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Capitolo 1 L’evoluzione della normativa comunitaria sui servizi pubblici locali

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Capitolo 1

L’evoluzione della normativa comunitaria

sui servizi pubblici locali

1. Cenni storico evolutivi sulla normativa europea

La regolamentazione in materia di servizi pubblici locali è legata al diritto comunitario ed alle direttive che arrivano agli Stati membri dal legislatore europeo. In ogni caso, come vedremo nel corso della trattazione1, questa disciplina ha subito, negli anni, molti interventi e modifiche e, ad oggi, non è ancora riuscita a trovare una dimensione stabile quantomeno a livello nazionale2.

Tra gli anni ’50 e gli anni ’70 del 900 l’atteggiamento assunto dall’ordinamento comunitario fu, sostanzialmente, remissivo. La Comunità aveva come obiettivo la realizzazione di un mercato comune libero e molte norme venivano prodotte per armonizzare gli ordinamenti degli Stati membri con questo

1 V. cap. II

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2 fine. Si registrava, invece, da parte del legislatore comunitario, una sorta di “timore”3 nel regolamentare la materia dei servizi pubblici; timore dimostrato sia in sede di costituzione della Comunità, tradottosi nell’assenza di una definizione chiara ed univoca di servizio pubblico all’interno del Trattato istitutivo, sia dalla stessa Commissione Europea, che evitava di contrastare il massiccio intervento pubblico, operato dagli Stati membri, nell’economia.

La svolta a livello comunitario si haquando si percepisce la necessità che, per la realizzazione del mercato comune, vengano prodotte norme e principi in grado di regolare e tutelare la concorrenza. Il passo principale non può che essere il diritto ad una libera iniziativa economica. L’operato della Corte di Giustizia europea si è orientato in questo senso e, a partire dalla sentenza Cassis de Dijon n.120/784, si sviluppa una lettura “via via più restrittiva”5 della clausola derogatoria prevista al paragrafo 2 dell’articolo 86 (ex art. 90) del Trattato UE. Analizzando meglio la decisione “si può dire che questa

3 P. Rossi, ivi, op. cit., p. 4.

4 Cassis de Dijon, 20 febbraio 1979, causa C-120/78, in Racc., 1979, p. 649. 5 G. Di Gaspare, Servizi pubblici locali in trasformazione, Padova, 2010, p. 28.

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3 segni il momento iniziale di conversione della costituzione economica comunitaria verso il modello democratico liberale”6. Lo scopo era quello di tutelare la libertà di iniziativa economica all’interno del mercato europeo, un mercato che sarebbe dovuto essere libero.

In base all’articolo n. 86, par. 2, gli Stati possono conferire diritti esclusivi ad imprese incaricate di servizi di interesse economico generale a condizione che ciò sia necessario e funzionale alla loro speciale missione e che questo non contrasti con gli interessi della Comunità. Per trovare la giusta quadratura tra regolazione e tutela antitrust la Corte di Giustizia ha enunciato alcuni principi attraverso l’interpretazione del paragrafo 1 dell’articolo 86 del Trattato. Tali principi avevano come compito principale quello di demolire gli assetti monopolistici pubblici che persistevano all’interno degli Stati membri. Alla luce di questi principi tali assetti non avevano più alcuna giustificazione per esistere. L’operato della Corte è stato la base di partenza per una nuova

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4 apertura alla concorrenza del settore dei servizi di interesse economico7.

Questo processo di apertura alla concorrenza avviato dal legislatore comunitario è avvenuto in fasi successive, andando ad intaccare, prima, gli aiuti di stato, e, in un secondo momento, i servizi pubblici. Proprio nel campo dei servizi pubblici si assiste ad un progressivo abbandono della concezione “formale soggettiva” del servizio pubblico8 a favore di una concezione sostanziale di impresa pubblica9. La concezione soggettiva adottata per qualificare il servizio pubblico si basava sulla nozione di impresa pubblica, quindi l’attenzione del legislatore si concentrava sul “soggetto” che eseguiva il servizio e non sul servizio stesso. La concezione sostanzia, dal canto suo, fu utilizzata, inizialmente, allo scopo di verificare la compatibilità della legislazione nazionale sugli aiuti di stato con le norme comunitarie. Questa concezione discriminava le imprese pubbliche, rispetto a quelle private, ed è rilevabile, per la prima volta, nella Direttiva 80/723 del 25

7 F. Munari, Concorrenza e servizi pubblici, in AA. VV. (a cura di) A. Tizzano, Il processo

d’integrazione europea: un bilancio 50 anni dopo i trattati di Roma, Torino, 2008, 101 ss.

8 G. Di Gaspare, Servizi pubblici locali in trasformazione, op. cit., p. 29. 9 P. Rossi, Servizi pubblici locali: una deregolazione incompiuta, op. cit., p. 8.

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5 giugno 1980, la quale aveva come scopo quello di controllare le relazioni finanziarie intercorrenti tra gli Stati membri e le rispettive imprese pubbliche. Tale direttiva segna il definitivo abbandono della posizione neutrale tenuta dalla Commissione UE rispetto alle politiche protezionistiche degli Stati membri.

Solo dopo un decennio il criterio sostanziale verrà utilizzato non più per valutare gli aiuti di stato, quanto per passare ad una concezione oggettiva di servizio pubblico. Si arriva così a ricomprendere nella categoria dei servizi pubblici tutti quei settori aventi il monopolio legale come elemento strutturale comune. Nonostante gli sforzi profusi dal legislatore europeo, però, la reale incidenza della nuova normativa comunitaria sulle posizioni protezionistiche tenute dagli stati membri si è avuta solo con l’adozione di due direttive: la n. 85/413 del 24 luglio 1985 e la n. 90/531 del 17 settembre 1990. La Direttiva n. 85/413, in particolare, ha il merito di estendere l’ambito di applicabilità della precedente Direttiva n.80/723 alle imprese pubbliche nazionali dei c.d. settori esclusi, vale a dire quello dell’acqua, dell’energia, delle poste e telecomunicazioni e dei trasporti. La Direttiva 90/531,

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6 invece, si occupa di includere, i suddetti settori, nel raggio applicativo delle regole comunitarie sugli appalti pubblici.

Il precedente criterio soggettivo generava confusione e l’esclusione di determinati settori era da attribuirsi al fatto che gli enti che li gestivano erano, talvolta, disciplinati dal diritto pubblico e, talaltra, dal diritto privato. Il passaggio ad un’effettiva liberalizzazione del mercato esige una qualificazione unica10. Si va così definendo una “nozione oggettiva di servizio pubblico comunitario”11 nei termini di un elenco di settori organizzati come servizi a rete e caratterizzati dalla presenza di un monopolio legale che, proprio in quanto monopolio, non può essere accettato senza previa verifica di ammissibilità alla luce del nuovo obiettivo di un mercato libero proposto dall’ordinamento comunitario.

Successivamente con l’adozione dell’Atto Unico Europeo del 1986 sembra profilarsi un’idea di costituzione economica europea di matrice democratico-liberale, che inevitabilmente

10 G. Di Gaspare, Servizi pubblici locali in trasformazione, op. cit., p. 30 ss. 11 P. Rossi, Servizi pubblici locali: una deregolazione incompiuta, op. cit., p. 9.

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7 modifica quella che era la visione del rapporto e della interconnessione che deve esserci tra Stato e mercato.

Negli anni seguenti, attraverso il Trattato di Maastricht e, soprattutto, il Trattato di Amsterdam che, con l’articolo 16, si pone l’obiettivo di trovare nuovi equilibri nell’applicazione dell’articolo 86 del Trattato UE12, a livello comunitario si genera un netto cambio di rotta anche nella visione delle politiche sociali. L’attenzione del legislatore si sposta su obiettivi di interesse economico generale, che vengono intesi come basilari per lo sviluppo della coesione sociale13 e della solidarietà. L’obiettivo aggiornato delle istituzioni comunitarie sarà la ricerca di un nuovo bilanciamento tra principio di concorrenza ed interessi generali.

12 G. Napolitano, Servizi pubblici e rapporti d’utenza, Roma, 2000, p. 237.

13 Per coesione sociale si intende quel processo volto ad attenuare le disparità esistenti tra gli

individui di una stessa comunità, disparità dovute a particolari condizioni economiche, sociali, culturali o etniche.

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8 2. La fine del sistema monopolistico

Nel mutato, e mutevole, assetto normativo, segnato dai Trattati di Maastricht e Amsterdam, di cui al paragrafo precedente, si colloca anche l’avvio di una politica comunitaria volta a contrastare l’esistenza dei monopoli pubblici nazionali.

L’obiettivo del legislatore europeo era duplice: da un lato si cercava di ridare slancio alle imprese pubbliche nazionali, che gestivano il settore dei servizi pubblici, attraverso l’inserimento, delle stesse, in un contesto competitivo in grado di rivitalizzare lo stesso principio di economicità14; dall’altro, si tentava di stare al passo di uno sviluppo tecnologico talmente veloce da minare gli stessi presupposti strutturali del monopolio naturale15.

Questi particolari interventi, operati dalla Comunità, risulteranno la base decisiva per lo sviluppo di nuove politiche da parte dei singoli Stati membri, soprattutto volte alla privatizzazione delle “vecchie” aziende pubbliche.

14 R. Arrigoni, Regolazione e gestione delle public utilities: principio di separazione e libera

concorrenza nell’applicazione dei principi costituzionali e comunitari, in Riv. trim. dir. pubb.,

1995, p. 92.

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9 Alla luce di queste premesse risulta chiaro come il lavoro dei legislatori dei singoli Stati si sostanzi nel rivalutare le normative nazionali, riguardanti i settori di riserva esclusiva16, analizzandone estensione e rilevanza, in modo da armonizzarle con i principi e gli obiettivi che si pone il Trattato UE. Il risultato, di questo lavoro richiesto ai membri, sarà una serie di disposizioni volte alla liberalizzazione delle principali attività di interesse economico generale.

Dal canto suo, il legislatore comunitario, ha sviluppato il suo progetto, di ampliamento della concorrenza e di creazione di un mercato unico anche nel settore dei servizi di interesse economico generale, seguendo tre vie distinte ma, tra loro, interconnesse: inizialmente, con una serie di direttive emanate a supporto dell’art. 95 del Trattato Ue. L’art. 95 prevede che il Consiglio adotti misure, in grado di produrre una concordanza tra le varie norme esistenti a livello di Stati membri, volte alla creazione ed al funzionamento del mercato interno. Attraverso questa mossa i settori come quello dell’energia, delle poste e delle telecomunicazioni vengono dotati di un regime

16 Settori di riserva esclusiva sono quei settori lasciati alla regolamentazione autonoma dello

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10 comunitario uniforme e sottratti, dunque, alla libera autonomia statale.

Diversamente, in alcuni casi, si assiste ad una vera e propria politica comune di settore: esempio ne è il settore dei trasporti regolato dall’art. 70 (ex art. 74) del Trattato CE. Si sviluppano, così, veri e propri “settori regolati” nei quali la normativa comunitaria risulta essere la fonte principale.

Altre volte, infine, le liberalizzazioni sono arrivate direttamente dalla Commissione attraverso un’attività di vigilanza e controllo sulla conformità, rispetto ai principi di concorrenza posti dall’Unione, dell’esercizio di diritti esclusivi17 o speciali18, e sul conferimento di questi, da parte degli Stati membri, a imprese nazionali. Questa valutazione della Commissione avviene basandosi essenzialmente sull’art. 86 del Trattato Ce.

La nuova politica, portata avanti in sede comunitaria attraverso le suddette “tre vie”, si è caratterizzata per una

17 Sono definibili come diritti esclusivi quelli connessi a situazioni di monopolio legale

18 I diritti speciali sono quei diritti inerenti a situazioni di restrizione dell’accesso al mercato ad

un numero limitato di imprese, che comportano, inevitabilmente, una limitazione delle concorrenza.

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11 duplice imposizione ai destinatari della stessa: per un verso, la rimozione di qualsiasi tipo di diritto speciale o limitazione tecnico-legale con riguardo alle attività economiche, le quali dovranno essere aperte al principio di concorrenza e di libero mercato; per un altro, la creazione di istituzioni che regolassero la materia in modo indipendente e neutrale così da tutelare, ad un tempo, sia il corretto funzionamento del mercato, sia gli stessi utenti.

Sotto il primo profilo, la rimozione del monopolio legale si è presentata come la via privilegiata da seguire per quei servizi pubblici nei quali l’avanzamento e lo sviluppo tecnologico avevano pressoché azzerato i costi di creazione di nuove reti. Un esempio lampante, di suddetti settori, è quello delle telecomunicazioni, nel quale il legislatore comunitario ha previsto l’abbandono del monopolio legale a favore di un’apertura completa al mercato con conseguente liberalizzazione del comparto. Vi sono casi, invece, nei quali la presenza di un unico sistema di trasmissione ha, di fatto, ostacolato la totale liberalizzazione. L’installazione di nuove reti in questi settori, quando ve ne fosse la possibilità, in

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12 quanto non caratterizzati per situazioni di monopolio naturale, appariva eccessivamente onerosa e non conveniente. In questi casi la permanenza della riserva a favore di imprese controllate dagli stessi Stati finiva, dunque, per essere giustificata.

Giunti, come si era, ad una fase di stallo, il problema della liberalizzazione e dell’apertura del mercato si è spostato, su di un altro piano, quello di garantire ai nuovi concorrenti un libero accesso alle infrastrutture di proprietà dell’ex monopolista, a condizioni eque e non discriminatorie19.

Tale obiettivo è stato perseguito attraverso molte direttive: è il caso, ad esempio, della Direttiva 91/440/CEE che indica la via percorribile, per trovare un giusto accordo tra proprietario dell’infrastruttura e altri concorrenti, attraverso una “distinzione fra l’esercizio dei servizi di trasporto e la gestione dell’infrastruttura”.

La risoluzione del problema, quindi, sembra essersi trovata scindendo in due parti l’attività dell’ex monopolista: da una parte, come proprietario delle infrastrutture, sarà tenuto a

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13 farvi accedere gli altri concorrenti a condizioni “eque e non discriminatorie”; dall’altra, come concorrente, potrà essere parte del mercato fornendo servizi in competizione con gli altri partecipanti.

Il compito di definire i casi nei quali è possibile la permanenza di regimi di riserva spetterà, comunque, al legislatore comunitario e, allo stesso tempo, anche nel caso in cui venga concesso un regime di riserva, i singoli Stati non potranno sottrarsi agli orientamenti espressi dalla Commissione UE o al controllo del giudice comunitario, i quali si occuperanno di valutare le misure contrarie o distorsive della concorrenza. Una limitazione al principio di concorrenza sarà consentita solo qualora, tale limitazione, risulti necessaria ai fini del perseguimento dell’interesse generale.

A riguardo del secondo profilo, l’intervento comunitario non si ferma all’emanazione di norme astratte e generali, esso prevede, per i singoli Stati, l’obbligo di promuovere la concorrenza attraverso l’instaurazione di organismi che

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14 regolino in modo indipendente e neutrale i vari settori di interesse. Tali organismi dovranno anche adempiere al compito di salvaguardare l’utente nel passaggio, che si avrà nei servizi di interesse economico generale, dal regime monopolistico a quello basato sulla libertà di mercato.

È proprio in quest’ottica che vanno valutate le numerose misure comunitarie volte a regolare l’accesso alle infrastrutture detenute dall’ex monopolista. In alcuni casi, lo stesso legislatore prevede l’intervento di Autorità regolative indipendenti che si occupino di regolare le varie fasi del passaggio dall’assetto monopolistico alla liberalizzazione, in modo da evitare che l’impresa che possiede la rete renda difficoltoso o eccessivamente oneroso l’accesso alla stessa. Un esempio può essere la Direttiva 97/13 che all’art. 2.1.b prevede, per il settore delle telecomunicazioni, l’instaurazione di un’ autorità regolativa nazionale indipendente dagli organismi di comunicazione. Lo scopo di tali previsioni è quello di assicurare il corretto funzionamento di determinati settori economici, caratterizzati da particolari situazioni strutturali. Questi settori si contraddistinguono per la presenza

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15 di imprese aventi posizioni dominanti, in quanto titolari delle reti di trasmissione e dei beni essenziali allo svolgimento del servizio20. Il legislatore comunitario si assicura, così, di “garantire la produzione di servizi pubblici conservando, nella misura massima possibile, la concorrenza” 21 , attraverso l’apertura dell’uso della rete a tutti gli operatori, aldilà di chi ne sia il proprietario o il gestore.

Il legislatore comunitario ha prestato una grande attenzione nel regolare i casi c.d. di “monopolio naturale”, arrivando anche a sviluppare un concetto di riserva che viene limitata alla sola attività di trasmissione, questo qualora ci si trovi, appunto, nelle condizioni in cui una sola impresa possegga la rete e la costruzione di altre sia impossibile. Nonostante questa attenzione e questa nuova regolamentazione, però, la tendenza comunitaria, ogni qual volta vi sia la possibilità di scardinare il sistema monopolistico previgente, rimane quella di favorire una concorrenza piena eliminando ogni forma di diritto esclusivo.

20 P. Rossi, Servizi pubblici locali: una deregolazione incompiuta, op. cit., p. 19.

21 D. Sorace, Servizi pubblici e servizi economici di pubblica utilità, in Dir. Pubbl., 1999, p.

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16 3. L’avvento del servizio universale

L’art. 86 (ex art. 90) del Trattato istitutivo riguardante i c.d. servizi di interesse economico generale si caratterizza per aver subito, negli anni, numerose e varie letture da parte della Commissione. L’articolo, di per sé, appare come un compromesso studiato ad hoc dai costituenti europei, volto a contemperare, da un lato, l’interesse degli Stati di regolare in maniera autonoma un settore nevralgico come quello dei servizi pubblici; dall’altro, quello dell’Unione di creare un mercato europeo unico basato sulla libera concorrenza.

La norma si compone di due parti: nella prima, corrispondente al primo comma, si impone agli Stati membri di non adottare misure contrarie al Trattato, in favore di imprese pubbliche o altre imprese, aventi ad oggetto la concessione di diritti speciali o esclusivi; nella seconda, rilevabile nel secondo comma, si prevede una deroga al principio della concorrenza, applicabile nei confronti di quelle imprese operanti nel settore dei servizi di interesse economico generale, qualora questo risulti essere di contrasto alla

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17 specifica missione loro affidata. L’art. 86 si contraddistingue, inoltre, per non fornire una definizione univoca e chiara di “servizio pubblico”, questo a testimoniare, ancora una volta, la volontà del legislatore di non imporre, unilateralmente, una disciplina in una materia che si presentava come caratterizzata da un’estrema diversità di tradizioni nei vari Stati membri dell’Unione; diversità che si palesava sia sul piano definitorio che su quello normativo-gestionale. Questo assetto incerto e, volutamente, scarsamente delimitato, seppur generato sulla scia di una volontà chiara di non invadere oltremisura gli ambiti regolati dai singoli Stati, ha consentito di adeguare l’ambito di operatività della deroga, ex art. 86 par 2, ai vari mutamenti riscontrati negli obiettivi dell’ordinamento comunitario: da quello del Trattato di Roma di creare un mercato concorrenziale unico, sino a quello di Maastricht e, soprattutto, Amsterdam inerente l’integrazione, la coesione sociale e la solidarietà22. Il problema dell’assenza di un riferimento chiaro a quelli che dovevano essere intesi come servizi di interesse economico generale è stato affrontato dalla

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18 Commissione UE in diversi modi. In un primo tempo, e fino agli anni ’70, si è assistito ad una politica piuttosto liberale, con la Commissione che si limitava a vigilare sulla gestione delle imprese perché non abusassero dei diritti loro concessi dagli Stati, i quali, in completa autonomia, decidevano a quali servizi di interesse generale non dovesse essere applicato il principio della concorrenza. In una seconda fase, il cui inizio è collocabile nella prima metà degli anni ’70, la Commissione decide di affiancare al controllo sulla gestione, anche un controllo “ a monte”, volto a sindacare la stessa concessione dei diritti esclusivi, la loro ammissibilità.

Nei primi anni del XXI secolo la Commissione è tornata ad occuparsi della questione relativa ai servizi di interesse economico generale, cercando di dare una definizione chiara a questa categoria di servizi. Nella Comunicazione della Commissione intitolata “I servizi d’interesse generale in Europa” redatta in Bruxelles nel settembre 2000 viene ribadito il ruolo centrale dei servizi di interesse generale in quanto “contribuiscono in maniera rilevante alla competitività generale dell'industria europea e alla coesione economica,

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19 sociale e territoriale” e viene offerta anche una definizione degli stessi servizi affermando che “i servizi d'interesse economico generale si differenziano dai servizi ordinari per il fatto che le autorità pubbliche ritengono che debbano essere garantiti anche quando il mercato non sia sufficientemente incentivato a provvedervi da solo”23.

Successivamente la Commissione sembra cambiare posizione sui servizi di interesse economico generale tant’è che nel 2003, nel Libro verde sui servizi di interesse generale, dopo aver affermato che “l’espressione “servizi di interesse generale” non è presente nel Trattato, ma è derivata, nella prassi comunitaria, dall’espressione “servizi di interesse economico generale” che invece è utilizzata nel Trattato” fornisce una definizione differente degli stessi servizi qualificandoli come “servizi di natura economica che, in virtù di un criterio di interesse generale, gli Stati membri o la

23 Comunicazione della Commissione Europea, I servizi di interesse generale in Europa,

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20 Comunità assoggettano a specifici obblighi di servizio pubblico”24.

La differenza tra le due definizioni è riscontrabile nella caratteristica centrale che viene attribuita ai servizi di interesse economico generale: nella prima definizione il punto focale è che il servizio venga comunque prestato, a prescindere dal fatto che questo avvenga attraverso il libero mercato o per mano dello Stato; seguendo la seconda impostazione, invece, la lente di ingrandimento si sposta sugli obblighi di servizio imposti. In sostanza, seguendo la seconda impostazione, offerta dalla Commissione nel libro verde, la condicio sine qua non per l’intervento del potere pubblico, con susseguente assunzione del servizio, sarebbe il fallimento del mercato. Qualora il mercato riuscisse, quindi, di per sé, a rispettare gli obblighi determinati, ogni assunzione del servizio da parte dei pubblici poteri sarebbe da considerarsi illegittima25.

Anche la Corte di Giustizia si è preoccupata di fornire il proprio parere sulla questione, cercando di definire l’ampiezza

24 Libro verde della Commissione Europea, I servizi di interesse generale, 21 maggio 2003,

COM (2003) 270 def., par. 16 e 17, pag. 7.

25 M. Lottini, I servizi di interesse economico generale: una nozione controversa, in Riv. it. di

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21 della deroga prevista al comma 2 dell’art. 86. In una prima fase, la Corte ha assunto una posizione liberale in materia di servizi di interesse economico generale: l’individuazione del servizio di interesse generale era prerogativa esclusiva degli Stati membri, i quali potevano decidere arbitrariamente quali servizi assumere in carico a prescindere dal fallimento, o meno, del mercato. Condizione sufficiente era che lo Stato ritenesse quella determinata attività di rilevanza pubblica. Successivamente, sul finire degli anni ’80, la Corte assume una posizione più limitativa in materia. Nello stesso periodo la Comunità indirizza le proprie politiche alla creazione del mercato interno basato sul principio della concorrenza, è questa la spinta decisiva che porta la Corte a cambiare la propria posizione in materia di servizi di interesse generale. Il vaglio della Corte sull’ammissibilità della deroga alle regole della concorrenza diviene più restrittivo: è necessario che lo Stato membro dimostri che il diritto di esclusiva attribuito all’impresa gerente il servizio sia indispensabile per lo svolgimento della missione di interesse pubblico. L’onere della prova si trova così ad essere rovesciato: non più in capo

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22 alla Commissione, bensì in capo allo Stato membro. L’obiettivo della Corte appare evidente: favorire l’opzione concorrenziale limitando lo spazio di discrezionalità di prerogativa degli Stati membri. Il regime derogatorio, e quindi la limitazione della concorrenza, dovrà essere strettamente proporzionale all’interesse generale che il servizio va ad assicurare. Agli Stati membri non è più consentito di rilasciare deroghe in nome di un imprecisato interesse generale, come avveniva prima di questo mutato orientamento della Corte, l’unico presupposto ammissibile per la concessione di una riserva pubblica d’attività diviene l’indispensabilità di quest’ultima allo svolgimento della missione di interesse pubblico.

Il procedimento valutativo che la Corte dovrà eseguire risulta, dunque, duplice: per un verso essa dovrà valutare l’effettiva necessità della deroga ex art. 86 comma 2; allo stesso tempo, comunque, essa dovrà trovare la giusta soluzione da adottare tenendo presente che questa dovrà assicurare la maggior utilità a prezzo del minor pregiudizio possibile per il mercato. L’orientamento basato sul concetto di

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23 indispensabilità si caratterizza, però, per un altro elemento particolare: esso presuppone come condizione essenziale per la concessione della misura derogatoria un anteriore fallimento del mercato. Questa ulteriore condizione di validità per la deroga ha l’effetto di limitare, ancora di più, le scelte dei singoli Stati favorendo, così, la politica comunitaria di integrazione dei mercati.

L’attenzione delle istituzioni comunitarie in materia di servizi di interesse generale, almeno fino al Trattato di Amsterdam, si era rivolta soprattutto a garantire la concorrenza ed il libero mercato, assente risultava, quindi, la tutela della categoria degli utenti, i quali erano presi in considerazione solo indirettamente dalle disposizioni ex art. 86.

Il Trattato di Amsterdam risulta essere un importante momento di svolta per la questione, in quanto, dal documento, accanto alla unificazione del mercato, sorgono altri obiettivi centrali della politica comunitaria, quali la coesione sociale e territoriale e la tutela degli interessi generali. I servizi di interesse economico generale diventano, così, oggetto di

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24 intervento attivo dei pubblici poteri comunitari e nazionali e non più solo una deroga alla disciplina concorrenziale26.

Questo nuovo modo di pensare i servizi di interesse economico generale, e la grande importanza data alla funzione sociale da essi svolta, ha permesso alla Corte di modificare il proprio orientamento abbandonando il principio della indispensabilità per sposare un nuovo concetto di verifica dell’ammissibilità della deroga. Il nuovo sindacato della Corte investiva la strumentalità dell’eccezione alle regole sulla concorrenza rispetto alla attività di interesse generale svolta. Caso lampante di questa mutata visione è il c.d. caso Corbeau, nel quale la Corte afferma che “l'obbligo del titolare di questa funzione di garantire i suoi servizi in condizioni di equilibrio economico presuppone la possibilità di una compensazione tra i settori di attività redditizi e quelli meno redditizi”. È possibile, dunque, per gli Stati membri concedere diritti esclusivi ai gestori dei servizi di interesse generale attraverso “una limitazione della concorrenza da parte di imprenditori

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25 privati nei settori economicamente redditizi”27. In sostanza, quello che afferma la Corte è che: attraverso la concessione del privilegio di avere una posizione monopolista, si cerca di compensare l’imposizione di un obbligo di svolgere determinate attività di interesse pubblico aventi, il più delle volte, natura non redditizia.

Si sviluppa, così, all’interno della categoria dei servizi di interesse generale, un gruppo di prestazioni universali che l’impresa è tenuta a compiere in ragione della missione affidatale. Queste prestazioni, avendo carattere non economico, giustificano l’esistenza di meccanismi compensativi come la limitazione della concorrenza. Da qui la nozione di servizio universale, nozione che racchiude un insieme di prestazioni universali minime le quali, per la loro natura non redditizia, non sarebbero assicurate dal libero mercato e che, di conseguenza, si traducono in un compito pubblico imposto all’impresa esercente, nonostante la sua non redditività, attraverso determinati obblighi di servizio.

27 Corte di Giustizia CE, sentenza 19 maggio 1993, C-320/1991, Regie des Postes c. Paul

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26 All’interno del Trattato non esiste una definizione di servizio universale, tuttavia la Commissione UE ha cercato di fornirne una inquadrando l’idea di servizio universale con l’esigenza di garantire, in modo universale, ovunque, per tutti ed a prezzi accessibili, la fruizione dei servizi di interesse economico generale. Attraverso la creazione di questa categoria si tutelano gli utenti ed il loro diritto ad usufruire di questi servizi fondamentali. La nozione comunitaria di servizio universale sembra avere come fine quello di assicurare la prestazione di servizi destinati a soddisfare bisogni giudicati socialmente necessari; si tratta, in sostanza, di una disciplina di eccezione volta ad intervenire per tutte quelle attività che, seguendo le regole del mercato, non verrebbero svolte28 perché antieconomiche. La nozione appare “flessibile, evolutiva, strettamente collegata agli sviluppi tecnologici e alle nuove esigenze dell’utenza” 29 e gli stessi obblighi di servizio universale appaiono come “una sorta di minimo comune denominatore, rispetto al quale ciascuno Stato membro è libero di aggiungere ulteriori elementi in coerenza con la propria

28 P. Rossi, Servizi pubblici locali: una deregolazione incompiuta, op. cit., p. 33.

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27 concezione di servizi pubblici”30. Il fine di tale “flessibilità” è quello di poter aggiornare, a seguito di eventuali innovazioni tecnologiche che rendano l’attività sottoposta a regime di servizio universale svolgibile secondo logiche di mercato, l’elenco dei servizi universali, eliminando, di conseguenza, quelli che non avrebbero più bisogno del regime speciale.

4. Apertura alla concorrenza nel sistema delle utilities locali

La disciplina comunitaria formatasi a riguardo dei servizi pubblici a rete, che, attraverso un processo di liberalizzazione, ha prodotto un’apertura al mercato ed alla concorrenza degli stessi, non è riuscita ad avere gli stessi effetti, almeno in un primo momento, nel campo dei servizi pubblici locali. Il motivo di questa mancata regolamentazione è riscontrabile nell’eccessiva ristrettezza del mercato all’interno del quale operano i servizi pubblici locali. Essi sono stati considerati “al di sotto della soglia di rilevanza comunitaria”31 e questa visione ha trovato conferme anche in pronunce della

30M. Clarich, Servizio pubblico e servizio universale: evoluzione normativa e profili

ricostruttivi, in Dir. pubb., 1998, p.184.

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28 giurisprudenza comunitaria che, chiamata a sindacare su di una eventuale violazione alle libertà previste dal Trattato, ha escluso l’applicabilità dello stesso nel caso in cui gli elementi della situazione siano “tutti confinati all'interno di un solo Stato membro e che pertanto non presenta alcun nesso con una delle situazioni considerate dal diritto comunitario nel settore della libera circolazione delle persone e dei servizi”32.

I servizi pubblici locali, dunque, apparivano esclusi dall’ambito di applicazione delle regole comunitarie sulla concorrenza per la mancanza di un mercato rilevante. Questo ha prodotto una diversificazione normativa importante tra i vari Stati membri in materia di servizi pubblici locali: ad eccezione dei settori dell’acqua, dell’energia, dei rifiuti e del trasporto locale, rappresentanti il “nucleo duro” 33 della categoria, in Europa si assiste a varie forme di regolamentazione delle utilities locali.

Il grado di apertura al mercato nel suddetto settore risultava, infatti, molto diverso a seconda del paese di

32 Corte di Giustizia CE, sentenza 09 settembre 1999, C-108/98, RI.SAN. S.r.l. c. Comune di

Ischia e Ischia Ambiente S.p.a.,in www.eur-lex.europa.eu, p. I-5245 ss.

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29 riferimento, passando da una totale apertura alla concorrenza, come nei paesi anglosassoni o scandinavi, sino ad un controllo pubblico basato su diritti esclusivi, come in Francia, Germania o Austria. Chiaramente si trattava di uno squilibrio intollerabile all’interno del mercato europeo basato sulla libera concorrenza e sulla reciprocità. Fu così che, a livello europeo, si colse la necessità di una disciplina unitaria che armonizzasse le varie posizioni nell’ottica del mercato comune.

Il problema in questione è quello di valutare la reale rilevanza che può avere l’ambito locale dei servizi pubblici per il diritto comunitario. Da un lato appare chiaro come le norme comunitarie si indirizzino esclusivamente agli Stati membri, tralasciando le autonomie territoriali. La conferma arriverebbe dall’art. 37 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (ex art. 31 TCE) che, prevedendo un “riordinamento dei monopoli nazionali”34, escluderebbe i monopoli operanti in ambiti territoriali locali. In senso opposto, però, quando si fa riferimento alla “generica nozione di Stato membro possono esservi ricomprese tutte le autorità pubbliche nazionali o

34Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, 13 dicembre 2007, entrato in vigore il 1

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30 locali”35. In questo senso si è mossa anche la giurisprudenza comunitaria che ha giudicato gli enti locali come facenti parte dello Stato membro, e, di conseguenza, essi devono rispettare gli “obblighi imposti” dalle norme comunitarie 36 . La Commissione, dal canto suo, ha preferito non esprimere una valutazione netta sulla esternalizzazione dei servizi pubblici, ha optato per lasciare libertà agli Stati membri di decidere se gestire direttamente le utilities locali o se, viceversa, esternalizzarne l’erogazione, dovendo, in quest’ultimo caso, trovare applicazione i principi comunitari.

In conclusione, nonostante il diritto comunitario non sia riuscito, almeno direttamente, a regolare l’ambito dei servizi pubblici locali a causa della loro ristretta dimensione, i suoi principi sono stati comunque in grado di modificare la materia, imponendosi come modello di riferimento37. Oltretutto, a seguito dell’adattamento del diritto interno a quello comunitario in materia di servizi a rete, si è cominciato a

35 F. Peraldi Leneuf, Le droit communautaire et les services publics locaux, in Concorrenza e

sussidiarietà (orizzontale e verticale) nei servizi pubblici locali, Atti del convegno promosso dalla Università di Siena 2 dicembre 2005, www.amministrazioneincammino.luiss.it.

36 Corte di Giustizia CE, sentenza 19 marzo 1987, 199/85, Commissione c.Italia, in

www.eur-lex.europa.eu.

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31 sottrarre settori strategici, come l’acqua o i trasporti, alla potestà di assunzione degli enti locali, dotandoli di discipline speciali. In questo modo si è ovviato al problema rappresentato dallo scarso mercato di questi servizi creandone di speciali e aprendo, dunque, alla concorrenza. I servizi pubblici locali, in definitiva, non possono non essere influenzati dai principi comunitari. A conferma è intervenuta anche la Corte Costituzionale che ha affermato come, nonostante non vi sia una menzione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica all’interno del Trattato, appaia evidente che, nella categoria dei servizi di interesse economico generale, vadano ricompresi anche questi ultimi in quanto ne sono una sottocategoria limitata all’ambito locale38.

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32

Capitolo 2

La normativa italiana sui servizi pubblici locali

1. L’originaria disciplina dei servizi pubblici locali

Le prime forme di regolamentazione della materia dei servizi pubblici in Italia risalgono alla prima metà del XX secolo. La legge Giolitti, del 29 marzo 1903, ed il R.D. 15 ottobre 1925, n. 2578 rappresentano la base normativa sulla quale si ergeranno i successivi interventi del legislatore. Le due leggi “scaturiscono proprio da un generale e condiviso fabbisogno di regolazione”39 per una materia tanto importante da non poter essere lasciata senza norme puntuali.

Tali norme resteranno in vigore sino all’approvazione della legge di riforma delle autonomie locali n. 142/1990. Rispetto al Testo Unico del 1925, rimasto fino a quel momento in vigore, nel testo del 1990 viene meno la tecnica dell’elencazione, anche se non tassativa, dei servizi pubblici locali, sostituita da una definizione, degli stessi, caratterizzata

39 B. Spadoni, I servizi pubblici locali. Dalla municipalizzazione alla liberalizzazione, in

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33 essenzialmente da due elementi, uno funzionale ed uno finalistico, contenuti nell’art. 22, c. 1, della suddetta legge. L’articolo in questione identifica i servizi pubblici come quei servizi aventi “per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”. La norma non indicava i servizi locali riferendosi ad attività specifiche ma ne forniva una definizione generale che lasciava ad i singoli enti locali ampio margine di discrezionalità per decidere, secondo le circostanze ed i bisogni locali, quali attività ricondurre nell’area dei pubblici servizi. La legge n. 142/1990 ha profondamente modificato anche l’assetto delle forme di gestione dei servizi pubblici. Questa prevedeva, infatti, “accanto alle forme già previste dalla precedente normativa, quali la gestione diretta, l’azienda municipalizzata e l’affidamento in concessione a terzi, nuove possibilità: l’istituzione, idonea per i servizi di natura sociale e la società per azioni e a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale”40.

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34 Successivamente, accanto alla società a partecipazione pubblica maggioritaria, è stata introdotta, dall’art. 12 l. n. 498 del 23 dicembre 1992, la società a partecipazione pubblica minoritaria quale ulteriore forma di gestione. Lo scopo di queste nuove modalità di gestione, ed in particolare della società per azioni a prevalente capitale pubblico locale, era quello di promuovere la creazione di sinergie con le imprese private in grado di scardinare i monopoli pubblici nel campo dei servizi. Tuttavia la scelta del legislatore non ha impedito la permanenza di “forme di gestione monopolistica delle imprese pubbliche locali, ancorché in forme gestionali più orientate al mercato” 41 , cioè s.p.a. miste al posto delle aziende municipalizzate.

La disciplina generale che risulta dalla legge 142/1990 ha subito, negli anni, un’integrazione portata a compimento da numerose normative settoriali, che si sono occupate dei principali servizi pubblici a rilevanza economica. La regolamentazione generale, contenuta nell’ordinamento degli

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35 enti locali, ha continuato, invece, ad applicarsi nella sua interezza ad i settori non regolati da leggi speciali.

L’assetto normativo venutosi a creare con la legge n. 142/90 è confluito, così com’era, nel Testo unico sugli Enti Locali (abbreviato in TUEL), che venne approvato con d.lgs. n. 267 del 18 agosto 2000. Il TUEL non apportava nessuna novità sostanziale alla materia, esso si limitava a raccogliere, in un testo organico ed unitario, le varie normative precedenti che regolavano la materia. A conferma di questa totale trasposizione vi è l’art. 22 dell’abrogata legge n. 142 del 1990, il quale trova piena corrispondenza negli artt. 112 e 113 del Testo Unico.

2. La riforma del 2001

Le “non modifiche” apportate dal d.lgs. n. 267 non potevano essere viste di buon occhio dal legislatore comunitario, il quale si era orientato, ormai da tempo, verso una politica volta a scardinare le rimanenti forme di gestione monopolistiche dei servizi pubblici, nell’ottica di una totale

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36 apertura di questo mercato alla concorrenza. Fu così che la Commissione Europea, nel 1999, avviò nei confronti dell’Italia una procedura d’infrazione “ravvisando l’evidente incompatibilità tra l’art. 22 L. 142/1990, divenuto poi art. 113 del TUEL, nella parte in cui permetteva l’affidamento diretto al socio privato, e le direttive CEE 92/50 e 93/30, in relazione al mancato rispetto dei principi di concorrenza, trasparenza, parità di trattamento e proporzionalità”42.

Fu anche grazie alle opinioni che arrivavano dagli organi comunitari, quindi, che la disciplina prevista originariamente dal TUEL, riprendente, come detto, senza modifiche l’assetto creato dall’art. 22 legge n. 142/1990, venne modificata. La nuova disciplina venne prodotta dalla riforma contenuta nell’art. 35 legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria per il 2002), che modificava profondamente l’art. 113 del Testo Unico ed introduceva anche un nuovo art. 113 bis.

La nuova regolamentazione era stata adottata allo scopo di riformare radicalmente il sistema, ed il passo fondamentale

42 G. Palligiano, L’evoluzione legislativa della gestione dei servizi pubblici locali dalla legge

Giolitti al Testo unico degli enti locali, in La riforma dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, Atti del Convegno (26 giugno 2009, Vallo della Lucania), www.giustamm.it, 2006.

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37 era rappresentato dalla previsione del principio di separazione tra i soggetti proprietari, i soggetti gestori delle infrastrutture e delle reti ed i soggetti erogatori dei servizi. Obiettivo della riforma era, fondamentalmente, quello di attribuire agli enti locali l’esercizio in modo unitario delle funzioni amministrative di indirizzo e controllo con riguardo alla gestione del servizio e, contestualmente, riorganizzare la domanda e l’offerta degli stessi servizi.

La riforma del 2001 trovava le sue origini nel desiderio di superare il vecchio sistema monopolistico degli affidamenti diretti alle società miste allo scopo di creare una concorrenza, almeno, “per il mercato”43. Il legislatore, a tal proposito, “ha

inteso assicurare, la concorrenza, con gli strumenti della separazione societaria e della gara per la gestione in esclusiva del servizio valendosi dell'infrastruttura essenziale44”45. La soluzione scelta derivava, sostanzialmente, da due diverse

43 La concorrenza per il mercato è un meccanismo che mette in competizione diverse aziende

che concorrono al fine di vedersi aggiudicare il diritto di servire in esclusiva un determinato mercato.

44 Intesa, qui, come quel complesso di reti, impianti, o altre dotazioni patrimoniali, non

duplicabili a costi sostenibili o non duplicabili affatto, necessari per la gestione e la prestazione del servizi, il cui utilizzo deve essere garantito al vincitore della gara.

45 L. R. Perfetti, I servizi pubblici locali. La riforma del settore operata dall'art. 35 della l. n.

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38 esigenze: per un verso, si cercava di favorire una migliore e più proficua allocazione delle risorse; per un altro, si cercava di rinnovare le relazioni che intercorrevano tra amministrazioni ed imprese pubbliche e consumatori-utenti46.

La nuova disciplina risultava tutelare maggiormente il principio della concorrenza così come espresso dal legislatore comunitario, prevedendo, inoltre, una nuova visione dei poteri degli enti locali che, non essendo più gestori diretti del servizio, venivano chiamati ad assolvere un compito di indirizzo e vigilanza, così come previsto dal comma 14 dello stesso art. 35, che afferma come “gli enti locali individuano gli standard di qualità e determinano le modalità di vigilanza e controllo delle aziende esercenti i servizi pubblici, in un quadro di tutela prioritaria degli utenti e dei consumatori”.

Restavano, tuttavia, alcuni punti critici che vennero puntualmente rilevati dalla Commissione Europea attraverso la lettera di costituzione in mora complementare del 4 luglio 2002. La comunicazione non faceva altro che reiterare la precedente messa in mora, avvenuta nell’ambito della

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39 procedura di infrazione ex art. 226 del Trattato CE, già avviata nei confronti dell’art. 22 della legge 142/90.

Il modello competitivo creato dall’art. 35 prevedeva, infatti, come regola generale, la scelta tramite gara del gestore, tuttavia l’ampiezza delle deroghe faceva riemergere la prospettiva dell’affidamento diretto per le attività di gestione delle reti. Veniva garantita, quindi, “la sopravvivenza di quel regime di affidamento diretto che, in principio, si dichiarava di voler eliminare”47.

Alla già precaria situazione della riforma del 2001, sottoposta alle pressioni derivanti dalla Commissione, si aggiunse la novella del Titolo V della Costituzione, avvenuta con la legge costituzionale n. 3 del 2001. Nel particolare ci si era chiesti quale fosse la reale portate del nuovo art. 117 Cost. Il problema era duplice: da una parte, si cercava di capire se la “tutela della concorrenza”, riservata dall’art. 117, comma 2, lett. e) Cost., alla potestà legislativa statale, fosse un principio ormai ascritto a rango costituzionale; dall’altra, invece, ci si

47 L. Ammannati - F. Di Porto, I servizi pubblici locali in Italia: quale regolazione?, in

Concorrenza e sussidiarietà (orizzontale e verticale) nei servizi pubblici locali, Atti del

convegno promosso dalla Università di Siena 2 dicembre 2005,

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40 domandava quale fosse il reale riparto di competenze tra Stato e Regioni, soprattutto nell’ottica della legislazione sui servizi pubblici locali. Sul primo punto si rileva come appaia che l’art. 117 Cost. abbia “costituzionalizzato” 48 il principio di concorrenza di matrice comunitaria, sino ad allora riscontrabile nel solo art. 41 Cost., affidandolo alla competenza esclusiva del legislatore statale.

A riguardo del secondo punto, cioè la ripartizione di competenze tra Stato e Regioni, si pronunciò la Corte Costituzionale che, con la sentenza del 13 gennaio 2004, n. 14, identificò la tutela della concorrenza come una “competenza trasversale”, così pensata dal legislatore del 2001 con l’intento “di unificare in capo allo Stato strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell'intero Paese”. L’aver inserito la tutela della concorrenza nel comparto di materie, atto a regolare in generale la politica economica nazionale, riservate allo Stato-legislatore, si legge nella sentenza, dimostra come l’attività di quest’ultimo non possa essere “intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e

48S. Cassese, L’energia elettrica nella legge costituzionale n. 3/2001, in Osservatorio sul

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41 ripristino di un equilibrio perduto” ma anzi, debba avere una “accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali”.

Tale pronuncia della Corte ha suscitato le polemiche di chi la vedeva come una lettura che “svuotava di valenza autonomistica la riforma stessa fornendone una lettura sostanzialmente riduttiva”49. Nonostante ciò la Consulta ha confermato questo orientamento anche nella sentenza n. 272 pronunciata il 27 luglio dello stesso anno. In quest’ultima pronuncia, più incentrata sul tema dei servizi pubblici locali e sul riparto di competenze Stato-Regioni, la Corte ha inteso far rientrare nell’ambito di operatività dello Stato tutte quelle norme che, citando la decisione, “garantiscono, in forme adeguate e proporzionate, la più ampia libertà di concorrenza”. Si forma, così, una visione della clausola trasversale sulla tutela della concorrenza più delimitata, volta, quindi, secondo le parole del giudice costituzionale, ad evitare “una dilatazione

49 L. Lamberti, La disciplina dei servizi pubblici locali nella costituzione riformata e la tutela

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42 eccessiva della competenza statale ricorrendo ai canoni di adeguatezza e proporzionalità”50. L’obiettivo evidente era quello di non restringere troppo l’ambito di autonomia del quale godevano le Regioni. Una nuova pronuncia, nel 2006, sanciva definitivamente il punto di vista della Corte Costituzionale sulle competenze legislative statali e regionali. La sentenza n. 29 datata 1 febbraio 2006 confermava la presenza di una “competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia “tutela della concorrenza” e dichiarava l’illegittimità costituzionale di una legge regionale contraria ad alcune disposizioni statali di principio. La Corte Costituzionale, attraverso questo intervento, ha, di fatto, bloccato la “veloce proliferazione di leggi regionali che rischiava di determinare nei vari territori assetti normativi differenziati”51, all’indomani della modifica del Titolo V, chiaramente contrastanti con la ricerca di unitarietà stabilita come obiettivo dal legislatore statale.

50 P. Rossi, Servizi pubblici locali: una deregolazione incompiuta, op. cit., p. 92. 51 P. Rossi, ivi, op. cit., p. 93.

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43 3. Le modifiche successive

A distanza di appena due anni dalla legge 448/2001, il legislatore si è trovato a ritornare sulla materia dei servizi pubblici locali attraverso il d.l. 30 settembre 2003 n. 269, convertito nella legge 24 novembre 2003 n. 326, e attraverso la successiva legge 27 dicembre 2003 n. 350: la legge finanziaria per il 2004. La nuova normativa che ne risulta conferma il principio della proprietà pubblica delle reti nonché quello della separazione tra gestione delle reti ed erogazione del servizio, ma sottopone a radicale revisione il principio della concorsualità per l’aggiudicazione dell’attività di erogazione. A fianco, quindi, del conferimento esternalizzato dell’attività di erogazione attraverso meccanismi di concorrenza “per il mercato”52, fino ad allora unica opzione gestionale percorribile, venivano introdotti due modelli alternativi di gestione diretta rappresentati dall’affidamento, senza gara, a società mista partecipata o a società a capitale interamente pubblico, secondo il modello comunitario dell’in house.

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44 La riforma adottata dal legislatore si proponeva dunque l’obiettivo di avvicinare sempre più la normativa italiana alla liberalizzazione del settore. In realtà la nuova normativa non è riuscita a sortire gli effetti sperati, anzi, sembra quasi che il legislatore abbia fatto un passo indietro rispetto alla regolamentazione del 2001, “un vero e proprio ritorno al passato di dubbia compatibilità con il diritto comunitario”53. Tale constatazione derivava dal fatto che l’art. 14 della legge 326/2003 prevedeva, accanto all’obbligo generale della gara, attinente alle sole società di capitali, la possibilità per l’Amministrazione locale di optare discrezionalmente per l’affidamento diretto del servizio, il c.d. affidamento in house, a società a capitale interamente pubblico o a società miste eliminando, di fatto, la concorrenza. L’art. 14 della legge 326/2003 al quinto comma, lettera c, rendeva infatti possibile l’affidamento della gestione del servizio a società a capitale interamente pubblico a condizione che: “l'ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un

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45 controllo analogo54 a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano”. In sostanza, affinché si realizzasse tale modalità di gestione, occorreva che l’Ente locale esercitasse sulla società affidataria del servizio un controllo, sia direttivo che organizzativo, analogo a quello esercitato sui propri organi. Inoltre la società che aveva avuto in affidamento il servizio era tenuta a svolgere la propria attività prevalentemente a favore dello stesso Ente affidatario.

Per quanto riguardava, invece, l’affidamento a società con capitale misto, la condizione posta dalla stessa norma all’art. 14 quinto comma, lettera b, era che il socio privato venisse scelto “attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza”.

La previsione dell’in house, che ha consentito al legislatore italiano di mantenere ancora in vita le imprese

54 Per controllo analogo si intende un’attività di vigilanza e controllo analoga a quella svolta

istituzionalmente dall’Ente riguardo all’attività dei propri uffici, in virtù della titolarità dei servizi pubblici locali o delle attività amministrative di competenza e del suo ruolo di garante nei confronti dell’utenza locale. Le tipologie di controllo analogo effettuate sono di due tipi: giuridico-contabile e sulla qualità dei servizi erogati.

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46 municipalizzate, rappresenta tuttavia il punto maggiormente critico della riforma del 2003. Infatti, se per la giurisprudenza comunitaria l’affidamento diretto deve rappresentare l’eccezione, “un’eccezione, da interpretare in maniera rigorosa e restrittiva”55, e non la regola, che invece sarebbe la gara ad evidenza pubblica, per il legislatore italiano l’affidamento diretto era, di fatto, divenuto una regola, e pertanto una possibile scelta da parte dell’Ente locale.

Il dover considerare l’eccezionalità dell’in house, così come interpretato dal legislatore comunitario, ha portato il legislatore a varare un’ennesima riforma, tradottasi in un disegno di legge del 2006, c.d. decreto “Lanzillotta”. Tale decreto imponeva l’obbligo della gara ad evidenza pubblica per la scelta del gestore dei servizi pubblici locali e, allo stesso tempo, consentiva l’affidamento diretto del servizio solo dietro specifiche e tassative condizioni. Tra queste, una consisteva nell’invio di una relazione all’Antitrust in cui dovevano essere specificate le ragioni che portavano l’Ente ad optare per l’affidamento diretto. Nello stesso documento doveva anche

55 R. Garofoli, L'affidamento diretto a società in house e a società a capitale misto:

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47 essere indicato un periodo di tempo ragionevole entro il quale era possibile rimuovere gli ostacoli che impedivano l’espletamento della gara. Il disegno di legge in questione aveva come obiettivo il “consolidare e generalizzare un modello di derivazione comunitaria, stabilendo che l’affidamento diretto, sia a società in house, sia a società partecipate, costituisse un’eccezione”56. Il disegno di legge “Lanzillotta”, tuttavia, si è dimostrato un nulla di fatto a causa della fine anticipata della XV legislatura e, quindi, della sua mancata approvazione definitiva.

4. L’art. 23 bis del d.l. 112/2008 (conv. l. 133/2008)

Il bisogno di riformare, ancora una volta, la materia dei servizi pubblici locali ha spinto il legislatore ad emanare il decreto 112/2008, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133, recante il titolo “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione

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48 tributaria”. L’ art. 23 bis di questa norma, denominato “Servizi pubblici locali a rilevanza economica”, individuava “come regola sistematica, da applicarsi a regime, l’affidamento a soggetti terzi, individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica”57. Il secondo comma dell’art. 23 bis, infatti, disponeva che l’assegnazione della gestione dei servizi pubblici locali avvenga, in via ordinaria, nei confronti di imprenditori o di società, individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, “nel rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità Europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità”. La deroga, prevista per escludere le procedure competitive ad evidenza pubblica, è rappresentata ancora dall’in house che, tuttavia, può essere utilizzato come forma di gestione solo eccezionalmente, secondo quanto previsto dal comma tre dell’art. 23 bis, “a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali,

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49 ambientali o geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento” le quali non consentirebbero “un efficace e utile ricorso al mercato”. Nei casi in cui ci sia necessità di questa particolare forma di gestione, l’ente affidante, secondo il quarto comma dell’art. 23 bis, dovrà “dare adeguata pubblicità della scelta, motivandola in base ad un’analisi di mercato e trasmettendo una relazione contenente gli esiti della detta verifica all’Antitrust e alle autorità di regolazione del settore, ove costituite, per l’espressione di un parere sui profili di competenza da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione”. Il parere che l’Antitrust e le autorità di regolazione del settore, se previste, erano chiamate a fornire, era sicuramente un parere obbligatorio, ma non era vincolante. Ciò implicava che l’ente locale poteva ricorrere ugualmente all’affidamento diretto senza pericolo alcuno di essere sanzionato.

Nonostante la riforma, però, l’art. 23 bis ha dovuto subire prestissimo modifiche da parte del legislatore italiano, questo a causa sia delle procedure d’infrazione che la Commissione Europea aveva avviato contro il nostro paese, per violazioni

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50 attinenti il principio di libera concorrenza ed il principio di parità di trattamento degli operatori economici sul mercato, sia per le rilevanti incongruenze che la norma si portava dietro sin dalla sua stesura e che cercavano di essere sanate dalla giurisprudenza. Da questo punto di vista, l’aspetto più dibattuto dell’articolo in esame era rappresentato dalla mancata chiarezza sul ruolo da attribuire alle società miste. Difatti, l’articolo 23 bis, nonostante generasse un nuovo sistema di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica incentrato su una modalità di affidamento ordinaria, la gara ad evidenza pubblica, e su una in deroga, rappresentata dall’affidamento diretto, lasciava all’interprete il compito di capire se le società miste dovessero rientrare nell’una o nell’altra procedura. Per dirimere la questione è intervenuta l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che, attraverso i suoi numerosi pareri, ha sempre sostenuto come l’affidamento diretto dei servizi pubblici locali a società miste fosse maggiormente riconducibile all’alveo delle procedure competitive ad evidenza pubblica, piuttosto che agli affidamenti diretti previsti dal terzo comma dell’art.

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51 23 bis. In sostanza per l’Antitrust il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali in via ordinaria riguardava anche le società miste pubblico-private, in quanto il generico riferimento alle “società in qualunque forma costituite”, previsto dal secondo comma dell’art. 23 bis, orientava verso tale interpretazione. Questo comportava che la scelta del partner privato avvenisse attraverso gare ad evidenza pubblica, e che al socio privato venissero attribuiti “specifici compiti e funzioni capaci di renderlo socio operativo e non mero socio finanziatore”58.

A livello comunitario la Corte di Giustizia con la pronuncia, del 15 ottobre 2009, C-196/08 ha espresso la legittimità degli affidamenti diretti a società miste, purché vi sia equiparazione tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e gara per la scelta del socio, il quale deve concorrere materialmente allo svolgimento del servizio pubblico o di fasi di esso. Il socio non potrà essere “stabile” ma la gara per la selezione di quest’ultimo dovrà essere riproposta alla scadenza

58 G. Guzzo, La nuova disciplina "dualistica" dei s.p.l. di rilevanza economica e il nodo

gordiano delle società miste alla luce della comunicazione dell'AGCM del 16/10/08 e dell'art. 2 della bozza dell'emanando regolamento di attuazione, in www.dirittodeiservizipubblici.it, 31

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52 di ogni periodo di riferimento. Inoltre dovranno essere previste in anticipo tutte le modalità di gestione del servizio e le modalità per l’uscita del socio dalla società.

Altro nodo dibattuto della riforma del 2008 era rappresentato dalla previsione dell’affidamento diretto come deroga alla concorrenza. La discrezionalità lasciata all’ente locale nella scelta dei casi in cui il mercato non fosse efficace sembrava contrastare con i principi comunitari, generando una deroga quasi illimitata. Si cercava di ovviare al problema attraverso la previsione del quarto comma art. 23 bis, che stabiliva il ricorso preventivo all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato la quale, tramite un parere obbligatorio ma non vincolante, era chiamata ad esprimersi in merito all’affidamento in house. Lo scopo perseguito dalla riforma era quello di garantire i diritti degli utenti ed assicurarne la tutela nel rispetto dei principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione, nonché quelli comunitari al fine di “favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione

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53 dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale”59.

Le difficoltà interpretative che si erano riscontrate al momento dell’applicazione della novella del 2008 si estesero anche ad i rapporti con la previgente disciplina, in quanto al comma undici dell’art. 23 bis si stabiliva che l’art. 113 TUEL “è abrogato nelle parti incompatibili con le disposizione di cui al presente articolo”. Il problema era quello di capire in quali parti la normativa previgente fosse da considerarsi incompatibile, a maggior ragione dal momento che l’art. 23 bis sembrava operare su un campo più ristretto rispetto al TUEL: da un lato, occupandosi solo dei servizi pubblici locali “a rilevanza economica”, tralasciando, quindi, quelli “privi di rilevanza economica”, regolati dalle legislazioni regionali. Allo stesso modo si è rilevata problematica l’individuazione della normativa generale applicabile ai servizi pubblici locali e prevalente sulle rispettive discipline di settore. L’art 23 bis, al primo comma, prevedeva che “le sue disposizioni si

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54 applicassero a tutti i servizi pubblici locali, prevalendo sulle relative discipline di settore con esse incompatibili”.

Tale disposizione andava letta in combinato disposto con il comma dieci, lett. d), che prevedeva l’impegno del governo ad emanare uno o più regolamenti al fine di “armonizzare la nuova disciplina” con quelle dei diversi settori dei servizi pubblici locali, “individuando le norme applicabili in via generale per l'affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica”.

La novella del 2008 si qualificava, quindi, autonomamente come generale e prevalente sulle normative di settore: questa generalità, però, è stata limitata dall’entrata in vigore dell’art. 15 del d.l. n 135/2009 (convertito nella legge 166 del 2009), che, di fatto, limitava la disciplina generale al trasporto su gomma, al settore idrico, ad i rifiuti. Per tutti gli altri servizi pubblici locali si prevedeva una valutazione di compatibilità delle relative discipline con lo stesso art. 23 bis. L’effetto di questa limitazione fu quello di creare ancora più confusione nel settore: l’interprete era costretto a valutare caso

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55 per caso la compatibilità delle varie norme con l’art. 23 bis e, di conseguenza, l’applicabilità delle stesse.

La “nuova” disciplina dei servizi pubblici locali, che si veniva a delineare attraverso la riforma del 2008 e, successivamente, con il regolamento delegificato prodotto per attuare in maniera specifica la stessa riforma, non è riuscita a produrre gli effetti applicativi voluti a causa dell’esito avuto dal referendum del 12 e 13 giugno 2011.

I cittadini furono chiamati ad esprimersi su quattro quesiti, due dei quali attinenti la materia dei servizi pubblici locali. Il primo trattava della modalità di gestione ed affidamento dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, il secondo, invece, atteneva al servizio idrico ed, in particolare, alla determinazione della tariffa dello stesso. L’esito del referendum portò all’abrogazione dell’art. 23 bis della legge n. 133/08. Questo generò un vuoto normativo nel campo dei servizi pubblici locali che doveva essere colmato al più presto.

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