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Il negoziante può rifiutarsi di vendere un articolo?

Autore: Redazione | 16/11/2017

Sono possibili le discriminazioni tra clienti come il far pagare di più o negare un prodotto esposto in vetrina, sul dépliant o sullo scaffale?

Immagina di entrare in un negozio e di trovare, come commessa, una persona con cui hai un’antica inimicizia. Intravedendo la tua necessità di procurarti un

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determinato prodotto, ti dice che non te lo può vendere ma senza addurre particolari motivi. Ti sembra un comportamento illegittimo e discriminatorio, ma lei non ne vuole sapere: sostiene infatti che nessuno è obbligato a vendere o a firmare contratti (fossero anche orali). Il negozio è suo e accetta solo i clienti che dice lei. Potrebbe farlo? Il negoziante può rifiutarsi di vendere un articolo?

La questione è tutt’altro che isolata. Ci sono stati, in passato, numerosi esercizi pubblici che si sono rifiutati di vendere a determinate categorie di soggetti come extracomunitari, persone di colore o di particolare orientamento sessuale; il punto di forza di questi comportamenti discriminatori è stato il principio generale – sancito dall’ordinamento italiano – che va sotto il nome di «autonomia contrattuale»: in buona sostanza lo Stato non può imporre ai cittadini di concludere affari né può prestabilire il contenuto degli accordi tra privati (salvo ipotesi eccezionali come, ad esempio, la durata del contratto di affitto). In ipotesi del genere si è posto il dubbio se il negoziante sia libero o meno di scegliersi i clienti e decidere a chi vendere i suoi prodotti. Cercheremo di chiarirlo in questo articolo.

Discriminazioni tra clienti: sono possibili?

Dobbiamo fare una premessa. In questa prima parte dell’articolo non ci occuperemo dei casi in cui il negoziante applica un prezzo più alto ad un cliente e uno più basso ad un altro. Sia che ciò sia il frutto di un accordo particolare tra le parti o di una politica aziendale che, a partire da una predeterminata data, decide di attuare sconti, in generale ogni commerciante è libero di definire il prezzo che vuole. Questo significa che chi acquista, in un determinato giorno, un capo di abbigliamento a un prezzo non può poi contestare la decisione del negoziante di venderlo, dalla mattina successiva, con il 50% di sconto.

Ci occuperemo ora delle discriminazioni tra clienti ossia dei casi in cui il venditore decide di vendere a determinate persone e non vendere ad altre.

Il rifiuto del negoziante a vendere un articolo può costituire sia un illecito amministrativo che civile. Vediamo perché.

Il Regolamento per l’esecuzione del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza [1], tutt’oggi in vigore, stabilisce che «gli esercenti non possono, senza un legittimo motivo, rifiutare le prestazioni del proprio esercizio a chiunque le

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domandi e ne corrisponda il prezzo». Questo significa che se il cliente dichiara di voler acquistare un articolo e offre il denaro al cassiere quest’ultimo non può rifiutarlo e deve necessariamente procedere alla vendita. L’eventuale diniego di vendita un tempo costituiva reato; oggi invece è stato depenalizzato e integra solo un illecito amministrativo. La sanzione è pertanto solo pecuniaria e va da 516 a 3.098 euro.

L’importanza di questa norma è che – a detta della Corte Costituzionale [2] – non si applica solo ai pubblici esercizi come ad esempio bar, ristoranti, hotel, cinema, ma a tutti i tipi di commercianti, anche quelli che non vendono servizi essenziali (pane, acqua, frutta e verdura). Insomma, se vai in un negozio e chiedi di acquistare un vestito, il commesso non potrà dirti che non te lo vende; se vai da un fruttivendolo, il titolare non può negarti di fare la spesa; se vuoi acquistare un cellulare in una catena il rappresentante non può girarti le spalle solo perché gli stai antipatico.

Quando il prezzo non può variare

Se poi il prezzo è messo in bella vista in vetrina, il negoziante non può neanche farti pagare di più di quanto indicato. Questo perché, in base al codice civile [3], una volta che il commerciante ha resa pubblica ai clienti la sua offerta, tramite ad esempio esposizione del prodotto sullo scaffale o sul catalogo, non può successivamente cambiarla o praticare condizioni differenti a seconda delle persone, ma deve rispettare quegli stessi termini contrattuali pubblicizzati in precedenza. Con la conseguenza che, in un supermercato, se prelevi dallo scaffale dei cereali per la colazione o delle scatole di pomodoro, una volta arrivato alla cassa nessuno ti potrà rifiutare gli sconti indicati sul cartellino accanto al prodotto.

Ed anche quando, attirato dal volantino pubblicitario di una catena di elettrodomestici, entri in uno di questi negozi per acquistare l’oggetto in promozione, non puoi dopo sentirti dire che le unità in offerta sono ormai terminate e che le restanti sono invece a prezzo pieno.

Il negoziante non può rifiutarsi di vendere un articolo

A stabilire che l’esercente è tenuto a vedere ciò che l’acquirente gli chiede ci sono

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anche altre disposizioni. Secondo un’ulteriore norma [4], anch’essa contenuta nel testo unico leggi di pubblica sicurezza, chiunque, nell’esercizio di un’attività commerciale o in uno spaccio aperto al pubblico, rifiuta di vendere le merci delle quali è stabilito dall’autorità il prezzo massimo è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a lire 2.000.000.

In fila al negozio: chi va servito prima?

Infine una legge del 1998 [5], tutt’ora in vigore, stabilisce un ulteriore obbligo di vendita, prevedendo che «il titolare dell’attività commerciale al dettaglio procede alla vendita nel rispetto dell’ordine temporale della richiesta». Per cui, se ci sono tanti clienti in fila al negozio, ciascuno che attende il proprio turno, il titolare non può favorire alcuni, servendoli per prima, e lasciare aspettare gli altri. Il caso più emblematico è in pizzeria: quante volte ti sarà capitato di lamentarti con il cameriere perché, al tavolo vicino al tuo, benché occupato in un momento successivo, i clienti hanno già finito di mangiare mentre tu stai ancora aspettando che arrivino le pizze? Ebbene un comportamento del genere è illegittimo poiché il titolare del locale deve servire i clienti in base all’ordine con cui si sono presentati.

Quando la vendita è pubblicizzata

Ritorniamo per un attimo al codice civile. La norma che abbiamo citato in precedenza è “intitolata” «offerta al pubblico» e stabilisce che:

«L’offerta al pubblico, quando contiene gli estremi essenziali del contratto alla cui conclusione è diretta, vale come proposta, salvo che risulti diversamente dalle circostanze o dagli usi.

La revoca dell’offerta, se è fatta nella stessa forma dell’offerta o in forma equipollente, è efficace anche in confronto di chi non ne ha avuto notizia».

L’offerta al pubblico scatta quando un commerciante offre alla collettività indeterminata la stipula di contratto definendo in anticipo le condizioni (prezzo, peso, confezione, ecc.). Tipico è il caso di prodotti esposti in vetrina, su un dépliant pubblicitario o sullo scaffale del supermercato. Ebbene in questi casi, è sufficiente che il cliente dichiari di aderire all’offerta perché si concluda automaticamente il contratto, senza più possibilità per il titolare del negozio di modificare le condizioni.

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Se il negoziante si rifiuta di vendere o vuol vendere a condizioni diverse è tenuto al risarcimento del danno.

L’offerente potrà modificare o revocare l’offerta, prima dell’adesione, purché ciò avvenga nella stessa forma utilizzata per la prima offerta, o in una forma equipollente (ad esempio esponendo un diverso cartellino per il prezzo), essendo così efficace anche nei confronti di chi non ha avuto notizia della modifica o della revoca.

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