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MEDICO LEGALI.

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EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE E DOTTRINARIA RELATIVA AL CONCETTO DI INVALIDITÀ PENSIONABILE: CONSIDERAZIONI

MEDICO LEGALI.

JURISPRUDENTIAL AND DOCTRINAL EVOLUTION RELATED TO DISABILITY RETIREMENT CONCEPT: CORONER CONSIDERATIONS.

A. Porrone

* ,

P. Fallani

**

ABSTRACT

Gli autori affrontano l’argomento dell’evoluzione giurisprudenziale e dottrinaria nell’ambito dell’invalidità pensionabile, partendo dagli esordi fino ad arrivare allo stato attuali, ripercorrendo le tappe essenziali di tale cammino e attraversando gli elementi giuridici e applicativi che ne hanno rappresentato i fondamenti.

In tal modo è stato possibile approfondire i concetti di capacità di guadagno e di lavoro, i quali hanno subito diversi rimodellamenti non solo in virtù dei cambiamenti legislativi intercorsi nel tempo ma grazie all’opera di accertamento svolta dalla magistratura civile, intervenuta più volte in tal senso con numerose sentenze a chiarimento del significato concreto e delle relative applicazioni.

INTRODUZIONE

L’Excursus storico dell’ Invalidità Pensionabile prende le mosse da epoche antiche, con la legge del 17.07.1889 con cui fu istituita in Italia la prima forma di assicurazione su base volontaria, gestita da un sistema di assicurazioni private che presto falliva.

* Coordinatore Medico Centrale – Responsabile U.O.C. Area Studi, Ricerca e Procedure Medico Legali, Coordinamento Generale Medico Legale INPS Roma.

**Responsabile U.O.S. “Formazione” Area Studi, Ricerca e Procedure Medico Legali – Coordinamento Generale Medico Legale INPS Roma. Docente di Medicina delle Assicurazioni Sociali presso l’Università degli Studi di Ferrara.

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Con la legge n. 376 del 1907 veniva creata la Cassa Nazionale di Previdenza, gestita dall’Ente Pubblico, su base volontaristica, che diventava obbligatoria con la Legge n. 1907 del 11.11.1917 ma solo per i lavoratori dell’industria bellica.

Ma è con la promulgazione della Legge n. 603 del 21.04.1919 che l’assicurazione era estesa alla gran parte dei dipendenti e affidata alla Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali, che dal 1933 prendeva il nome di Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, per cui poi, con il R.D.L. n. 1827 del 04.10.1935, tutte le norme relative all’assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia venivano riunite con quelle contro la tubercolosi, la disoccupazione involontaria, la nuzialità e la natalità.

Legislazione successiva alla II^ Guerra Mondiale, come la 1047 del 1957 e altre similari estendevano l’assicurazione ai CD, coloni e mezzadri, ai pescatori della piccola pesca, agli artigiani, ai lavoratori autonomi e e ai commercianti, con limiti d’età per la pensione di vecchiaia stabiliti a 65 e a 60 anni, per uomini e donne.

Di pari passo anche il concetto d’invalidità pensionabile subiva un’evoluzione legislativa e giuridica, a far data dalla Legge n. 603 del 21.04.1919 in base alla quale si stabiliva che: “si considera inabile al lavoro l'assicurato la cui capacità di guadagno è ridotta a meno di un terzo del guadagno abituale normale delle persone che esercitano lo stesso mestiere nella stessa località, laddove il termine “inabile” non aveva però il significato, assunto successivamente di perdita totale della capacità di lavoro o di guadagno.

Dopo varie altre leggi che rimodellavano il concetto di invalidità pensionabile, a seguito della Sentenza 2132/71 della Corte di Cassazione, veniva stabilito che: “In tema di condizioni per la concessione della pensione di invalidità, occorre distinguere la capacità di lavoro e la capacità di guadagno; dovendo quest'ultima essere valutata di volta in volta in relazione alle generiche attitudini individuali dell'assicurato, l'indagine ai fini della concessione della pensione, non può limitarsi ad accertare la diminuzione della capacità lavorativa, ma deve avere riguardo a tutti gli elementi estrinseci dati dalle condizioni ambientali ed economico-sociali, nonché dalle concrete possibilità di impiego offerte dal mercato, anche in rapporto alla concretezza che, in correlazione alle infermità del soggetto, possa limitare od escludere l'effettiva possibilità di collocamento e la proficua utilizzazione delle residue energie di lavoro”, veniva in seguito introdotta la Legge 3/6/75, n. 160, in base alla quale: “si considera invalido l'assicurato la cui capacità di guadagno in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotto in modo permanente, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, a meno di un terzo”.

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Da ultimo con la Legge n. 222 del 12 giugno 1984, tuttora vigente, il rischio assicurativo veniva duplicato, per cui venivano istituiti l’Assegno Ordinario d’Invalidità, in base al quale

“Art. 1: si considera invalido ... l'assicurato la cui capacità di lavoro, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente a causa di infermità o difetto fisico o mentale a meno di un terzo.

Art. 2: si considera inabile... l'assicurato o il titolare di assegno d'invalidità … il quale, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, si trovi nell'assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa.”.

Le novità essenziali introdotte pertanto dalla legge riguardavano, nello specifico, la sostituzione del parametro della riduzione, in modo permanente, a meno della metà della capacità di guadagno con il diverso parametro costituito dalla riduzione, sempre in modo permanente, a meno di 1/3 della capacità di lavoro, da valutare, nel secondo caso, unicamente sulla base dei requisiti di permanenza dei dati patologici biologici, costituiti dalle infermità o difetti fisici e mentali, e non già anche da riferimenti di carattere socio – economico, non, quindi, di tipo medico legale, come in precedenza.

In ogni caso la capacità di lavoro viene rapportata, in questo caso, alle occupazioni confacenti alle attitudini, ossia alla sfera attitudinale del soggetto di volta in volta preso in esame, in base alle esperienze lavorative maturate e al bagaglio culturale lavorativo posseduto dal lavoratore, con un criterio di valutazione, quindi riferito ad una capacità lavorativa di carattere orientativamente semispecifico, con apprezzamento anche delle possibilità eventuali di riqualificazione professionale allo stesso attribuibili.

La disamina relativa all’excursus sull’evoluzione dottrinale e legislativa dell’invalidità pensionabile si conclude con una rivisitazione dei concetti e dei parametri di riferimento individuati dalla legge medesima, come anche espresso in precedenza, con un abbozzo di rendiconto finale a distanza di oltre 26 anni dall’introduzione della legge medesima, per cercare di apprezzarne meglio i pregi e individuarne eventualmente i limiti, ossia di valutarne la modernità attuale e l’appropriatezza, in termini analitici e prospettici, anche alla luce dell’introduzione, in epoche relativamente recenti, ossia l’anno 2004, dell’informatizzazione delle visite medico legali legate all’istituzione del Fascicolo Elettronico Globale SIGAS delle Attività Sanitarie, con la possibilità di creare finalmente un archivio storico delle domande avanzate nel tempo dagli assicurati e dei relativi dati sanitari di volta in volta inseriti, di evidente grande valenza e rilevanza sotto il profilo procedurale e applicativo e del controllo dei flussi gestionali, oltre ché per la intrinseca proprietà del sistema di consentire, avvalorare ed estrapolare criteri di giudizio medico legale finalmente condivisi ed omogenei su tutto il

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territorio nazionale, soprattutto attraverso ricerche epidemiologiche e possibili studi di settore.

L’ INVALIDITA’ PENSIONABILE

L’invalidità pensionabile trae la sua giustificazione etica e giuridica essenzialmente in due articoli della Costituzione, ossia l’art. n. 3 e l’art. n. 38, il più specifico al riguardo, che, per completezza espositiva vengono qui di seguito integralmente riportati:

“ARTICOLO 3

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

ARTICOLO 38

Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale.

I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale.

Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.

L'assistenza privata è libera.”

Venendo invece all’argomento del tema trattato, ossia l’excursus storico più recente, con la Legge 3/6/75, n. 160, in base alla quale: “si considera invalido l'assicurato la cui capacità di guadagno in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia

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ridotto in modo permanente, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, a meno di un terzo”, veniva introdotto e valorizzato il concetto di riduzione della capacità di guadagno in occupazioni confacenti alle attitudini.

I parametri di riferimento della legge apparivano, quindi, la capacità di guadagno, intesa in parte come capacità biologica ma sottesa principalmente al fattore economico della possibilità di guadagno, rapportata, quindi, alla situazione socio – economica del sistema produttivo zonale in cui operava il lavoratore, e le occupazioni confacenti alle attitudini, ossia alla sfera attitudinale del soggetto rapportata all’età, alla preparazione culturale, alle esperienze lavorative nel frattempo maturate, ovvero alle possibilità in concreto esercitabili per lo svolgimento di determinate settoriali attività lavorative.

Apparendo però il fattore economico preponderante, al punto da essere anteposto alla riduzione della capacità biologica del soggetto lavoratore considerato, dovuta ad infermità o difetto fisico o mentale, e palesandosi, quindi, il giudizio di merito troppo sganciato dallo stato di effettiva validità dell’assicurato, validità intesa come integrità dello stato psicofisico, potendo ciò dare la stura ad una estrema discrezionalità e disomogeneità nella concessione delle prestazioni previdenziali medico legale, faceva perciò apparizione la Legge n. 222 del 12 giugno 1984, quella tuttora vigente, in base alla quale il rischio assicurativo veniva duplicato, e venivano, pertanto istituiti l’Assegno Ordinario d’Invalidità e la pensione Ordinaria d’Inabilità, di cui agli artt. 1 e 2 della legge medesima come di seguito riportato:

“Art. 1: si considera invalido ... l'assicurato la cui capacità di lavoro, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente a causa di infermità o difetto fisico o mentale a meno di un terzo.

Art. 2: si considera inabile... l'assicurato o il titolare di assegno d'invalidità … il quale, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, si trovi nell'assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa.”.

La distinzione operata fra capacità di guadagno e capacità di lavoro, ovvero la valorizzazione del concetto di capacità di guadagno si concretizzava con la Sentenza della Corte di Cassazione n. 2132 del 1971, in base alla quale veniva argomentato quanto segue:

“In tema di condizioni per la concessione della pensione di invalidità, occorre distinguere la capacità di lavoro e la capacità di guadagno; dovendo quest'ultima essere valutata di volta in volta in relazione alle generiche attitudini individuali dell'assicurato, l'indagine ai fini della concessione della pensione, non può limitarsi ad accertare la

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diminuzione della capacità lavorativa, ma deve avere riguardo a tutti gli elementi estrinseci dati dalle condizioni ambientali ed economico-sociali, nonché dalle concrete possibilità di impiego offerte dal mercato, anche in rapporto alla concretezza che, in correlazione alle infermità del soggetto, possa limitare od escludere l'effettiva possibilità di collocamento e la proficua utilizzazione delle residue energie di lavoro”.

La necessità di non potersi attenere alla semplice riduzione, in senso lato, della capacità lavorativa, ma di avere in considerazione gli elementi estrinseci legati alle condizioni ambientali e socio – economiche, in base alle concrete possibilità d’impiego offerte dal mercato appariva consona al momento storico e alle esigenze occupazionali e di sussistenza legate al mondo lavorativo e produttivo del momento.

La proliferazione delle prestazioni previdenziali susseguente all’introduzione della predetta Legge n. 160 del 1975 e l’esigenza verificata di rapportarsi in modo più stretto e diretto alle reali condizioni di salute del soggetto esaminato, portavano il legislatore alla promulgazione della Legge 222 del 12 giugno 1984 in cui la riduzione della capacità di lavoro e non più quella di guadagno appariva momento centrico del giudizio medico legale di competenza.

La legge medesima aveva quindi il pregio di riportare nell’alveo della normalità e della fisiologia il numero delle prestazioni medico legali concesse.

Inoltre la distinzione operata fra riduzione della capacità di lavoro a meno di 1/3 in occupazioni confacenti alle attitudini e perdita totale della capacità di lavoro medesima, con residuo cascame di organismo, corrispondeva ad una realtà di giudizio che si concretizzava nel riconoscimento da un lato di una incisiva e prevalente perdita della capacità di lavoro, in modo, quindi, permanente e grave, per una qualsivoglia infermità nel frattempo intervenuta, onde il rischio assicurativo tutelato, e dall’altro di una totale perdita della capacità lavorativa, non più di tipo specifico o semispecifico o attitudinale, ma globale, onde l’impossibilità dello svolgimento di qualsiasi attività lavorativa, evidentemente per un’infermità di tale entità e grado da consentire a malapena e per un periodo di tempo variabile, di assolvere alle semplici esigenze della vita di relazione.

Nel caso della concessione dell’Assegno Ordinario di Invalidità le novità riguardavano, in speciale modo, la temporalità triennale dello stesso assegno e la possibilità della concessione dell’Assegno Ordinario anche in caso di Rischio o Vizio Precostituito, purché nel frattempo aggravatosi in modo apprezzabile e permanente per il sovrapporsi di nuove patologie o per evoluzione e progressione di quelle già in essere, per cui il soggetto veniva rivisitato ogni 3 anni, per legge, essendo la revisione

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automatica e la concessione definitiva subordinata al riconoscimento di tre assegni consecutivi.

Ciò traduceva il concetto, sul piano pratico, della possibilità di miglioramento o emendabilità della patologie medesime nel tempo, ovvero del riadattamento funzionale del soggetto a nuove mansioni.

Volendo valutare in modo analitico gli aspetti costitutivi essenziali e i parametri di riferimento della Legge 222/84 in parola, relativamente ai giudizi di cui agli artt. 1 e 2 della stessa, è possibile verificare quali siano gli elementi costitutivi salienti in relazione al motivo del contendere e ai contenuti intrinseci della legge medesima.

La capacità di lavoro racchiude di per se diversi concetti e rappresenta nel suo insieme l’espressione di una riduzione dell’efficienza psicofisica del soggetto e del relativo rendimento bio – meccanico, dipendendo l’efficienza dai seguenti fattori individuali:

 il sesso, riguardando i lavori più pesanti, in genere, il sesso maschile;

 l’età, che riduce, fisiologicamente, nel tempo, l’efficienza fisica e lavorativa, in considerazione che mediamente all’età di 65 anni il lavoratore è in possesso del 75 % di tale efficienza misurata a 30 anni;

 la preparazione culturale, scolastica e professionale che implica l’attitudine ad occuparsi di lavori di tipo intellettuale o di carattere complesso, per cui può apparire declassante, laddove la preparazione sia evoluta o molto specialistica, occuparsi di attività di semplice manovalanza;

 le condizioni generali di salute, le situazioni patologiche, di carattere evolutivo o meno, a prescindere dalla più o meno chiara individuazione dell’eziologia dell’infermità in atto, tali da inficiare l’efficienza del lavoratore sia sotto il profilo anatomico che soprattutto funzionale; si può trattare indifferentemente di malattie fisiche o mentali, con carattere di evolutività, sia degli effetti stabilizzati che degli esiti, ovvero sia di condizioni genetiche che di postumi di infortuni accidentali o lavorativi dipendenti o meno da fatti colposi o dolosi a carico di terzi o dell’assicurato medesimo, escluso l’autolesionismo.

La capacità di guadagno sottintende la possibilità di una riduzione della stessa in base non solo alle caratteristiche produttive intrinseche del soggetto considerato ma anche e soprattutto alle condizioni sociali ed economiche del contesto di riferimento.

Se il mercato del lavoro è favorevole, anche in condizioni di relativa o incidente menomazione fisica il lavoratore potrà ugualmente essere in grado di collocarsi utilmente in un ambiente lavorativo idoneo.

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In rapporto a ciò ai Comitati Provinciali era demandato il compito precipuo di esaminare, nei Ricorsi amministrativi, la situazione socio – economica della provincia, ovvero le concrete possibilità di impiego dell’assicurato in rapporto alle condizioni produttive ed economiche della Provincia di competenza.

In più sentenze la Cassazione precisava che le condizioni socio – economiche potevano avere un reale peso specifico nella decisione della concessione delle prestazioni economiche previdenziali laddove la riduzione della capacità di lavoro si collocasse ad una soglia molto vicina al limite di legge, per cui il “quid pluris” delle potenzialità di guadagno scattavano in una quota parte minima del giudizio in essere, ossia nei casi realmente dubbi, volendo tradurre ciò sul piano pratico.

Riguardo alle occupazioni confacenti alle attitudini, per attitudine si deve intendere una disposizione somato – psichica connaturata che in virtù di adeguati processi di maturazione e di apprendimento si sviluppa con l’idoneità allo svolgimento di una certa attività di carattere redditizio, di valenza semplice o complessa.

Alla luce del disposto di cui alla Legge 222/84, la riduzione della capacità lavorativa non va commisurata con la limitazione allo svolgimento del lavoro specifico o della mansione e non va neppure riferita ad un lavoro qualsiasi, di carattere generico o più o meno indifferenziato ma si rapporta ad una valutazione di tipo individuale e attitudinale, da determinare caso per caso, in modo tale da coinvolgere lo spettro delle attività che lecitamente si addicono al soggetto considerato, senza aggravio di pericolo e senza usura o possibilità di declassamento degradante.

La permanenza della condizione morbosa in atto implica l’esistenza di una condizione patologica stabile e durevole, della quale non sia pronosticabile la remissione o guarigione, non implicando in sé il concetto di immutabilità o di costanza sine die, per tutta la durata della vita.

Il requisito della permanenza si può ritenere valido riferito alle seguenti situazioni morbose:

 malattie croniche in generale, di carattere continuo;

 postumi stabilizzati invalidanti, ma ancora potenzialmente forieri di evoluzione;

 indebolimento ovvero perdita anatomica o funzionale di sensi, organi, apparati o arti, potendo ciò sfumare o corrispondere ad una autentica in emendabilità del quadro morboso;

 malattie croniche a decorso accessionale, ciclico, con carattere di discontinuità o stagionale, ovvero patologie ad andamento cronico – ricorrente o remittente, purché la periodicità sia a cadenza non breve e la necessità di cure sia costante e

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la terapia non si dimostri risolutiva, potendosi trattare, nella fattispecie, ad es., di forme di epilessia con accessi frequenti, di malattie, come quelle del connettivo o le malattie intestinali croniche, ovvero la sclerosi multipla, con riaccensioni periodiche e pousséé di tipo intermittente o remittente, in grado di condizionare pesantemente la vita di relazione, oltre alla capacità lavorativa, anche con possibilità evolutive, pure in considerazione che l’andamento della progressione o della remissione della forma morbosa non appare ben chiaro, o da ultimo di malattie ad andamento prevalentemente stagionale anche se di base cronico intermittente o remittente.

La Legge 222/84, in verità, rispecchia nel suo spirito, in buona misura, una raccomandazione espressa al riguardo nella data del 27 settembre 1966 dal Comitato Economico e Sociale della CEE, che auspicava l’introduzione da parte dei Paesi membri di 2 categorie d’invalidità, ossia quella parziale e quella totale, malgrado che la stessa raccomandazione sollecitasse gli Stati ad applicare all’invalidità pensionabile il concetto della capacità di guadagno.

Quindi, l’innovazione principale apportata dall’art. 1 della suddetta Legge 222/84 riguardava l’introduzione della capacità di lavoro al posto della capacità di guadagno, nozione che risaliva al 1919, quale criterio di riferimento per la definizione del concetto dell’invalidità pensionabile stessa.

Ciò appariva legato storicamente alla necessità di porre un freno alla proliferazione delle prestazioni pensionistiche in base al criterio previgente.

Questo veniva largamente imputato da un’indagine del CNEL alla politica assistenziale messa in atto dal governo e dalla magistratura.

Anche i criteri di concessione apparivano assai larghi in relazione all’abbassamento al 50 % della soglia dell’invalidità per avere diritto alla prestazione, ciò che appariva come una forma di radicazione del concetto dell’”invalidità facile”.

Contestualmente veniva pertanto elevato anche il limite dell’età di pensionamento per la pensione di vecchiaia dei lavoratori autonomi.

In questo caso non era più la potenzialità lucrativa del soggetto il bene protetto dalla norma ma solo l’integrità dell’attitudine psicofisica al lavoro.

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Veniva opinato dai critici dell’epoca che in tal modo potevano apparire protetto i soggetti che pur in gravi condizioni di menomazione fisica per favorevoli circostanze legate alla tipologia dell’attività svolta o del contesto ambientale erano in grado di mantenere una redditizia capacità di guadagno mentre altri meno fortunati in identiche condizioni di lavoro la perdevano insieme al posto occupato, con estreme difficoltà a rioccuparsi.

Secondo taluni osservatori del periodo di apparizione della legge in virtù delle diverse difficoltà occupazionali insite nelle categorie di appartenenza, non era possibile mettere sullo stesso piano lavorazioni disomogenee come quelle dei coloni e mezzadri, degli esercenti attività commerciali, degli artigiani o degli operai, per una chiara disparità del mercato del lavoro, per diverse, evidenti connotazioni lavorative, di reddito e del mercato del lavoro, con netta maggiore incidenza della perdita della capacità lavorativa nell’ambito delle lavorazioni con carico energetico lavorativo maggiore e di qualità più scadente e manovale.

In caso di invalidità preesistente ovvero del cosiddetto rischio precostituito, l’assegno ordinario scatta in caso di sopraggiunto aggravamento per nuove infermità o per evidente peggioramento della condizione iniziale, purché in modo apprezzabile e concreto.

Anche il concetto di inabilità ha subito con l’art. 2 delle predetta Legge 222/84 un rimaneggiamento rispetto allo stesso concetto espresso per la valutazione dei figli maggiorenni inabili relativamente alla pensione ai superstiti come stabilito dall’art. 39 del DPR n. 818 del 1957 laddove era indicato: “… si considerano inabili le persone che per grave infermità fisica o mentale si trovino nella assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro.”, mentre nella Legge 222/84 la frase “per grave infermità o difetto fisico e mentale” è stata sostituita dalla frase “a causa di infermità o difetto fisico o mentale” che sottintendeva un ampliamento non solo alle infermità ma anche ai difetti fisici o mentali e un’accentuazione al criterio del nesso eziologico fra infermità o difetto fisico o mentale e una “assoluta e permanente impossibilità di svolgere impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa”, anche qui con un abbandono del concetto del proficuo lavoro, legato all’aspetto della minorata autosufficienza economica, legata anche in questo caso ai fattori ambientali socio – lavorativi – economici.

L’art. 3 relativo all’esclusione dell’assegno ordinario di invalidità e della pensione ordinaria d’inabilità per domande presentate dopo il compimento dell’età pensionabile è stato dichiarato incostituzionale e di fatto abrogato.

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Oltre al requisito contributivo di almeno 5 anni di iscrizione all’assicurazione e a quello del requisito costituito da almeno 5 anni di contribuzione effettiva c’era anche il limite costituito dai 3 anni di contributi negli ultimi 5 anni dalla domanda.

Molto simili appaiono i requisiti poi dell’Assegno mensile per l’assistenza personale e continuativa ai pensionati di inabilità ad identiche prestazioni in ambito INAIL, per infortunio o malattia professionale, o nel caso della pensionistica di guerra o dei titolari di pensione privilegiata a carico dello Stato o degli invalidi civili di cui alla Legge 18/80., rappresentati sempre dall’impossibilità a deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o dalla necessità di un’assistenza continua per compiere gli atti quotidiani della vita, non essendo, al riguardo, le menomazioni tabellate.

L’Assegno e la Pensione Privilegiata di cui all’art. 6 riguarda le tutele delle “cause di servizio”, plurime per il passaggio da una causa unica alle concause, con il requisito contributivo ridotto al semplice inizio del rapporto di lavoro.

Importante è che in questo caso che si dimostri che l’invalidità e l’inabilità risultano in rapporto causale diretto con finalità di servizio.

L’art. 8 della Legge 222/84 con la definizione di inabilità ai fini previdenziali recepisce il nuovo concetto d’inabilità quale requisito essenziale per il riconoscimento, della maggiorazione di pensione e della reversibilità ai superstiti.

Per gli ANF vige il concetto, ai fini del riconoscimento della prestazione, della inabilità al proficuo lavoro.

Detto che la revisione di cui all’art. 9 prevede che l’AOI venga confermato definitivamente dopo tre riconoscimenti consecutivi, che la revisione è annuale nel caso che il lavoratore invalido abbia percepito un reddito nell’anno precedente, per lavoro dipendente o autonomo o professionale o d’impresa, superiore a 3 volte il trattamento minimo del fondo pensioni dei lavoratori dipendenti, si sottolinea come l’Assegno d’Invalidità possa coesistere con il mantenimento del posto di lavoro, ovvero con la tutela della malattia, per riacutizzazioni eventuali della forma morbosa in atto, mentre la pensione d’inabilità sottintende la cancellazione dagli elenchi del lavoro di appartenenza.

In pratica il giudizio finale può riguardare la concessione o la conferma della prestazione, la revoca dell’assegno o della pensione, la rettifica della pensione con il mantenimento dell’assegno, trattandosi nel caso della pensione di una prestazione che di per sé non è soggetta, per definizione, alla revisione.

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L’art. 14 riguarda la surroga nel caso in cui da un fatto lesivo derivi un’invalidità o un’inabilità pensionabile, per dolo o colpa di un terzo responsabile.

L’art. 1916 cc stabilisce che “l’assicuratore che ha pagato l’indennità è surrogato, fino alla concorrenza dell’ammontare di essa, nei diritti dell’assicurato verso terzi responsabili.”.

Il rischio di cumulo dell’assegno o della pensione con l’indennità assicurativa viene quindi obliterato da tale norma che intende salvaguardare il cosiddetto principio indennitario, in base al quale un fatto lesivo non deve costituire fonte di lucro per il danneggiato, al ché, nella pratica quotidiana è invalso l’uso di far sottoscrivere una dichiarazione di cessione all’ente assicuratore di ogni diritto spettante all’assicurato verso il terzo responsabile.

Circa la valutazione dell’invalidità e della inabilità, con la nuova legge il giudizio appare meno difficoltoso che in precedenza, venendo meno il fattore socio – economico.

Tale giudizio, in particolare, non può fare riferimento a tabelle di Legge, in virtù del fatto che dovendosi rapportare alle occupazioni confacenti le attitudini dell’assicurato considerato, sarà necessariamente rivolto alla singola persona.

Non potrà, quindi, tale giudizio fare riferimento a specifiche tabelle di legge come per l’INAIL in quanto nelle stesse ci si rapporta al lavoro generico, ossia ad un lavoro manuale medio totalmente estraneo a qualifiche e specializzazioni, mentre nel caso dell’invalidità pensionabile il giudizio è rivolto ad un’invalidità semispecifica o quasi specifica se non esattamente specifica, ovvero di tipo attitudinale, relativa alla sfera delle occupazione confacenti in base alla preparazione culturale e all’ambito delle attività svolte in prevalenza.

Qualche cauta analogia, larvatamente, può essere conseguita con le apposite Tabelle dell’Invalidità Civile, potendo le attività confacenti far variare relativamente di pochi punti il valore tabellare, fermo restando l’impatto della patologia sulla sfera delle occupazioni confacenti alle attitudini del soggetto considerato.

Gli osservatori dell’epoca, con il senno di poi sottolineano il passaggio, con la Legge 222/84 da una forma di assistenzialismo frustro ad una forma di rigorismo concettuale e procedurale medico legale, ovvero da una forma con riflessi occulti o apparenti di responsabilità professionale individuale e collettiva, anche per la prassi

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precedente di affidare il giudizio a sanitari non medici legali ovvero non a cultori della materia, con uno scadimento complessivo dei giudizi conseguenti, anche per l’esistenza di una legge, quella precedente, a maglie piuttosto larghe, strettamente legata al concetto della capacità di guadagno.

In effetti chi si occupa da vicino, come i medici dell’INPS, dell’invalidità pensionabile, o chi è maestro di medicina legale, come il Cattabeni, sa che l’attività valutativa medico legale più difficile è proprio quella che riguarda l’invalidità pensionabile.

Queste considerazioni critiche sono ben espresse in un articolo editoriale dal titolo “Oltre l’invalidità pensionabile” di C. Buccelli, Difesa Sociale, 2006, N. 2: 7 – 18, insieme ad altre molto interessanti che meritano di essere illustrate.

Anche sotto il profilo della valutazione da parte dei CTU, in sede di ricorso giudiziario si è spesso assistito nel tempo a delle incongruenze dovute o ad un irrigidimento esasperato da parte degli stessi, nell’ambito dei giudizi di merito o, in quota parte apparentemente minore a inopportuna favorevolezza nelle concessioni delle prestazioni.

In buona misura ciò appare dovuto al tipo di estrazione spesso non medico legale dei consulenti utilizzati dai tribunali.

Tutto questo pare aver determinato anche un sorta di patologia del Contenzioso giudiziario della 222/84.

Si ribadisce, nell’articolo, la scelta del legislatore a favore della capacità di lavoro, ossia della valutazione della capacità psicofisica di lavoro personalizzata relativamente alle attitudini del soggetto a svantaggio dei fattori socio – economici.

Si è così evitato di dovere valutare, come nel vecchio sistema, patologie di diversa rilevanza nosografica in modo equivalente snaturando quello che appare un principio assai poco discutibile come quello della diversità dell’impatto di patologie che per forma e grado devono essere apprezzate in grado difforme, per le ricadute differenti sulla capacità lavorativa intrinseca del soggetto esaminato.

Nettamente più congrua appare la valutazione della capacità lavorativa semispecifica o attitudinale in occupazioni confacenti.

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La valorizzazione del fattore biologico e la caratterizzazione delle occupazioni similari in cui il soggetto possa effettivamente essere impegnato in modo proficuo appare operazione di elevato contenuto pratico e medico legale teoretico.

I concetti di usura, declassamento e pericolo alla luce della Legge 22/84 rimangono invariati.

L’attualità di lavoro appare invece criterio assai interessante, tenendo lo stesso conto dell’attività lavorativa effettivamente svolta, anche in funzione di una possibile efficace ricollocazione del singolo lavoratore assicurato considerato.

Il parametro reddituale non sembra incidere in maniera regolare sul giudizio al punto che la mancata contrazione del reddito non rappresenta da solo un criterio valido a dimostrare l’insussistenza del danno alla capacità lavorativa specifica.

L’introduzione di una seconda forma di prestazione previdenziale medico legale come l’inabilità conforta la decisione di formulare un secondo grado d’invalidità totalmente sganciato dai parametri attitudinali, permanendo però due tendenze legate ai concetti di proficuo lavoro e di impossibilità assoluta e permanente allo svolgimento di qualsiasi lavoro, con criterio molto più restrittivo e categorico nel secondo caso.

Ciò parrebbe circoscrivere il giudizio a situazioni in cui si è assistito alla perdita di qualsiasi capacità organica e funzionale tale da poter essere impiegata sotto il profilo lavorativo.

La duplicazione delle prestazioni ha comunque conseguito e inglobato le numerose raccomandazioni in tal senso effettuate dagli organi competenti dell’allora CEE.

Non sembrano sussistere contrasti in tal senso anche con l’art. 38 della Costituzione che assicura agli inabili e ai minorati il diritto all’educazione e all’avviamento professionale, potendosi in tal caso parlare, evidentemente di inabilità parziale, anche ai fini della considerazione dell’attività lavorativa a titolo di reale impegno lucrativo proficuo ovvero di lavoro a carattere terapeutico e riabilitativo, come nel caso dei malati mentali psicotici ovvero affetti da talune patologie psichiatriche di alto grado.

In effetti solo un lavoro proficuo è un lavoro costituzionalmente considerato e valido ai fini della legge 222/84.

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Meritevole di inabilità è anche la riduzione della capacità lavorativa non proprio totale ma gravemente usurante, con possibilità di netto aggravamento della patologia in essere anche con una seppur minima attività lavorativa.

Si può parlare a buon diritto di cascame funzionale nel caso dell’inabilità.

Il rischio o vizio precostituito trovano una loro collocazione nell’ambito dell’invalidità pensionabile per evidente aggravamento della vecchia patologia o insorgenza di nuove patologie con netta incidenza sulla eventuale capacità lavorativa residua.

Sotto il profilo operativo il giudizio medico legale di che trattasi trae il fondamento da una prima operazione di individuazione della capacità lavorativa generica, sotto il profilo biologico, e successivamente dal confronto della situazione somatopsichica del soggetto con il profilo attitudinale nelle ipotetiche occupazioni confacenti.

Un netto distinguo resta impossibile e il vero valore del giudizio medico legale risiede nella capacità dei medici giudicanti di calare il danno biologico riscontrabile nella personalizzazione occupazionale del soggetto considerato, considerando una mera capacità generica o ultragenerica un concetto ormai antistorico e obsoleto.

Tutto ciò risente, peraltro di una tematica di fondo legata al concetto di danno non di tipo esclusivamente anatomico e funzionale, ma strettamente legato agli aspetti dinamico relazionali, come sottolineato dal Barni.

Il percorso di unificazione del concetto di invalidità lavorativa nei vari ambiti appare assai arduo e di difficile futura attuazione, anche per la comparsa, ad. es. della Legge 335/95 dove risiede il solo concetto di inabilità.

Si pone sempre l’ardua questione delle tabelle valutative, meglio se utilizzabili in più ambiti o in tutti gli ambiti, essendo il problema di fondo rappresentato dall’omogeneità dei giudizi medico legali.

E’ da notare che l’istituto della surroga è previsto solo per gli assicurati INPS e non per le altre gestioni assicurative pubbliche.

Circa le differenze esistenti fra il concetto di inabilità ex art. 2 Legge 222/84 e il medesimo compreso nella legge 335/95 è possibile dire che mentre nel caso della Legge 222/84 una residua efficienza pur esigua è consentita ma non deve poter consentire lo svolgimento utile di qualsivoglia attività lavorativa e a tale attività non può

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essere utilmente adibita e applicata, nel caso della Legge 335/95 vigono le disposizioni in materia d’inabilità dipendente da causa di servizio.

Le differenze in tal senso sono notevoli se si pensa che i pubblici dipendenti devono essere valutati con riferimento a Tabelle di legge, come quelle per la Causa di Servizio, ben note e collaudate, mentre gli assicurati dell’INPS vengono valutati sulla base della semplice definizione dell’inabilità.

In effetti la Legge 222/84 attraverso la definizione tassativa di cui all’art. 2, troppo simile nella “totale inabilità lavorativa” all’inabilità civile ex art. 12 delle Legge 118/71 non consente in alcun modo di tenere presente sia le precisazioni dell’INPs, appena dopo l’emanazione della legge, sia le raccomandazioni della CC attraverso varie sentenze, con le quali la Suprema Corte definisce il concetto di attività lavorativa.

Si legga a tal riguardo la Sentenza della CC n. 22878/2008 che a tal riguardo considera:

"a) L’art. 2 va interpretato nel senso che per attività lavorativa si devono intendere le attività confacenti alle attitudini dell'assicurato (Cass. 17 marzo 1994 n. 2558), non usuranti (Cass. 29 aprile 1998 n. 4396), e non dequalificanti (Cass. 25 gennaio 2001 n. 1026);

b) tale attività deve avere il requisito della remuneratività, deve cioè trattarsi di proficuo lavoro, idoneo ad assicurare una remunerazione sufficiente a garantire un'esistenza libera e dignitosa, secondo il parametro dell'art 36 della Cost. (Cass. 26febbraio 1993 n. 2367; Cass. 1026/2001 cit.);

e) l'impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività lavorativa deve essere valutata secondo un criterio concreto, ossia avendo riguardo al possibile impiego delle eventuali energie lavorative residue in relazione al tipo di infermità e alle generali attitudini del soggetto (Cass. 2558/1994 cit.; Cass. 4 agosto 1994 n. 7222; Cass. n. 4396/1998 cit.; Cass. 30 maggio 2000 n. 7212, che ha cassato la sentenza impugnata la quale aveva negato il diritto alla pensione di inabilità in una fattispecie dì riduzione della capacità di lavoro del 90%);

d) ne consegue che, pure una riduzione della astratta capacità di lavoro inferiore al cento per cento può comportare il diritto alla pensione dì inabilità, se impedisce in concreto la possibilità di svolgere qualsiasi proficuo lavoro (Cass. 7212/2000 cit.);

e) l'innovazione legislativa del 1984, se non consente più la valutazione dei fattori socio-economici come accadeva nella precedente disciplina, impone tuttavia di continuare a tener conto della adattabilità dell'assicurato alla nuova occupazione (Cass.

13 maggio 2000 n. 6185), in relazione a tutte le condizioni soggettive cui si è accennato in precedenza, e, si deve aggiungere, alle condizioni oggettive inerenti al

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posto di lavoro ed alla eventuale necessità di modifiche strutturali e organizzative per l’inserimento dell'inabile nel contesto aziendale.”.

L’INPS, a tal riguardo, non pare avere aggiornato le disposizioni contenute nella Circolare n. 1 del 1985, relativa all’introduzione della Legge 222/84.

In ogni caso, sotto il profilo della valenza pratica, i sanitari dell’INPS tengono nel dovuto conto le attività in concreto effettuabili dall’istante, in base alle occupazioni confacenti alle attitudini individuabili, e la reale possibilità di un inserimento produttivo del lavoratore, in funzione dell’entità e della gravità, anche in senso prognostico, del quadro morboso in atto.

In realtà le patologie considerabili, ad un’attenta riflessione, si dimostrano di una tale severità da appiattire ai minimi termini, nella stragrande maggioranza dei casi, la sfera delle possibili attività sia di tipo attitudinale che non.

Ai fini del requisito contributivo è opportuno ricordare che i periodi di inattività forzata per malattia possono essere coperti da contribuzione figurativa, ciò di cui non tutti sono al corrente.

La cessazione da ogni attività lavorativa è il requisito fondamentale per accedere alla pensione d’inabilità, sia nell’ambito del pubblico impiego che degli assicurati dell’INPS.

Peraltro è ben noto che nel pubblico impiego non esiste una prestazione assimilabile all’Assegno Ordinario d’Invalidità, non esistendo, quindi due livelli di invalidità come nel caso degli assicurati INPS.

Il titolare di Pensione d’inabilità dell’INPS può essere, comunque, ad accertamenti sanitari per la revisione dello stato d’inabilità per iniziativa dell’INPS.

Nel caso in cui si riscontrino mutate condizioni di salute con miglioramento delle condizioni patologiche, il provvedimento di revoca scatta dal mese successivo all’accertamento sanitario effettuato.

La surroga, come detto, non è prevista per i pubblici dipendenti inabili.

L’assegno d’invalidità dell’INPS ha una durata triennale e, alla scadenza, l’assicurato deve proporre una nuova domanda. Dopo 2 conferme dell’AOI, ossia 3 assegni consecutivi, esso diventa definitivo.

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Al compimento dell’età pensionabile diventa pensione di vecchiaia ma solo se ricorrono i requisiti contributivi costituiti da almeno 20 anni di contribuzione, considerando, comunque utili gli anni di percezione dell’assegno, anche se l’assicurato non ha lavorato.

Se la persona invalida continua a lavorare, l’assegno può essere ridotto fino alla metà, in base al reddito da lavoro.

Tutto ciò si trae da un articolo dal titolo “Invalidità INPS” apparso sul sito Internet Medicitalia.it, nella parte dedicata alla Medicina Legale e delle Assicurazioni, autore M.

Corcelli, pubblicato il 16.06.2009.

Il ricorso avverso la negazione dell’assegno e della pensione deve essere inoltrato entro 90 giorni dal ricevimento della lettera di comunicazione dell’INPS al Comitato Provinciale dell’INPS.

In caso di mancato accoglimento in sede di ricorso amministrativo può essere proposto ricorso giudiziario entro 3 anni dalla notifica del provvedimento.

Esistono pro e contro, come anche dedotto in precedenza, sul parametro precedente della capacità di guadagno sostituito da quello attuale della capacità di lavoro, laddove la prima si presta ad abusi per sopravvalutazione del fattore socio – economico anche in presenza di quadri morbosi di per sé non esattamente invalidante, mentre la seconda rischia di mettere sullo stesso piano l’invalidità biologica in contesti lavorativi e produttivi totalmente diversi e con evidente disparità di possibilità inerenti il mercato del lavoro.

Un limite oggettivo è costituito dal fatto che l’importo dell’assegno è talvolta talmente irrisorio da non poter costituire alcun tipo di reale tutela dell’invalidità.

In caso di prestazione consensuale da parte dell’INAIL, per infortunio o malattia professionale, per identici motivi patologici, è data facoltà al lavoratore di scegliere la prestazione migliore.

Particolare è la situazione di un nuovo riconoscimento dell’AOI e della POI, per motivi diversi da quelli inerenti un infortunio o una malattia professionale, per importanti e differenti patologie insorte in epoca successiva alla prima domanda.

La pensione d’inabilità, diversamente dall’assegno, è una prestazione reversibile ai superstiti.

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A seguito di alcune sentenze, n. 1821, n. 6603, n. 1998, n. 4829 e 4911, tutte del 2001, si è trovata una soluzione all’immutabilità del titolo pensionistico.

Ad oggi è quindi possibile che un assegno d’invalidità possa essere trasformato in pensione di anzianità a condizione cha siano presenti tutti i requisiti di legge, non escluse le famose “finestre”.

Tutto ciò è accaduto perché non era consentito agli eredi di un titolare di assegno nel frattempo defunto di presentare domanda di trasformazione in sua vece.

Può accadere anche l’ipotesi della mancata coincidenza dell’Assegno di Accompagnamento con l’inabilità, per la diversità dei due istituti.

Tale è il senso di una Sentenza della CC, n. 11295 del 2000, in cui si specifica che se l’aiuto del familiare rimane circoscritto all’ambito del sostegno del nucleo familiare di appartenenza, allora l’inabilità non spetta, ma se l’intervento dell’accompagnatore serve ad integrare la prestazione medesima, o a renderla possibile, allora spetta.

Alcune sentenze, come la Sentenza CC n. 9487 del 1994, ribadiscono che:

 per attività lavorativa si deve intendere “un’attività da esplicare con quella intensità e quelle modalità richieste nel rapporto di lavoro”;

 per l’inabilità l’accertamento della permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa non sottintende qualunque attività ma “… un’attività qualificata da quella subordinazione e da quell’impegno normalmente richiesti in un rapporto di lavoro”, escludendo, ad es., quello svolto nel proprio ambiente familiare.

L’inabilità va valutata con criterio concreto (Sentenza n. 7212 del 2000), dovendo l’attività possedere il requisito della rimuneratività.

Da un articolo dal titolo “Il trattamento pensionistico in caso di invalidità o inabilità”, di O. Di Loreto, Internet, aprile 2002, è possibile trarre qualche altro spunto di riflessione.

Viene qui precisato che:

 l’Assegno di Invalidità non è reversibile ai superstiti, spettando agli eredi il trattamento previsto per gli eredi di assicurato e non di pensionato;

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 sono ritenuti utili ai fini contributivi gli anni di godimento dell’AOI, con possibilità di trasformazione, al compimento dell’età, in pensione di vecchiaia;

 l’inabilità causata da infortunio sul lavoro o malattia professionale INAIL e relativa rendita vitalizia, la maggiorazione è concessa per la parte eventualmente eccedente l’ammontare della rendita stessa.

Di grande valore storico, ma anche tuttora applicativo, appare la Circolare INPS n. 1 del 1985 incentrata sulla Legge 222 del 1984.

Si specifica che l’intervento protettivo dell’assicurazione obbligatoria contro l’invalidità non è finalizzato ad indennizzare un danno dell’integrità fisica dell’assicurato, né a riparare la pura perdita della normale retribuzione, ma bensì ad integrare o, meglio, sostituire il guadagno che l’assicurato non percepisce più per l’alterato stato di salute.

La tutela della Legge è rivolta a situazioni di bisogno non presunte ma effettivamente e tangibilmente presenti.

Si specifica nella circolare l’abbandono della valutazione delle condizioni socio – economiche ambientali, con l’eliminazione nella valutazione dell’invalidità pensionabile di cui all’AOI, dei coefficienti extrabiologici.

La concezione dell’invalidità scaturisce solo dalla valutazione medico legale dello stato somato - psichico e delle capacità attitudinali individuali.

Si tratta di una forma d’invalidità intermedia fra quella generica e quella specifica, una sorta di idoneità ad utilizzare con profitto le energie lavorative.

Le occupazioni confacenti alle attitudini di cui all’AOI riguardano quelle attività che l’assicurato ha esercitato in maniera continuativa e non occasionale nel corso della sua carriera lavorativa, laddove per attività affini si devono intendere quelle riferite al grado di impegno fisico e intellettuale richiesti, al grado di apprendimento e agli

“organi”, in senso medico legale, interessate nell’espletamento.

Si può, in tal caso, parlare di una sufficiente personalizzazione del “danno” alla capacità lavorativa subito.

Riguardo al concetto d’inabilità viene posta la diversità fra “inabilità al proficuo lavoro”, intesa come inidoneità allo svolgimento di lavoro in grado di poter soddisfare le

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proprie esigenze di vita senza usura e lavoro declassante, e “inabilità come impossibilità allo svolgimento di qualsiasi lavoro”, in base a precedenti pronunce, in tal senso, della suprema Corte di Cassazione.

L’aggettivo permanente non si deve intendere come sinonimo di immutabile o insanabile, ma riferito ad una situazione biologica non transitoria, ovvero durevole nel tempo, equiparabile alla lunga malattia come richiamato nella dottrina e nella giurisprudenza.

L’assegno di invalidità è poi compatibile con la Pensione d’Inabilità dell’Invalidità Civile e non con l’Assegno d’Invalidità Civile.

Il Comitato Provinciale dell’INPS ha 90 giorni di tempo per pronunciarsi.

Trascorso questo tempo senza risposta, ovvero dopo pronuncia sfavorevole, l’assicurato può seguire la strada della giustizia ordinaria.

L’AOI come detto è compatibile con il lavoro dipendente e con il reddito lavorativo, comportando una decurtazione dello stesso per un reddito che supera di 4 volte l’importo minimo fissato annualmente dall’INPS e del 50 % se supera di 5 volte tale importo.

Qualora alla fine risulti inferiore a tale importo minimo può essere integrato.

E’ la Circolare INPS n. 91 del 2002 che esplica come sia consentita la trasformazione dell’AOI in pensione di anzianità, in applicazione a varie sentenze della Cassazione sempre del 2001.

Un articolo dal titolo “Il danno biologico nella sistematica dell’invalidità pensionabile ed il ruolo del metodo tabellare nella pratica valutativa” di V. Martignetti e al., Difesa Sociale – Vol. 87, n. 1 – 2, 2003: 75 – 90, indaga sulla possibilità di utilizzo del concetto di danno biologico nell’ambito della valutazione dell’Invalidità Pensionabile, con la prerogativa ulteriore di utilizzo di un metodo tabellare ai fini dell’individuazione di un “danno base” della capacità lavorativa.

La possibilità di estendere il concetto di danno biologico alla valutazione nell’ambito dell’invalidità pensionabile, analogamente al D.lgs. 38 /2000, che ha introdotto il danno biologico INAIL e la Legge 57 del 2001 potrebbe presupporre l’utilizzo di una valutazione tabellare dello stesso, ma gli autori nelle conclusioni indicano che l’utilizzo del metodo tradizionale, in carenza peraltro di appropriate modifiche legislative in tal senso, si lascia ancora nettamente preferire a quello tabellare.

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Nel capo dell’invalidità pensionabile il danno biologico, per definizione, non deve essere espresso in termini percentualistici, sia per la mancanza di una tabella unitaria del danno biologico che, soprattutto, per l’impossibilità di stabilire collegamenti tra percentuali di danno biologico e danno lavorativo, come accaduto nella responsabilità civile.

Rimane pertanto ben valido il criterio vigente clinico funzionale inerente lo studio del complesso menomativo in essere e le sue conseguenze sulle potenzialità lavorative.

Ciò appare in contrasto con il punto di vista della SIMLA per la quale la nozione di danno biologico debba valere anche nell’ambito valutativo medico legale INPS.

In effetti, il danno alla capacità lavorativa attitudinale non può essere confuso o sovrapposto con il danno biologico.

Ciò contrasta anche con le finalità storiche della tutela previdenziale della capacità lavorativa attitudinale e della perdita conseguente della retribuzione e dei mezzi necessari di sostentamento, contraddicendo anche alla perdita della capacità di guadagno.

Secondo molti autori, tuttavia, la valutazione medico legale previdenziale passerebbe attraverso le seguenti tappe:

 prima fase, diagnostico clinica, con inquadramento delle infermità dal punto di vista quali – quantitativo;

 formulazione percentuale, con uso di baremès valutativi, delle suddette infermità, incidenti sulla capacità lavorativa generica;

 valutazione attitudinale che si avvalga di coefficienti correttivi per fasce di occupazioni confacenti (NB: potrebbero anche essere utilizzati software informatici appropriati per il computo).

Al di la dei contenuti dell’articolo citato, si tratterebbe, in ogni caso di criteri troppo astrusi e rigidi, in realtà poco traducibili sul piano pratico, per una serie di motivi fra i quali:

 mancanza di tabellazione di molte patologie esistenti, ciò che richiederebbe l’utilizzo comunque di analogie valutative, in ogni caso;

 mancanza di rappresentazione nosografica univoca di molte condizioni patologiche complesse, in quadri di plurinfermità;

 mancanza di interpretazione prognostica, in termini percentualistici, di situazioni specifiche di difficile valutazione intrinseca tabellare;

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 impossibile accorpamento di situazioni diagnostiche, disparate anche nell’ambito di quadri nosografici specifici;

 mancanza di integrazione fra situazione morbosa in atto e danno alla capacità lavorativa attitudinale, in termini tabellari, apparendo estremamente riduttivo l’utilizzo di un semplice coefficiente di correzione in base alle occupazioni confacenti, comunque accorpate;

 mancata personalizzazione, in definitiva, del giudizio medico legale in rapporto al singolo soggetto indagato.

Per quanto lodevole il tentativo di omogeneizzazione dei giudizi medico legali e di standardizzazione degli stessi, solo l’esperienza e la cultura dei medici dell’INPS può apparire rispondente alle necessità valutative in essere.

Tutto ciò nonostante la possibilità di giudizi non uniformi e aleatori, ovvero opinabili e difformi, come indicato da qualche autore.

In conclusione si possono riscontrare correlazioni ma soprattutto distinzioni fra danno biologico e danno alla capacità lavorativa.

La definizione dell’inabilità a proficuo lavoro trova una spiegazione in un articolo dal titolo “L’inabilità a lavoro proficuo nella dottrina e nella giurisprudenza”, di G.

Vitiello, Difesa Sociale n. 5 – 6 del 2000.

Vengono qui riportate le varie definizioni della giurisprudenza, non sempre unanimi anche se abbastanza concordi.

Per la dottrina il concetto di proficuo lavoro si identifica con quello di lavoro sufficiente ad assicurare i mezzi di sussistenza, ossia atto a produrre reddito, tale da soddisfare alle esigenze primarie di vita del soggetto.

Nel D. Lsg. N. 503 del 1992 l’elevazione dei limiti di età di cui al comma 1 dell’art. 1 non si applica agli invalidi in misura non inferiore all’80 %, restando confermati i 60 anni per gli uomini e i 55 per le donne.

Ciò ha dato luogo ad istanze per vedersi riconosciuta l’invalidità di 80 % per la pensione di vecchiaia anticipata che corrisponderebbe, in questo caso, alla perdita totale della capacità attitudinale.

Tali criteri legislativi sono anche indicati nella Circolare INPS n. 82 del 1994.

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Tale requisito non vale solo per gli assicurati dell’INPS ma nache per i lavoratori riconosciuti invalidi da altri Enti.

Comunque in base alla citata circolare questo tipo di riconoscimento deve essere effettuato dai CML dell’INPS.

LA GIURISPRUDENZA DELL’INVALIDITA’ PENSIONABILE

Con la Sentenza n. 5330 del 1997, la Corte di Cassazione ha inteso indicare che il divieto di cumulo delle prestazioni come l’indennità di disoccupazione riguarda la sola pensione di inabilità, che ha carattere permanente e presuppone la perdita totale della capacità lavorativa, non già l’Assegno Ordinario d’Invalidità, attribuito per un triennio rinnovabile e compatibile con l’attività lavorativa, potendo il titolare del suddetto assegno d’invalidità ben collocare le sue residue capacità lavorative sul mercato del lavoro, onde l’inesistenza di alcuna ragione volta ad escluderlo dal trattamento di disoccupazione.

Invece, una Sentenza molto recente, la n. 5639 del 2009 della CC, indica che è da ritenersi legittima la revoca dell’assegno d’invalidità se il lavoratore è in grado di recuperare la capacità lavorativa con dieta e farmaci, ossia per l’accertato miglioramento delle sue condizioni di salute.

In particolare, la CC ha ritenuto che un recupero della capacità lavorativa del soggetto derivante da un proficuo e non usurante riadattamento al lavoro, in grado di consentire al medesimo di svolgere, con continuità e senza danno un’attività lavorativa confacente alle sue attitudini, non da diritto alla conferma dell’assegno d’invalidità.

Già la corte territoriale aveva giustamente rilevato la compatibilità dello stato di salute dell’interessata, bracciante agricola di 55 anni di età in continuità di lavoro, in discrete condizioni generali e portatrice di un quadro patologico emendabile farmacologicamente e con il rispetto di un sano regime alimentare, laddove la suddetta, affetta da un quadro morboso di relativa entità a carico degli apparati osteoarticolare, endocrino, circolatorio e digerente, non era da ritenersi con una capacità lavorativa residua, per tutte queste patologie, inferiore ad 1/3, come richiesto dalla Legge 222 / 84.

Non si reputava, quindi, nel complesso varcata la soglia invalidante delle patologie in essere.

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Nel complesso l’impegno funzionale risultava di grado medio al rachide e di grado lieve alle ginocchia, mentre l’ipertensione arteriosa risultava non complicata da patologie aggiunte di organi e apparati bersaglio.

Anche le varici non complicate agli arti inferiori, con lieve edema malleolare ma in assenza di turbe trofiche, non potevano incidere di molto sullo svolgimento dell’attività lavorativa come anche l’obesità consensuale non era in grado di limitare la capacità lavorativa del soggetto in modo apprezzabile ai sensi di legge.

Di alcun rilievo erano poi le considerazioni sulle condizioni occupazionali della zona del contesto di riferimento.

Di diverso contenuto appare la Sentenza n. 3285 del 2002, in cui si sostiene che nelle controversie in materia di previdenza e di assistenza il giudice di merito deve tener conto dei nuovi aggravamenti e delle nuove patologie intervenute nel corso del giudizio, delle quali l’assicurato abbia fornito adeguata documentazione fino all’udienza di discussione.

Pertanto il giudice di appello incorre nel vizio di omessa motivazione se non ha ritenuto di disporre di una nuova CTU, ovvero non ha adeguatamente motivato l’irrilevanza di tale documentazione ai fini del riconoscimento dell’aggravamento intervenuto sullo stato invalidante del soggetto.

Delle considerazioni a latere di detta sentenza inducono ad osservare che le nuove infermità, alla luce della documentazione prodotta, devono effettivamente incidere ex novo sul quadro morboso, al punto di accertarne la complessità e la gravità invalidante, ovvero, in caso affermativo, valutarne sotto il profilo medico legale anche la preesistenza ai fini del giudizio di merito, individuandone comunque una datazione.

Si poteva, in effetti parlare di un quadro in fieri già piuttosto avanzato della forma morbosa ovvero escludere tale possibilità avendo potuto la patologia progredire solo ad un certo momento compromettendo in modo apprezzabile e concreto la capacità lavorativa del soggetto considerato.

La sopravvenienza, come nel caso in specie, di una depressione maggiore, è tale da incidere effettivamente sulla capacità lavorativa e sul relativo giudizio d’invalidità pensionabile.

Sotto il profilo documentale appare adeguato il certificato di ricovero in struttura sanitaria psichiatrica prodotta dall’assicurato.

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Interessante poi si rivela la Sentenza CC n. 13495 del 2003 in cui il ricorrente contestava la nozione contenuta nell’art. 1 del D.Lgs. n. 503 del 1992, laddove si indicava che una percentuale fissa dell’80 % d’invalidità, ai sensi dell’art. 3 della suddetta legge, poteva essere aumentata o diminuita di 5 punti percentuali, con riferimento alle occupazioni confacenti alle attitudini del soggetto considerato.

Il quesito riguardava in particolare la possibilità di riconoscere a tutti i soggetti invalidi oltre la soglia dell’80 % il beneficio della non elevazione dei limiti di età, anche se avessero conservato la capacità di guadagno.

In effetti tale requisito non coincide con quello contenuto nell’art. 1 della Legge 222/84 che considera genericamente, e non in modo percentuale, una riduzione della capacità di lavoro a meno di 1/3.

L’unico requisito valido per la non elevazione dell’età pensionabile di cui al D.Lgs. n. 503/1992 è la riduzione della capacità lavorativa di grado pari o superiore all’80 %, da qualsiasi organo e a qualsiasi titolo venga riconosciuta.

La norma è da ritenersi valida per tutti i soggetti invalidi, anche se con capacità di guadagno, in misura pari o superiori all’80 %, come pure, quindi, nel caso in specie, di Invalidità Civile 80 %, e non pensionabile.

La Sentenza n. 1116 del 1988 della Corte Costituzionale dichiara che la vecchia invalidità, ante legem 222/84, o vecchia legge, non può essere trasformata nella Pensione di Inabilità art. 2 legge 222/84, non rivestendo alcun significato, ai fini giuridici, un giudizio di sopravvenuta inadeguatezza della pensione d’invalidità precedentemente concessa ai lavoratori che si trovavano nelle medesime condizioni del citato art. 2 della Legge 222/84.

In base alla Sentenza n. 445 del 1999 del Tribunale di Trani ribadisce il concetto che la corresponsione e il riconoscimento dell’assegno d’invalidità possono maturare nel corso del procedimento giudiziario.

Recentissima poi è una Sentenza della CC, n. 5544 del 08 marzo 2010 incentrata sulla corresponsione dell’indennità di disoccupazione in un soggetto che godeva dell’Assegno Ordinario di Invalidità.

L’INPS aveva respinto tale domanda di disoccupazione ritenendo che la stessa prestazione fosse incompatibile con l’AOI di cui all’art. 1 della Legge 222/84.

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La CC ha respinto il ricorso adducendo che l’assegno d’invalidità costituisce comunque un trattamento pensionistico, per cui torna applicabile il D.Lgs. n. 148 del 1993 in virtù del quale l’indennità di disoccupazione è incompatibile con i trattamenti pensionistici dell’assicurazione Invalidità, vecchiaia e superstiti.

Con la Sentenza della CC n. 4046 del 2004 trova una definizione l’incapacità al lavoro.

A tenore della suprema corte per attività lavorativa si devono intendere le attività confacenti alla attitudini dell’assicurato, non usuranti e non dequalificanti e aventi il requisito della remuneratività, dovendosi trattare di proficuo lavoro, atto ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa.

L’impossibilità a svolgere attività lavorativa deve essere, pertanto, considerata sulla base di una situazione concreta.

Ove anche la CTU di I° grado abbia accertato un’invalidità dell’80 %, è da affermarsi che anche una riduzione astratta della capacità di lavoro inferiore al 100 % può dare diritto al riconoscimento della Pensione di Inabilità di cui all’art. 2 della Legge 222/84.

Non si può condividere l’assunto dell’esistenza di un’invalidità assoluta ai fini del riconoscimento della pensione d’inabilità, quando il grado pur elevato d’invalidità escluda, di fatto, la capacità di svolgere attività lavorativa proficua e redditizia.

Il CTU aveva affermato che il soggetto in esame, operaio agricolo o bracciante, potesse comunque svolgere una qualche non gravosa attività lavorativa, di tipo eminentemente sedentario, tipo telegrafista, dattilografo, segretario o portiere, ciò che non poteva effettivamente accadere visto il basso livello culturale dell’assicurato.

Pertanto sottolinea la corte, l’impossibilità assoluta e permanente a svolgere qualsiasi attività lavorativa, come previsto dall’art. 2 della Legge 222/84, deve invece essere valutata con esclusivo riferimento a tutti i lavori proficui in grado di costituire fonte di guadagno per l’assicurato, e non in relazione ad ogni diversa attività lavorativa che abbia i connotati caratterizzanti di un lavoro meno gravoso e afflittivo rispetto a quelli destinati, comunque, istituzionalmente, a creare ricchezza e ad assicurare un reddito a quanti lo svolgono.

Riguardo alla revoca dell’assegno di invalidità, si legga la Sentenza della CC n.

14624 del 1999.

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Tale revoca può conseguire non solo ad un effettivo miglioramento delle condizioni fisiche dell’assicurato, ma anche da un recupero della capacità di lavoro derivante da un proficuo e non usurante riadattamento lavorativo, tale da consentire all’assicurato di svolgere in modo continuativo e senza danno un’attività confacente alla sue attitudini e con una remunerazione anche inferiore, nei limiti legali previsti per il conseguimento della pensione, a quella abbandonata a causa dell’invalidità.

Il patrimonio professionale del ricorrente finisce con l’assumere il valore decisivo e unico, al punto da non fare tenere nel dovuto conto la grave invalidità fisica sofferta dal ricorrente.

Nella fattispecie trattandosi di un emiplegico incapace di mantenere la posizione eretta ed assisa non paiono ben considerate le residue capacità lavorative e il carattere usurante dell’impegno lavorativo, anche in riferimento alla diversa attività ancora prestata.

Il giudizio nel caso specifico non può basarsi su una mera potenzialità reddituale, ovvero su una astratta capacità di guadagno, senza tenere nel dovuto conto la grave condizione di menomazione dell’assicurato.

Una vecchia Sentenza, la n. 4531 del 1998, sottolinea, ancora una volta, che l’invalidità si valuta sulla capacità di lavoro e non di guadagno.

Viene ripreso il concetto che per la Legge 222/84 il giudizio d’invalidità si basa solo sulla capacità di lavoro connessa con lo stato psicofisico dell’assicurato, venendo così esclusa ogni influenza delle condizioni socio – economiche del territorio di appartenenza.

Di tenore diverso appare la Sentenza CC n. 5151 del 2004 che indica che il recupero della capacità di guadagno non giustifica il provvedimento di revoca dell’AOI quando la situazione già accertata nel precedente giudizio rimane la stessa, non potendo comportare una valutazione diversa rispetto allo stesso oggetto, ovvero lo stato psicofisico del soggetto considerato, ove rimangano gli elementi di fatto e di diritto preesistenti.

La revoca sarebbe legittima solo in caso di intervenuto miglioramento, ciò che non è accaduto nella fattispecie considerata.

Poco importa che tale tipo di giudizio sia intervenuto nel corso di un precedente procedimento giudiziale.

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Ai fini della revoca, quindi, occorre che sia intervenuta un’evoluzione in senso migliorativo delle condizioni di salute ovvero un recupero della capacità di guadagno del soggetto, derivante da un proficuo e non usurante riadattamento lavorativo.

La Sentenza CC n. 3854 del 2003 prende in considerazione l’ipotesi del cosiddetto rischio precostituito.

Il riconoscimento dell’assegno d’invalidità ad un soggetto portatore di un vizio precostituito è subordinato al fatto che l’assicurato stesso si sia poi inserito nel mondo del lavoro operando attivamente nel settore della produzione, essendosi successivamente determinata un’ulteriore riduzione della sua capacità di lavoro.

L’esistenza di una capacità lavorativa preesistente si può trarre dalla circostanza dello svolgimento pregresso di un’attività lavorativa in concreto.

In caso di ulteriore aggravamento o di nuove infermità, desumibili comunque dal fatto che il soggetto è stato costretto a interrompere l’attività lavorativa effettuata, spetta l’AOI al soggetto affetto da oligofrenia congenita laddove tale malattia non abbia impedito in passato lo svolgimenti di attività lavorativa, prima come coltivatore mezzadro e poi come operaio muratore.

In particolare, quindi, la preesistenza di una minore riduzione della capacità lavorativa può essere desunta anche dallo svolgimento di un’attività lavorativa, poi cessata.

Nella Sentenza CC n. 1868 del 2003 si deduce che in caso di contrasto fra due CTU, in cui il giudice di appello nomina un nuovo CTU, egli non debba motivare, per obbligo, le ragioni per le quali debba disattendere le conclusioni della prima CTU.

CONCLUSIONI

Volendo, quindi riassumere gli aspetti essenziali dottrinali che riguardano il giudizio medico legale e la giurisprudenza, è possibile estrapolare alcuni aspetti essenziali.

In tale ottica, in definitiva, il giudizio medico legale può riguardare, nello specifico quanto segue

• concessione AOI e/o POI, conferma AOI, revisione sanitaria POI o AOI prima dei tre anni fatidici prescritti dalla Legge 222/84;

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• revoca: miglioramento della quadro morboso (motivazione B) o riadattamento lavorativo (motivazione A);

• il giudizio di conferma dell’AOI equivale ad una nuova domanda (sotto il profilo giuridico prevale il concetto dell’uguaglianza dei requisiti medico legali che diedero diritto alla prima concessione dell’Assegno Ordinario d’Invalidità);

• mancanza di rilevanza del fattore socio – economico del contesto di riferimento o della provincia di appartenenza ai fini della formulazione del giudizio medico legale di merito;

• l’inesistenza, ovvero la pratica impossibilità, di far riferimento a specifiche tabelle di legge relative alla valutazione dell’incapacità lavorativa in occupazioni confacenti alle attitudini, come delineate in precedenza;

• parametro di riferimento della capacità lavorativa costituito dal lavoro semispecifico o attitudinale, svolto in concreto dal singolo lavoratore;

• possibile vaga analogia con le Tabelle IC di cui al DM del 1992, che fanno però riferimento al lavoro generico ma non di tipo indifferenziato.

Per quanto riguarda, invece, le problematiche relative all’attività collegata al contenzioso giudiziario vale altrettanto la pena di sottolineare identicamente alcuni importanti aspetti e risvolti pratici:

• identicamente inesistenza, ovvero inapplicabilità di un qualsivoglia metodo tabellare, ai fini di una eventuale ipotetica per omogeneità dei giudizi ML,;

• rigorismo concettuale medico legale;

• presenza di incongruenze relative al contenzioso giudiziario rispetto alle CTU (confusione con l’invalidità civile, eccessivo rigorismo o, più spesso benevolenza ingiustificata nella concessione delle prestazioni), potendosi a giusto modo, come sottolineato da alcuni autori, addirittura parlare di patologia del contenzioso giudiziario, con frequenti nomine di CTU che non sono medici legali, duplicazione delle cause riferite, nello stesso soggetto esaminato, alle prestazioni di AOI e POI, sulla base dello stesso quadro clinico patologico e della stessa domanda, mancata puntuale informazione del CT di parte INPS sull’esito di eventuali indagini diagnostico – strumentali prescritte, ecc.;.

• nel tempo aumento complessivo ingiustificato delle concessioni delle prestazioni medico legali da parte dei CTU.

Ulteriori aspetti della legge 222/84, riguardano, quindi:

1. evitata equiparazione patologie diverse per ingiustificata prevalenza dei fattori socio – economici, ciò che aveva comportato un boom delle prestazioni medico legali INPS, onde l’introduzione conseguente della Legge 222/84;

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