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Bibbia - Antico Testamento

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Academic year: 2022

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1. Introduzione - 2. Il testo e le sue versioni - 3. La criti- ca del Pentateuco - 4. Sapienza, salmi e profeti - 5. La storia di Israele - 6. Archeologia - 7. Teologia dell’Antico Testamento - 8. Etica dell’Antico Testamento - 9. Que- stioni di ermeneutica - 10. Conclusioni

Bibliografia p. 119

1. Introduzione

Gli studi sull’Antico Testamento durante il Novecento hanno prevalentemente oscillato tra due poli: il primo è il compito di ricostru- ire i primi testi biblici stessi, la storia e le isti- tuzioni dell’antico Israele, i messaggi originali dei grandi profeti e le testimonianze archeo- logiche della vita degli israeliti; l’altro è inve- ce il tentativo di comprendere il testo biblico semplicemente, così come ora si presenta, il che potrebbe essere interpretato come una svolta verso una lettura letteraria del testo ed un allontanamento deliberato dall’interesse per il sottotesto. Parlando in termini generali si può dire che lo spostamento dal primo al secondo di questi poli abbia caratterizzato lo sviluppo degli studi sull’Antico Testamento nel recente periodo, nonostante si possano osservare molte eccezioni e contro-tendenze rispetto alla regola generale. In questa voce prenderemo in esame tale fenomeno bipolare nella sua applicazione ad otto aree di studio del Nuovo Testamento: il testo e le sue ver- sioni; la critica del Pentateuco; lo studio della Sapienza, dei Salmi e dei Profeti; la storia di Israele; l’archeologia nel medio Oriente; la teologia dell’Antico Testamento; l’etica bibli- ca e le questioni ermeneutiche.

2. Il testo e le sue versioni

All’inizio del Novecento il testo ebraico maggiormente usato era ancora la cosiddet- ta Seconda Bibbia Rabbinica (ed. Bomberg) pubblicata nel Cinquecento. Ma il desiderio di recuperare una versione precedente e più

go) del 1008 (L). Le edizioni seguenti, di cui l’ampiamente diffusa Biblia Hebraica Stutt- gartensia [1966-1977] è la quarta, hanno ri- proposto la pratica di produrre essenzialmen- te un’edizione diplomatica del manoscritto di Leningrado, anche se un’edizione edita dalla Hebrew university segue il codice, in qualche modo precedente, di Aleppo. Tutte le edizioni della Biblia Hebraica hanno appa- rati critici che riportano le varianti presenti in altri manoscritti e le testimonianze di antiche versioni, specialmente della LXX greca, della Vulgata latina e della Peshitta siriaca; inoltre, a partire dalla data della loro scoperta, sono stati aggiunti all’elenco anche i rotoli del Mar Morto con le loro testimonianze. Ma gli stu- di sull’Antico Testamento fino a non molto tempo fa erano rimasti ancorati alla tradizio- ne delle edizioni diplomatiche, a differenza degli studi sul Nuovo Testamento per i quali l’obiettivo è generalmente quello di produrre un testo eclettico basato anche, sulla valuta- zione di manoscritti ed emendamenti lad- dove necessario. Per quanto riguarda il testo, quindi, gli studiosi dell’Antico Testamento sono rimasti generalmente vicini all’idea di accettare ciò che è arrivato fino a noi e solo nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad un serio tentativo di produrre un’edizione critica della Bibbia ebraica nella nuova versione del- la Oxford Bible, della quale finora è apparsa l’edizione di Ronald S. Hendel della Genesi 1-11. La Biblia Hebraica Quinta, edita in fa- scicoli, è basata sul principio di riprodurre il testo masoretico ispirato ad L, con l’aggiunta tuttavia di diversi apparati critici estesi.

L’importanza dei rotoli del Mar Morto nel dischiudere la possibilità di rivedere il testo ebraico tradizionale, non va sopravvalutata:

a Qumran sono stati trovati frammenti del- la maggior parte dei testi biblici e, nel caso di alcuni libri in particolare, quali ad esem- pio Isaia e i Salmi, vi sono addirittura molti manoscritti diversi. Il progetto della Oxford university Press, Discoveries in the Judaean Desert, che sta per giungere al suo completa-

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mento, presenta un’edizione critica dei testi sopra citati, sotto la supervisione editoriale di Emanuel Tov.

Se si parla di versioni differenti, invece, il Novecento ha assistito a molti progressi: in questo ambito la ricostruzione ha preso il via dal principio diplomatico. Verso la fine dell’Ottocento la Cambridge LXX aveva seguito le orme del Codex Vaticanus con un apparato critico che recensiva altri mano- scritti, ma l’edizione più importante della LXX, tuttora in corso di completamento a Göttingen, è un’edizione critica, in questo si- mile a molte edizioni del Nuovo Testamento.

I ritrovamenti di Qumran hanno dimostrato che la LXX testimonia a volte un testo pre- masoretico. Nel corso del Novecento la LXX è stata rispettosamente presa in considerazio- ne come un testo dotato di propria coeren- za, molto più che come una semplice resa dell’Antico Testamento.

La versione siriaca è stata anch’essa ogget- to di studio durante il secolo, con la pubbli- cazione dalla Brill di Leiden di una serie di volumi che ne costituisce l’edizione critica.

Anche i targum aramaici sono stati studiati approfonditamente, incluso il Targum Neofi- ti che era rimasto sconosciuto fino ad epoche recenti. I rotoli del Mar Morto includono inoltre dei targum su Giobbe e sul Levitico.

Verso la fine del secolo il movimento talvolta indicato come «critica canonica», iniziato da Brevard S. Childs ha preso ad interessarsi di questioni testuali, sostenendo con forza che il testo dell’Antico Testamento che dovrebbe essere spiegato in chiesa e nelle sinagoghe è l’Antico Testamento non emen- dato da manoscritti o altre versioni, poiché è il testo che le antiche comunità di ebrei e di cristiani hanno reso canonico. Tra le tra- duzioni bibliche presenti in lingua inglese, solo quella della Jewish Publication Society rispecchia fedelmente e senza modifiche il te- sto masoretico, mentre tutte le altre versioni presentano dei cambiamenti. È stato spesso rilevato che i cristiani non riescono realmente a riconoscere l’autorevolezza del testo maso- retico, poiché il cristianesimo tradizionale ha riconosciuto il canone più lungo trovato nella

LXX e nella Vulgata, anziché il più breve ca- none ebraico. L’approccio canonico sostiene tuttavia che questa osservazione dovrebbe es- sere subordinata al vantaggio che deriverebbe dal vedere un testo dell’Antico Testamento/

Bibbia ebraica condiviso da ebrei e cristiani.

Alla fine del secolo ancora non si era trovata una soluzione a questo disaccordo, che rap- presenta un conflitto tra i due poli opposti della ricostruzione e dell’accettazione di ciò che ci è giunto dalla tradizione, anche se in maniera inusuale, nel senso che la tradizione in questo caso non è affatto concorde per i due gruppi in questione.

3. La critica del Pentateuco

Il Novecento è iniziato col trionfo, sia nel mondo anglofono sia in quello di lingua tede- sca, delle «nuove ipotesi letterarie» di Graf e Wellhausen, secondo i quali il Pentateuco era un testo composito, formato dall’unione di documenti e fonti che vengono convenzio- nalmente denominati J, E, D e P. Praticamen- te tutti gli studiosi erano concordi sul fatto che la domanda fondamentale da porsi a pro- posito del Pentateuco fosse di origine geneti- ca, vale a dire: come è stata partorita un’opera di tale complessità da risultare a volte perfino confusa?

Wellhausen confutò le teorie precedenti secondo le quali il Pentateuco era un amal- gama di molti frammenti o un testo di base a cui erano stati aggiunti più tardi vari sup- plementi, sostenendo che, le quattro fonti principali (ognuna delle quali poteva avere una preistoria, in cui furono composte l’una dopo l’altra), erano state riunite in seguito all’epoca dell’esilio per formare i cinque libri che possediamo oggi.

Egli era convinto che la sua critica delle fonti del Pentateuco fosse fondamentale per stabilire un modello completamente nuovo, utile a comprendere lo sviluppo delle istitu- zioni israelite e, di conseguenza, la storia so- cio-politica della nazione. Wellhausen riuscì a dimostrare che P, la fonte sacerdotale che con- teneva la seconda metà dell’Esodo, l’intero

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Levitico e la prima metà di Numeri (vale a dire la porzione centrale del Pentateuco), piuttosto che essere la prima delle fonti, era un lavoro di ricostruzione risalente al post-esilio, condotto da personaggi come Ezra e Neemia. Fu così che Wellhausen riuscì a tracciare una chiara linea di separazione tra lo «Yahwismo» ante- cedente all’esilio, quello che si può osservare in J ed E, e l’ebraismo seguito all’esilio, una religione che ha molti più punti in comune con l’ebraismo nella sua recente e tradizionale forma rabbinica. L’Israele del pre-esilio non sembrava allora più così differente dalle cultu- re circostanti, ma pareva piuttosto una «nor- male» antica religione del vicino Oriente come altre, tutto sommato diversa dall’ebrai- smo che venne a formarsi in seguito. Questa teoria e le sue conclusioni furono osteggiate da alcuni membri della comunità ebraica, che la giudicarono potenzialmente anti-semitica, e da alcuni cristiani conservatori, che riteneva- no potesse minare l’autorità dei libri di Mosè:

tuttavia nei circoli degli studiosi riscosse un successo inarrestabile.

Oltre ad alcuni miglioramenti nell’analisi delle fonti, vi furono dei tentativi di diverso tipo di risalire ad una epoca antecedente alla fine del Pentateuco. Gli studi della «critica delle forme» di Hermann Gunkel cerca- vano di indagare sul possibile livello orale sottostante al testo scritto, nel tentativo di ricostruire le leggende che erano state pro- babilmente tramandate da persona a persona molto prima che le parole venissero fissate sulla pagina tramite la scrittura. Ciò portò alla creazione di un movimento di «storia delle tradizioni», rappresentato da Albrecht Alt, Martin Noth e Gerhard von Rad, che si concentrava sulle tradizioni, in particolare su quelle orali, che si potevano rintracciare scavando sotto al testo. Per fare un esempio:

dietro a quelle che vengono considerate come le prime fonti di J ed E si pensava che vi fosse un corpus di tradizione orale riguardante gli antenati di Israele che veniva fatto risalire addirittura al tempo dei Giudici, quando, secondo Noth, Israele, poteva già vantare una popolazione unita, somigliante alla struttura federale delle anfizionie dell’antica Grecia.

Von Rad in maniera simile pensava che fosse possibile scavare al di là della storia unificata di Mosè e rintracciare due versioni e tradizio- ni differenti: in una delle due gli israeliti scap- pano dall’antico Egitto e si stabiliscono nella Terra Promessa, mentre nell’altra incontrano il dio Yahweh sul monte Sinai e scendono a un patto con lui. Solo successivamente queste tradizioni distinte furono riunite in J, la più antica delle fonti scritte. Così, nonostante la nostra conoscenza limitata del periodo di Mosè e dei dodici patriarchi, possiamo essere sicuri del fatto che le storie su di loro rap- presentano tradizioni anticamente genuine (risalenti ad un epoca non più tarda dell’un- dicesimo secolo a.C.).

Fu solo durante gli ultimi decenni del No- vecento che gli studiosi iniziarono a chiedersi se questa visione non fosse troppo ottimistica.

Il lavoro di Lothar Perlitt, Hans-Heinrich Schmid e John Van Seters servì a mettere in discussione la certezza, fino ad allora indi- scussa, che la datazione di J fosse realmente così antica come era stato dato per assodato dalla scuola di «storia delle tradizioni» (von Rad pensava addirittura che appartenesse all’epoca salomonica) e a sostenere che non poteva trattarsi di un documento precedente alle opere dei profeti dell’VIII secolo. Van Seters ritenne a sua volta che J fosse risalente all’epoca post-esilica e, di conseguenza, non potesse essere molto più antico di P. (In effetti un istituto di autorevoli studiosi ebraici aveva nel frattempo proposto una datazione ante- riore per quanto riguarda P: in tale modo alle due fonti veniva attribuito da alcuni il vecchio ordine nel quale si trovavano prima dell’arri- vo di Wellhausen!). Le storie raccontate in J dovrebbero allora essere considerate essen- zialmente come un’intenzionale creazione narrativa più che come storie basate su tradi- zione precedente. Si è inoltre evidenziato che, all’infuori del Pentateuco solo nelle opere dei profeti dell’esilio e del post-esilio si trovano riferimenti sostanziali alle figure dell’antica storia israelita: se ne può quindi dedurre che queste non fossero conosciute fino ad allora.

L’approccio ricostruttivo nei confronti del Pentateuco sembrava dunque arenarsi

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rispetto alla possibilità di saperne di più a proposito dell’antico Israele. Ciò ricorda per alcuni versi l’approccio (assai precedente an- che se sempre del Novecento), degli studiosi scandinavi dell’Antico Testamento che erano sempre stati scettici rispetto alla possibilità di risalire oltre i testi, ma ciò perché essi rappre- sentano la fissazione scritta di una tradizione orale immemorabile che non può essere ana- lizzata più a fondo. Ciò che abbiamo appreso dal Pentateuco riguarda la cultura religiosa e spirituale del popolo che ci ha trasmesso le storie, piuttosto che qualcosa che possa de- finirsi «storia della politica». Johannes Pe- dersen, rappresentante di spicco della ricerca scandinava, si è concentrato in particolar modo sulle storie del Pentateuco e sui mes- saggi che queste storie possono raccontarci a proposito dell’«anima» di Israele, della sua cultura intellettuale e spirituale.

Negli ultimi decenni del Novecento per molte persone appartenenti al mondo anglo- sassone l’interesse si è spostato verso il Pen- tateuco inteso come letteratura, come parte dell’elevata cultura dell’antico Israele e non come testimonianza di «quanto è realmente accaduto». uno degli esponenti principali di quanto appena detto è l’americano Robert Alter, che ha studiato il Pentateuco secondo le norme della critica letteraria «profana»

e si è spinto fino a definirlo un capolavoro letterario. Sia all’interno della «critica let- teraria» sia di quella «canonica» si assiste ad un allontanamento dalla ricostruzione e ad un progressivo avvicinamento verso una concezione ed un apprezzamento dei testi bi- blici come forma elevata d’arte. Nonostante continui l’analisi delle fonti, soprattutto negli studi biblici tedeschi, vi è un forte movimen- to in direzione della lettura «sincronica» e in chiave letteraria dei testi così come sono giunti, piuttosto che delle pretese fonti sot- tostanti.

4. Sapienza, salmi e profeti

Lo studio dei profeti offre uno degli esem- pi più chiari del passaggio dalla ricostruzione

alla concentrazione sulla «forma finale». Per la maggior parte del Novecento si diede per scontato che l’interesse degli studiosi dovesse essere principalmente rivolto verso le parole autentiche dei grandi profeti, vale a dire ver- so gli oracoli che si poteva dimostrare che risalissero realmente all’epoca della loro vita, tenuto conto dell’enorme mole di materiale nei loro libri attribuibile a curatori postumi e, forse, a discepoli che adottarono in seguito il nome del profeta stesso. Di conseguenza, per esempio, l’epilogo di Amos (9,11-15), in cui il messaggio del profeta relativo al giudi- zio imminente viene sostituito con parole di consolazione, venne ritenuto di nessun inte- resse teologico: ciò che importava, come so- stenne Wellhausen, era il messaggio originale di Amos nella sua durezza, non edulcorato.

Nel caso del libro di Isaia, divenne consue- tudine, in seguito alle scoperte di Bernhard Duhm, dividere il libro in tre parti: 40-55 fu conosciuta come Deutero-Isaia e 56-66 come Trito-Isaia. Gli studiosi tedeschi parlano an- cora spesso di «Libro del Deutero-Isaia», come se realmente l’Antico Testamento con- tenesse una sezione chiamata realmente così.

Queste raccolte furono trattate come profe- zie a sé stanti e l’idea di leggere il libro di Isaia nel suo insieme fu visto come un principio di fondamentalismo.

La profezia pre-esilica godeva general- mente di buona stima: mentre profeti del post-esilio quali Aggeo, Zaccaria e Gioele venivano visti (analogamente a P) come i rappresentanti di un giudaismo basato sul diritto, a differenza dello Yahwismo pre-esi- lico che aveva incoraggiato spiriti liberi come Amos, Osea o Isaia. Gli studiosi tendevano per lo più ad accettare la visione del tardo giudaismo secondo cui la vera profezia aveva cessato di esistere poco dopo l’esilio; tuttavia, mentre il giudaismo vedeva in tutto ciò una spinta positiva verso una maggiore centralità della Torah, gli studiosi cristiani dell’Antico Testamento tendevano piuttosto a vedervi un declino, un allontanamento dalla libertà in direzione del legalismo. Nella profezia, ciò che veniva prima contava più di ciò che veniva dopo. I profeti erano visti in qualche

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modo come una sorta di Gesù di epoca po- stuma; poiché sfidavano le istituzioni nazio- nali in nome di una religione fatta di libertà e spontaneità.

Quest’immagine della profezia è rimasta la più accreditata per la maggior parte del se- colo, tuttavia, negli ultimi anni è stata sfidata dai più recenti approcci olistici alla lettura dei testi biblici e si potrebbe quasi dire che ora sia stata liquidata. Oggi è peraltro asso- lutamente normale parlare del libro di Isaia come di una realtà unitaria e gli studiosi han- no iniziato ad interessarsi alla composizione del libro dei dodici Profeti minori come ad un opera letteraria finemente strutturata e non più come ad una raccolta casuale di do- dici libri a sé stanti, spesso a loro volta com- positi al loro interno. La profezia post-esilica viene a sua volta accuratamente studiata e vi è uno scetticismo diffuso rispetto alla possibi- lità di ricostruire oracoli e parole profetiche

«autentiche»: specialmente in questa fase la critica ricostruttiva dell’Antico Testamento sembra essersi fatta da parte.

Si potrebbe in qualche modo dire lo stesso per quanto riguarda gli studi della salmodia:

all’inizio del Novecento i Salmi venivano considerati delle canzoni religiose di epoca tarda, raccolte per formare ciò che Wellhau- sen chiamava «il libro degli inni del Secondo Tempio». Ma il pensiero che andava per la maggiore nel Novecento seguiva gli studi di Hermann Gunkel e, soprattutto, di Sigmund Mowinckel, il quale fu il pioniere della critica delle forme sul Salterio. Mowinckel sostene- va che molti dei Salmi fossero antecedenti all’epoca dell’esilio e che trovassero la loro collocazione (il loro Sitz im Leben) nel culto del Tempio di Gerusalemme, dall’epoca di Davide in avanti, dove rappresentavano i te- sti che accompagnavano i riti. Egli sosteneva inoltre che molti di essi fossero stati usati per una grande festa autunnale di incoronazione durante la quale l’immagine di Yahweh, o quella del re in qualità di suo rappresentan- te, veniva ritualmente incoronata per inau- gurare l’anno nuovo. Quanto appena detto è un esempio di ricostruzione estrema, con tanto di celebrazioni, prima sconosciute,

congetturate in base al testo dei Salmi. Da quando gli studi su altre antiche culture del vicino Oriente hanno compiuto grandi passi in avanti, soprattutto grazie alla scoperta dei numerosi documenti in Mesopotamia e, più tardi, a Ras Shamra (l’antica ugarit), sono comparsi molti testi coi quali confrontare i Salmi, i rituali e le festività ipotizzate. Non è troppo azzardato affermare che nei decenni che seguirono l’uscita del lavoro di Mowin- ckel venne dato molto poco spazio agli studi dei Salmi che seguivano una strada diversa da quella da lui indicata.

Dagli anni Ottanta in avanti, tuttavia, l’attenzione si spostò nuovamente al testo dei Salmi in se stessi e, in particolare, al modo in cui essi furono assemblati, in modo tale da formare un libro compiuto, il Salterio. Gli studiosi iniziarono a pensare che Mowinckel fosse stato troppo speculativo; al contempo la tendenza a una datazione postuma del ma- teriale che costituisce l’Antico Testamento, rispetto alle ipotesi di inizio secolo (come abbiamo visto nel caso di J), riportarono l’in- teresse sul prodotto finale: il libro dei Salmi, che Wellhausen a ragione aveva etichettato come risalente al post-esilio. L’interesse si concentra ora maggiormente sui principi del- la composizione del Salterio piuttosto che sul lavoro di ricostruzione, tanto che ancora una volta ci sembra di conoscere molto poco di quanto è successo nel Tempio di Salomone e ciò non sembra poi essere così essenziale. Si è inoltre palesato un rinnovato interesse nei confronti dello stile letterario e dei modelli dei Salmi, che sono anche il soggetto di uno studio innovativo condotto da Robert Lowth nel XVIII secolo, mentre vengono pubblicati studi sulla prosodia e sulla metrica ebraica.

James Kugel e Wilfred Watson si sono occu- pati entrambi a fondo di questa tematica.

Le scoperte in Egitto e Mesopotamia han- no fortemente influenzato lo studio della let- teratura sapienziale dell’Antico Testamento:

si può infatti notare come libri che ricordano i Proverbi e Giobbe fossero già presenti in abbondanza in altre antiche culture. Nono- stante ci sia stato un notevole interesse per i vari passaggi che hanno portato alla nascita

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del libro dei Proverbi, nel caso di altri libri sapienziali lo spirito ricostruttivo non è sta- to messo altrettanto in evidenza: nel caso di Giobbe, per esempio, nonostante sia opi- nione diffusa che il libro sia stato aggiunto e modificato editorialmente, l’interesse si è sempre concentrato sul messaggio teologico generale di quello che è forse il libro caratte- rizzato da maggiore autocoscienza teologica.

Qui fin dall’inizio del Novecento regna un certo «olismo», benché vi sia stato anche un forte interesse ad immaginare le strutture sociali all’interno delle quali la letteratura sa- pienziale aver svolto una funzione. In Egitto, in particolar modo, questa sembra coincidere in buona parte con la letteratura della classe amministrativa e ciò ha portato all’ipotesi che anche Israele conoscere una «funzione pubblica» per cui erano necessari manuali di istruzioni. Mentre il secolo si avviava verso la fine, tuttavia, gli studiosi divennero meno sicuri del fatto che il paragone fosse esatto e più inclini a pensare a quella sapienziale come a un tipo di letteratura di un gruppo di perso- ne colte che potrebbero essere state impiegate in molti campi differenti e non solo in quello pubblico. Questo a sua volta aiutò a sposta- re l’attenzione dall’indagine che cercava di ricostruire le istituzioni sociali retrostanti alla letteratura sapienziale, indirizzandola piuttosto verso un’interpretazione di tale let- teratura in se stessa come espressione di una riflessione quasi filosofica. Nello scrivere le teologie dell’Antico Testamento gli studiosi del Novecento videro un problema nella let- teratura sapienziale, poiché questa appariva separata dalle principali correnti di pensiero israelita rappresentate da profeti e storici, ma verso la fine del secolo cominciò a sembrare meno aliena, anche grazie al fatto che ci si concentrò di meno su temi quali la storia del- la salvezza (Heilsgeschichte).

5. La storia di Israele

Si può dire che l’interesse per la storia di Israele e la sua interpretazione teologica sia un tema comune a tutti gli studiosi del nostro

periodo. Alcuni studiosi, come Wellhausen, si ritenevano principalmente storici dell’an- tico Israele e la teologia biblica dagli anni Trenta in poi inziò a concentrarsi seriamente sull’idea che fosse soprattutto tramite la sto- ria di Israele che Dio si era manifestato. Ciò divenne un tema specifico del «movimento di teologia biblica» degli anni Quaranta e Cinquanta.

In Germania Gerhard von Rad sottolineò che a formare la fede israelita era stata la storia confessata e recitata da Israele, piuttosto che la storia realmente avvenuta. Qui troviamo la forte influenza di Karl Barth, per il quale era illecito cercare di andare oltre la narrazione quando l’Antico Testamento lega i racconti ad eventi che si suppone siano realmente ac- caduti. Quest’influenza è divenuta sempre più dominante con l’emergere del movimento di «critica canonica» dal carattere essenzial- mente barthiano. Ma in Gran Bretagna e nel Nord America la focalizzazione sulla storia come tema centrale dell’Antico Testamento andava spesso di pari passo con la convinzio- ne che questa potesse essere ricostruita in ma- niera più o meno accurata avvalendosi dell’ar- cheologia e degli studi biblici: nel lavoro della scuola di Albright (William Foxwell Albright, George Ernest Wright e John Bright) trovia- mo una grande fiducia nella capacità degli studiosi moderni, di ricostruire ciò che accad- de nella storia di Israele. Il resoconto albrigh- tiano di questa storia comporta correzioni della storia biblica in molti punti, alla luce della attuale conoscenza del vicino Oriente, ma assicura al lettore che il resoconto biblico, nella sua essenza, è affidabile. È veramente esistita un’epoca patriarcale che ha preceduto l’era di Mosè, l’esodo è avvenuto realmente, con Mosè come sua figura principale, e vi fu realmente una conquista della terra sotto la guida di Giosuè. Gli studiosi tedeschi sono ri- masti più scettici a proposito delle prime parti della storia, ma, dall’epoca dei Giudici in poi anche loro ritengono che il resoconto biblico sia essenzialmente affidabile.

Verso la fine del secolo molto era cambiato all’interno di questo affresco armonioso. La conquista, che alcuni studiosi tedeschi quali

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Albrecht Alt e Martin Noth avevano conce- pito come un’infiltrazione graduale, iniziava ad essere vista invece come una finzione, un racconto motivato con la religione di ciò che era in realtà la secessione di alcuni elementi originariamente appartenenti alla popolazio- ne nativa cananea, allo scopo di formare una nuova entità: «Israele», un nome teoforico, come si può notare, formato per mezzo del nome del dio cananeo «El». Oltre a questo, anche la prima monarchia cominciava a sol- levare in molti studiosi dubbi rispetto alla sua storicità, per via dello status di Gerusa- lemme e del ruolo direttivo di Davide, così fortemente esagerati nei racconti biblici. una scuola di pensiero generalmente conosciuta col nome di «minimalismo» lanciò l’idea che quasi tutta la storia del pre-esilio fosse una lettura postuma di concetti appartenenti ad un periodo successivo. Abramo, dicevano, era palesemente una figura mitologica, ma Davide, Salomone e persino Ezechiele e Gio- sia erano probabilmente altrettanto fittizi.

Il momento di apoteosi per questa scuola di pensiero venne con l’affermazione di Tho- mas L. Thompson, secondo il quale inevi- tabilmente tutto l’Antico Testamento altro non è che un prodotto di epoca ellenistica, un vero e proprio artefatto che non conserva al suo interno praticamente alcuna memoria autentica appartenente ad un qualsivoglia periodo anteriore. La maggior parte degli studiosi dell’Antico Testamento ritiene che ciò sia un’esagerazione, ma rimane il dubbio che per buona parte dei racconti dell’Antico Testamento non esista realmente la possibili- tà di risalire alla storia originale. I cosiddetti libri storici si sarebbero dovuti in realtà chia- mare, in maniera più neutra, libri «narrati- vi», piuttosto che essere messi forzatamente al servizio della ricostruzione della «vera»

storia di Israele.

Se si segue questa linea fino alla sua con- clusione logica, essa ci porta naturalmente verso un approccio più letterario al testo narrativo. L’Esodo o 2 Re possono essere let- ti meglio se studiati allo stesso modo in cui gli studiosi hanno a lungo analizzato Giona o Ester, vale a dire come documenti fittizi dai

quali apprendere molto sull’epoca in cui que- sti furono scritti, ma niente sugli (pseudo-) eventi che pretenderebbero di descrivere. Il minimalismo nell’approccio alla storia può quindi fornire punti di incontro con i più re- centi approcci letterari olistici al testo. La ri- costruzione storica si è dimostrata essere una chimera, ma i testi sono ancora lì e ci possono raccontare molto a proposito dei loro auto- ri e della visione del mondo israelita, anche se, ovviamente, in un periodo notevolmente posteriore rispetto a quello di cui i testi affer- mano di parlare.

6. Archeologia

Nella tradizione albrightiana, l’archeolo- gia era strettamente legata agli studi storici ed entrambi si implementavano a vicenda.

Gli studiosi parlavano infatti di «archeolo- gia biblica» come di un campo di studi auto- nomo, come se si fosse parlato di «archeolo- gia omerica» nell’antica Grecia: si dava per scontato che gli archeologi in Palestina fosse- ro fortemente interessati a cercare di identi- ficare siti biblici e a confermare o modificare (mai a confutare) quanto i resoconti biblici affermavano a proposito degli eventi che vi si erano svolti. Insieme ad un crescente scettici- smo riguardo alle possibilità di ricostruire la storia di Israele sulla base dei resoconti bibli- ci, si è venuto quindi a creare uno scetticismo altrettanto forte riguardo alla archeologia biblica. Gli archeologi moderni che lavorano in Siria-Palestina pensano all’archeologia di quella regione come ad un ambito di studi a sé stante, niente affatto subordinato agli studi biblici: al massimo, gli studiosi della Bibbia avranno il diritto di interessarsi alle loro scoperte una volta che queste siano state comprovate in modo totalmente autonomo.

Di conseguenza, nonostante l’obiettivo del- la ricostruzione sia ancora attuale, si tratta della ricostruzione delle realtà della vita in Palestina nel periodo che si presume coperto dalla Bibbia, non della storia dell’«Israele bi- blico». L’archeologia moderna tende infatti a concentrarsi molto meno sull’idea di sco-

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prire i manufatti che possano essere correlati alle storie bibliche e investe molte più atten- zioni sul tipo complessivo di occupazione che si può rilevare in un dato sito, quindi sul- la possibilità di correlare le scoperte con tipi di occupazione simili o discordanti ritrovati in altri siti della regione, in modo da stabili- re che genere di persone vi viveva e come si comportava normalmente. Non si occupa più di scoprire «chi era re Salomone» o cose di questo tipo: la percezione popolare del lavoro degli archeologi in Palestina, influen- zata da programmi televisivi sul loro lavoro, somiglia in qualche modo (anche se non completamente) al tipo di attività nella quale si era impegnata la scuola albrightiana, ma è distante anni luce dal lavoro degli archeologi moderni siro-palestinesi.

Nonostante tutto, l’archeologia ha gettato nuova luce sugli studi biblici durante il perio- do recente. Sono stati gli archeologi a scavare le grandi città della Mesopotamia e a scoprire l’enorme quantità di tavolette cuneiformi sulle quali continua un proficuo lavoro. La scuola albrightiana tendeva piuttosto ad evidenziare ciò che questo materiale poteva dirci sull’antico Israele. Si riteneva per esem- pio che usanze legali come l’adozione, che viene descritta nelle tavolette di Mari e Nuzu, potessero far luce sulle storie dei patriarchi.

Ciò potrebbe essere ancora vero: molte delle convenzioni descritte nella Genesi hanno in effetti dei parallelismi più evidenti con testi mesopotamici del secondo millennio che con libri biblici successivi e ciò potrebbe svelare un certo carattere arcaico, tipico di queste storie, che non potrebbe essere facilmente spiegato se si trattasse di mere finzioni poste- riori. Ma in anni più recenti ci si è forse con- centrati maggiormente sul valore di alcune scoperte testuali mesopotamiche per aiutarci a comprendere meglio periodi successivi;

di conseguenza, gli Annali di Sennacherib assumono un valore inestimabile se ci occu- piamo dell’epoca del profeta Isaia e dei regni di Ezechia e Manasse, mentre il Cilindro di Ciro ci racconta molto della carriera e della politica di Ciro e serve a illuminare in gran misura la situazione dell’impero Babilonese

nel periodo immediatamente seguente, nel sesto secolo prima di Cristo.

Altri testi che hanno rivoluzionato gli stu- di sull’Antico Testamento sono le tavolette di Ras Shamra (l’antica ugarit), dalle quali possiamo apprendere quasi tutto quello che conosciamo a proposito della religione dei cananei e abbiamo un’ottima prospettiva per poter giudicare ciò che l’Antico Testamento ci dice riguardo alla religione che gli israeliti trovarono a Canaan (o che hanno ereditato da lì, se essi stessi erano a loro volta cananei, come ipotizzato prima). Lo studio della re- ligione dell’antico Israele è stato un campo di grande interesse durante il Novecento.

In un primo periodo vi è stata la tendenza a porre l’accento sulle differenze, sostenendo ad esempio che gli dei cananei fossero stati rifiutati dagli israeliti, che definirono la pro- pria identità in opposizione ad essi; in tempi più recenti si è cominciato a ipotizzare che molte caratteristiche della religione cananea fossero anche tipiche di Israele e che solo figure isolate come i profeti classici polemiz- zassero contro di esse. Perfino pratiche invise all’ebraismo seguente, come il sacrificio dei bambini, potrebbero essere state ampiamen- te praticate nel periodo precedente all’esilio, come per altro afferma il libro di Geremia, senza per questo essere percepite della mag- gior parte degli israeliti come pratiche ete- rodosse. In qualche modo le scoperte di Ras Shamra hanno confermato la tesi di Well- hausen secondo cui la religione israelita del pre-esilio non era poi così diversa da quella dei territori circostanti e che solo attraverso il lavoro dei profeti ha iniziato a diversificarsi profondamente.

Per tornare al nostro tema, l’archeologia in tempi recenti è diventata sempre meno quel- lo strumento di ricostruzione che era nel mo- mento di massimo splendore dell’«archeo- logia biblica» e sempre più una fonte di informazione importante per i propri ambiti.

Le scoperte degli archeologi non dovrebbero essere viste come un supplemento agli studi biblici, ma come aventi una propria validità.

Da queste scopriamo infatti che l’Antico Te- stamento cambia la storia dell’antica Palestina

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in modo tale da porre tutto in relazione con

«Israele», che potrebbe forse essere più una costruzione ideologica che una reale nazione antica. Per gran parte del periodo che riguar- da l’Antico Testamento i protagonisti furono i due regni ebraici di Israele e di Giuda, la cui appartenenza ad un idealizzato «Israele» (il popolo di Dio) sembra più un’ideologia che una realtà storica. Se i minimalisti esagerano talvolta parlando dell’Antico Testamento come di un testo che non ha punti di somi- glianza con nessuna antica realtà in assoluto, è tuttavia opportuno considerare il fatto che l’archeologia non presenta forti «conferme»

del quadro tracciato nella Bibbia, ma che tut- talpiù ha contatti con esso in alcuni punti salienti. La posizione secondo cui dovremmo portare avanti le nostre indagini archeologi- che e i nostri studi biblici in maniera separata e solo in seguito cercare i possibili punti di contatto forse fornisce una sorta di consiglio che tende alla perfezione, ma che rimane solo sul piano teorico.

7. Teologia dell’Antico Testamento

Il Novecento era iniziato con un forte au- mento di interesse verso lo studio dell’antica religione israelita, come si può ricostruire sulla base dell’Antico Testamento e dei molti testi riguardanti antiche culture che si resero disponibili, come ad esempio il racconto del diluvio della Mesopotamia e Enuma elish.

Ne nacque un dibattito intorno all’unicità e alla particolarità della religione israelita, che portò inizialmente un responso negativo: era infatti opinione comune che Israele avesse molti più aspetti in comune con le culture circostanti di quanto si sospettasse. Ma col passare del tempo e in parte forse anche a causa dell’influenza esercitata dalla forte teologia della rivelazione di Karl Barth, gli studiosi dell’Antico Testamento iniziarono mano a mano a sottolineare la particolarità del credo di Israele. Come conseguenza vi fu un allontanamento da ciò che veniva perce- pito come una frammentazione dell’Antico Testamento da parte della critica accademica

ed un avvicinamento alla sintesi del materia- le, alla luce di alcune idee-guida.

I più importanti monumenti di questo movimento sono le due grandi teologia dell’Antico Testamento di Walter Eichrodt e Gerhard von Rad. Qui alcune idee fon- damentali vengono prese e ampliate così da organizzare l’intero lavoro intorno ad esse.

Per Eichrodt è l’alleanza a fornire il nucleo, l’idea-guida, sicché il lavoro viene organiz- zato in modo tale da mostrare che l’Antico Testamento è incentrato anzitutto su Dio e Israele, poi su Dio ed il mondo, infine su Dio e il singolo. Si tratta di una divisione molto pratica del materiale, che permette di sinte- tizzare chiaramente buona parte di ciò che l’Antico Testamento ha da dire. Nel caso di Von Rad, il principio organizzatore è la «sto- ria della salvezza» (Heilsgeschichte): non la storia come è avvenuta realmente, ma la sto- ria confessata dagli antichi israeliti. Secondo Von Rad il compito della teologia dell’Antico Testamento è quello di riportare alla memo- ria dei lettori odierni il racconto proprio ad Israele di quanto Yahweh ha fatto per esso.

Ciò significa che il Pentateuco e i libri storici costituiscono il cuore dell’Antico Testamento e i profeti fungono da commentario ad esso. È anche noto come si ritiene che sia difficile far rientrare i libri sapienzali all’interno di que- sto schema, benché Von Rad abbia scritto in seguito uno studio dettagliato sulla sapienza e cercato di dimostrare che questa aveva molto in comune con il resto dell’Antico Testamen- to. Sia in Von Rad che in Eichrodt ritroviamo chiaramente il desiderio di dimostrare che l’Antico Testamento sfocia naturalmente nel Nuovo, ma in tempi più recenti gli studiosi soprattutto ebrei si sono dimostrati molto scettici su questo punto. In linea di principio sarebbe possibile scrivere una teologia sinte- tica dell’Antico Testamento per lettori ebrei, ma in pratica non vi sono stati molti tentativi in questo senso.

uno dei principali veicoli dell’Antico Testamento nel nostro secolo è stata la pro- duzione di dizionari teologici sull’esempio del grande Dizionario teologico del Nuovo Te- stamento di Kittel. Così, negli anni Settanta

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del Novecento compare per la prima volta il Theologisches Wörterbuch zum Alten curato da G.J. Botterweck e H. Ringgren. Si tratta di una guida utile rispetto ai concetti teolo- gici che si trovano nell’Antico Testamento e che svolge alcune delle funzioni presenti ad esempio nella Theologie ordinata tematica- mente di Eichrodt. Nel complesso lo scopo è quello di sottolineare le continuità piuttosto che le differenze tra i diversi scritti dell’Anti- co Testamento, anche se il tutto viene fatto in maniera ricca di sfumature e senza voler dare l’impressione che l’intero corpus parli con un’unica voce.

Verso la fine del secolo vi fu una sorta di ri- torno ad un approccio alla storia delle religio- ni, già visto nel lavoro di Rainer Albertz, che sosteneva con forza la necessità di una Storia della religione israelita e non di una Teologia dell’Antico Testamento. Fu così che l’autore realizzò un’importante opera in due volumi con tale titolo. Allo stesso tempo la maggior parte degli studiosi riconosce ora che l’Anti- co Testamento contiene materiale sufficiente per dare vita ad una riflessione quasi filoso- fica sul credo e sulle pratiche religiose, che è difficile trattare nella rubrica di storia delle religioni. Nel confronto con le altre altre an- tiche culture del vicino Oriente, l’approccio di Israele non sembra sempre essere unico e speciale, ma dimostra tuttavia che la lette- ratura dell’Antico Testamento è contraddi- stinta da un notevole grado di sofisticazione intellettuale. È un’opera teologica e non solo la testimonianza di un’antica religione, e la maggior parte degli studiosi che se ne sono interessati ritengono che essa meriti un’anali- si concettuale che difficilmente si può evitare di chiamare teologia. Gli ultimi anni del se- colo hanno visto rinnovarsi i tentativi in que- sto senso e i lavori di Walter Brueggemann hanno avuto un grande influsso soprattutto all’interno del mondo anglosassone. Tale autore descrive l’Antico Testamento come un’opera a carattere dialettico e parla di «te- stimonianze» e «contro-testimonianze», con uno schema che si adatta molto meglio alla letteratura sapienziale della maggior par- te dei lavori presentati in questo campo.

Influenzati in parte dagli approcci «cano- nici», alcuni studiosi hanno tentato un ap- proccio «pan-biblico», vale a dire una teo- logia che coinvolgesse entrambi i testamenti.

Ovviamente si tratta di un esperimento di matrice palesemente cristiana. Alcuni nomi che si sono interessati all’idea, come ad esem- pio Hartmut Gese, si sono chiesti se i teologi biblici si potessero permettere di togliere va- lidità ai libri deutero-canonici, che nell’anti- chità erano stati invece di grande importanza sia per gli ebrei che per i cristiani. Ci si poteva aspettare che i teologi della Bibbia cattolici volessero perlomeno integrare questi libri nelle trattazioni sulla teologia dell’Antico Testamento, ma finora non si è visto ancora niente di simile.

8. Etica dell’Antico Testamento

Per la maggior parte del Novecento l’etica biblica è rimasta in qualche modo una zona trascurata, ma a partire dagli anni Settanta ha iniziato ad emergere come tematica di assoluta rilevanza. La tensione tra critica

«ricostruttiva» e «olistica» emerge qui nel seguente dilemma: è meglio scrivere di etica dell’antico Israele, vale a dire affrontare un compito descrittivo/storico, o dell’etica dell’Antico Testamento, che produrrebbe presumibilmente una sintesi delle idee pre- senti nei testi, come la teologia dell’Antico Testamento? La domanda non è stata ancora posta con tutta chiarezza, ma entrambe le strade sono state seguite allo stesso tempo.

L’unica opera rilevante riguardo all’etica dell’Antico Testamento prima della seconda guerra mondiale, Das Ethos des Alten Testa- ments di Johannes Hempel, tende a concen- trarsi sulla parte storico-ricostruttiva ed ha anticipato i tempi interrogandosi sulla realtà sociale dell’etica nell’antico Israele. Gli studi sociologici e socio-antropologici sull’Antico Testamento sono stati un’ulteriore importan- te linea nel Novecento e riflettono l’influen- za crescente delle scienze sociali all’interno delle discipline umanistiche in generale. Ri- guardo lo studio dell’etica in Israele è chiaro

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che è necessario avere un quadro dei diffe- renti gruppi sociali, che possono avere avuto usi e costumi assai diversi, oltre ad un forte senso dello sviluppo storico nel tempo. La Theologie di Eichrodt, di impostazione più sistematica, contiene sezioni importanti sull’etica, anche se l’autore vede questo tema in maniera essenzialmente subordinata al pensiero teologico di Israele.

Negli ultimi anni del secolo si iniziò ad avvertire un rinnovato interesse per l’etica, che culminò nella Theologische Ethik des Al- ten Testaments di Eckart Otto, un’opera im- portante che coniuga teologia e sociologia.

Otto si concentra sull’etica, su come questa si evidenzi nel diritto e nella letteratura sapien- ziale, prestando poca attenzione ai libri nar- rativi, alle profezie o alla salmodia, in quanto è proprio nei primi che si trovano in maggior numero prescrizioni etiche esplicite, anche se di sicuro molti altri libri meriterebbero di essere analizzati a tal proposito.

9. Questioni di ermeneutica

Nel corso di questa voce abbiamo notato uno spostamento da un modello storico per lo studio dell’Antico Testamento – in cui l’idea di ricostruire le realtà che stavano die- tro al testo era centrale – ad un interesse verso il prodotto finito, l’Antico Testamento così com’è. All’inizio del Novecento questo sareb- be sembrato un interesse molto conservatore e sarebbe probabilmente stato rifiutato dal mondo degli studi sull’Antico Testamento in quanto apparentemente di stampo fon- damentalista. un fattore importante che ha portato ad adottare un approccio più olistico è stata l’influenza di Karl Barth. Barth negò la necessità per gli esegeti di cercare oltre il testo: era il testo così com’è ad essere canoni- co per i cristiani e non le ricostruzioni degli studiosi. Sotto il suo influsso, i più antichi resoconti teologici dell’Antico Testamento, presi come prova della rivelazione di Dio tra- mite le vicissitudini della storia di Israele, che riscuotevano l’interesse generale al principio del secolo sono stati soppiantati dall’enfasi

posta nel testo stesso in quanto rivelazione e dalla negazione del senso di progresso sul tempo. Ciò si può notare in maniera più chiara all’interno del movimento, già citato diverse volte, conosciuto col nome di «criti- ca canonica» o approccio canonico, nel qua- le si tende ad analizzare il testo biblico così com’è e a leggere l’Antico Testamento come un tutto armonico. Spesso si sottolinea che non si tratta di un ritorno ad una posizione pre-critica e naïf, ma, casomai, post-critica.

La critica storica da questo punto di vista viene spesso percepita come un progetto il- luministico, che identifica la verità con ciò che si riesce a scoprire tramite metodi storici;

all’opposto ciò che questo movimento chiede è di concentrarsi esclusivamente sull’Antico Testamento così, con uno spirito ricettivo che non cerchi frammentazioni o spinte che vadano oltre il testo.

Questo tipo di approccio ha avuto mag- gior fortuna nel mondo anglo-sassone, mentre in Germania è stato accolto con entu- siasmo da Rolf Rendtorff. Esso viene spesso accomunato ad un altro movimento dell’ul- timo trentennio circa: l’approccio letterario al testo biblico. A partire dagli anni Settanta la critica letteraria «profana» ha iniziato ad interessarsi alla Bibbia, considerandola come

«letteratura» e, di conseguenza, come il possibile oggetto di strategie di lettura appli- cate al mondo letterario più in generale. un notovole esponente di questo tipo di approc- cio è il critico americano Robert Alter, ma il movimento vanta oggi numerosi seguaci, tra i quali Harold Bloom. Alcune delle sue ma- nifestazioni potrebbero essere definite post- moderne, ma ciò non corrisponde affatto a verità. Ciò che sembra unire i critici della Bibbia non è l’opposizione alla critica biblica su basi teologiche, ma piuttosto la sensazione che la tradizionale critica biblica sia stata pe- dante e priva di immaginazione letteraria, an- che se i risultati potrebbero comunque essere simili e si potrebbero ritrovare nel desiderio di produrre letture che rispettino i parametri esistenti del testo e che non cerchino di sca- vare dietro a questo per arrivare ad ipotetiche fonti precedenti. un saggio come quello di

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David Clines, The Theme of the Pentateuch, ne è un’ottima dimostrazione: la maggior parte dei critici storici avrebbero negato che il Pentateuco avesse un «tema» poiché esso è «illeggibile» nella sua forma attuale, es- sendo sostanzialmente un collage di fonti più vecchie. Clines sostiene invece che il Penta- teuco sia un lavoro finito con una sua valenza e che sia perfettamente sensato chiedersi cosa questo significhi nel suo insieme.

un altro importante movimento dell’ulti- ma parte del secolo riguarda quelle che ven- gono talvolta definite «letture contestuali».

I due filoni principali di questo movimento sono costituiti dall’approccio femminista e dall’approccio liberazionista al testo. En- trambi partono dal presupposto che gli studi sull’Antico Testamento siano stati in gran parte condotti da studiosi maschi, bianchi e del ricco mondo occidentale, mentre gli stu- diosi della Bibbia dovrebbero aver modo di ascoltare anche le voci di gruppi emarginati e in particolar modo delle donne e dei poveri.

Le studiose femministe si concentrano sulla presenza delle donne nei testi, spesso escluse dalle opere esegetiche, ma anche sulla sotto- missione delle donne nelle società antiche, incluso Israele. Danno particolare rilevanza all’atteggiamento di molti profeti nei con- fronti delle donne: testimonianze salienti di teologia dominata dall’uomo sono ad esempio Osea ed Ezechiele e quest’ultimo, nel personificare l’Israele errante come una prostituta, ha prodotto testi che vengono talvolta definiti «pornografia profetica».

Le studiose femministe chiedono che l’am- biente accademico abbandoni il suo stile descrittivo neutrale ed esprima indignazione nei confronti di quei passaggi e chiedono al- tresì che vengano incoraggiate le letture che compensano questi squilibri e rivelano ciò che l’Antico Testamento ha da dire di posi- tivo, alle donne e agli uomini, riguardo alle donne. Vi è inoltre una corrente del pensiero femminista che sente l’Antico Testamento irrimediabilmente ostile nei confronti delle donne, ma questa teoria non viene condivisa da molte scrittrici femministe che si occupa- no della Bibbia.

La teologia della liberazione ha fornito anch’essa un grande contributo nel presenta- re nuovi modi di leggere la Bibbia. I lettori liberazionisti dell’Antico Testamento, così come le controparti femministe, sono ansiosi di liberare il testo dalla colonizzazione prati- cata dai maschi, bianchi e occidentali. un ot- timo esempio di lettura liberazionista è stato il lavoro di Norman K. Gottwald sull’epoca dei Giudici The Tribes of Yahweh, nel quale l’autore afferma che gli israeliti a quel tempo erano in effetti dei cananei oppressi che si erano ribellati contro i loro oppressori, che svilupparono le loro idee teologiche sulla liberazione della nazione dagli egiziani ad opera di Yahweh, per parlare in verità di una rivolta avvenuta interamente all’interno del- la Palestina. Il lavoro di Gottwald raggiunse un’estrema notorietà per diversi anni nei circoli liberazionisti sudamericani e, nono- stante molti studiosi dell’Antico Testamento non lo accettino completamente, presenta in effetti dei paralleli notevoli con ciò che gli archeologi hanno recentemente affermato circa la possibilità che Israele sia interamente sorto all’interno di Canaan. Dietro a queste idee c’era indubbiamente la sensazione che l’Antico Testamento fosse stato per troppo tempo interpretato in un modo che favori- va l’imperialismo occidentale e che vi fosse la necessità di riscattarlo, per consegnarlo ai poveri e agli oppressi ai quali apparteneva più autenticamente.

10. Conclusioni

Gli studi sull’Antico Testamento nel No- vecento hanno rappresentato un campo di interesse molto vivace, contraddistinto da una grande varietà di metodi ed approcci.

Fino alla seconda guerra mondiale vi era ampio accordo sulla strada da seguire: la critica delle fonti e quella delle forme erano dominanti e in generale lo stile di lavoro «ri- costruttivo» rappresentava la norma. Negli ultimi cinquant’anni abbiamo assistito ad uno spostamento verso un approccio che guarda più all’«aspetto finale» del testo

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biblico, allo stesso tempo, la presenza di una molto maggiore varietà di metodi ha con- sentito agli studiosi dell’Antico Testamento di non sentirsi più necessariamente parte di un’unica corporazione, con norme e obiettivi condivisi. Gran parte dei lavori che continua- no ancora oggi ad essere intrapresi possono essere definiti «ricostruttivi», che si tratti di archeologia, di sfondo del vicino Oriente o di analisi testuale. Allo stesso tempo però sono molto apprezzati gli approcci letterari più in- novativi e la ricezione teologica del testo è in buona parte influenzata dalla teologia neo- barthiana alla rivelazione, che blocca la strada alla ricostruzione delle antiche realtà e insi- ste sull’analisi contemporanea del testo così com’è ora. È tuttavia impossibile predire cosa ci riserveranno in futuro gli studi sull’Antico Testamento.

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