al Dollaro meno di quanto si sarebbe rivalutato il Marco, il che ha dato a quel paese un ulteriore vantaggio competitivo. Peraltro l’enorme surplus commerciale tedesco è stato alimentato anche dalle politiche fiscali restrittive. Queste, oltre a mantenere la disoccupazione e la sottoccupazione al livello necessario per tenere a freno la

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combattività operaia e indurre i sindacati alla collaborazione, sono servite anche a rallentare la crescita delle importazioni.

Il corrispettivo dei successi commerciali tedeschi è rappresentato dagli insuccessi francesi, italiani, spagnoli, portoghesi e greci. Per questi paesi l’Euro è stata una moneta sopravvalutata. E tale svantaggio competitivo si è aggiunto a quello determinato da una crescita del costo del lavoro superiore alla tedesca.

L’Italia è riuscita a portare il proprio conto corrente dal deficit al surplus solo nel 2013, in seguito alle politiche recessive del governo Monti, cioè restringendo i consumi e le importazioni.

La Germania ha scelto di “difendersi” dagli effetti della globalizzazione attuando una politica di deprezzamento reale basata sull’austerità. Poi ha imposto questo modello di politica mercantilista al resto d’Europa. L’ha imposto con le sue politiche fiscali restrittive. Facendo trainare la propria crescita dalle esportazioni piuttosto che dai consumi, ha costretto i partner europei alla bassa crescita, le loro esportazioni non essendo trainate adeguatamente dalla domanda tedesca. Inoltre, in forza dei vincoli di Maastricht prima e del fiscal compact poi, la Commissione Europea ha spinto gli altri paesi con alto debito pubblico ad adottare a loro volta politiche fiscali restrittive.

Tutto ciò ha determinato una sistematica divergenza tra le economie del Nord e quelle del Sud Europa, con le prime che crescevano continuamente al disopra della media e le seconde che vi crescevano al disotto.7 Ma ciò ha avuto un’ulteriore ricaduta negativa: la bassa crescita del PIL ha determinato una bassissima crescita della produttività del lavoro, con la conseguenza che la crescita del costo del lavoro (specialmente in Italia e Francia) si è divaricata ulteriormente rispetto a quella tedesca. In seguito alla svalutazione dell’Euro del 2014, le esportazioni hanno ripreso a tirare e i tassi di crescita del PIL si sono un po’ innalzati in quasi tutti i paesi europei. Non però in Italia, dove le politiche fiscali (sotto la frusta della Commissione Europea) continuano a essere restrittive.

In conclusione si può dire che lo sviluppo economico europeo è stato ampiamente determinato dallo strapotere economico e politico tedesco e che le divergenze di crescita da esso causate sembrano configurarsi come parte di un processo di mezzogiornizzazione del Sud Europa, una trappola dalla quale sarà difficile uscire dopo che si sarà superata una certa soglia di deindustria- lizzazione.

7 Come dimostra Zenezini (2017), la crescita di gran parte dei paesi europei dipende più da fattori di domanda che dai costi relativi. Ciò non è in contrasto con quanto dimostrano Lapavitsas, Mariolis e Gavrielidis (2017), è cioè che la Germania è cresciuta soprattutto in forza del proprio dumping sociale. In soldoni, è accaduto che la Germania, con una politica fiscale restrittiva, da una parte ha favorito l’aumento della propria competitività, dall’altra ha indotto rallentamenti della produzione nei paesi periferici.

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Nella sinistra europea si sono affermate due diverse interpretazioni del momento storico che stiamo vivendo. Da una parte si punta il dito sul mercantilismo tedesco e lo si interpreta nei termini di una politica neo- imperialista che la Germania ha attuato in Europa. Con i suoi enormi surplus commerciali ha accumulato un’elevata posizione patrimoniale netta verso l'estero: il valore delle attività internazionali detenute da tedeschi è molto più alto di quello delle attività tedesche detenute da stranieri. In altri termini La Germania è il principale creditore e proprietario di capitale in Europa, e “questo è il vero fondamento del potere politico tedesco” (Lapavitsas, Mariolis e Gavrielidis, 2017). Le industrie tedesche hanno costruito delle catene internazionali del valore che sfruttano gli enormi differenziali salariali con i paesi dell’Est europeo. Inoltre, generando sottosviluppo e disoccupazione nel Sud del continente, stanno trasformando anche quest’area in un’immensa periferia semi-industrializzata in cui le grandi imprese manifatturiere tedesche possono produrre o far produrre semilavorati a basso costo (i salari italiani sono circa il 77% di quelli tedeschi (OECD, 2017)) e basso contenuto tecnologico. E non parliamo del costante flusso di manodopera qualificata, soprattutto giovanile, dal Sud Europa verso il Nord. Nello stesso tempo le imprese tedesche si comprano a prezzi di saldo i marchi più prestigiosi del made in Italy (Lamborghini, Ducati, MV Agusta eccetera). Fra i paesi europei in cui fanno shopping le multinazionali tedesche, l’Italia è al primo posto (Huffpost, 2014).

L’altra interpretazione corre in termini di lotta di classe invece che di conflitti tra nazioni. Le politiche d’austerità che la Germania e la Commissione Europea impongono a tutti i paesi dell’Unione sono funzionali a mantenere il regime di elevata disoccupazione che è necessario per mettere in ginocchio la classe operaia. In tal modo non solo si riesce a tenere sotto controllo la crescita salariale, ma si riesce anche ad attuare le riforme del mercato del lavoro che servono per aumentare lo sfruttamento. A tale tipo di riforme è interessato non soltanto il grande capitale tedesco, ma tutto il capitale europeo, piccolo e grande, nazionale e multinazionale. In quest’ottica le classi dirigenti tedesche non fanno esclusivamente gli interessi del capitale di una nazione, ma agiscono come avanguardia di tutta la classe capitalistica del continente. Così l’Unione Europea a guida tedesca si configura come lo strumento statale di cui si serve il capitale per portare avanti la sua lotta di classe. Ed è un vero e proprio stato nel senso marxiano del termine, un “comitato d’affari della borghesia” che è tanto più efficace nell’azione di classe quanto meno deve rendere conto ai popoli europei, e che mira proprio a imporre ai popoli il conseguimento dell’interesse capitalistico all’accumulazione e allo sfruttamento.

Qual è l’interpretazione valida? Io ritengo che lo siano tutte e due. Le vedo come complementari piuttosto che antitetiche. Non c’è dubbio che le classi politiche tedesche si muovano con l’intento di favorire gli interessi nazionali.

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Ma è anche vero che gli interessi nazionali sono quelli del capitale, non certo della classe operaia tedesca. Andatelo a domandare ai lavoratori con mini-job, midi-job, ein-euro-job, ai precari, agli immigrati, ai 2.762.000 disoccupati. E benché il grosso degli operai tedeschi goda di una relativa sicurezza del posto di lavoro e di decenti salari diretti e indiretti, resta il fatto che il trend della quota salari sul reddito nazionale è stato decrescente a partire da metà degli anni ’70 e non è stato invertito dall’Unione Europea. Così come resta il fatto che anche in Germania, come nel resto d’Europa, sono aumentate povertà e disuguaglianza economica. Soprattutto è vero che l’aumento dello sfruttamento del lavoro perseguito dai politici tedeschi in Germania ne ha determinato uno altrettanto forte in tutta Europa. Non è un caso dunque che i circoli industriali delle varie nazioni continuino a plaudire alle politiche economiche tedesche e a predicare

“facciamo come in Germania”, mentre i professorini dell’università confin- dustriale sproloquiano sulla “austerità espansiva”.

Ritengo infondata l’opinione di chi crede che la situazione in cui ci troviamo sia la conseguenza di errori commessi dai politici europei al comando. Certo l’Unione Europea dovrebbe essere considerata un disastro, se la si intendesse come un’organizzazione politica mirata allo sviluppo del benessere dei popoli europei e alla riduzione delle preesistenti differenze regionali. Ma se la si intende come quello che effettivamente è, si può dire che non c’è stato alcun errore, che le cose sono andate precisamente come si voleva che andassero.

L’Unione si è rivelata essere un grande successo... dal punto di vista del capitale. Mai, nella sua storia, l’Europa ha avuto una classe operaia così sfruttata e così terrorizzata (eccetto forse che nella Germania e nell’Italia fasciste).

La domanda che ora ci si deve porre è se l’Unione può essere riformata in modo da farne un organismo politico che favorisca il raggiungimento di obbiettivi di: piena occupazione in tutta Europa, riduzione delle divergenze di crescita e industrializzazione tra i paesi del Nord e del Sud, ricostruzione dello stato sociale, ridistribuzione del reddito a favore dei salari, riduzione della disuguaglianza, eliminazione della povertà.

Per rispondere di sì a questa domanda bisognerebbe poter rispondere affermativamente ad altre due: 1) riteniamo possibile che il capitale europeo accetti riforme funzionali al raggiungimento di quegli obbiettivi? 2) riteniamo possibile che le classi dirigenti tedesche accettino qualcuna le seguenti proposte: devolvere il 5% del PIL tedesco a favore dei paesi del Sud (King, 2017); fare politiche fiscali espansive generando un grosso deficit di bilancio;

far aumentare i salari tedeschi in modo da ridurre drasticamente il surplus commerciale; abolire le regole sul bail in consentendo ai governi nazionali di ricapitalizzare le banche con soldi pubblici; far pagare ai contribuenti tedeschi una parte degli interessi sui debiti pubblici dei paesi donnaioli e ubriaconi;

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mettere la Banca Centrale Europea al servizio di una politica fiscale di piena occupazione; rinunciare al proprio potere politico a favore di un governo federale responsabile verso un vero parlamento europeo o, alternativamente, restituire la responsabilità delle politiche fiscali ai governi nazionali?

L’Italexit e la crisi di passaggio

Dunque cominciamo a pensare a come abbattere l’Unione Europea. La rottura potrebbe assumere diverse forme ed essere innescata, ad esempio, da una scissione dell’Eurozona in due zone (Nord e Sud), o dal ritorno concordato alle monete nazionali, o dall’uscita di un paese del Nord, o anche in altri modi (Eichengreem 2010; Kawalec e Pytlarczyk, 2013). La sinistra deve trovarsi pronta ad agire in qualsiasi circostanza storica per trasformare una crisi in una rottura. Un evento che diventa sempre più probabile col passare del tempo, è l’uscita unilaterale di un paese del Sud. Ebbene, io ritengo che la sinistra di ogni nazione debba muoversi in questa prospettiva e mettere nel proprio programma la Grexit, la Spexit, la Frexit ecc.

Perciò affrontiamo ora alcuni problemi che potrebbero sorgere con l’Italexit.

L’uscita dell’Italia dall’Unione passerà per una crisi, una crisi che scoppierà prima dell’uscita stessa. Potrebbe accadere che in vista delle prossime elezioni i sondaggi e i “mercati” diano vincenti i partiti euroscettici. Quindi scoppierà subito una crisi che renderà l’Italexit molto probabile. Oppure potrebbe accadere che i “mercati” comincino a scommettere sull’Italexit indipenden- temente dalle elezioni politiche. Quindi scoppierà subito una crisi che farà infine vincere le elezioni ai partiti euroscettici.

Gli speculatori hanno già cominciato scommettere sull’uscita.8 Ragionano così: il debito pubblico italiano è molto alto in valore assoluto – 2.260,3 miliardi di Euro a marzo 2017 – e in rapporto al PIL – 132,6% nel 2016 –; le politiche fiscali tedesche non fanno sperare in una sostanziosa ripresa della crescita del PIL nel Sud Europa e la Commissione Europea continua a imporre

8 La probabilità che l’Italia esca dall’Unione entro un anno secondo le aspettative degli investitori è misurata dall’indice Sentix. Il suo valore medio annuo era pari a 2,5% nel periodo tra il 2012 e la prima metà del 2016. Ebbene a novembre 2016 è schizzato a 19%

(Guglielmi e Minenna, 2017, 1). Alcuni economisti sminuiscono questo indice, e sostengono che una stima più attendibile sarebbe fornita dallo spread sui titoli di stato decennali. Questo recentemente ha preso a viaggiare intorno a 200 punti base, valore che implicherebbe una probabilità del 7% di perdere il 25% del capitale entro 10 anni (Biasco, 2017), una cosa non eccessivamente preoccupante. Chi la pensa così dovrebbe riflettere sul fatto che lo spread è oggi mantenuto artificialmente basso dal quantitative easing, e che prima o poi questa politica della BCE dovrà finire.

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politiche restrittive al governo italiano; perciò il PIL non crescerà in misura rilevante e il rapporto debito/PIL difficilmente potrà diminuire; l’unico modo per uscire da questo vicolo cieco è uscire dall’Unione; se si torna alla Lira, questa si svaluterebbe subito e i detentori di titoli di stato italiani perderebbero l’intero valore della svalutazione. Perciò un numero crescente di speculatori sta diventando ribassista, con la conseguenza che i valori dei titoli diminuiscono e gli spread aumentano, fenomeno temporaneamente contrastato dalle politiche di acquisto di titoli da parte della BCE.

Che cosa accadrà quando le aspettative ribassiste diverranno così forti da vincere il contrasto della BCE, oppure quando questa arresterà il quantitative easing? Per capirlo, dividiamo il periodo della crisi in due fasi: fase A (prima dell’introduzione della Nuova Lira), fase B (dopo).9

Nella fase A diminuirebbero i valori dei titoli di stato e aumenterebbe lo spread, anzi, “rapidamente si diffonderebbe un panico del ‘si salvi chi può’ che porterebbe lo spread a livelli elevatissimi” (Biasco, 2014). Ciò potrebbe mettere in crisi le banche nazionali, che detengono circa il 50% del debito pubblico italiano.10 Le aspettative sull’uscita si diffonderebbero fra tutti gli strati della popolazione. Molti risparmiatori cercherebbero di mettere al sicuro i propri Euro esportando capitali in Germania, Olanda, Svizzera, Malta o Lussemburgo.

Altri cercherebbero di metterli al sicuro sotto il materasso. La fuga di liquidità aggraverebbe la posizione delle banche, alcune delle quali finirebbero sull’orlo del fallimento, il che accelererebbe le corse agli sportelli. Si bloccherebbe il credito ai consumi e agli investimenti. Diversi debitori rinvierebbero il

9 Secondo uno scenario ottimistico ma piuttosto irrealistico, la fase A potrebbe essere evitata. Questo scenario prevede che l’uscita sarebbe decisa in segreto da un governo al di sopra di ogni sospetto di euroscetticismo e poi realizzata a sorpresa (Bootle, 2012, 86-90;

Nordvig e Firoozye, 2012, 42-7). Se il D-Day (un lunedì) è il giorno dell’uscita, almeno un mese prima il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’Economia si riuniscono in segreto insieme al Governatore della Banca d’Italia e a pochi altri dirigenti pubblici e predispongono il piano. Tre giorni prima del D-Day il Presidente del Consiglio ordina la chiusura delle banche e dei mercati finanziari e annuncia la decisione di ridenominare in Nuove Lire tutti i valori determinati da contratti sotto legislazione italiana. Il lunedì banche e mercati riaprono e il gioco è fatto. Ci si è domandato se è possibile che il governo italiano abbia nel cassetto un tale contingency plan. La risposta è scontata, dato che “l’attuale governo è talmente supino e colpevolmente subordinato verso la UE e la BCE…” (Grazzini, 2017); ovvero, tanto per non fare nomi, “il Pd […] se non prende in considerazione quell’opzione è per debolezza ideologica, acquiescenza verso l’ortodossia dominante, timidezza, scarsa attenzione alle questioni sociali, europeismo gregario” (Biasco, 2014).

10 Non tutte dovrebbero affrontare difficoltà insormontabili su questo fronte. I titoli di stato incidevano (al 2015) per circa l’11% sugli attivi patrimoniali di 8 banche tra le più importanti; di alcune un po’ di più (Banca Popolare di Milano 17,7%, Ubi 17%, Banco Popolare 14,9%), di altre un po’ di meno (Unicredit 6,9%) (Puato, 2016).

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pagamento dei propri debiti, altri andrebbero falliti. Ci potrebbero essere crolli in borsa in tutti i comparti, e sia le famiglie che le imprese dovrebbero fronteggiare perdite in conto capitale che produrrebbero effetti ricchezza negativi. Consumatori e investitori, impossibilitati a ottenere credito e presi nella morsa tra aumento dell’incertezza e diminuzione della ricchezza, tenderebbero a rinviare le spese in attesa che la situazione si stabilizzi. Così la crisi si trasmetterebbe dalla finanza all’economia reale.11

Quanto può durare una crisi del genere? Dipende dall’abilità del governo. Il quale sarebbe un governo inetto se non capisse che a quel punto prima si esce dall’Unione e prima si pone fine all’agonia. Anche la gravità della crisi dipende dall’abilità dal governo. Ed ecco alcune misure d’emergenza che potrebbe adottare subito un Principe Nuovo che volesse “pigliar la difesa di Italia e liberarla dalle mani de’ barbari”: emanerebbe un decreto legge con cui assicurerebbe i depositi bancari fino a un ammontare di 200.000 Euro;

dichiarerebbe che nessuna banca verrà lasciata fallire, e che quelle in difficoltà verranno salvate dal governo; proibirebbe certe forme di esportazione di capitali e ne limiterebbe altre;12 ordinerebbe alla Banca d’Italia, di cui si sarebbe assicurata la completa collaborazione, di emettere circolante in abbondanza.13 Se queste quattro misure non fossero sufficienti a fermare la corsa agli sportelli, ordinerebbe la limitazione della quantità di circolante che può essere ritirato settimanalmente dai conti correnti.

Inoltre emanerebbe un decreto legge con cui assicurerebbe tutti i portafogli di titoli di stato detenuti dalle famiglie italiane per un ammontare non superiore a 200.000 Euro; trasformerebbe i titoli di stato detenuti dalla Banca d’Italia in rendita perpetua allo 0,01%, oppure ordinerebbe alla Banca di non chiederne il rimborso alla scadenza.14 Dichiarerebbe che il governo ha intenzione di fare

11 Per una narrazione ancora più catastrofista, vedi Buiter (2011).

12 Tra le varie misure si possono contemplare: la proibizione dell’acquisto di attività estere, dell’apertura di nuovi conti correnti esteri, dei trasferimenti sui conti correnti esteri esistenti, o addirittura della detenzione di conti esteri; l’imposizione di un limite mensile massimo di esborsi per le transazioni all’estero con carta di credito, di un limite massimo al contante detenuto da chi esce dal Paese, di un’autorizzazione speciale per i pagamenti delle imprese che importano beni o servizi. Per una elaborazione teorica sui controlli dei movimenti di capitale vedi Johnston e Tamirisa (1998).

13 La Banca Centrale di una paese appartenente all’Unione Economia e Monetaria è autorizzata a emettere moneta legale. Se ne emette in quantità inferiore al livello determinato dal capital key (la quota detenuta nel capitale della BCE) può espandere senza indebitarsi. E questa è la situazione in cui si trova attualmente la Banca d’Italia. Può espande anche oltre quel limite, però indebitandosi sulla piattaforma TARGET2 (cui accennerò più avanti).

14 A settembre 2016 il 12,9% del debito pubblico era detenuto dalla Banca d’Italia (Reuters, 2016).

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tutto ciò che è necessario per ridurre rapidissimamente il rapporto debito/PIL al disotto del 60%.

Quando i valori dei titoli si fossero ridotti in misura adeguata, avvierebbe un’operazione di buy out usando innanzitutto la liquidità detenuta dalla Cassa Depositi e Prestiti. Poiché la liquidità della CDP non è sufficiente15 per ridurre il rapporto debito/PIL al disotto del 60%, emetterebbe BOT sotto legislazione britannica. Se neanche quest’operazione fosse sufficiente, imporrebbe un vincolo di portafoglio alle banche obbligandole a detenere una data percentuale delle riserve monetarie in BOT. Se neanche questa operazione fosse sufficiente, negozierebbe un haircut con i detentori dei titoli residui, i quali sarebbero pronti ad accettarlo se prevedessero un default con un haircut maggiore.

Espanderebbe la spesa pubblica. Per finanziarla, effettuerebbe i pagamenti emettendo assegni al portatore sul Conto di Disponibilità del Tesoro presso la Banca d’Italia, dopo aver decretato il ripristino dello scoperto di conto fino ad un ammontare del 14% delle previsioni di spesa.

I primi cinque provvedimenti mirano ad affrontare le corse agli sportelli.

L’assicurazione dei conti correnti fino a 200.000 Euro serve a rassicurare i piccoli risparmiatori del fatto che non perderebbero la propria liquidità bancaria a causa dei bail in. Ancora più tranquilli sarebbero resi dalla dichiarazione dell’intenzione del governo di salvare le banche dal fallimento.

Gli altri provvedimenti mirano ad affrontare la crisi del debito sovrano. Di fronte a un imponente attacco speculativo, che questa volta difficilmente potrebbe essere contrastato dalla BCE, sarebbe inutile tentare di resistere.

Inoltre sarebbe pericoloso chiedere prestiti alla Troika, non solo perché bisognerebbe accettarne le condizionalità recessive e perché si rischierebbe di innescare una spirale di salvataggi ricorrenti che porterebbe a ficcarci in una trappola come quella greca, ma soprattutto perché sottrarrebbe la denominazione del debito alla legislazione italiana e renderebbe inapplicabile la lex monetae (la quale implica che uno stato ha il diritto di ripagare i propri debiti nella propria moneta). Il governo invece potrebbe cogliere l’occasione per chiedere indietro almeno una parte degli alti rendimenti che gli speculatori hanno tirato fuori dalle tasche dei contribuenti italiani negli ultimi 35 anni (Ferrero, 2014): se la speculazione fa abbassare drasticamente il valore dei titoli, il governo italiano se li ricompra sul mercato a prezzi stracciati.

Qualcuno ha sostenuto che gli speculatori non sono stupidi e che, di fronte a un massiccio buy out, si terrebbero i titoli in vista di una loro rivalutazione futura. I loro valori quindi riprenderebbero a crescere. Se accadesse questo,

15 Nel 2016 lo stock delle sue disponibilità liquide era di 161,8 miliardi di Euro, mentre lo stock di crediti verso la clientela e verso le banche era di circa 103 miliardi di Euro (CDP, 2016).

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vorrebbe dire che l’operazione di buy out sarebbe riuscita a ridurre solo di un po’ il valore dell’indebitamento, ma anche che la crisi degli spread sarebbe rapidamente superata. Tuttavia, se il governo dichiara che vuole ad ogni costo e con ogni mezzo ridurre il rapporto debito/PIL al disotto del 60%, gli speculatori avrebbero paura di un default massacrante, e quindi smetterebbero eventualmente di vendere titoli solo quando si fosse vicini a questa soglia. La stessa considerazione vale per la negoziazione di una massiccio haircut. Gli speculatori lo accetterebbero se si aspettassero un default anche più massiccio.

I nuovi BOT servirebbero per reperire liquidità. Sarebbero emessi sotto legislazione britannica per renderli sicuri al 100%. Se ne potrebbe emettere una combinazione di tranche di diverse durate, a 3, 6 e 12 mesi, iniziando con una a 2 mesi per dare un segnale sulle intenzioni del governo: vuole chiudere la crisi in brevissimo tempo.

L’indicazione del 60% per la ristrutturazione del debito è anch’essa arbitraria. Potrebbe essere il 70 o anche l’80. Ma, se una ristrutturazione deve essere tentata, deve essere massiccia. Una riduzione del rapporto debito/PIL, diciamo, al 100% potrebbe convincere i “mercati” che non è sufficiente per sottrarre il governo alla tirannia degli interessi, e quindi che prima o poi potrebbe essere necessaria una nuova ristrutturazione. In altri termini, una ristrutturazione non massiccia non ridurrebbe adeguatamente il rischio di default. Quindi il Tesoro perderebbe l’accesso ai mercati. Però se la ristrutturazione è massiccia il rischio di default si annulla, e a quel punto non si vede perché i mercati dovrebbero chiudersi al Tesoro italiano.

Qui bisogna aprire una parentesi per chiarire alcuni problemi relativi alle CAC (Clausole di Azione Collettiva). Queste stabiliscono che a un governo che volesse fare una ristrutturazione concordata del debito pubblico basterebbe un accordo con la maggioranza qualificata dei debitori (dal 66,7% al 75% a seconda dei casi). Sono state concepite per proteggere i governi dall’opportunismo degli speculatori, una ristrettissima minoranza dei quali, se non ci fossero le CAC, potrebbe bloccare qualsiasi accordo. Alcuni le interpretano in modo diverso e sostengono che pongono un vincolo ai governi, i quali non potrebbero ristrutturare senza il consenso dei creditori (Siciliano, 2017). Altri sostengono che una ridenominazione del debito sarebbe equivalente a una ristrutturazione e quindi che richiederebbe il consenso dei creditori. In realtà, anche se legalmente una ridenominazione non è un default, verrebbe considerata tale dalle agenzie di rating (Variant Perception, 2012, 3).

Resta il fatto che un governo può sempre decidere autonomamente di fare default, CAC o non CAC. Se decide di ristrutturare o ridenominare negoziando con i creditori, può facilmente ottenere il consenso minacciando il default. Le CAC rendono più facili, non più difficili, le operazioni di questo tipo, in quanto

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spuntano le unghie alle minoranze di speculatori super-opportunisti, come i fondi avvoltoi.

Un problema può sorgere se il governo che vuole ristrutturare negoziando con i creditori non riesce a ottenere il loro consenso. Ma questo è un problema che si porrebbe anche se non ci fossero le CAC. Si porrebbe semplicemente perché i detentori esteri del debito pubblico vorrebbero essere ripagati in Euro invece che in Nuove Lire, e quindi sarebbero pronti a fare causa al governo italiano. Quanto meno, si dovrebbe prevedere un contenzioso giuridico internazionale dagli esiti incerti (Dabrowsky, 2012). Chi garantisce che i tribunali presso cui ci faranno causa le banche tedesche accetteranno la tesi che la lex monetae si applica anche ai titoli detenuti da cittadini non italiani?16 Di qui la convenienza a fare una ristrutturazione prima dell’introduzione della Nuova Lira.

Alcuni sostengono che la ridenominazione del debito in Nuove Lire farebbe risparmiare al Tesoro l’intera entità della svalutazione. In realtà non è proprio così. Se prima il debito era di 2.200 miliardi di Euro, dopo sarà di 2.200 miliardi di Nuove Lire. Quando la Nuova Lira si sarà svalutata, poniamo, del 10%, il valore del debito resterà di 2.200 miliardi di Nuove Lire. Dov’è il risparmio? Se si suppone che la svalutazione determinerà una consistente inflazione, allora si ridurrà il rapporto Debito/PIL e diminuirà il valore reale del debito. Ma un’inflazione che annulla tutta (o quasi) la svalutazione nominale, lasciando pressoché inalterato il tasso di cambio reale, è proprio la cosa da evitare. D’altra parte, se tutto il debito dovesse essere restituito in Euro, il Tesoro dovrebbe ripagare 2.200 miliardi di Euro esborsando 2.420 miliardi di Nuove Lire. Dunque il “risparmio” che si otterrebbe ridenominando in Nuove Lire è semplicemente quello del costo in più che si sosterrebbe svalutando la moneta senza ridenominare il debito.

La fase A termina nel momento in cui il governo decreta il ritorno alla Lira e la ridenominazione dei valori risultanti da tutti i contratti sotto legislazione italiana: salari, pensioni, prezzi, valori delle proprietà immobiliari, delle azioni, delle ipoteche, dei depositi, ecc. Risulterebbero ridenominati tutti i bilanci degli enti pubblici e delle banche.

Subito dopo, inizia la fase B della crisi. Quali problemi sorgerebbero?

Secondo alcuni, ci sarebbero diversi mesi di difficoltà tecniche causate dai limiti del processo di produzione e distribuzione del nuovo circolante (Åslund

16 Secondo un’autorevole interpretazione giuridica, la lex monetae si applicherebbe a tutti i titoli emessi sotto legislazione italiana, anche quelli detenuti da creditori esteri (Variant Perception, 2012, 51); ma è un’interpretazione. Naturalmente i titoli emessi sotto legislazione straniera vanno ripagati nella moneta di emissione. Comunque coprono solo il 2,5% del debito pubblico italiano.

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A. 2012; Codogno e Galli, 2017). Secondo me è un’esagerazione. Gran parte delle transazioni in un sistema economico moderno viene effettuata con moneta elettronica oppure con assegni, e non ci vorrebbe molto tempo per far funzionare questa parte del nuovo sistema dei pagamenti. Quanto alle transazioni effettuate in contanti, se la Zecca dello Stato fosse incapace di produrre in tempi rapidi tutte le nuove banconote e monete necessarie, potrebbe appaltare parte della produzione ad altre zecche (Bootle, 2012, 142-4).

Un altro problema che è stato sollevato da alcuni oppositori dell’Italexit potrebbe essere quello che si porrebbe alle imprese e alle famiglie che hanno debiti e passività in valuta estera con soggetti non residenti. Incorrerebbero in perdite pari all’entità della svalutazione della Nuova Lira. D’altra parte le imprese e le famiglie che hanno attività sull’estero avrebbero dei guadagni.

Quale sarebbe l’effetto netto? Ebbene, accade che la posizione finanziaria netta verso l’estero del settore privato italiano gode di un saldo attivo di circa 580 miliardi di Euro, e solo il settore bancario ha un saldo passivo (di 180 miliardi) (Grazzini, 2017). Dunque questo tipo di problema semplicemente non esiste nell’aggregato. Anzi, tutti quelli che hanno esportato capitali farebbero salti di gioia. Laddove il problema esiste, soprattutto nelle banche, i debitori nazionali dovranno cercare di rinegoziare con i creditori esteri, oppure andranno incontro a perdite più o meno rilevanti. Il governo si riserverà la facoltà di aiutare i soggetti in difficoltà offrendo sussidi oppure, nei casi di grandi imprese che rischiano il fallimento, offrendo il salvataggio pubblico con la partecipazione statale. È questa la fase in cui il governo dovrà tener fede all’impegno di salvare le banche dal fallimento.

Un problema più serio che si porrebbe nella fase B è quello relativo all’indebitamento in conto TARGET2. Questo è un sistema di debiti e crediti che le Banche Centrali Nazionali hanno con la BCE. È gestito nella forma di una piattaforma europea per il regolamento di pagamenti di importo rilevante.

Se non ci fosse l’Unione, un paese con un deficit della Bilancia dei Pagamenti perderebbe riserve ufficiali o dovrebbe farsele prestare. Il contrario accadrebbe a un paese con un surplus. Ebbene, una attività TARGET2 di una Banca Centrale Nazionale verso la BCE è come se fosse un prestito di riserve ufficiali concesso alle Banche Centrali Nazionali dei paesi con passività TARGET2.17

Il saldo TARGET2 della Banca d’Italia è stato negativo a partire dal 2011 e ha raggiunto la cifra di 357 miliardi di Euro a dicembre 2016 (Banca d’Italia, 2017, 31). Le fughe di capitali sono in buona parte responsabili di questo fenomeno. Le loro cause vanno rintracciate soprattutto nella percezione di un crescente rischio di ridenominazione del debito pubblico italiano (Guglielmmi e

17 Per delle esaurienti spiegazioni del funzionamento di TARGET2, vedi Cesaratto (2017) ed Econopoly (2017).

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Minenna, 2017, 14). In parte l’indebitamento TARGET2 è dovuto agli acquisti di titoli effettuati dalla Banca d’Italia su mercati esteri in connessione con il quantitative easing della BCE. Ma sembra che anche buona parte di questi saldi sia da attribuire a fughe di capitali, in quanto i titoli acquistati dalla Banca d’Italia sarebbero stati venduti da soggetti italiani (Dor, 2016; Minenna, 2017).

Se il nostro paese dovesse uscire dall’Unione, la Banca d’Italia sarebbe tenuta a regolare le proprie passività TARGET2 con la BCE? Secondo Draghi sì, ma i trattati non ne parlano. Da parte mia, sperando di essere smentito da un esperto giurista, devo dire che mi sembra giusto pagare. Come che sia, poniamo che il governo decida di pagare. Ci sarebbero diversi modi18 per farlo: una perdita della quota italiana del capitale e delle riserve ufficiali della BCE;19 uno swap concordato con la BCE mediante il quale alcune attività della Banca d’Italia verrebbero usate per ridurre i saldi TARGET2;20 l’acquisto di Euro contro Nuove Lire sul mercato dei cambi; queste riserve, insieme a quelle già detenute dalla Banca d’Italia, potrebbero poi essere usate per saldare parte delle passività TARGET2; una modifica della composizione delle riserve ufficiali, con l’acquisto di Euro e la vendita di Dollari e altre riserve; questi Euro verrebbero poi usati per saldare parte del debito TARGET2; la negoziazione di una diluizione dei pagamenti nel tempo.21

Resta sempre la possibilità di non saldare parte delle passività TARGET2 o anche tutte, cosa che si potrebbe fare lasciando fallire la Banca d’Italia (Dor, 2011, 7). Ovviamente si aprirebbe un contenzioso. Il paese che ha il più grosso saldo attivo è, guarda caso, la Germania. È come se dovessimo restituire ad essa, tramite la BCE, delle riserve ufficiali che ci avrebbe (fittiziamente) prestato. Per fare cosa? Per acquistare automobili tedesche e investire in fondi tedeschi. Quindi di che si potrebbero eventualmente lamentare Weidmann e Schäuble se non pagassimo? Ma sono sicuro che un governo italiano che decidesse l’uscita dall’Unione sarebbe pronto a dare a Weidmann e Schäuble

18 Alcuni dei quali studiati da Cattaneo (2017).

19 Sarebbe poca roba, rispetto ai 357 miliardi di saldo passivo. Nel 2015 il capitale versato dalla Banca d’Italia nella BCE era pari a 1,3 miliardi di Euro. Al febbraio 2017 le riserve ufficiali della BCE ammontavano a 68,5 miliardi di Euro, il 12,31% (capital key italiano) dei quali corrisponde a 8,4 miliardi di Euro.

20 Al 31 dicembre 2016 l’attivo della Banca d’Italia è stato di 795 miliardi di Euro. 337 circa sono titoli, gran parte dei quali titoli di stato italiani. Questi verrebbero usati per abbattere il debito pubblico. Tra le rimanenti attività, ce ne sono circa 87 miliardi di oro e crediti in oro, 204 di prestiti a istituzioni finanziarie dell’Eurozona, 35 di altre attività verso l’Eurosistema e 59 di altre attività.

21 Dopo l’introduzione della Nuova Lira si dovrebbe verificare un rientro di capitali in Italia, poiché chi li aveva esportati vorrebbe monetizzare il guadagno causato dalla svalutazione.

Perciò la Banca d’Italia usufruirebbe di un afflusso di valuta estera, soprattutto Euro, e potrebbe usare queste riserve per pagare i saldi TARGET2.

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piena soddisfazione, per esempio, offrendosi di saldare subito le passività TARGET2 pagando in Nuove Lire. La Bundesbank potrebbe accettarle come riserve di valuta estera e poi chiedere alla BCE di annullare, per il corrispettivo in Euro, le attività TARGET2 tedesche e la passività TARGET2 italiane.

Alternativamente, la BCE potrebbe accettare Nuove Lire come riserve di valuta estera riducendo di pari ammontare le passività TARGET2 della Banca d’Italia.

Cosa può fare l’Italia da sola fuori dell’Unione?

L’uscita dall’area Euro non sarebbe sufficiente per risolvere i problemi economici dell’Italia. Restando nell’Unione Europea dovremmo rispettare i trattati istitutivi ed emendativi, e dovremmo sottostare ai diktat della Commissione Europea e della Corte di Giustizia. Bisogna uscire proprio dall’Unione Europea, in modo che il governo e le istituzioni rappresentative e partecipative possano riacquistare tutti i poteri necessari per fare le politiche sociali, fiscali, industriali, commerciali, e per farle senza dover rendere conto ad altri che al popolo italiano. Ma neanche questo sarebbe sufficiente. Bisognerà varare subito delle riforme per disfare le controriforme imposte dalle élite euriste, e innanzitutto bisognerà cancellare dalla nostra costituzione quelle parti dell’articolo 81 che istituiscono il pareggio di bilancio (Palma, 2015).

Un’altra cosa da fare è decretare la nazionalizzazione della Banca d’Italia.

Oppure, se proprio si ha paura di una cosa così sovversiva, si può decidere di tornare allo status quo ante 1981. La Banca Centrale assume la funzione di prestatore di ultima istanza per il Tesoro ed è obbligata a comprare i titoli di stato alle aste sul mercato primario al prezzo deciso dal Ministro. Inoltre, come già accennato, si deve ripristinare lo scoperto di conto sul Conto di Disponibilità del Tesoro presso la Banca. Sarebbero due atti rivoluzionari, diciamo: la presa del palazzo Koch. Con essi si mette in chiaro in faccia al mondo che il governo italiano non può fallire e che si finanzia al costo da esso stesso deciso. Quale che sia l’entità del debito pubblico con cui si esce dalla crisi di passaggio, non sarebbe più un grave problema, né per lo stato né per i suoi creditori.

Uno dei principali vantaggi che l’Italia otterrebbe dall’uscita risiede nel recupero di quella sovranità monetaria con cui si può rimuovere il vincolo interno alle politiche fiscali espansive, e quindi nel recupero anche di una effettiva sovranità fiscale. La possibilità di mantenere dei deficit del bilancio pubblico non sarebbe sufficiente, se poi si dovesse sottostare alla tirannia degli speculatori nel determinare il servizio del debito. Porre la Banca Centrale sotto il controllo del Tesoro significa liberare l’Italia da quella tirannia. Un altro vantaggio prodotto da tale controllo consiste nella possibilità di svalutare la

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Nuova Lira. In questa maniera si può rimuovere anche il vincolo esterno alle politiche fiscali espansive: un eventuale deficit della Bilancia dei Pagamenti determinato da politiche espansive di tipo keynesiano potrebbe essere eliminato con la svalutazione (Stirati e Zenezini, 2016).

Ancora un’altra cosa da fare, dopo aver nazionalizzato la Banca d’Italia, è salvare le banche che si trovassero sull’orlo del fallimento a causa della crisi di passaggio. Ne ho già accennato. Le banche sarebbero state messe in difficoltà dalle politiche del governo, e quindi sarebbe giusto che il governo le salvasse.

Le loro azioni si svaluterebbero drasticamente e la Cassa Depositi e Prestiti o il Ministero dell’Economia e delle Finanze potrebbero comprarle a prezzi di liquidazione. Poi le banche a partecipazione statale verrebbero ricapitalizzate, dichiarate Banche d’Interesse Nazionale (com’era prima delle privatizzazioni) e amministrate nell’interesse pubblico, ad esempio a sostegno delle politiche industriali.

A questo punto il governo avrebbe tutti gli strumenti per avviare la liberazione dell’Italia “dalle mani de’ barbari”, non solo quelli stranieri. E per avviare una tale liberazione farebbe una politica fiscale fortemente espansiva, così da rilanciare la crescita della produzione e riassorbire la disoccupazione e l’inoccupazione accumulate in decenni di neoliberismo selvaggio.

Come ho già detto, il vincolo esterno verrebbe allentato con la svalutazione della Nuova Lira. E qui bisogna aprire un’altra parentesi per accennare ad alcuni problemi che sono stati sollevati da vari economisti. Intanto, sarebbe necessaria una svalutazione? Secondo alcuni, no, visto che abbiamo un conto corrente in surplus. Il fatto però è che questo surplus è stato ampiamente determinato dal ristagno della produzione e dei consumi, e quindi che una politica fiscale fortemente espansiva farebbe aumentare le importazioni e renderebbe comunque necessaria una svalutazione. Di quanto? Nessuno può dirlo con precisione. Infatti quelli che danno numeri ragionevoli propongono cifre che vanno dal 13% al 30%. I catastrofisti suggeriscono numeri anche più alti: il 50% (Biasco, 2014), il 50-60% (Bianchi, 2015; Lunghini, 2016), il 60%

(Deo, Donovan e Hatheway, 2011) e già che ci siamo – perché no? – perfino una serie di svalutazioni ricorrenti tali da causare iperinflazione (Åslund, 2012).

Secondo alcuni, poiché avrebbe forti effetti inflazionistici la svalutazione sarebbe pagata dagli operai con una pesante riduzione dei salari reali. Tuttavia gli ottimisti, come Bagnai e Mazzei,22 fanno osservare che tra il 1992 e il 1995, la Lira si è svalutata del 50% e il tasso di inflazione è sceso dal 5,9% al 4,6%!

Daveri (2014) ha notato che ciò è potuto accadere in seguito all’eliminazione

22 Bagnai ha dato molti contributi alla chiarificazione di questo problema. Vedi Bagnai (2012) e vari interventi su Goofynomics.blogspot.it. Di Mazzei, vedi il saggio pubblicato in questo numero de Il Ponte.

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