• Non ci sono risultati.

Come il processo di integrazione europea ha influenzato la politica migratoria dei suoi paesi membri: un confronto tra il caso italiano e spagnolo

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Come il processo di integrazione europea ha influenzato la politica migratoria dei suoi paesi membri: un confronto tra il caso italiano e spagnolo"

Copied!
102
0
0

Testo completo

(1)

1

UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

Corso di Laurea in Studi Internazionali

TESI DI LAUREA

Come il processo di integrazione europea ha influenzato la

politica migratoria dei suoi paesi membri

Un confronto tra il caso italiano e spagnolo

CANDIDATA/O

RELATORE/TRICE

Alessia Falorni

Prof. Eugenio Pizzimenti

(2)

2

When people see their options as certain death while standing still

versus a minute chance of success if they move, they will move

(3)

3

Sommario

1. Introduzione ... 5

2. L’evoluzione della politica migratoria europea e il suo policy transfer ... 8

2.1 La perdita della sovranità statale e la nascita di nuovi attori nel panorama istituzionale ... 9

2.2 Verso l’integrazione europea: un’analisi dei processi di transfer ... 10

2.3 Dall’unilateralismo facilitato alla governance negoziale ... 12

2.3.1 La creazione dell’Area Schengen e la Convenzione di Dublino ... 12

2.3.2 Il sistema europeo comune di asilo: un continuo stallo istituzionale ... 14

2.3.3 Evoluzione dei Regolamenti di Dublino: il ruolo della CGUE e il principio di solidarietà ... 16

2.4 Il Trattato di Amsterdam e il Consiglio di Tampere: il nuovo ruolo delle istituzioni europee e l’approccio securitario ... 19

2.4.1 La teoria della securitisation e il suo sviluppo nel processo di integrazione europea ... 21

2.5 La ridefinizione del sistema del Trattato di Lisbona ... 25

2.6 La crisi migratoria come banco di prova per l’Unione europea ... 27

3. La politica migratoria in Italia ... 32

3.1 Anni Sessanta, Settanta e Ottanta: i primi flussi e le prime leggi rivolte all’immigrazione ... 34

3.2 1989: anno di svolta e l’inizio di una nuova stagione per la politica migratoria .. 40

3.3 L’evoluzione della politica migratoria durante gli anni Novanta ... 45

3.4 La crescita costante dell’immigrazione negli anni duemila ... 52

3.4.1 La politica italiana nel più ampio contesto europeo ... 56

3.5 Un’ulteriore punto di svolta per la politica migratoria italiana: la crisi economica e le primavere arabe ... 59

(4)

4

3.5.1 Il ruolo svolto dall’Italia nella gestione diretta della crisi: l’evoluzione delle

operazioni di soccorso in mare ... 62

3.5.2 L’inadeguatezza della politica migratoria italiana in risposta alla crisi migratoria e i più recenti sviluppi ... 66

3.6 Conclusioni ... 69

4. La politica migratoria in Spagna ... 72

4.1 La prima fase legislativa: dalla metà degli anni Ottanta fino ai primi anni Novanta ... 73

4.2 Dalla fine degli anni Novanta ai primi anni duemila: immigrazione come fenomeno strutturale ... 76

4.3 Il sistema di asilo spagnolo nell’ottica del Sistema comune europeo ... 80

4.4 Ceuta e Melilla: due eccezioni nel panorama spagnolo ... 83

4.4.1 L’esternalizzazione delle frontiere come strumento di contenimento del fenomeno migratorio ... 87

4.4.2 L’evoluzione del dibattito pubblico sul tema migratorio ... 89

4.5 Conclusioni ... 92

5. Conclusioni ... 94

Appendice ... 97

(5)

5

1. Introduzione

La politica migratoria in Europa negli ultimi anni è diventata uno dei temi maggiormente discussi nel dibattito pubblico, soprattutto dopo che la crisi migratoria sviluppatasi a seguito delle rivolte che hanno destabilizzato i paesi mediorientali a partire dal 2011, ha portato i numeri degli arrivi presso le frontiere mediterranee a delle cifre senza precedenti. Se nel corso del XX secolo sono stati i paesi del centro e nord Europa ad essere i principali ricevitori di immigrati e rifugiati, con l’arrivo del XXI secolo sembra essersi verificato uno spostamento verso sud delle frontiere e paesi come la Spagna e l’Italia hanno iniziato a registrare tassi di immigrazione sempre più elevati. L’obiettivo di questo elaborato è quello di cercare di costruire un quadro generale delle politiche messe in atto dai governi di questi due paesi come risposta a tale fenomeno. I due paesi oltre a similitudini storiche, come il fatto che solo recentemente essi sono diventati paesi di immigrazione, condividono altre similarità che hanno conseguenze dirette sulla gestione del fenomeno migratorio e che sono riconducibili a fattori economici – la presenza di un ampio mercato irregolare del lavoro che si traduce nell’utilizzo di strumenti quali le regolarizzazioni; demografici – il rapido invecchiamento della popolazione rende l’immigrazione e gli immigrati un elemento necessario per la sostenibilità demografica; sociali – oltre alle necessità del mercato del lavoro gli stranieri risultano fondamentali anche per il funzionamento dei sistemi di welfare.

Tutte le caratteristiche fin qui presentate risultano particolarmente rilevanti poiché distinguono i paesi appartenenti al cosiddetto “modello migratorio mediterraneo” – oltre all’Italia e la Spagna fanno parte di questo modello anche la Grecia e il Portogallo – dal resto dei paesi dell’Europa continentale, contraddistinti da una tradizione migratoria più longeva. Questa differenza fa sì che i paesi di “nuova” immigrazione debbano mettere in atto delle politiche specifiche, senza poter “importare” le politiche già elaborate negli altri paesi europei, proprio perché ogni contesto economico, storico, politico e sociale richiede delle politiche che rispondano alle proprie esigenze. Se questo avverrà in principio con l’adozione di politiche maggiormente aperte al fine di soddisfare la domanda del mercato del lavoro e l’utilizzo di strumenti di regolarizzazione di ampie parti della popolazione che risiede irregolarmente sul territorio, vedremo come il graduale processo di integrazione europea e la necessità di adattare la legislazione interna a quelle che sono le

(6)

6

richieste delle istituzioni sovranazionali, porterà i due paesi qui analizzati all’adozione di normative che non seguono nei loro obiettivi criteri razionali andando in controtendenza rispetto a quelle che sono le effettive necessità del paese.

Un altro elemento chiave nella gestione della politica migratoria da parte sia dell’Italia che della Spagna è quello geografico. Entrambi i paesi si trovano lungo il “nuovo” confine dell’Unione Europea, venutosi a creare come conseguenza dell’adozione degli accordi di Schengen, che si materializza per l’Italia nel confine marittimo nel Mar Mediterraneo e per la Spagna nelle sue enclavi africane di Ceuta e Melilla e nelle isole Canarie. Proprio quest’ultimi territori, così come l’isola di Lampedusa nel caso italiano, rappresentano i luoghi in cui la crisi migratoria mostrerà i suoi aspetti più critici: è in questi luoghi che fatti di cronaca portano in primo piano le problematiche legate al rispetto dei diritti umani e poste dal fenomeno migratorio. La centralità così guadagnata dal tema migratorio nel dibattito politico e nella pubblicistica ha orientato specifiche azioni da parte dello Stato nel tentativo di operare un bilanciamento tra l’obiettivo della sicurezza – incrementando quindi i controlli di frontiera, stipulando accordi con paesi terzi e favorendo i rimpatri – e la protezione dei diritti umani –principalmente mediante operazioni di salvataggio in mare.

Per poter disegnare un quadro esaustivo e capire cosa abbia favorito l’elaborazione di determinate politiche è dunque necessario tenere in considerazione il contesto europeo, il cui processo di integrazione ha portato alla creazione di alcune istituzioni e alla realizzazione di politiche che hanno fortemente influenzato la politica migratoria nei vari paesi membri. Nel secondo capitolo cercheremo di analizzare le principali evoluzioni e i principali testi legislativi europei utilizzando la teoria del policy transfer, che ci aiuta a capire quali sono state nel tempo le relazioni intercorse tra le istituzioni sovranazionali e quelle nazionali ma soprattutto le modalità tramite le quali le politiche sono state trasferite da un livello all’altro. In particolare, faremo riferimento alle conseguenze dell’entrata in vigore dell’accordo di Schengen, della Convenzione di Dublino e della creazione del Sistema europeo di asilo, così come all’impatto che ha avuto la giurisprudenza della Corte di giustizia europea sulla politica interna.

Cercheremo poi di inquadrare l’evoluzione della politica migratoria tenendo in considerazione gli aspetti maggiormente securitari che essa ha sviluppato negli anni, a

(7)

7

discapito di una maggiore garanzia dei diritti umani. Sono state infatti le politiche europee elaborate al fine di proteggere le proprie frontiere esterne che hanno creato quella che è conosciuta come “Fortezza Europa”, ovvero uno spazio impenetrabile ai confini del quale si registrano i numeri di decessi di migranti più elevati al mondo. Vedremo quindi come le politiche di paesi come l’Italia e la Spagna, seppur con dinamiche e risultati divergenti, abbiano gradualmente spostato il loro focus dalle necessità del mercato del lavoro, che in fasi di espansione economica registra un’elevata domanda di manodopera straniera, a necessità strettamente legate all’ordine pubblico e alla sicurezza, legittimando quindi politiche molto più restrittive. Se l’Europa come vedremo ha avuto un ruolo fondamentale in questo, sarà fondamentale tenere in considerazione anche altri aspetti interni di entrambi i paesi che hanno favorito questo spostamento.

Attraverso un’analisi neoistituzionale nei due casi di studio, rispettivamente per l’Italia nel terzo capitolo e per la Spagna nel quarto, cercheremo di evidenziare quali sono stati gli attori politici e sociali i quali hanno contribuito alla definizione della politica migratoria e in quale misura. Oltre ai fattori istituzionali saranno considerati anche altri elementi ad essi strettamente collegati, come la cultura politica dei rispettivi paesi, le contingenze storiche, l’ambiente esterno e l’opinione pubblica. In particolare, ci soffermeremo poi sulla politicizzazione del tema migratorio, la quale ha seguito percorsi differenti nei due paesi: se in Italia essa ha intrapreso una strada simile al resto degli stati europei, portando ad una crescita diffusa dei sentimenti anti-immigrazione e all’ascesa di partiti di estrema destra, la Spagna sembra invece aver seguito una via eccezionale in questo senso, restando così (quasi) immune alla strumentalizzazione del tema.

Una volta descritto un quadro generale e analizzato i vari elementi fin qui riportati cercheremo di capire quali sono state le conseguenze della recente crisi migratoria in entrambi i paesi: nel caso dell’Italia analizzeremo le risposte che i governi hanno elaborato successivamente ai numeri straordinari registrati a partire dal 2015, mentre nel caso spagnolo cercheremo di capire le motivazioni per la quale il paese non è stato particolarmente colpito dalla crisi migratoria, registrando dei numeri piuttosto contenuti se paragonati al resto dei paesi del sud Europa.

(8)

8

2. L’evoluzione della politica migratoria europea e il suo policy transfer

A partire dalla metà del secolo scorso, in Europa ha avuto luogo un processo di integrazione senza precedenti nel suo genere che ha portato alla creazione di nuove istituzioni e centri di potere che andranno a ricoprire ruoli di primo piano nel processo di elaborazione delle politiche. La nascita e lo sviluppo delle istituzioni che fanno oggi parte dell’Unione europea hanno dato il via alla creazione di un nuovo livello all’interno del processo di formazione delle politiche, ovvero un livello sovranazionale, e all’introduzione del concetto di multilevel governance. La governance multilivello si riferisce a scambi negoziati e non gerarchici fra istituzioni ai livelli transnazionali, nazionali, regionali e locali, con relazioni di tipo verticale che non operano necessariamente attraverso i livelli intermedi. Questo concetto mette in risalto la creazione di livelli di governo di ampiezza giurisdizionali sovra- o sub-nazionali ed il loro coinvolgimento nei processi decisionali ed attuativi, ed è soprattutto in ambito europeo che questo concetto viene utilizzato per descrivere le relazioni complesse che intercorrono tra Stati membri ed istituzioni governative sovra- e sub-nazionali (Piattoni 2005).

All’interno di questa architettura troviamo il simultaneo coinvolgimento di livelli di governo differenti secondo modalità che non rispecchiano le rispettive competenze giurisdizionali. Le istituzioni sovranazionali dell’Unione europea, le strutture governative degli Stati membri e i rappresentanti dei governi sub-nazionali si trovano spesso ad interagire su uno stesso livello, in modi che mettono in discussione la gerarchia presente all’interno dell’articolazione giurisdizionale originaria di questi livelli di governo. Cercheremo in questo capitolo di analizzare queste tipologie di interazioni articolate su più livelli utilizzando la teoria del policy transfer in modo da capire quali attori abbiano avuto un ruolo predominante nei processi decisionali nelle varie fasi di integrazione europea, quali processi di trasferimento di politiche siano stati messi in atto e da quali istituzioni, nel caso specifico delle politiche migratorie. Nell’ultima parte del capitolo analizzeremo invece la risposta data da parte delle istituzioni europee alla recente crisi migratoria e cercheremo di capire se le politiche elaborate nel corso degli anni si siano rivelate efficienti oppure fallimentari.

(9)

9

2.1 La perdita della sovranità statale e la nascita di nuovi attori nel panorama

istituzionale

La politica migratoria può essere suddivisa in due componenti: le politiche rivolte ai soggetti residenti in un territorio e le politiche di controllo dell’immigrazione – i.e. regole e procedure che stabiliscono l’ammissione di cittadini stranieri. Questa analisi si concentrerà sulla seconda tipologia di politiche, nell’ambito della quale l’Unione Europea ha negli anni acquisito sempre maggiore competenza, al contrario della prima nella quale permane ancora oggi la competenza dei singoli Stati.

Prima dell’istituzione dell’Unione Europea il diritto di regolare i flussi migratori apparteneva agli stati, come stabilito dal principio di sovranità nazionale, uno dei principi fondamentali del diritto internazionale. Tuttavia, a seguito della Seconda guerra mondiale, alcune tendenze basate sulla concezione liberale della libertà individuale che metteva in evidenza la dottrina dei diritti umani, hanno portato a cambiamenti nella concezione della posizione dello Stato e dell’individuo in tale ambito. Già con la ratifica della Dichiarazione Universale dei diritti umani nel 1948, gli Stati rinunciarono parzialmente alla loro sovranità nel regolare i flussi migratori, ma è soltanto nel corso degli anni successivi che vennero stipulati una serie di accordi internazionali che portarono gli stati a rinunciare sempre di più alla loro sovranità in nome di una maggiore cooperazione. Al culmine di questo processo c’è l’inizio della creazione dell’attuale Unione Europea, destinata a diventare uno degli attori più importanti a livello internazionale.

A partire dai primi anni Cinquanta del Novecento, vennero adottati nuovi strumenti esterni da parte degli stati attraverso la ratifica di convenzioni e la creazione di nuove istituzioni internazionali che entrarono a far parte del processo di policy in qualità di nuovi attori. L’accordo più rilevante è stata la ratifica della Convenzione di Ginevra del 1951 che stabiliva la protezione legale e definiva la nozione di rifugiato e costituisce ancora oggi la base legale per la protezione dei rifugiati in Europa. Per quanto riguarda lo sviluppo di nuove istituzioni internazionali che hanno il compito specifico di favorire la cooperazione ed effettuare controlli sull’operato degli stati in tema migratorio e rispetto

(10)

10

dei diritti dei rifugiati, troviamo oggi l’IOM1 – International Organization for Migration-

e l’UNHCR – United Nations High Commissioner for Refugees- che si occupa nello specifico dei rifugiati e quindi solamente di una parte delle persone che prendono parte al processo migratorio.

Con la progressiva integrazione a livello europeo e la creazione di nuove istituzioni sovranazionali, vennero creati anche nuovi attori che prenderanno parte al processo di elaborazione di politiche migratorie all’interno dell’Unione, tra cui: la Commissione Europea, la Corte di giustizia dell’Unione Europea, il Parlamento Europeo e il Consiglio Europeo. L’obiettivo di questo capitolo è quello di analizzare le diverse fasi dell’integrazione europea, cercando di capire quali attori istituzionali hanno ricoperto un ruolo predominante nel processo di elaborazione delle politiche migratorie e in che modo e con quale forza queste politiche si siano imposte nella legislazione dei vari Stati membri. Per fare ciò utilizzeremo l’impianto teorico elaborato da Simon Bulmer e Stephen Padgett.

2.2 Verso l’integrazione europea: un’analisi dei processi di transfer

Riferendomi dunque a Bulmer e Padgett posso asserire quanto segue: innanzitutto, quando si parla di policy transfer ci si riferisce a quello che David Dolowitz e David Marsh definiscono come “a process by which ideas, policy, administrative arrangements or institutions in one political setting influence policy development in another political setting, mediated by the institutional system of the European Union”. Le istituzioni costituiscono da questo punto di vista, i soggetti più importanti in quanto plasmano le preferenze, dando inizio a dei processi di trasferimento che possono assumere varie forme: coercitivo, negoziale o volontario (Bulmer e Padgett 2005).

Con la ratifica del Trattato di Roma nel 1957 non si prevedeva alcuna competenza specifica comunitaria in ambito di politica migratoria e i principi di libertà di movimento stabiliti all’interno del trattato avevano ancora come fondamento lo sviluppo economico, per cui il movimento di lavoratori era finalizzato alla costituzione di un mercato comune

1 Fondata nel 1951 con lo scopo di assistere il grande numero di sfollati che si trovavano in Europa a

seguito della fine della seconda guerra mondiale, resta ancora oggi la principale organizzazione intergovernativa che opera in campo migratorio.

(11)

11

europeo. Per questo motivo mancavano provvisioni relative ai familiari dei lavoratori e, mentre regole riguardanti lo spostamento dei cittadini di Stati membri entravano a far parte delle competenze comunitarie, la regolazione dei movimenti di cittadini terzi restava competenza esclusiva di ogni singolo stato (Di Stasio 2012). I meccanismi di transfer che operavano in questo caso erano quindi di tipo volontario - transfer volontario o unilateralismo facilitato - per cui le politiche venivano adottate unilateralmente dagli stati che mantenevano la loro sovranità, mentre l’Unione Europea svolgeva un ruolo di coordinamento. In questo caso si parla di transfer orizzontale, che opera attraverso processi di policy diffusion tra i vari Stati membri (Bulmer e Padgett 2005).

Nel 1992 venne ratificato il Trattato di Maastricht, il quale ha rappresentato una svolta dal punto di vista più ampio dell’integrazione europea - esso introdusse per esempio la cittadinanza europea che garantiva a chiunque fosse in possesso della cittadinanza di uno degli stati membri l’acquisizione diretta della cittadinanza dell’Unione, potendo così godere della libertà di movimento e residenza in qualsiasi altro Stato membro - ma per quanto riguarda le politiche migratorie non presentava alcuno sviluppo rilevante. I Paesi europei erano ancora favorevoli all’affluenza di lavoratori stranieri, attivamente reclutati da alcuni di essi, dato che era ancora un periodo di espansione economica e la manodopera straniera era fondamentale per soddisfare la domanda. Erano quindi le preferenze dei singoli attori statali a mantenere la situazione invariata, con una fondamentale apertura nei confronti dell’immigrazione per motivi di lavoro, e con un ruolo delle istituzioni europee di coordinamento. Il Trattato infatti istituiva la Comunità Europea e formalizzava il quadro istituzionale comunitario, in cui si riconosceva un primo pilastro principale, costituito dalla Comunità Europea, un secondo pilastro, in cui rientrava la politica estera e di sicurezza comune, ed un terzo pilastro dedicato alla cooperazione in ambito di giustizia e affari interni, inclusa l’immigrazione e l’asilo (Di Stasio 2012).

La collocazione della materia migratoria in questo terzo pilastro comportava una limitazione delle competenze delle varie istituzioni europee, soprattutto se equiparate alle loro competenze in altri settori. Le materie incluse in questo ultimo pilastro seguivano una logica di tipo intergovernativa che implicava la necessità di unanimità per ogni decisione comunitaria ed ha portato a risoluzioni e raccomandazioni non vincolanti per gli Stati membri. Le regole decisionali sono uno dei vari fattori che influenzano il transfer e in questo caso la necessità di una votazione unanime permetteva agli stati di porre dei

(12)

12

veti creando possibili stalli istituzionali e un transfer più debole. Le modalità relazionali previste dal terzo pilastro hanno dunque reso il processo decisionale troppo complesso e i risultati ottenuti di poco impatto.

La situazione iniziò però a cambiare e si registrò un’inversione di tendenza per molti Paesi europei: se da una parte la pressione migratoria continuava ad aumentare, dall’altra essa non era più corrisposta da una domanda di manodopera straniera da soddisfare. Si ebbe quindi una modifica delle preferenze degli attori che iniziavano ad essere più collaborativi, dando inizio ad un processo di concertazione di tipo intergovernativo in cui l’Unione Europea aveva un ruolo di mediatore, senza che nessuna competenza venisse di fatto devoluta alle istituzioni europee. Si entrò in una nuova fase dell’integrazione europea, in cui la tipologia di governance che operava era di tipo negoziale.

2.3 Dall’unilateralismo facilitato alla governance negoziale

Il cambiamento delle variabili di contesto e delle preferenze dei singoli attori portò ad una modifica della tipologia di relazioni durante il processo di realizzazione delle politiche, dando vita ad un processo di concertazione tra i vari Stati membri, con relazioni di tipo intergovernative, senza che nessuna competenza fosse devoluta alle istituzioni europee le quali continuavano a svolgere un ruolo secondario in tema di politiche migratorie. Si passa quindi ad una governance di tipo negoziale. (Bulmer e Padgett, 2005) È con questo assetto istituzionale che sono state realizzate due delle iniziative che avranno maggiori conseguenze sugli sviluppi futuri della politica migratoria in quanto daranno il via ad una cooperazione tra i vari Stati membri in ambito di politica migratoria. Gli stati infatti stipularono degli accordi direttamente vincolanti che ebbero forti ripercussioni anche per quanto riguarda la loro politica interna. Le iniziative a cui ci riferiamo sono la creazione dell’Area Schengen e la Convenzione di Dublino.

2.3.1 La creazione dell’Area Schengen e la Convenzione di Dublino

Nel 1990 ebbero inizio le contrattazioni relative alla creazione di un’area di libera circolazione europea, che si concluderanno nel 1995 con l’entrata in vigore del Trattato

(13)

13

che porta alla creazione dell’Area Schengen. Gli aspetti fondamentali del trattato sono: l’abolizione dei controlli alle frontiere interne e quindi la libertà di movimento tra i vari stati membri per chiunque sia entrato in territorio europeo; nuove misure riguardanti la concessione di visti, di asilo, polizia e cooperazione giudiziale (Di Stasio 2012).

Si sviluppò in questo senso una visione di tipo securitario della politica migratoria, e l’inasprimento dei requisiti di ammissione per i cittadini di Stati terzi portò alla nascita della nota espressione “Fortezza Europa”. Questo fenomeno, conosciuto con il termine inglese di “securitisation”, che porta ad uno sviluppo in termini securitari della politica migratoria può avere diverse origini. Alcuni studiosi hanno circoscritto questo processo a tre principali matrici: la migrazione viene percepita come minaccia all’ordine pubblico – disordine urbano e criminalità – e alla sicurezza nazionale; la migrazione è percepita come minaccia alla stabilità politico-identitaria, causa di turbamento dell’equilibrio sociale della società ospitante; la migrazione è percepita come minaccia di tipo socioeconomica poiché i migranti sono visti come concorrenti illegittimi del mercato del lavoro e potenziali profittatori dei benefici del sistema di welfare. L’approccio securitario caratterizzerà tutti gli sviluppi futuri della politica migratoria e sarà necessario capire in che modo esso definirà le singole politiche, in particolare successivamente agli avvenimenti dei primi due anni duemila, quando il crescere della minaccia terroristica porterà questo aspetto securitario in primo piano (Squire 2015).

La Convenzione di Schengen prevedeva inoltre la creazione di strumenti i quali potevano agevolare e facilitare per gli Stati membri il contrasto all’immigrazione clandestina – i.e. la creazione di una responsabilità dei vettori, ovvero di coloro che trasportano i migranti irregolari e che avevano da questo momento in poi facoltà di esercitare funzioni di controllo solitamente spettanti alla polizia di frontiera. Sempre in tale ambito rientravano anche gli accordi di riammissione, firmati tra Stati membri e paesi limitrofi dai quali provengono i migranti, che portarono ad una delega della responsabilità di controllo sugli immigrati direttamente a tali paesi e ad una più generale esternalizzazione dei controlli di frontiera. Se da un lato la convenzione creò un sistema di visti comune, un sistema di informazione denominato SIS – Schengen Information System – e una maggiore cooperazione con i paesi terzi, dall’altro ci fu una centralizzazione delle politiche relative alle frontiere esterne, in particolar modo attraverso la creazione dell’Agenzia per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne – c.d. FRONTEX – e il Rapid

(14)

14

Border Intervention Teams – c.d. RABIT – che prevedeva un meccanismo di intervento per le forze di polizia nazionali (Di Stasio 2012).

Un aspetto fondamentale della Convenzione di Schengen è stata la sua conclusione al di fuori del quadro comunitario: l’accordo è stato concluso a livello intergovernativo tra alcuni Stati membri e paesi che non fanno parte della Comunità Europea – Norvegia e Svizzera – e solo successivamente incorporato all’interno della normativa comunitaria con la ratifica del Trattato di Amsterdam. Si realizza quindi una tipologia di transfer per cui si può parlare di governance negoziale: si parla infatti di policy transfer negoziale nel caso in cui modelli di politiche o idee vengono incorporati nella normativa europea a partire da uno o più stati membri, mettendo quindi in atto un transfer di tipo verticale dal basso verso l’alto (Bulmer e Padgett 2005). Gli attori decisionali principali restano quindi i singoli stati, mentre le istituzioni europee continuano a svolgere un ruolo secondario di coordinamento.

2.3.2 Il sistema europeo comune di asilo: un continuo stallo istituzionale

Con la ratifica del Trattato di Amsterdam la Comunità europea assunse piena competenza in materia di asilo e immigrazione, ma fu solo con il Consiglio di Tampere nel 1999 che ebbe inizio il processo di elaborazione di un Sistema europeo comune di asilo, così come previsto dai paragrafi 13 e 14 delle conclusioni del Consiglio, in cui si prevedeva che: Il Consiglio europeo ribadisce l’importanza che l’Unione e gli Stati membri riconoscono al rispetto assoluto di chiedere asilo. Esso ha convenuto di lavorare all’istituzione di un regime europeo comune in materia di asilo, basato sull’applicazione della Convenzione di Ginevra in ogni sua componente, garantendo in tal modo che nessuno venga esposto nuovamente alla persecuzione, ossia mantenendo il principio di non-refoulement. A breve termine questo regime dovrebbe permettere di determinare con chiarezza e praticità lo Stato competente per l’esame delle domande di asilo, prevedere norme comuni per una procedura di asilo equa ed efficace, condizioni comuni minime per l’accoglienza dei richiedenti asilo e il riavvicinamento delle normative relative al riconoscimento e agli elementi sostanziali dello status di rifugiato. Il regime dovrebbe essere altresì completato da misure che prevedano forme complementari di protezione e offrano uno status adeguato alle persone che necessitano tale protezione. [..] nel lungo periodo, le norme comunitarie dovrebbero indirizzarsi verso una procedura comune in materia di asilo e uno status uniforme per coloro che hanno ottenuto l’asilo, valido in tutta l’Unione2.

(15)

15

L’effettiva realizzazione delle premesse elaborate durante il Consiglio di Tampere tarderà a compiersi, in quanto negli anni successivi sono subentrati dei fattori esterni che hanno modificato le priorità dei vari stati. Infatti, la creazione di un nuovo sistema comune di asilo fa parte del più ampio obiettivo della protezione dei diritti umani, di cui l’Unione Europea è stata assidua promotrice nel corso degli anni, ma con il crescente supporto venuto creandosi rispetto ad una visione securitaria della politica migratoria, questo processo di realizzazione di garanzie per cittadini di stati terzi ha subito un contraccolpo, sia a livello delle istituzioni europee sia dei singoli stati membri: si è presentata la necessità di garantire sicurezza da potenziali terroristi che tentavano l’ingresso sul territorio dello stato, anche nel caso in cui ciò avvenisse tramite la richiesta di protezione internazionale. Per questo motivo, il riconoscimento dello status di rifugiato venne subordinato alla garanzia che tale soggetto non costituisse una minaccia alla sicurezza interna dell’Unione in quanto potenziale terrorista. Nel tentativo di ovviare a queste problematiche, l’Unione ha adottato negli anni successivi una serie di strumenti legislativi3 i quali non riuscirono comunque ad essere efficaci. L’obiettivo previsto nel Consiglio di Tampere era infatti quello di uniformare i sistemi di asilo dei vari stati membri, in modo da rendere omogeneo il trattamento dei richiedenti asilo a prescindere dal paese in cui veniva presentata la domanda, ma di fatto a causa della libertà di implementazione permessa dagli strumenti utilizzati, gli stati hanno potuto mantenere i sistemi preesistenti e tutte le loro differenze (Di Stasio 2012).

Infatti, nonostante a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam operasse una governance di tipo gerarchico in questo settore, con l’Unione che diveniva l’attore principale nell’elaborazione di politiche, la tipologia di strumenti utilizzati, ovvero le direttive, erano “deboli” e non assicuravano un transfer diretto nei confronti degli Stati membro. Bulmer e Padgett riconoscono due tipologie di strumenti utilizzabili dall’Unione europea nel transfer verticale: gli strumenti coercitivi – trattati, legislazione della Corte di giustizia dell’UE – direttamente applicabili e che lasciano poco margine di decisione agli stati; le direttive, adottate dal Consiglio europeo, uno strumento più “soft” in quanto

3 Regolamento 343/2003/CE, c.d. “Dublino II”; Direttiva 2004/83/CE sulle norme minime

sull’attribuzione della qualifica di rifugiato, sostituita dalla Direttiva 2001/95/UE, c.d. “Direttiva Qualifiche”; Direttiva 2005/85/CE sulle norme minime per le procedure ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, c.d. “Direttiva Procedure”; Direttiva 2003/9/CE sulle norme relative all0accoglienza dei richiedenti asilo, c.d. “Direttiva Accoglienza”.

(16)

16

lascia al paese la libertà di scegliere come implementarle. In linea generale, tutti gli atti e gli strumenti adoperati da attori quali la Commissione europea e la Corte di Giustizia dell’Unione europea, hanno effetti diretti nelle legislazioni degli stati membri, per cui mettono in atto una tipologia di transfer più forte, mentre tutto ciò che nel suo processo di elaborazione passa attraverso il Consiglio europeo e il Parlamento europeo, deve successivamente essere rielaborato dagli stati, lasciando loro un margine di decisione (Bulmer e Padgett 2005).

Nel 2008 fu quindi la Commissione che subentrò per tentare di ovviare alla poca efficienza del sistema, intervenendo per riformare la normativa relativa al sistema di asilo. Si entrò così in una seconda fase dell’istituzione del Sistema europeo di asilo, in cui vennero prefissati i seguenti obiettivi: garantire l’accesso alla protezione a chi ne ha bisogno; stabilire una procedura comune; stabilire status uniformi per l’asilo e la protezione sussidiaria; tenere conto della dimensione di genere e dei gruppi più vulnerabili; intensificare la cooperazione pratica; determinare la responsabilità e favorire la solidarietà. Per fare ciò si procedette con una modifica dei vari strumenti elencati in precedenza che verranno analizzati più nel dettaglio nel prossimo paragrafo.

2.3.3 Evoluzione dei Regolamenti di Dublino: il ruolo della CGUE e il principio di solidarietà

Il primo Regolamento di Dublino venne firmato nel giugno del 1990 con l’obiettivo primario di combattere il c.d. “asylum shopping”, ovvero il fenomeno dei i richiedenti asilo che presentavano più domande contemporaneamente in diversi paesi membri. Per ovviare a questo problema, che divenne particolarmente rilevante a seguito della caduta del muro di Berlino4 e quindi all’aumento delle richieste di asilo nei vari paesi dell’UE, i vari stati membri decisero di stipulare la Convenzione di Dublino la quale aveva il compito di stabilire delle regole per identificare lo stato competente all’analisi delle richieste di asilo. Questa convenzione è stata successivamente modificata e sostituita dal Regolamento 343/2003, c.d. ‘Dublino II’, che andava oltre ciò che era stato previsto in

44 Il 1989 rappresenta un anno cruciale per quanto riguarda la politica di accoglienza dell’Unione

europea, poiché come conseguenza del crollo del blocco sovietico, un numero molto elevato di persone emigrò verso i paesi dell’Europa occidentali in cerca di protezione da persecuzioni.

(17)

17

precedenza, cercando di risolvere un ulteriore problema emerso nell’organizzazione del sistema di asilo, ovvero i c.d. “rifugiati in orbita” le cui richieste non venivano prese in carico da nessuno stato. Questo nuovo tentativo di uniformare e rendere più efficace il sistema non ha portato a effettivi miglioramenti, così come testimoniano diversi rapporti5 di organizzazioni internazionali i quali riportavano che le condizioni di accoglienza differivano da stato a stato e che le possibilità di vedersi riconosciuta una forma di protezione variavano considerevolmente (Di Stasio 2012).

Particolarmente significativo è stato il ruolo della Corte di giustizia che si è posta come interprete autorevole del diritto dell’Unione e che ha costantemente svolto un ruolo di guida, di indirizzo e di coordinamento rispetto ai giudici nazionali e nella prospettiva di una riforma del sistema, le posizioni assunte dalla giurisprudenza hanno assunto un ruolo di riferimento fondamentale per orientare le scelte del legislatore europeo (Marchegiani 2020). Attraverso le sue sentenze, la Corte era in grado di modificare le azioni intraprese dagli Stati, fornendo nuove interpretazioni della legislazione vigente che diventano così vincolanti per tutti gli Stati membri. È il caso della sentenza N.S. e altri della Corte di Giustizia dell’UE del 21 dicembre 2011, nella quale veniva sollevata la questione dell’eventuale obbligatorietà per gli stati membri, prima di trasferire un richiedente asilo, di controllare se lo stato di destinazione rispetti effettivamente i diritti fondamentali, anche in caso di altro Stato membro. Infatti, il Regolamento Dublino II si basava sul principio della fiducia reciproca che permette di supporre che gli stati partecipanti rispettino i diritti fondamentali e che siano quindi automaticamente classificabili come “Paese sicuro” ma, può accadere nella pratica che il meccanismo non funzioni e che un richiedente asilo sia trattato in modo incompatibile con i suoi diritti fondamentali. Il paese in questione in questo caso era la Grecia, e la Corte ha stabilito che il trasferimento previsto dal Regolamento non dovesse essere messo in atto in questo caso poiché gli stati membri “non possono ignorare che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo [..] costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani e degradanti ai sensi dell’art. 4 della Carta”. Questa sentenza della corte di giustizia non

5 UN High Commissioner for Refugees (UNHCR), The internal Flight Alternative Practices. A UNHCR

Research Study in Central Eurioean Countries, June 2012, available at:

(18)

18

modificava di fatto la legislazione esistente, ma dava un’interpretazione più ampia della stessa che dovrà da questo momento in poi essere applicata da tutti gli stati membri (Morgese 2012).

Il sistema è stato successivamente riformato con l’introduzione del Regolamento 604/2013, c.d. ‘Dublino III’, il quale tuttavia manteneva il principio generale dei regolamenti precedenti, ovvero l’esaminazione di ogni domanda da un solo stato membro e l’individuazione della competenza sulla base di criteri oggettivi legati al ruolo svolto dallo stato di primo ingresso e soggiorno del richiedente. Le novità introdotte riguardavano alcune garanzie per i richiedenti asilo, come l’allargamento della nozione di parente e maggiori tutele per i minori e la limitazione in alcuni casi dell’applicazione del regolamento, riguardanti principalmente il trasferimento di un richiedente nel caso in cui ciò lo sottoporrebbe ad un rischio di trattamenti inumani o degradanti (Di Stasio 2012).

Nonostante i vari tentativi di riforma, nessuna di esse è risultata efficiente e a fronte delle più recenti crisi migratorie sono emersi tutti i punti deboli che caratterizzano il sistema. Alcuni degli aspetti più problematici hanno riguardato il fatto che solo un quarto dei trasferimenti riusciva ad essere portato a termine con successo; l’inefficiente equa ricollocazione dei richiedenti asilo tra gli Stati membri, con la conseguenza che di fatto solo alcuni paesi europei gestivano il peso dell’esame delle domande di protezione; un’insufficiente tutela dei diritti umani, data dall’impossibilità per i richiedenti di esprimere una preferenza circa lo stato membro nel quale presentare la domanda in modo da poter raggiungere membri della famiglia non tra i più prossimi o comunità di connazionali presenti (Di Stasio 2012). In particolare, il criterio del primo stato di ingresso sancito dal regolamento di Dublino scaricava la responsabilità dell’accoglienza sugli Stati membri di frontiera, creando un ostacolo all’attuazione del principio di solidarietà ed equa ripartizione delle responsabilità previsto dall’art. 80 TFUE (Savino 2020), con la conseguenza che solo i pochi stati ai confini esterni, in particolare Spagna, Italia e Grecia si sono ritrovati a dover sostenere il maggior peso dell’accoglienza e dell’analisi delle varie richieste.

(19)

19

2.4 Il Trattato di Amsterdam e il Consiglio di Tampere: il nuovo ruolo delle

istituzioni europee e l’approccio securitario

Con la ratifica del Trattato di Amsterdam si entrò in una nuova fase della politica migratoria in Europa. Esso, infatti, spostando la materia dal terzo pilastro al Primo pilastro invertì i ruoli istituzionali, garantendo la competenza esclusiva in materia alle istituzioni europee e lasciando agli stati membri un ruolo marginale. Firmato nel 1997, il trattato entrò in vigore nel 1999 e all’interno di esso si specificava come l’eliminazione dei confini interni fosse necessaria a garantire la libera circolazione delle persone ma dovesse essere assecondata da regole comuni relative al controllo dei confini esterni, così come dovevano essere stabilite regole univoche su materie quali l’asilo e l’immigrazione (Di Stasio 2012).

Si ebbe quindi un ulteriore cambiamento nella tipologia di transfer6 all’interno del

processo di elaborazione delle politiche, che diventava in questo caso top-down, con le politiche che venivano in primis elaborate dall’Unione e gli stati membri che potevano solamente implementarle. Inoltre, lo spostamento della materia nel primo pilastro, comportò anche un cambiamento delle regole decisionali, con il passaggio dal voto unanime al voto a maggioranza qualificata, rendendo più facile prendere decisioni e limitando le possibilità di stallo istituzionale (Bulmer e Padgett 2005). La competenza di cui godevano le istituzioni europee a partire da quel momento era decisamente ampia e ricopriva più aree: quella della libera circolazione, relativa all’attraversamento delle frontiere interne; quella relativa all’attraversamento delle frontiere esterne che comportava anche la definizione di regole comuni in materia di immigrazione, soggiorno e allontanamento di cittadini di paesi terzi e concessione dello status di rifugiato. L’Unione Europea diveniva così l’attore decisionale principale per quanto riguardava l’elaborazione delle politiche migratorie ed avrà il compito di uniformare il più possibile le legislazioni dei singoli stati membri e promuovere la cooperazione tra i vari attori singoli in base al principio di solidarietà.

Nello stesso periodo il Consiglio Europeo delineò il programma di Tampere, che avrebbe dovuto guidare l’esercizio delle nuove competenze ottenute. Questo programma

(20)

20

enunciava quattro obiettivi principali: una partnership con i paesi di origine e transito; la realizzazione di un sistema europeo comune di asilo fondato sul rispetto assoluto del diritto di chiedere protezione, sul principio di non-refoulement e sulla realizzazione di uno status e procedure uniformi in tutta l’Unione; politiche di integrazione orientate all’equo trattamento dei cittadini di stati terzi e a promuovere le politiche di inclusione e l’accesso dei residenti stranieri alla cittadinanza; una gestione ordinata dei flussi migratori, in grado di combinare l’efficace contrasto dell’immigrazione irregolare con la creazione di percorsi legali di ingresso, anche attraverso una convergenza delle legislazioni nazionali sulle condizioni di ammissione (Savino 2020). Gli obiettivi posti durante questo consiglio, ponevano l’attenzione su aspetti umanitari delle migrazioni, a differenza di ciò che era avvenuto in passato, e si sottolineava come fosse necessario sviluppare una politica migratoria che potesse giovare sia agli stati membri che ai cittadini di stati terzi, attraverso la creazione di canali regolari che se da un lato rendevano più sicuro l’ingresso sul territorio per i migranti, dall’altro rendevano anche più facile la gestione dei flussi per gli stati. Tuttavia, l’Unione Europea ha dimostrato la sua inerzia in molti di questi ambiti, sia nella creazione di canali di accesso legali, sia nell’effettiva regolazione di flussi migratori. Gli accordi con i paesi terzi si sono dimostrati molto difficili da realizzare, e aspetto ancora più rilevante fu che gli stati membri, ex art. 79 par. 5 TFUE, mantennero la competenza nello stabilire il volume degli ingressi di cittadini di stati terzi per motivi di lavoro, di fatto togliendo all’Unione la possibilità di creare un sistema omogeneo. Tale competenza inoltre veniva esercitata in modo autonomo dagli stati che spesso operavano scelte fortemente connotate in senso politico. Un esempio è il caso italiano, dove nel 2007 si registrarono circa 230mila ingressi legati al mercato del lavoro, numero sceso poi nei quindici anni successivi a meno di 30mila. Scelte restrittive di questo genere ignoravano le reali esigenze del mercato del lavoro, così come la sostenibilità demografica del sistema di welfare, prediligendo una ricerca del consenso. Azioni di questo tipo possono portare sia a un fallimento della regolazione dei flussi migratori, in quanto il mercato attrae comunque i lavoratori di cui ha bisogno incrementando il mercato del lavoro non regolamentato, sia ad una impossibilità di individuare a livello europeo un coordinamento fondato su parametri oggettivi legati all’andamento dell’economia e dell’occupazione. Si può dunque affermare che tale approccio nazionalistico ha rappresentato il principale ostacolo allo sviluppo di una

(21)

21

politica davvero comune di reclutamento della forza lavoro, anche laddove un maggiore coordinamento avrebbe permesso all’Unione Europea di svolgere un ruolo guida (Savino 2020). In quest’ottica possiamo inserire anche la possibilità per i singoli stati membri di stipulare accordi di riammissione con i paesi terzi, fortemente sostenuti dall’Unione, i quali rappresentano anch’essi uno strumento indipendente per gli Stati dalle istituzioni comunitarie e sono stati ampiamente impiegati soprattutto a fronte della più recente crisi migratoria. Tra gli accordi più importanti ricordiamo quello stipulato direttamente dall’Unione Europea con la Turchia nel 2016 e l’accordo stipulato dall’Italia con la Libia nel 2017, che analizzeremo in seguito.

Tutti questi fattori hanno dunque portato a politiche molto più restrittive rispetto a ciò che prevedeva inizialmente il programma di Tampere. Un altro fattore che ha giocato un ruolo fondamentale sono stati gli avvenimenti dei primi anni Duemila che hanno portato ad una modifica dell’opinione pubblica sulla questione e di conseguenza anche ad una modifica delle priorità politiche, spostando l’attenzione dal rispetto dei diritti umani e la necessità di politiche omogenee che garantiscano parità di trattamento, all’aspetto securitario delle migrazioni, in cui il contrasto al terrorismo diviene l’obiettivo primario. Torna di nuovo qui il tema della securitisation delle migrazioni che ha portato in Europa alla creazione di nuovi strumenti che potessero garantire i controlli più stringenti resi necessari da questa tipologia di politica, tra cui la creazione di sistemi quali il VIS7 – Visa Information System -, il SIS e FRONTEX. Per meglio comprendere questo processo che ha portato la sicurezza al centro delle politiche migratorie è necessario un approfondimento circa la teoria più generica della securitisation, per poter poi capire in che modo essa abbia operato nel contesto europeo.

2.4.1 La teoria della securitisation e il suo sviluppo nel processo di integrazione europea

Il concetto di sicurezza è stato dapprima analizzato dalla Scuola di Copenhagen, la quale ha gettato le basi per le varie analisi future. Quest’ultima concettualizza la sicurezza come

7 Sistema che permette un migliore scambio di informazioni tra i vari stati membri, riguardanti il rilascio

(22)

22

un processo di costruzione sociale di minacce che include da un lato degli attori “securitari”, principalmente élite politiche, che dichiarano un determinato problema come una minaccia per la sopravvivenza. Qualora tale dichiarazione venga accettata da un’audience si ha una legittimazione dell’utilizzo di misure straordinarie al fine di neutralizzare la minaccia. Secondo questa visione, trattare qualcosa come un problema di sicurezza rappresenta una scelta politica: il processo descritto è di tipo intersoggettivo, per cui non può essere imposto in quanto necessita di un’accettazione da parte dell’audience (Buzan, Waever e De Wilde 1998).

Questo concetto viene ripreso da Neal, il quale analizza più nello specifico in che modo esso operi a livello europeo e nello specifico nel caso delle politiche migratorie. Se la teoria securitaria considera i modi in cui diverse aree dello spettro politico possono essere trasformate dall’inquadramento del dibattito politico in termini di minacce esistenziali e alla sopravvivenza, questo processo prende strade diverse a seconda che si analizzi il livello nazionale o quello sovranazionale: mentre a livello nazionale i discorsi dei leader e dei ministri sono ampiamente riportati e discussi nei media e sono dunque spesso seguiti da outcome politici, lo stesso non si può dire per i discorsi che si tendono all’interno delle istituzioni europee, spesso limitati nel dibattito a un piccolo audience di specialisti (Neal 2009). La teoria securitaria presume infatti un legame tra lo speaker e l’audience che recepisce il messaggio, legame garantito a livello nazionale ma non sovranazionale. Le ragioni dietro questa impossibilità di creazione di un legame diretto a livello sovranazionale possono essere ricondotti sia all’elevata frammentazione dell’ordinamento politico delle istituzioni europee, e quindi la difficoltà di individuare uno speaker unitario di riferimento, sia alle diverse esperienze all’interno degli Stati membri rispetto all’immigrazione che portano a interpretazioni diverse di concetti quali “minaccia” e “insicurezza”, oltre a differenze storiche e sociali tra i diversi audience nazionali. L’audience dell’Unione Europea potrebbe dunque non essere “pubblico” come nel caso degli stati nazionali, ma composto da esperti, burocrati e politici (Neal 2009). La spiegazione del concetto di securitisation data da Weaver “Security is the speech act where a securitizing actor designates a threat to a specified referent object and declares an existential threat implying a right to use extraordinary means to fence it off. The issue is securitized – becomes a security issue, a part of what is ‘security’ – id the relevant audience accepts this claim

(23)

23

questione dell’audience anche la questione riguardante la capacità costituzionale, istituzionale, politica o legale dell’Unione Europea di “utilizzare mezzi straordinari” o “violare regole che sarebbero altrimenti vincolanti” (Neal 2009).

L’autore continua nella sua analisi concentrandosi sugli avvenimenti dell’11 settembre 2001, per capire se ed eventualmente in che modo l’Unione Europea abbia adottato come conseguenza di essi un approccio securitario. In particolare, vengono analizzate le risposte delle istituzioni europee in termini di “mosse securitarie” valutando il processo che ha portato nel 2004 alla creazione dell’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne, ovvero FRONTEX. In una riunione straordinaria il Consiglio interrogò la Commissione sulla relazione tra la salvaguardia della sicurezza interna e le obbligazioni derivate dal rispetto delle norme internazionali di protezione umanitaria, poiché si assumeva in questo periodo che le regole sui diritti umani e il diritto di asilo fossero abusate da potenziali terroristi. La risposta della Commissione a tal proposito poneva l’accento sulla necessità di solidarietà tra i vari Stati europei al fine di combattere le minacce alla sicurezza che arrivano dall’esterno. Si iniziò così a sviluppare la nozione di identità europea e questo invito ad una maggiore collaborazione tra i membri dell’Unione, verrà ribadito anche dal Consiglio europeo tenutosi a Laeken nel dicembre del 2001, nelle cui conclusioni si afferma “better management of the Union’s external border controls will help in the fight against terrorism, illegal immigration networks and the traffic in human beings. The European Council asks the Council and the Commission to work out arrangements for co-operation between services responsible for external border control and to examine the conditions

in which mechanism or common services to control external borders could be created”. (Neal

2009)

Nonostante più volte le istituzioni europee abbiano espresso la loro volontà di rispondere alle minacce attraverso una cooperazione tra Stati e la creazione di strumenti comuni per la salvaguardia dei confini europei, non sono state adottate misure straordinarie, anzi, il processo politico seguito a questi avvenimenti è stato ordinario dal punto di vista delle dinamiche europee: esso si è svolto attraverso negoziazioni e compromessi tra la Commissione e il Consiglio e a sua volta negoziazioni e compromessi all’interno del Consiglio tra gli Stati membri. L’idea della creazione di una ‘Polizia di Frontiera’ era infatti in contrasto con il principio di sovranità statale a cui non tutti gli stati erano disposti a rinunciare, per cui il processo di negoziazioni andrà avanti per oltre due anni senza che

(24)

24

vengano di fatto intraprese azioni che portino alla creazione di corpi operativi in grado di adempiere a tale obiettivo. Nel 2003 la garanzia di sicurezza non era più così urgente ma la necessità di un controllo comune alle frontiere esterne era ormai un problema di tipo tecnocratico e la questione più importante era individuare l’istituzione europea che avesse giurisdizione in tale ambito (Neal 2009).

L’istituzione della nuova agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne rappresentò dunque un’eccezione: essa ricadeva sia sotto il controllo sovranazionale che intergovernativo, essendo il consiglio di amministrazione composto da funzionari della Commissione e capi delle guardie di frontiera nazionali. In questo modo, le istituzioni europee ottennero una parziale competenza nel controllo di frontiera senza compromettere la sovranità nazionale. La creazione di FRONTEX deve quindi essere contestualizzata in un processo più ampio che ha avuto inizio prima dell’11 settembre e che riguarda l’integrazione europea e l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne. Essa inoltre rappresenta solo uno degli strumenti adottati e non l’unico – gli altri strumenti sono il SIS, VIS, le liste di paesi sicuri, regole comuni sui visti – per cui l’effetto degli avvenimenti del 2001 prima e del 2004 a Madrid successivamente, non hanno portato ad azioni “eccezionali” o “urgenti”, piuttosto ad un’accelerazione e una maggiore volontà di cooperazione in ambito securitario. FRONTEX rappresenta dunque uno strumento securitario, ma non ha un carattere eccezionalistico anzi, svolge principalmente una funzione normativa, finalizzata a ridurre eventuali azioni arbitrarie e di disparità tra le pratiche di controllo degli Stati membri.

Questa priorità per l’aspetto securitario delle politiche migratorie venne confermata dal successivo Programma dell’Aja del 2005, nelle cui conclusioni il Consiglio affermava “la sicurezza dell’Unione europea e dei suoi Stati membri ha assunto nuova urgenza, soprattutto alla luce degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e dell’11 marzo 2004 a Madrid. I cittadini dell’Europa si aspettano legittimamente che l’Unione europea, pur garantendo il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, assuma un approccio comune più efficace di fronte a problemi transfrontalieri come la migrazione clandestina, la tratta di esseri umani, il terrorismo e la criminalità organizzata nonché la prevenzione di questi fenomeni. In particolare nel campo della

(25)

25

sicurezza, il coordinamento e la coerenza tra la dimensione interna e quella esterna hanno

assunto un’importanza crescente e devono continuare ad essere perseguiti con determinazione”8.

2.5 La ridefinizione del sistema del Trattato di Lisbona

Il Trattato di Lisbona ha rappresentato l’ultima modifica apportata all’apparato istituzionale dell’Unione ed ha ridisegnato la politica europea creando il sistema attualmente in vigore. Firmato nel 2007 ed entrato in vigore nel 2009, esso ha rinnovato profondamente il quadro istituzionale e normativo in materia di immigrazione, asilo e controlli alle frontiere. Alcuni aspetti introdotti non riguardavano direttamente l’immigrazione, ma ebbero delle conseguenze indirette piuttosto importanti. L’Unione aveva infatti da questo momento in poi competenze decisionali molto più ampie, guadagnando così ancora più poteri rispetto agli Stati membri e andando a rivestire un ruolo sempre più “gerarchico”. Il Trattato, oltre ad abolire e unificare i tre pilastri portando ad un unico titolo che ricopre lo spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia in cui l’Unione ha competenza concorrente con gli Stati e all’estensione anche a questa materia della procedura legislativa ordinaria9, prevedeva anche l’incorporazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che diventava così giuridicamente vincolante per cui tutte le politiche elaborate in materia di immigrazione dovranno rispettare i diritti stabiliti dalla CEDU.

Da un punto di vista più ampio, il Trattato di Lisbona riprese in parte lo spirito del Programma di Tampere, per cui all’interno di esso si ribadiva che l’Unione intendeva sviluppare una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere basata sulla solidarietà degli Stati membri ed intesa ad assicurare l’equo trattamento dei cittadini di Stati terzi regolarmente soggiornanti. Per quanto riguarda il controllo delle frontiere esterne venne introdotto il concetto di sistema integrato di gestione delle frontiere esterne, il quale rendeva possibile l’adozione di misure necessarie per la sua realizzazione. Lo stesso vale per la creazione di un sistema di asilo comune,

8

https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2005:053:0001:0014:IT:PDF#:~:text=Il%20programma %20dell'Aia%20ha,sui%20rifugiati%20e%20di%20altri

9 Il parlamento europeo approva la legislazione dell’UE congiuntamente al Consiglio europeo formato

(26)

26

per cui si cercava di realizzare una politica unitaria in materia di asilo, protezione sussidiaria e protezione temporanea che potesse offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di Stato terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non refoulement10. Questo avrebbe dovuto portare ad un sistema uniforme e a procedure comuni tali che il trattamento dei richiedenti asilo fosse lo stesso in qualsiasi paese membro. Sempre in questo ambito il Trattato riconosceva all’Unione Europea una competenza legislativa per sviluppare una “dimensione esterna”, ovvero garantiva la possibilità di concludere accordi con Stati terzi nell’area dell’immigrazione illegale – c.d. accordi di riammissione – e dell’asilo.

La ratifica di questo Trattato ha quindi ampliato i poteri in mano alle istituzioni europee in merito alla politica migratoria, senza però annullare del tutto la sovranità degli Stati membri che continuavano a condividere le proprie responsabilità con le istituzioni sovranazionali. La situazione che venne delimitandosi fu così una situazione “ibrida” per cui in alcune aree, come i visti di breve durata, l’Unione Europea aveva un potere molto più incisivo, rispetto ad altri settori in cui essa aveva un ruolo di sostegno e integrazione della politica nazionale. Il livello di integrazione così raggiunto resterà probabilmente invariato poiché gli Stati membri, così come abbiamo visto in occasioni passate, restano riluttanti a cedere parte della loro sovranità a favore di un maggiore coordinamento sovranazionale. Questo Trattato ha parzialmente riportato l’attenzione su questioni quali i diritti umani che erano state messe in secondo piano in passato a favore di atre questioni maggiormente legate alla sicurezza interna. Nel binomio tra sicurezza e diritti umani, ha continuato tuttavia a prevalere il primo aspetto, per cui il discorso legato alla securitisation affrontato precedentemente, torna al centro dell’attenzione con nuovi avvenimenti che ricollegano il fenomeno migratorio al susseguirsi di attentati terroristici e più in generale a una serie di minacce poste alla sicurezza interna dell’Unione.

Mai come negli ultimi anni il tema migratorio e della sicurezza è stato al centro del dibattito pubblico e dell’Agenda politica delle istituzioni europee. La causa di questa rinnovata attenzione sono stati i vari conflitti e avvenimenti che hanno avuto luogo tra il

10 Il principio di non refoulement è un principio fondamentale del diritto internazionale, introdotto per la

prima volta nella Convenzione di Ginevra del 1949 e riconosciuto anche dalla CEDU, il quale stabilisce un divieto di trasferimento di un rifugiato o richiedente asilo, in un luogo nel quale la sua vita o la sua libertà siano minacciate a causa della sua razza, religione, appartenenza a un gruppo sociale o della sua opinione politica.

(27)

27

2010 e il 2011 in Nord-Africa e in Medio Oriente, conosciute come ‘Primavere arabe’ che hanno messo in fuga milioni di persone riversatesi così sulle coste europee. L’Unione Europea e i suoi Stati membri hanno quindi dovuto affrontare questa crisi migratoria, la quale ha costituito un banco di prova per tutti il sistema fin qui analizzato in termini di efficacia della risposta europea alle pressioni esterne e della sua capacità di coordinare le singole risposte dei paesi membri, così da garantire un trattamento uniforme per i cittadini di stati terzi.

2.6 La crisi migratoria come banco di prova per l’Unione europea

Si intende qui definire come crisi migratoria la serie di eventi che hanno portato a partire dal 2013 all’aumento esponenziale del numero degli arrivi di migranti presso le frontiere europee e che hanno raggiunto il loro massimo nel 2015. Tra il 2015 e il 2016 si registrano 1.8 milioni di immigrati irregolari nel territorio europeo, con un aumento del 546% dal 2014. Queste dinamiche hanno portato il tema migratorio al centro del dibattito europeo, richiamando così l’attenzione delle istituzioni nazionali e sovranazionali che hanno dovuto rispondere adottando nuove misure eccezionali.

Un aspetto interessante per mostrare le diverse dinamiche conflittuali tra la gestione nazionale e sovranazionale della crisi migratoria si può già riscontrare analizzando il caso italiano. Di fatto nel 2011, l’operazione della Nato in Libia ha portato alla caduta di Gheddafi e alla conseguente invalidità dell’accordo precedentemente firmato con il paese da parte dell’Italia, motivo per il quale la Libia divenne un nuovo punto di partenza per i migranti. Si registrarono quindi anche a largo delle coste italiane un aumento sia degli sbarchi che dei naufragi, a cui il governo italiano rispose con l’implementazione dell’operazione Mare Nostrum che approfondiremo nel prossimo capitolo. Tuttavia, l’intervento è stato portato avanti in un primo momento dall’Italia senza alcun supporto da parte delle istituzioni europee, le quali interverranno successivamente in maniera piuttosto limitata.

Un altro episodio importante e per altri versi controverso è quello che ha riguardato la Grecia nel 2012. Qui si è registrato un incremento consistente degli arrivi a seguito del quale la Corte di giustizia dell’UE ha deciso di sospendere i cosiddetti trasferimenti di

(28)

28

Dublino verso il paese il cui sistema di accoglienza era impreparato a gestire un fenomeno di tale portata. Al contempo si vuole evidenziare il fatto che precedentemente proprio la stessa Corte di giustizia aveva condannato la Grecia poiché le politiche adottate per la gestione del sistema di asilo non si erano dimostrate compatibili rispetto alla legislazione europea sui diritti umani con la sentenza del 2011 già presentata precedentemente in questo capitolo (Baldwin-Edwards, Blitz e Crawley 2019).

Questi eventi straordinari e nello specifico i vari naufragi che si sono susseguiti a partire dal 2013, hanno favorito una serie di iniziative politiche dell’Unione che verranno racchiuse nell’Agenda europea per la migrazione, la quale puntava da un lato sulla criminalizzazione e dall’altro sul contenimento delle migrazioni: a partire da questo momento si sono create situazioni potenzialmente non conciliabili nella misura in cui, se da un lato le realtà nazionali sono state stimolate a ridiscutere la politica migratoria, dall’altro per sopperire alle necessità di sicurezza interna dei singoli paesi non si è manifestata attenzione verso i diritti umani né da parte degli Stati né da parte dell’Unione Europea. L’unica parte dell’Agenda che rispecchiava effettivamente l’impegno europeo nella protezione dei diritti umani erano gli schemi di ricollocazione e reinsediamento dei migranti dall’Italia e dalla Grecia verso gli altri paesi dell’Unione. Vennero inoltre istituiti degli hotspots in questi due stati per meglio gestire l’elevato numero di arrivi e di richieste, ma le istituzioni europee non hanno mai definito il modo in cui essi dovevano operare, portando ad una diversa implementazione nei due paesi. La successiva nascita della rotta balcanica ha portato ad ulteriori crisi dato che i paesi balcanici hanno risposto con la chiusura delle proprie frontiere: il Sistema di asilo europeo, Dublino e Schengen venivano così tutti messi in discussione. La decisione da parte dell’Ungheria di costruire una barriera lungo il confine ha creato poi un precedente per eventuali future iniziative. Con i numeri in Grecia che continuavano a non diminuire, l’Europa ha iniziato ad elaborare un piano congiunto con la Turchia per contenere i flussi, che porterà nel 2016 alla firma dell’accordo UE-Turchia. Tale accordo, nonostante le numerose critiche arrivate da parte dell’opinione pubblica, è riuscito nel suo intento per cui si pensava alla possibilità di replicarlo con la Libia, cosa che verrà fatta dall’Italia l’anno successivo. La politica europea, dunque, si concentra nel “chiudere” i paesi di transito principali con lo scopo di diminuire gli arrivi, ma così facendo si mette in secondo piano la protezione dei

(29)

29

migranti da abusi e trattamenti disumani in paesi quali la Libia e la Turchia (Baldwin-Edwards, Blitz e Crawley 2019).

Analizzando gli eventi fino a qui elencati, sono molti gli aspetti che possono portare a parlare di una risposta europea fallimentare nei confronti della crisi migratoria. Innanzitutto, da parte degli attori coinvolti è venuto meno il principio europeo di solidarietà, per cui di fronte ad un apparente minaccia, gli Stati membri tendono a far prevalere il principio di sovranità statale a protezione dei propri confini. Questa situazione ha evidenziato quindi il contrasto tra il principio di solidarietà e la sovranità statale, per cui l’Unione europea ha incontrato delle limitazioni nella sua capacità di azione ai casi in cui gli Stati membri gli hanno devoluto il potere. Istituzioni europee quali la Corte di giustizia si trovavano quindi in difficoltà poiché non erano in possesso di meccanismi di implementazione della propria giurisprudenza, nel caso in cui uno Stato membro fallisse nell’attuare la legge nel rispetto degli altri Stati membri o dei cittadini di Stati terzi (Borg-Barthet e Lyons 2016).

Un altro aspetto rilevante che è emerso come conseguenza di questi avvenimenti, è il fatto che anni di costruzione di una maggiore libertà per coloro che risiedono nell’Unione hanno portato ad un confine esterno sempre più forte e impenetrabile. La protezione di queste frontiere esterne ha introdotto quindi dei controlli progressivamente più stringenti nel tentativo di ridurre i flussi in arrivo. L’outcome è stato però diverso da quello sperato, ovvero maggiori controlli non hanno portato ad una diminuzione dei flussi ma semplicemente ad un aumento dei tentativi di ingresso illegali i quali comportano anche l’adozione di mezzi più rischiosi per l’incolumità dei migranti (Metcalfe-Hough 2015). Nell’Unione le “politiche di crisi” hanno svolto un ruolo fondamentale negli ambiti di policy dove i governi degli Stati membri erano più riluttanti a trasferire le competenze alle istituzioni sovranazionali. Le crisi spesso richiedono risposte urgenti ed eccezionali, con il rischio che ciò vada contro gli equilibri creati dal principio di legalità, visto dagli attori securitari come un ostacolo al raggiungimento dei loro interessi e delle loro agende improntate alla sicurezza. A tal proposito e in linea con quanto già ampiamente analizzato da diversi autori, sembra che l’Unione Europea abbia utilizzato strumentalmente il concetto di crisi al fine di sostenere o prolungare determinate politiche controverse, a

Riferimenti

Documenti correlati

padus fruits showed the following bioactive compound composition: four cinnamic acids (caffeic, chlorogenic, coumaric, and ferulic acids), four flavonols (hyperoside,

Il settore penale ha registrato una intensa e significativa partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea anche sotto il profilo della

Le riunioni di coordinamento sul contenzioso europeo, convocate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento per le politiche europee, d’intesa con l’Agente

Alla luce di quanto era emerso rispetto alle violazioni dei diritti umani nei paesi ACP destinatari di aiuti allo sviluppo, nel 1978 la CE decise di avviare

A valle dello svolgimento della campagna di prove sperimentali, e dell’elaborazione dei dati ottenuti, è possibile fare alcune considerazioni. I) le prove

Specifically, they highlight a difference in the relative expression of certain sarcomeric genes (i.e., Myl2 and Myh7), with the fetal aorta being a dominant site in their study

“The Struggle for Justice” showcases the determined men and women—from key nineteenth-century historical figures to contemporary leaders—who struggled to achieve civil rights