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Introduzione
Le risposte protettive dell’ospite nei confronti di microrganismi (batteri, virus, funghi e parassiti) verso i quali siamo esposti consistono di una serie di meccanismi di difesa naturali, innati e specifici.
Le prime linee di difesa sono le cosiddette barriere fisiche ovvero la cute, l’epitelio ciliato, il flusso urinario, la flora microbica residente, il rialzo termico; vi sono poi le barriere chimiche come le secrezioni acide dell’apparato gastroenterico, la bile prodotta dall’apparato digerente ed il muco.
In particolare le mucose rappresentano barriere fisico/chimiche di estrema efficacia poiché sono caratterizzate dalla presenza di differenti secrezioni (ad esempio lacrime, muco e saliva) che contengono sostanze anti-‐infettive capaci di degradare la membrana di batteri, virus e funghi; il lisozima, contenuto nelle lacrime e nelle secrezioni salivari, determina la lisi del peptidoglicano, componente primario della parete dei batteri gram-‐positivi; la lattoferrina, in quanto capace di chelare il ferro libero, crea invece un ambiente inadatto alla moltiplicazione batterica. Infine la temperatura corporea, e in particolare la febbre, blocca o riduce sensibilmente la moltiplicazione dei moltissime tipologie di patogeni, tra cui i virus.
Tutte queste componenti cooperano e coesistono in modo da inattivare i patogeni o bloccarne il loro ingresso dall’esterno.
Nel caso in cui queste barriere siano compromesse e gli agenti esterni riescano a penetrare attraverso le vie di accesso, l’organismo dispone di ulteriori sistemi di difesa che costituiscono i meccanismi della risposta innata non specifica.
Le componenti della risposta immunitaria innata comprende sia fattori solubili sia elementi
cellulari; entrambi giocano un ruolo fondamentale nella difesa innata dell’ospite; tuttavia tali
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componenti non possono ritenersi esclusivi di tale risposta ed infatti rappresentano un punto di connessione tra la risposta innata e la successiva risposta immunitaria acquisita o specifica, qualora questa si renda necessaria.
Gli elementi solubili propri della risposta innata sono rappresentati dalle citochine, proteine prodotte da specifiche cellule linfoidi e non, che stimolano e regolano altre cellule, attivando e regolando la risposta immunitaria; gli interferoni, che sono proteine prodotte in risposta a infezioni virali ed inducono nelle cellule uno “stato antivirale”; altre molecole, le chemochine, sono componenti la cui attività chemiotattica è necessaria per richiamare e concentrare nei siti di infezione le componenti cellulari del sistema immune.
Il sistema del complemento è un sistema complesso di proteine plasmatiche (fino a 20 proteine) che viene attivato direttamente dalla presenza di patogeni o dei loro prodotti (via alternativa), dalle lectine che legano i carboidrati della parete batterica (via lectinica) o dalla formazione di immunocomplessi antigene-‐anticorpo (via classica di attivazione).
Indipendentemente dalla modalità di attivazione si sviluppa un meccanismo di attivazione proteolitica con molteplici effetti a cascata: vengono rilasciati fattori chemiotattici che richiamano in loco i fagociti e le cellule infiammatorie, viene aumentata la permeabilità vascolare favorendo l’accesso al focolaio di infezione delle cellule, viene incrementata la capacità di fagocitosi per opsonizzazione dei patogeni ed infine si ha la formazione del complesso di attacco alla membrana del microrganismo inducendo la lisi cellulare.
Le componenti cellulari del sistema immune includono due tipi di fagociti circolanti nel
circolo sanguigno, i neutrofili e i monociti/macrofagi che vengono reclutati nei focolai infettivi
dove riconoscono ed inglobano i microrganismi. Il riconoscimento dei microbi da parte di
neutrofili e macrofagi porta alla loro fagocitosi e all’attivazione nei fagociti dei meccanismi
deputati alla loro distruzione.
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Parallelamente alla componente cellulare del sistema immunitario, un ruolo cruciale nei meccanismi di difesa specifici è costituita dall’immunità umorale basata sull’azione degli anticorpi. Gli anticorpi esplicano la loro azione bloccando la capacità dei microrganismi e tossine di legarsi alle cellule dell’ospite prevenendo quindi l’infezione. Essi sono prodotti a seguito della stimolazione di una classe di linfociti, i linfociti B, da parte degli antigeni a livello del tessuto linfoide periferico rappresentato dai linfonodi e milza. Gli anticorpi vengono prodotti da parte dei linfociti B e presentano caratteristiche differenti a seconda che si tratti della prima risposta all’infezione (risposta primaria) oppure della risposta secondaria, laddove la reattività del sistema immune è molto più rapida ed efficace.
Gli anticorpi sono molecole formate da due catene pesanti e due catene leggere, dove ciascuna regione contiene aree variabili, responsabili del riconoscimento dell’antigene o regione Fab, ed una o più regioni costanti o frammento Fc. In ogni molecola di anticorpo esistono due regioni Fab ed un frammento Fc, area responsabile delle attività biologiche della molecola.
Esistono due tipi di catena leggera e cinque tipi di catena pesante, che determina l’appartenenza a cinque rispettive classi o isotipi anticorpali, ovvero IgG, IgM, IgA, IgD e IgE.
Le diverse classi anticorpali variano principalmente per le funzione ed i livelli di concentrazione sierica (le IgG sono la classe maggiormente rappresentata con circa 14 mg/ml, seguite dalle IgA con 3,5 mg/ml e poi dalle IgM con circa 2 mg/ml; le IgD ed IgE presenti in tracce).
Le funzioni effettrici degli anticorpi sono molteplici e molto efficaci; le IgG sono in grado di
riconoscere e rivestire la superficie dei microbi promuovendo il riconoscimento e la fagocitosi
da parte dei fagociti (opsonizzazione); le IgE vengono hanno la capacità di mediare la
citotossicità cellulare mediate dagli eosinofili nel corso in infestazioni parassitarie; le IgA sono
la classe anticorpale che promuovo l’immunità mucosale, infatti vengono secrete nel lume
dell’albero respiratorio e dell’intestino; inoltre la formazione del complesso antigene-‐
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anticorpo determina l’attivazione della via classica del complemento, mediata dalle IgM e dalle IgG. Quest’ultimo isotipo anticorpale mostra la capacità di bloccare l’infettività dei microbi e l’interazione di tossine con le cellule dell’ospite; questa proprietà è definita funzione neutralizzante degli anticorpi.
La capacità di neutralizzazione si è rilevata molto efficace nei confronti di batteri, tossine e contro differenti specie virali (Wei et al., Takada et al., Trkola et al.) e lo sviluppo di tecniche diagnostiche dirette alla rivelazione dell’effetto neutralizzante gli anticorpi contro i virus sono state sviluppate note da tempo e vengono utilizzate ancora oggi (Lindsey et al., Melnick et al.).
Il saggio di neutralizzazione è un metodo basato sulla proprietà di alcuni anticorpi, definiti appunto anticorpi neutralizzanti del siero di interferire e bloccare l’infettività del virus (generalmente bloccandone il legame al recettore) e tale reazione avviene sia in vivo così come in vitro.
Il virus ed il siero vengono miscelati in appropriate condizioni e successivamente inoculate in una coltura cellulare; la presenza di virus non neutralizzati dagli anticorpi viene determinata dalla reazione di infettività del virus, che viene definito effetto citopatico (CPE) (Lamb et al.).
Il CPE rappresenta in generale un insieme di alterazioni morfologiche che avvengono sia nell’ospite sia in colture cellulari in vitro; sono caratteristiche per i vari gruppi di virus e sono utili nel laboratorio diagnostico.
L’effetto citopatico può esprimersi in differenti aspetti quali:
• Morte cellulare
• Arrotondamento cellulare
• Degenerazione
• Aggregazione cellulare
• Perdita di adesione
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• Formazione di cellule giganti multinucleate (sincizi) dovuti alla presenza di proteine di fusione specifiche del virus (es.: paramixovirus, herpesvirus, alcuni retrovirus)
• Formazione di ammassi di costituenti virali e/o di strutture cellulari alterate nel nucleo o nel citoplasma della cellula (inclusioni).
Di seguito alcune immagini relative agli effetti citopatici più comuni:
Figura 1: effetto citopatico del virus respiratorio sinciziale
Figura 2: effetto citopatico del virus del morbillo
I saggi di neutralizzazione sono stati molto utili anche per la definizione dei sierotipi virali
(Lamb et al.). La definizione di quest'ultimi è importante per la classificazione e nello sviluppo
dei vaccini, infatti per generare un vaccino efficace si dovrebbero includere tutti gli esempi dei
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sierotipi di un dato virus (ad esempio nel virus della poliomelite ci sono 3 sierotipi diversi e un vaccino adeguato dovrebbe coprire tutti gli individui e quindi tutti i sierotipi del virus).
Si può calcolare la quantità di virus determinando la massima diluzione che mantiene la proprietà infettante, ovvero il titolo:
1. Dose infettante il tessuto di coltura cellulare (TCID
50): titolo di virus che causa effetti citopatici nel 50% delle cellule in coltura
2. Dose letale (LD
50) e dose infettante (ID
50): titolo di virus che rispettivamente uccide o provoca sintomi nel 50% di un gruppo di animali
Questa tipologia di test è applicato prevalentemente, in virologia clinica, a sieri di pazienti al fine di verificare la presenza o l’assenza di anticorpi e quindi determinare lo stato di immunità, sensibile o immune, del soggetto.
Il test di neutralizzazione, inteso quindi come test in grado di determinare il titolo di anticorpi neutralizzanti, può essere applicato anche a concentrati di immunoglobuline di origine umana (Colomar et al., Audet et al.), il cui utilizzo nella pratica clinica è relativamente recente.
Il primo impiego clinico di “concentrati di immunoglobuline” può essere fatto risalire a più di 100 anni fa, quando Emil Von Behring intuì il potenziale antinfettivo del siero se applicato a malattie quali tetano e difterite. Queste osservazioni portarono all’assegnazione del primo premio Nobel per la medicina nel 1901 per le sue scoperte dei sieri antidifterico e anti-‐
tetanico.
Agli inizi degli anni quaranta, presso Dipartimento di Chimica Fisica della Harvard Medical
School Frederick Cohn e i suoi collaboratori avevano sperimentato ed allestito un sistema di
frazionamento del plasma mediante un procedimento di precipitazione a freddo con etanolo,
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che garantiva appunto la scomposizione del plasma in differenti frazioni, aprendo di fatto la strada alla produzione industriale di plasma-‐derivati (Cohn et al.).
Le componenti del plasma frazionato oggi conosciute sono almeno otto:
• Pasta di Crio o Crioprecipitato: rappresenta la prima frazione ed è particolarmente ricca del fattore VIII della coagulazione
• Surnatante della Crio: concentrato di antitrombina e fattore IX della coagulazione
• Frazione I: contiene fibrinogeno e fattore XIII della coagulazione
• Frazione II: rappresenta la componente ad elevatissima concentrazione di immunoglobuline G (IgG) e costituisce la materia prima per la produzione appunto di immunoglobuline umane
• Frazione III: frazione ricca in IgA, IgM, protrombina e plasminogeno
• Frazione IV-‐1: contiene il complesso del fattore IX e fattori attivati
• Frazione IV-‐4: contiene prevalentemente la maggior parte delle proteine plasmatiche ad eccezione delle immunoglobuline G
• Frazione V: rappresentata in maniera quasi esclusiva dalla proteina Albumina
This chapter emphasizes U.S. practices, but because plasma and its derivatives are shipped globally, it is important to recog- nize that there are regional differences in recommendations, requirements, and regulations. Therefore this chapter provides information regarding the European Union (EU), the United Kingdom (UK), and Australia.
OVERVIEW Composit ion of Plasma
Plasma constitutes approximately 55% of the total blood volume. It is a clear, straw-colored, complex liquid that is 7% pro- tein, 91% water, and 0.9% mineral salts. The majority (approximately 70%) of total plasma protein is albumin. Additional plasma proteins relevant to fractionation include immunoglobulins, coagulation factors, fibrinolytic proteins, proteases, and protease inhibitors. These constituent plasma proteins can be isolated on the basis of the different solubility characteristics of each protein when subjected to specific conditions of pH, temperature, ionic strength, and ethanol concentration. The major products derived from fractionation are listed in Table 1.
Tab le 1. Th e M ajor Fr act ion s an d Pr od uct s f r om t h e Coh n Pr ocess
Fr act ion Pr od uct
Cryoprecipitate Antihemophilic factor (FVIII)
Cryosupernatant Antithrombin III, factor IX complex
Fraction I Fibrinogen, factor XIII
Fraction II Immune globulin G (IgG)
Fraction III IgA, IgM, prothrombin, plasminogen
Fraction IV-1 Factor IX complex, activated factor IX complex
Fraction IV-4 Plasma protein fraction, alpha-1 proteinase inhibitor
Fraction V Albumin
Plasma for M anufact ure of Derivat ive Product s
The two methods for collection of human plasma are automated apheresis (for definitions, see the Glossary preceding the appendices) and centrifugation of whole blood donations. Source Plasma collected by apheresis constitutes the majority of plasma used in the manufacture of plasma derivatives in the United States. Plasma collected for transfusion but not so used (i.e., recovered plasma) also may be used for manufacture. Flow charts delineating how apheresis and whole blood–derived plasma can be used in the manufacture of plasma derivatives in the United States and Europe are presented in Figures 1 and 2, respectively.
Figure 1. U.S. plasma derivative manufacture: FDA standards.
Figure 2. EU plasma derivative manufacture: EU standards.
Ge n e ra l C h a p te rs
1514 á1180ñ Human Plasma / General Information USP 39
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Nel 1952 Odgeon Bruton (Bruton O. C.) descrisse per la prima volta una forma di immunodeficienza primitiva, caratterizzata dall’assenza delle immunoglobuline sieriche e nello stesso anno le immunoglobuline vennero impiegate per la prima volta come terapia sostitutiva.
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Terapia con immunoglobuline: indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi d’azione
219 varie necessità del paziente riducendo gli intervalli tra una sommi-
nistrazione e l’altra o aumentando la dose. In questo secondo caso è stato dimostrato che un aumento di 100 mg/kg/mese determina un aumento di IgG sieriche di circa 120 mg/dl e che, ogni aumento di concentrazione di 100 mg/dl, determina una riduzione del 27%
degli episodi infettivi. Ad esempio, la frequenza degli episodi di pol- monite ad un dosaggio di IgG che mantiene i livelli sierici attorno ai 500 mg/dl è 5 volte superiore a quella osservata ad un dosaggio che mantenga i valori i IgG attorno ai 1000 mg/dl (Orange et al., 2010). Questo dimostra che il controllo delle infezioni delle basse vie aeree dipende principalmente dai livelli di IgG sieriche. Tuttavia, tali considerazioni valgono per l’agammaglobulinemia, ma non per l’immunodeficienza comune variabile, condizione che, a differenza dell’agammaglobulinemia può associarsi alla presenza di IgA. Le IgA presenti possono svolgere un parziale ruolo protettivo a livello delle mucose, consentendo di controllare gli episodi infettivi anche con un dosaggio inferiore di IgG (Quinti et al., 2011).
In questi ultimi anni, vi è stato un ritorno alla somministrazione delle Ig per via sottocutanea. Ciò è stato reso possibile dalla commercializ- zazione di prodotti specificamente preparati per la somministrazione attraverso questa via. La disponibilità di pompe da infusione di dimen- sioni sempre più piccole e più efficaci, la possibilità di somministrare questi preparati a livello domiciliare, la farmacocinetica più fisiologica di questi preparati rispetto a quelli per via endovenosa (livelli costan- temente stabili senza picco iniziale), il desiderio dei pazienti di essere meno medicalizzati e di programmare e adattare la terapia alle proprie necessità anche professionali, la pressocché assenza di effetti colla- terali gravi, hanno contribuito, in questi ultimi anni, alla aumentata diffusione di questa via di somministrazione nella maggior parte delle nazioni. Inoltre analisi di farmacoeconomia hanno dimostrato che la somministrazione domiciliare sottocutanea è economicamente van- taggiosa per il servizio sanitario nazionale, consentendo di risparmiare sui costi dell’ospedalizzazione (Haddad, 2012).
Il dosaggio utilizzato per la via sottocutanea è di 100 mg/kg/setti- mana, equivalente al dosaggio di 400 mg/kg/mese del preparato per
via endovenosa. L’FDA americana, considerata la diversa biodispo- nibilità delle Ig per via sottocutanea rispetto a quelle per via endo- venosa, raccomanda che il dosaggio delle IgG per via sottocutanea sia aumentato del 37% rispetto a quello per via endovenosa. Questa raccomandazione non è invece prevista nelle disposizioni europee, perché non da tutti gli autori condivisa.
Trattamento immunomodulante Indicazioni
Come precedentemente accennato, il riscontro di un aumento delle piastrine in un soggetto con PTI e ipogammaglobulinemia in seguito alla somministrazione di immunoglobuline indicate per la sua con- dizione di immunodeficienza ha dato l’avvio al loro impiego in molte altre forme di malattie autoimmuni/infiammatorie, postulando che le IgG agissero in questo caso con un effetto immunomodulante. In tabella II sono riportate le malattie per le quali le immunoglobuline sono utilizzate per questo effetto (Gelfand, 2012). Solo per poche malattie il loro uso è stato approvato; per la maggior parte il tratta- mento è ancora considerato off-label, oppure è suggerito sulla base di esperienze sporadiche, ma non esistono tuttora studi clinici con- trollati. Peraltro ci possono essere differenze tra le varie agenzie per quanto riguarda la classificazione off-label di alcune patologie (es. la Guillain-Barré approvata in Europa non lo è da parte dell’FDA) e per quanto riguarda la valutazione dei livelli di evidenza di efficacia delle IVIG tra le varie forme considerate off-label riportate nei vari lavori della letteratura, ai quali si rimanda per un maggiore approfondi- mento (Orange et al., 2006; Nimmerjahn e Ravetch, 2008, Gelfand, 2012). In ogni caso, l’orientamento attuale degli organi competenti è di autorizzare singoli prodotti per singole malattie, nelle quali sia stata dimostrata l’efficacia.
Il dosaggio comunemente utilizzato come immunomodulante è di 2g/kg/dose per via endovenosa, in un intervallo di tempo che va dalla somministrazione in sole 12 ore fino anche a frazionare il do- Figura 2.
Terapia sostitutiva con immunoglobuline: principali tappe storiche.
Figura 3: terapia sostitutiva con immunoglobuline: principali tappe storiche
Bruton somministrò per via sottocutanea la frazione II di Cohn, appunto ricca di immunglobuline sieriche.
In base alle prime esperienze, sembrava che le immunodeficienze primitive potessero rappresentare il gruppo di malattie per le quali la somministrazione di immunoglobuline trovasse l’indicazione di fatto esclusiva.
Tuttavia, tale esclusività durò ben poco poiché nel giro di poco più di trent’anni apparve evidente che la terapia risultava efficace anche sfruttando l’effetto “immunomodulante” delle immunoglobuline. Successivamente, l’utilizzo delle immunoglobuline è stato esteso anche a malattie infiammatorie, sfruttando il loro effetto modulante sul sistema immune ed utilizzando un dosaggio differente da quello impiegato nella terapia sostitutiva (Orange et al.).
Nel tempo le modalità di preparazione e di somministrazione delle immunoglobuline hanno
subito notevoli variazioni, sia per quanto riguarda il dosaggio che per quanto attiene la via di
somministrazione. Contemporaneamente, sono state introdotte significative modifiche nei
processi di preparazione delle immunoglobuline per uso terapeutico, con notevoli
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miglioramenti di sicurezza ed efficacia dei prodotti. Tali progressi si sono associati ad un significativo miglioramento delle prospettive e della qualità di vita dei pazienti trattati con terapia a base di immunoglobuline (Radosevich et al.).
Il primo prodotto impiegato da Bruton e somministrato per via sottocutanea, consisteva in un preparato di immunoglobuline le cui condizioni di conservazione portavano alla formazione di aggregati responsabili di gravi effetti collaterali per via della loro capacità di attivare il complemento, se il preparato veniva somministrato per via endovenosa. Quindi i primi prodotti commerciali di immunoglobuline erano indicati esclusivamente per la somministrazione intramuscolare (Orange et al.). Tuttavia era apparso subito evidente che l’effetto protettivo delle immunoglobuline somministrate attraverso queste vie era strettamente dipendente dal volume di preparato somministrato e che il volume necessario per somministrare una quantità protettiva di immunoglobuline sarebbe stato troppo elevato per essere accettato dal paziente, anche per via degli effetti collaterali locali.
Da qui la necessità di sviluppare prodotti da somministrare per via endovenosa (Intraenus Immunoglobulin o IVIG). Il problema principale della somministrazione endovenosa previa riduzione o completa eliminazione dell’attività̀ anticomplementare, obiettivo perseguito mediante la digestione enzimatica in fase di produzione.
Ai prodotti attualmente disponibili, che sono a molecola IgG intatta e a scarso contenuto di aggregati, si è arrivati attraverso il trattamento del precipitato grezzo di IgG, ottenuto mediante frazionamento alcolico (la frazione II di Cohn), con uno dei seguenti metodi: con debole trattamento acido (pH 4) in presenza di tracce di pepsina oppure con precipitazione con polietilenglicole (PEG), oppure con purificazione su resine a scambio ionico (Radosevich et al., Nikolov et al.).
Con questi trattamenti si ottengono i prodotti oggi commercialmente disponibili, che sono
efficaci e ben tollerati dai pazienti (Tab. 1).
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Tabella 1: prodotti attualmente disponibili sul mercato
Terapia con immunoglobuline: indicazioni, modalità di somministrazione e meccanismi d’azione
217 Sicurezza dei preparati
I vari prodotti di IVIG vengono preparati partendo da miscele di pla- sma di migliaia di donatori. Questo consente di disporre di preparati con elevati titoli anticorpali e ampio spettro di azione. Tuttavia, quan- to più è elevato il numero dei donatori tanto più è elevata la probabi- lità che una donazione possa essere contaminata. Nonostante fosse noto che il frazionamento alcolico fosse in grado di ridurre il rischio di trasmissione di agenti virali, nel 1983 sono stati riportati diversi casi di trasmissione di epatite non A-non B (quella che adesso noi conosciamo con il nome di epatite C) occorsi in seguito alla sommi- nistrazione di diversi preparati di IVIG (Yap, 1996).
Nonostante non fosse stata accertata la causa di queste trasmis- sioni, si è ritenuto che fosse da ricercarsi nella procedure di prepa- razione di questi prodotti. Questi casi hanno portato a rivedere e a migliorare i sistemi di controllo dell’inattivazione virale durante i pro- cessi di preparazione e ad estenderli su larga scala (Radosevich e Burnouf, 2010). Al riguardo sono stati introdotti diversi metodi quali:
1. la pastorizzazione: si tratta di un trattamento a 60°C per 10 ore che inattiva sia virus capsulati che non capsulati; al fine di evita- re la formazione di aggregati vengono aggiunti degli stabilizzanti (sucroso o sorbitolo) che vengono poi rimossi attraverso la na- nofiltrazione;
2. un trattamento con solvente (tri-n-butilfosfato)/detergente (po- lisorbato 80 e/o triton X-100) per 1-6 ore a 20-35°C. I solventi/
detergenti vengono poi rimossi tramite cromatografia. Efficace nella inattivazione dei virus capsulati;
3. un trattamento con acido caprilico per 1 ora a 20°C. Efficace nella inattivazione dei virus capsulati;
4. la nanofiltrazione. Può essere eseguita utilizzando filtri con pori differenti. Efficace nella rimozione di virus capsulati e non cap- sulati. Sembra efficace nella rimozione anche di proteine prioni- che.
L’applicazione di una o più di queste metodiche ha significativamen- te aumentato la sicurezza dei prodotti attualmente disponibili per quanto riguarda la trasmissione di virus.
In ogni caso il controllo della qualità dei preparati inizia con l’identifi- cazione e la selezione dei donatori sulla base della valutazione della storia clinica, tenendo anche in considerazione i dati di sorveglian- za epidemiologica della popolazione di appartenenza. Ogni singolo donatore deve risultare negativo per la presenza di anticorpi contro l’HIV-1/2, l’HCV e per l’antigene di superficie dell’ HBV (HBsAg). Inol- tre, su mini-pool di plasma, con sempre maggiore frequenza, viene eseguita la ricerca degli acidi nucleici per HIV, HBV, HCV, HAV e per parvovirus B19. Il pool di plasma finale da sottoporre alla procedura di frazionamento deve risultare negativo per gli acidi nucleici del- l’HCV, per gli anticorpi anti HIV e per l’antigene HbsAg. Diverse azien- de, oltre a queste indicazioni di legge, eseguono la ricerca anche degli acidi nucleici per l’HIV, l’HBV, il Parvovirus B19 e l’HAV. Tutte queste misure contribuiscono a ridurre il carico virale nel materiale di partenza.
Caratteristiche dei prodotti
Per essere efficace e il più possibile privo di effetti collaterali, il pro- dotto deve contenere livelli di IgG superiori al 95% con una fisiologi- ca distribuzione delle singole sottoclassi delle IgG ed un ampio spet- tro di attività anticorpale, meno del 3% di aggregati di elevato peso molecolare e livelli minimi di IgA, titolo di isoemoagglutinine (anti A e anti B) <1/64, attività anticomplementare ≤1, concentrazioni di attivatore della prekallicreina <35UI/ml. Infine, il prodotto non deve contenere HBsAg né anticorpi anti HIV-1, HIV-2 e anti HCV. Una più completa descrizione dei parametri internazionali che riguardano il controllo di qualità dei preparati, secondo le Good Manufacturing Practices si può avere consultando i seguenti siti: http://www.nibsc.
ac.uk/products/catalogue.html; http://www.who.int/bloodproducts/
catalogue/en/index.html). In Italia i prodotti di immunoglobuline sono erogati dal Servizio Sanitario Nazionale, attraverso le farmacie ospedaliere o le singole ASL. I prodotti ad oggi disponibili in Italia sono elencati in tabella I.
Applicazioni terapeutiche e trattamento sostitutivo Indicazioni
Il trattamento sostitutivo con Ig rappresenta la terapia elettiva e sal- vavita delle immunodeficienze primitive a prevalente difetto dell’im- munità umorale, mentre per le forme di immunodeficienza combina- ta (umorale e cellulare) questo trattamento è di supporto al trapianto di midollo osseo che rappresenta la terapia elettiva (Tab. II).
Il trattamento sostitutivo con Ig alle dosi considerate standard (ve- dere paragrafo successivo) ha significativamente ridotto la morbilità e mortalità e migliorato la qualità di vita di questi pazienti (Maar- schalk-Ellerbroek et al., 2011). Prendendo ad esempio l’agamma- globulinemia, dai dati della letteratura pubblicati nella metà degli anni ’80 e ’90, la mortalità, principalmente di natura infettiva, era circa del 18% (Smith e Witte, 1999). In una casistica più recente di 73 pazienti (Plebani et al., 2002), ma confermata in una casistica più estesa di 180 pazienti registrati nella banca dati IPINET, la mortalità è risultata del 5%. La differenza tra le casistiche degli anni ’80 e ’90 e quelle più recenti sta nel fatto che le prime riguardavano molti più pazienti trattati a lungo con immunoglobuline intramuscolo e con una diagnosi tardiva, mentre le più recenti contengono pazienti con Tabella I.
Preparati di immunoglobuline umane normali, attualmente disponibili in Italia (da www.codifa.it, settembre 2013).
Prodotti per via endovenosa
Prodotto Ditta
Flebogamma Instituto Grifols Poligono Levante S.A.
Gammagard Baxter S.p.A.
Gamten Octapharma Italy S.p.A.
Ig Vena Kedrion S.p.A.
Intratect Biotest Pharma GmbH
Keyven Kedrion S.p.A.
Kiovig Baxter AG
Octagam Octapharma Limited
Pentaglobin Biotest Pharma GmbH
Privigen CSL Behring GmbH
Venital Kedrion S.p.A.
Prodotti per via sottocutanea
Prodotto Ditta
Hizentra CSL Behring GmbH
Subcuvia Baxter AG
Vivaglobin CSL Behring GmbH
Per essere efficace e il più possibile privo di effetti collaterali, il prodotto deve contenere livelli di IgG superiori al 95% con una fisiologica distribuzione delle singole sottoclassi delle IgG ed un ampio spettro di attività anticorpale (Nikolov et al.); l’elevato pattern di anticorpi deriva essenzialmente dall’elevato numero di donazioni convogliate nel pool di plasma da cui derivano i prodotti. Inoltre il prodotto finito deve possedere meno del 3% di aggregati di elevato peso molecolare e livelli minimi di IgA, titolo di isoemoagglutinine (anti A e anti B)
<1/64, attività anticomplementare ≤1, concentrazioni di attivatore della prekallicreina <35 UI/ml. Infine, il prodotto non deve contenere HBsAg né anticorpi anti HIV-‐1, HIV-‐2 e anti HCV.
Tali caratteristiche sono elencate ed indicate dalla normativa delle Farmacopee (Europea e Statunitense) e delle Autorità Responsabili dell’Autorizzazione all’Immissione in Commercio, quali la Food and Drug Admnistration per il mercato statunitense (FDA statunitense) e l’Agenzia Italiana del Farmaco per il mercato italiano (AIFA).
Sono numerosi i test di controllo qualità che devono essere eseguiti prima dell’immissione del
prodotto finito sul mercato ed includono appunto test come: dosaggio proteico,
determinazione dell’attività anticomplementare, pH, determinazione del livello di eccipienti
eccetera.
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Tra le numerosissime caratteristiche essenziali e mandatarie dei prodotti sottoposti al Controllo Qualità, necessarie ad assicurare sicurezza ed efficacia del farmaco, il capitolo Code of Federal Regulations dell’FDA Title 21, part 640, section 104 (21CFR640.104) legifera:
[…] Immune Globulin (Human).
(a) Antibody levels and tests. Each lot of final product shall contain at least the minimum levels of antibodies for diphtheria, measles, and for at least one type of poliomyelitis. In the event the final bulk solution is stored at a temperature above 5 deg. C the antibody level tests shall be performed after such storage with a sample of the stored material.
(b) Minimum levels. The minimum antibody levels are as follows: (1) No less than 2 units of diphtheria antitoxin per ml.
(2) A measles neutralizing antibody level that, when compared with that of a reference material designated by the Center for Biologics Evaluation and Research (CBER), Food and Drug Administration, as indicated in paragraph (c) of this section, demonstrates adequate potency. […]
(3) A poliomyelitis Type 1, Type 2, or Type 3 neutralizing antibody level that, when compared with that of a reference material designated by the Center for Biologics Evaluation and Research, Food and Drug Administration, as indicated in paragraph (c) of this section, demonstrates adequate potency. […]
Quanto citato sopra significa che la Food and Drug Administration garantisce la
commercializzazione dei prodotti su tutto il territorio statunitense solo di immunoglobuline
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di derivazione umana che siano in compliance anche con le suddette caratteristiche, ovvero che dimostrino di possedere livelli di anticorpi neutralizzanti contro almeno uno dei sierotipi del virus polio, contro il virus del morbillo e contro la tossina difterica.
Queste caratteristiche sono determinabili mediante l’applicazione del test di neutralizzazione in vitro.
Il saggio virali di neutralizzazione delle placche di lisi o PRN (plaque reduction neutralization) è considerato il “gold standard” per la determinazione della risposta protettiva nei confronti di virus quali il morbillo ed il virus della parotite (Mauldin et a., Neumann et al.); questo saggio è in grado di determinare la diluizione del siero (titolo) capace di prevenire la formazione delle placche di lisi nel 50% delle cellule in coltura in piastre contenenti terreno semi-‐solido, generalmente agar allo 0.75%. Questa tipologia di test, pur essendo il gold standard è costoso, difficilmente standardizzabile, estremamente time-‐consuming ed è quindi difficilmente applicabile ai numerosi campioni di routine (Fujino et al.); le tecniche diagnostiche ELISA, più rapide e meno costose, non risultano specifiche per la determinazione degli anticorpi neutralizzanti, poiché sono in grado di determinare gli anticorpi nella loro totalità (neutralizzanti e non neutralizzanti) (Mauldin et al.) in assenza di standard internazionali specifici.
Il test di neutralizzazione con diluizione limite è una tecnica alternativa alla PRN, meno laboriosa e meno costosa, che può essere applicata più facilmente anche a numerosi campioni;
il principale svantaggio è rappresentato da difficoltà nella standardizzazione, sebbene
esistano protocolli di standardizzazione (WHO/IVB/04.10), dai bassi livelli di accuratezza e
sovrastima dei titoli anticorpali, almeno in studi pregressi (Nielsen et al.). In studi più recenti
il test di neutralizzazione ha mostrato buoni livelli di correlazione con i test ELISA per la
determinazione dei titoli anticorpali contro il morbillo nella popolazione pediatrica ed adulta
(Susan van den Hof et al).
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Questo tipo di test viene ad oggi applicato per la determinazione degli anticorpi neutralizzanti in prodotti di immunoglobuline destinate all’uso umano; sebbene non esistano linee guida per la standardizzazione del test, l’accesso alle normative delle farmacopee permette di fare chiarezza su alcuni punti per la stesura del protocollo del metodo.
Lo sviluppo di un saggio biologico, come quello del test di neutralizzazione in vitro, richiesto come test di rilascio del lotto di prodotto finito inizia con la selezione della linea cellulare, di cui è necessario possedere una ceppoteca o banca cellulare in modo da avere una continua disponibilità per futuri approvvigionamenti (USP 1237 Virology Test Method); inoltre si dovrebbero possedere esaurienti informazioni riguardo alla morfologia fisiologica della linea cellulare, ad esempio avendo accesso ad una serie di immagini fotografiche, informazioni riguardo al livello di purezza (disponibilità di risultati di test di contaminazione batterica, virale e fungina); si devono conoscere quelle che sono le modalità di conservazione, oltre che le modalità di trattamento, di scongelo e di crescita (USP 1032, WHO/IVB/04.10).
Infatti le performance di questa tipologia di test dipendono da numerosissimi fattori che possono influenzare la risposta del saggio e di fatto sono comuni a tutti i metodi analitici che utilizzano linee cellulari: la tipologia di cellula (aderente o non aderente); le modalità di crescita; le caratteristiche del terreno di crescita; le condizioni di incubazione in termini di temperatura, livelli di CO
2, umidità; tecniche e modalità di dissociazione (per le cellule aderenti); modalità di conta cellulare; numero di passaggi cellulari; criteri di determinazione dello stato di salute delle cellule (velocità di crescita, vitalità cellulare).
Questa lista non è ovviamente esaustiva e solo i livelli di expertise degli analisti con le colture
cellulari possono garantire se questi o altri fattori possono influenzare il risultato e quindi
proporre e applicare delle azioni correttive per garantire un maggior controllo laddove
possibile.
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Molti saggi basati su colture cellulari usano piastre per cellule da 6 fino a 384 pozzetti per piastra, solitamente si utilizzano quelle a 96 pozzetti. Indipendentemente dal numero di pozzetti, in condizioni ideali una piastra risulta capace di raggiungere un substrato uniforme per il trattamento sperimentale in tutti i pozzetti sia prima che dopo eventuali step di lavaggio e di incubazione. Tuttavia, riguardo alle condizioni dei test intese a minimizzare il potenziale di errore (ad esempio l’aderenza dell’analista alla procedura di esecuzione del test, la capacità tecnica dell’operatore, lo stato di calibrazione degli strumenti come le pipette, il rispetto ed il controllo dei tempi di incubazione e delle temperatura) si osserva sempre un gradiente sulla piastra, indipendentemente dalle condizioni sperimentali.
Le serie di manifestazioni dei gradienti che si possono verificare attraverso le righe, le
colonne, dal bordo al centro della piastra sono generalmente indicate come effetto piastra
(USP 1237 Virology Test Method).
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L’effetto piastra può essere valutato in un saggio definito test di uniformità in cui la condizione sperimentale del test viene applicata a tutta la piastra nel modo più uniforme possibile. La figura sotto mostra un esempio di effetto piastra che ha comportato una disomogeneità di risposta durante il test di uniformità:
5.1 Design: Assay Layout , Blocking, and Randomizat ion
Most cell-based assays are performed using a cell culture plate (6-, 12-, 96-, or 384-well micro titer plate). Ideally, a plate is able to provide a uniform substrate for experimental treatments in all wells, including after wash steps and incubations. How- ever, regardless of assay conditions intended to minimize the potential for bias (e.g., good analyst technique, careful calibra- tion of pipets, controlled incubation time, and temperature), systematic gradients on the plate, independent of experimental treatments, may be observed. These gradients may occur across rows, across columns, or from the edge to the center of the plate and are often called plate effects. Even moderate or inconsistent plate effects should be addressed during assay develop- ment, by means of plate layout strategies, blocking, randomization, and replication.
Plate effects can be evaluated in a uniformity trial in which a single experimental treatment, such as an assay concentration chosen from the middle section of the concentration–response curve, is used in all wells of the plate. Figure 1 provides an ex- ample of what may be observed; a trend of decreasing signal is evident from right to left. In this case, it was discovered that the plate washer was washing more briskly on the left side of the plate, and required adjustment to provide uniform washing intensity and eliminate the gradient. Another common plate effect is a differential cell-growth pattern in which the outer wells of the plate grow cells in such a way that the assay signal is attenuated. This is such a persistent problem that the choice is often made to not use the outer wells of the assay plate. Because location effects are so common, designs that place replicates (e.g., of sample by concentration combinations) in adjacent wells should be avoided.
Figure 1. Plot of change in assay response across a plate.
Blocking is the grouping of related experimental units in experimental designs. Blocks may consist of individual 96-well plates, sections of 96-well plates, or 96-well plates grouped by analyst, day, or batch of cells. The goal is to isolate any system- atic effects so that they do not obscure the effects of interest. A complete block design occurs when all levels of a treatment factor (in a bioassay, the primary treatment factors are sample and concentration) are applied to experimental units for that factor within a single block. An incomplete block design occurs when the number of levels of a treatment factor exceeds the number of experimental units for that factor within the block.
Randomization is a process of assignment of treatment to experimental units based on chance so that all such experimental units have an equal chance of receiving a given treatment. Although challenging in practice, randomization of experimental treatments has been advocated as the best approach to minimizing assay bias or, more accurately, to protecting the assay results from known and unknown sources of bias by converting bias into variance. While randomization of samples and con- centrations to individual plate wells may not be practical, a plate layout can be designed to minimize plate effects by alternat- ing sample positions across plates and the pattern of dilutions within and across plates. Where multiple plates are required in an assay, the plate layout design should, at a minimum, alternate sample positions across plates within an assay run to accom- modate possible bias introduced by the analyst or equipment on a given day. It is prudent to use a balanced rotation of lay- outs on plates so that the collection of replicates (each of which uses a different layout) provides some protection against likely sources of bias.
Figure 2 illustrates a patterned assay design that lacks randomization and is susceptible to bias. Dilutions and replicates of the Test preparations (A and B) and the Standard (R) are placed together sequentially on the plate. Bias due to a plate or incubator effect can influence some or all of the concentrations of one of the samples. Note that in Figures 2 through 5 all outer plate wells are left as blanks to protect against edge effect.
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Figura 4: effetto misurato del cambio nella risposta del saggio attraverso la piastra
Nella figura appare evidente che il trend del segnale in esame (definito arbitrariamente AFU) è decrescente da destra a sinistra; a seguito di un’indagine è stato appurato che il lavatore della piastra eseguiva dei lavaggi molto più attivi sul lato sinistro della piastra; in questo caso l’azione correttiva è stata quella di calibrare nuovamente il lavatore uniformando l’intensità di lavaggio su tutta la piastra.
Un ulteriore effetto piastra definito effetto di posizionamento o di locazione porta ad un differente pattern di crescita delle cellule; questo si verifica poiché spesso i pozzetti esterni della piastra fanno crescere le cellule in modo tale che il segnale del test risulti più attenuato;
questo possibile effetto viene ridotto semplicemente evitando di utilizzare i pozzetti esterni.
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Poiché i possibili effetti di locazione sono frequenti i layout di piastre che prevedono il posizionamento dei replicati in pozzetti adiacenti dovrebbero essere evitati, laddove possibile.
Le strategie applicate per controllare e minimizzare l’effetto piastra in generale possono richiedere un pretrattamento della piastra prima dell’incubazione come indicato da Lundholt (Lundholt et al.), i quali hanno verificato che un periodo di pre-‐incubazione di circa 60 minuti a temperatura ambiente determina una distribuzione uniforme delle cellule in tutti i pozzetti.
Nel caso in cui le piastre vengano immediatamente poste in incubatore a CO
2, si evidenziava invece una distribuzione non uniforme nei pozzetti della periferia della piastra determinando un incremento dell’effetto di posizionamento, in questo caso dovuto ai pozzetti periferici della piastra (USP 1032).
Il blocking rappresenta una strategia per minimizzare questa possibile fonte di errore e consiste nel raggruppamento delle unità sperimentali in blocchi sperimentali. I blocchi possono consistere in singoli piastre a 96 pozzetti, sezioni di 96 pozzetti, o piastre a 96 pozzetti raggruppati per analista, giorno, o gruppo di cellule. L'obiettivo è quello di isolare eventuali effetti sistematici in modo da non oscurare gli effetti di interesse.
Nell’allestimento di un disegno sperimentale si può associare al processo di blocking quello di randomizzazione.
La randomizzazione è un processo di assegnazione casuale del trattamento sperimentali in modo che tutte le unità sperimentali (pozzetti) abbiano la stessa probabilità di ricevere un determinato trattamento.
A livello pratico, la randomizzazione dei trattamenti sperimentali non è semplice; tuttavia si
ritiene che questo sia l'approccio migliore per ridurre al minimo i bias e per rendere più
accurati e precisi i risultati del test.
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Mentre la randomizzazione dei campioni da testare e le differenti concentrazioni nei singoli
pozzetti della piastra può non essere pratico, in particolare laddove la distribuzione dei
campioni è eseguita manualmente dall’operatore, può tuttavia essere impostato un layout
della piastra che tenga conto dei possibili bias ed effetti piastra in modo da minimizzare gli
errori.
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La figura 5 illustra un layout di piastra da 96 pozzetti priva di randomizzazione e suscettibile a bias.
Figure 2. A highly patterned plate.
A layout that provides some protection from plate effects and can be performed manually is a strip-plot design, shown in Figure 3. Here samples are randomized to rows of a plate and dilution series are performed in different directions in different sections (blocks) on the plate to mitigate bias across columns of the plate. An added advantage of the strip-plot design is the ability to detect location effects by the interaction of sample and dilution direction (left-to-right or right-to-left).
Figure 3. A strip-plot design.
Figure 4 illustrates an alternation of Test (Test sample 1 = “ 1” ; Test sample 2 = “ 2” ) and Standard (“ R” ) positions on multiple plates, within a single assay run; this protects against plate row effects. Combining the two methods illustrated if Figures 3 and 4 can effectively help convert plate bias into assay variance. Assay variance may then be addressed, as necessary, by increased assay replication (increased number of plates in an assay).
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Figura 5
Le diluizione ed i replicati delle preparazione da testare (A e B) e dello Standard (R) sono state seminate insieme ed in modo sequenziale; errori dovuti all’effetto piastra o all’incubazione possono influenzare uno, alcuni o tutti i risultati dei campioni. Il layout così impostato, così come per le figure che seguono, previene invece l’effetto bordo poiché tutti i pozzetti esterni sono rimasti inutilizzati.
Una strategia di layout di semina della piastra che può invece conferire protezione nei confronti dell’effetto piastra e che può essere eseguita manualmente è quella definita strip-‐
plot mostrata in figura 6:
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Figure 2. A highly patterned plate.
A layout that provides some protection from plate effects and can be performed manually is a strip-plot design, shown in Figure 3. Here samples are randomized to rows of a plate and dilution series are performed in different directions in different sections (blocks) on the plate to mitigate bias across columns of the plate. An added advantage of the strip-plot design is the ability to detect location effects by the interaction of sample and dilution direction (left-to-right or right-to-left).
Figure 3. A strip-plot design.
Figure 4 illustrates an alternation of Test (Test sample 1 = “ 1” ; Test sample 2 = “ 2” ) and Standard (“ R” ) positions on multiple plates, within a single assay run; this protects against plate row effects. Combining the two methods illustrated if Figures 3 and 4 can effectively help convert plate bias into assay variance. Assay variance may then be addressed, as necessary, by increased assay replication (increased number of plates in an assay).
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Figura 6
In questo tipo di layout i campioni sono stati seminati in modo random nelle righe della piastra e le diluizioni eseguite in almeno due direzioni diverse, nell’ambito della stessa sezione (blocco riga), ovvero da sinistra verso destra e viceversa; in tal modo è possibile verificare ed identificare possibili effetti di posizionamento dall’interazione del campione e la direzione di diluizione.
Nel caso in cui il test richieda l’utilizzo di più piastre entro la singola corsa analitica, è altresì possibile valutare la possibilità di prevedere l’alternanza delle posizioni dei campioni e dello standard, confutando il possibile effetto riga; per perseguire tale approccio è possibile riferirsi alla figura 7:
Figure 4. A multi-plate assay with varied Test and Reference positions.
A split-plot design, an alternative that assigns samples to plate rows randomly and randomizes dilutions (concentrations) within each row, is seen in Figure 5. Such a strategy may be difficult to implement even with the use of robotics.
Figure 5. A split-plot design.
D
ILUTIONS
TRATEGYAssay concentrations of a Test sample and the Standard can be obtained in different ways. Laboratories often perform serial dilutions, in which each dilution is prepared from the previous one, in succession. Alternatively, the laboratory may prepare wholly independent dilutions from the Test sample and Standard to obtain independent concentration series. These two strat- egies result in the same nominal concentrations, but they have different properties related to error. Serial dilutions are subject to propagation of error across the dilution series, and a dilution error made at an early dilution will result in correlated, non- independent observations. Correlations may also be introduced by use of multichannel pipets. Independent dilutions help mit- igate the bias resulting from dilution errors.
It is noteworthy that when working to improve precision, the biggest reductions in variance come when replicating at the highest possible levels of nested random effects. This is particularly effective when these highest levels are sources of variability.
To illustrate: replicating extensively within a day for an assay known to have great day-to-day variation is not effective in im- proving precision of reportable values.
5.2 Development
A goal of bioassay development is to achieve optimal bioassay relative accuracy and precision of the potency estimate. An endpoint of assay development is the completed development of the assay procedure, a protocol for the performance of the bioassay. The procedure should include enough detail so that a qualified laboratory with a trained analyst can perform the procedure in a routine manner. A strategic part of development is a look forward toward performance maintenance. Standard operating procedures for reagent and technician qualification, as well as for calibration of the working Standard, help com- plete the bioassay development package.
General Chapters
USP 39 General Information / á1032ñ Biological Assays 859
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