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Le presenti appendici mirano ad approfondire, integrare e rendere più agevole la conprensione del discorso condotto nei capitoli IV e V.

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(1)

353

A PPENDICI

Le presenti appendici mirano ad approfondire, integrare e rendere più agevole la conprensione del discorso condotto nei capitoli IV e V.

L’A

PPENDICE

I è la trascrizione dell’unico autografo del Floridante di Bernardo Tasso, il codice Marciano. Siamo infatti persuasi che riportare alla luce le prime volontà dell’autore riguardo alla nascente opera fosse punto di partenza imprescindibile per formulare “Ipotesi sul Floridante”; oltre a ciò, la tormentata stratigrafia del codice – soprattutto relativa al primo canto – imponeva un’operazione di questo genere per render conto della complessità degli emendamenti e per poter fornire una completezza di dati per gli studi futuri. Infine, abbiamo ritenuto che tutto il discorso critico e testuale presente nel cap. IV sarebbe stato meglio comprensibile facendo ‘parlare il testo’ e dando la possibilità di constatare con i propri occhi i dati da cui siamo partiti, avendo scelto di prendere in analisi, per esempio, anche la disposizione grafica del testo e le fasi redazionali delle varianti interne al codice, per poi confrontarli con l’Amadigi ed il Floridante a stampa pubblicato da Torquato.

L’ A

PPENDICE

II e l’A

PPENDICE

III servono appunto a chiarificare il rapporto con l’Amadigi, da cui Bernardo desume la quasi totalità delle ottave dei primi otto canti del Floridante a stampa, per osservare concretamente in che modo l’autore operi l’intersezione tra le due opere: abbiamo infatti scelto di porre in

APPENDICE

due di quei testi che più mutano (mentre abbiamo inserito in nota tutte le varianti dei passi citati nei capitoli): il C

ANTO

VII dell’Amadigi (limitatamente alla parte relativa a Floridante, ott. I- XLVII), dove per la prima volta appare il principe di Castiglia, e che ovviamente nel Floridante muta nel senso di una totale focalizzazione sul protagonista (laddove nella prima opera di Bernardo l’attenzione era scissa tra Amadigi e Floridante), anche attraverso l’inserimento di circa cinquanta nuove ottave nel canto I, che hanno la funzione di presentare al lettore l’eroe e la storia (e che sono infatti presenti nel codice Marciano). L’A

PPENDICE

III è, invece, un confronto tra la descrizione della ventura delle

«Tre Riviere» nell’Amadigi (III XL-XLIX , anche se abbiamo inserito anche le ottave

XXVIII-XXXIX , di raccordo) e nel Floridante (II 41-48, più le 39-40 di raccordo), perché

questa prova nel maggior poema era prima tentata e persa da Alidoro (c. III e segg.), e

poi superata da Floridante (c. XI e XIV). Nella seconda opera del Tasso, la descrizione è

quindi vagamente ripresa dal canto III, ma poi la vicenda prosegue omologamente all’XI

ed il XIV..

(2)

354

L’A

PPENDICE

IV e l’ A

PPENDICE

V sono l’argomento dei canti dell’Amadigi omologhi al Floridante, e del Floridante, mentre l’A

PPENDICE

VI è la tabella riassuntiva delle corrispondenze tra i due poemi, ottava per ottava, divisa tra quelle interamente scritte ex-novo da Bernardo, quelle omologhe (le due colonne centrali), e quelle cassate dal Tasso (quale dei due?) nell’Amadigi perchè funzionali a riallacciarsi ad un nuovo cavaliere o perché incipit o explicit di canto, ovviamente non più necessarie in questa nuova opera con unità di eroe. L’A

PPENDICE

VI riguarda, quindi, solamente i primi otto canti del Floridante, ovvero quelli omologhi ai ventitre ‘spezzoni di canto’ dell’Amadigi; e così, parallelamente, anche i primi otto canti dell’A

PPENDICE

V sono divisi in capoversi rientrati che ricalcano la divisione dei canti dell’Amadigi (viceversa, quando il capoverso non è rientrato significa che le ottave del Floridante si trovano nell’ultimo canto dell’

Amadigi citato con rientro) pur avendo scelto di non segnare le ottave corrispondenti, per le quali si rimanda all’A

PPENDICE

VI (vi sono infatti delle singole ottave cassate, deducibili dalla tabella, nella cui ultima colonna diamo qualche riga di descrizione).

Specularmente, quindi, l’argomento dei primi otto canti dell’A

PPENDICE

V è pressochè

identico a quello dell’A

PPENDICE

IV, canti VII-XLVII: ma qui è narrato con molta

minor copia di dettagli, anche perché l’intero ‘riassunto’ dell’Amadigi è stato preso

(riveduto e corretto) dall’ Indice dei personaggi del volume di M. M

ASTROTOTARO

, Per

l’orme impresse da Ariosto. Tecniche compositive e tipologie narrative nell’Amadigi di Bernardo

Tasso, Roma, Aracne, 2006. Questa iterazione ci è sembrato il miglio modo per marcare

l’operazione ‘di addizione’ che il Tasso compie per far nascere il nuovo poema dalle

ceneri del vecchio e, d’altra parte, il modo più economico per narrare quale sarebbe stata

la conclusione del Floridante, secondo quanto affermato da Bernardo nel «disegno

dell’opera», inviato a Torquato con la lettera del 24 dicembre del 1563 (per la quale si

veda il cap. IV). Nell’A

PPENDICE

V abbiamo quindi cercato di essere quanto più possibili

aderenti al testo, citando (in corsivo) anche le parti che ci siano sembrate significative, o

in qualche modo legate a luoghi ‘torquateschi’, con particolare attenzione ai ‘canti dei

cavalieri’.

(3)

355

A PPENDICE I

L’

AUTOGRAFO

M

ARCIANO DEL

F LORIDANTE

Gli emendamenti da noi attuati sul testo sono di lieve portata, avendo adottato un criterio decisamente conservativo, e si limitano a ripristinare la corretta successione del nesso in che, nel manoscritto, si trova invertito in ni in quattro casi: I 39 5 (ni); II 3 3 (nicominciò); II 33 5 (nifamia); II 50 1 (ni); inoltre, in I 29 2 alla lezione donar abbiamo sostituito dono (Fatt’ai pastor dono di molto argento), in II 20 1 a pitate, pietate, in II 27 4 a dor, d’or; abbiamo restituito la forma accentata a «Questo canto | è copiato» e quella doppia alle scempie fero (ferro) in I 10 8 ed Erand’andò (Errand’andò) in I 27 4.

Registriamo, poi, la presenza di tre versi ipometri, a causa dell’espunzione di una variante: I 6 1; III 6 3; III 31 1 e di un verso ipermetro in III 58 3 (da noi ripristinato con l’espunsione di che piuttosto che ancorché che). Abbiamo, infine, sciolto le abbreviazioni utilizzate per n, m, er (Bernardo accenta la vocale o la consonante precedente) ed operato la distinzione tra u e v. La punteggiatura nel manoscritto è pressoché assente: pochi sono i punti, le virgole (spesso poste dopo la congiunzione et) ed i punti e virgola, mentre mancano quasi del tutto i trattini che segnano il discorso diretto (in rari casi troviamo un punto in alto), i punti esclamativi ed interrogativi; abbiamo, perciò, cercato di essere quanto più possibile conservativi e di introdurla con parsimonia, cercando di favorire il ritmo dell’ottava, che ha un suo limite intrinseco nella fine di ogni singolo verso, ma marcando gli enjambment che, in alcuni luoghi, sono piuttosto forti e segnano una pausa densa, che imprime al testo un ritmo differente.

In A

PPARATO

forniamo tutte le varianti precedenti la redazione definitiva, indicando accanto al numero dell’ottava manoscritta, in grassetto, quello corrispondente a stampa, in corsivo e tra parentesi tonde: laddove non vi sia corrispondenza, lo marchiamo con il simbolo (≠), mentre diamo per implicita l’omologia delle prime 25 strofe del Canto Secondo con le prime 25 del canto X a stampa. Nel canto ‘di Icasto’, invece, vi sono ottave di altra mano (cfr. cap. IV, pp. 143-44): nella trascrizione abbiamo utilizzato due differenti tipi di carattere, per rendere evidente anche la ‘composizione grafica’ delle pagine del codice. Un ultimo dato relativo a questi tre canti è la presenza di varianti segnate con un inchiostro differente, leggermente più tenue e dal tratto più sottile, che dimostrano uno stadio di revisione successivo ai numerosi aggiustamenti operati in fieri:

in

APPARATO

abbiamo utilizzato il grassetto per evidenziare questo aspetto.

Rimandiamo anche in A

PPARATO

per la Tavola dei segni adottati nella trascrizione:

(4)

356 Nel nome di Dio ho cominciato il mio

Floridante il XXIIII di Novembre del M.D.LXIII

il mercoledì

1r

Del Floridante del sig. Ber.

Tasso

CANTO PRIMO

1r sx

1

] Canto l’alte fatiche e i lunghi errori Di Floridante gran Principe Ibero, Allhor che da desio d'eterni honori Spinto, lasciando il suo paterno Impero Per gire in Francia, a gli amorosi ardori Aperse il petto giovenetto et fiero, Et da l'Atlante a i regni de l'Aurora Cercando andò l’amata Filidora.

1r

2]

Aspirate voi, Muse, al canto mio:

Voi, ch'eternar solete i nostri carmi, Sì che non possa il Tempo invido e rio Col suo vorace dente ingiuria farmi;

Mostrate il dritto calle al mio desio, Che brama di cantar gli amori et l’armi Di quello invitto Heroe, ch'aprì la strada Di gir al ciel col senno et con la spada.

1r sx

3

] E voi, gran Duce, a cui de l'alte sponde Serba il Mincio ad ogni hora i frutti e i fiori, Cui porta il corno suo le lucid’ onde Col fondo pien di perle et di thesori;

Cui dà la Fama, dove il Sol s'asconde, Dove si mostra, sempiterni honori:

Gradite il picciol don c’hor l'humil mia Cetra, col canto suo darvi desia.

1v

4

] Già s’era il gran romor sparso per tutto Che 'l fiero Re d'Irlanda in Francia andava, Et c’havria Perion morto et destrutto Quel regno, con la gente ardita et brava Che 'n gran numero seco havea condotto, S'a la sua intentione iniqua et prava Non s'opponeva la pietá infinita

Di quel, che con sua morte a noi diè vita.

5

] Et perch’ a Perione era sorella Di Floridante l'alta Genitrice, Tosto ch’intese la mala novella Del Re suo Zio, il giovane felice Un suo fidato camariero appella Et a lui solo il suo secreto ei dice, Certo ch'l padre, sapendol, gli havria Al suo nobil desio tronca ogni via.

6

] Già fatto cavalier giorni prima

(5)

357 L’havea ‘l suo Genitor, da lui pregato:

Da lui che, roso da un'ardente lima, D'esser fatto più volte havea cercato;

Ch'anchor che fusse ne l'etá sua prima Era ne l'armi et le fatiche usato, Et sovente uccideva orsi e cinghiali Col ferro sol, et varij altri animali.

7

] Tosto che 'l sol nel liquido elemento Tuffò le chiome sue aurate e belle, Et la sorella col suo crin d'argento

Del cielo ornava hor queste parti, hor quelle, A donar fine al suo pensiero intento,

Col picciol lume de le prime Stelle Secreto si partì con salibero,

Che seco gli adduceva armi e destriero.

2r

8

] Et verso fonte rabbia il suo camino Preso, perché per mare era ispedito, Sovra un’ armato e corredato pino Lasciar dopo la mezza notte il lito.

Tre giorni andò senz’impeto marino Provare, o vento avverso, il legno ardito;

Il quarto, proprio al sorger de la Luna, Si fece l’aria intorno oscura e bruna.

9

] A poco a poco cominciaro i venti A combatter col mare e con la terra;

Parea che l’aria co i bassi elementi Facesse cruda et perigliosa guerra, Cadevano dal ciel fulgori ardenti

Con tal furor che ciò ch'incontra atterra;

Parea di fiamme tutta l'aria piena, Sì Giove irato ogn’hor tuona e balena.

10

] Corr’hor il flutto verso tramontana Et Hor vers'ostro e preme ambe le sponde;

Il nocchiero, che vede ogn'arte vana, Timido si conturba et si confonde:

Fa levar l'artimone et la mezzana, Poi ch’ al desir l'effetto non risponde Et disperato homai di prender porto, Fa ne l'onde gittare il fero torto.

11

] Et dopo quello un’ altro, ma non giova, Che l'impeto del mar ambi i i transporta.

Arano i ferri e 'l buon nocchier non trova Dove possa tener la nave sorta;

Ad hor ad hor de' venti si rinova L'ira et la rabbia, sì ch’ogni ritorta

Sibila e stride, e ‘l mar rugge e s’ ingrossa, Tanto ch’ogn’onda sembra un Pelio e un ossa.

2v

12

] Non sa il Pilota accorto il tal periglio

Che rimedio pigliar, perché l'horrore

Il priva di memoria et di consiglio

E tremàr falli et palpitare il core;

(6)

358 In tanto hor questo, hor quel vento il naviglio

Caccia et respinge et fa sempre maggiore L'ira del verno, il muggito et la rabbia Del flutto ondoso et pien d'alga et di sabbia.

13

] Non può 'l fido timon regger la nave, Nè a règger il timon vale il nocchiero:

La procella ad ogn’hor si fa più grave, L'aere più denso e nubiloso e nero;

Caggion fiumi dal Cielo, ond’ ogniun pave Che si sommerga il gran nostro hemispero;

Pien di discordia è ’l Ciel, la Terra e 'l mare, Però non san che consiglio pigliare.

14

] Nuovo era il pino et forte et corredato Ben d'ogni arnese, ma la forza è tale De l'impeto del mar, ch'ogni hor più irato Fa quel che suole machina murale, Tal che comincia il destro e 'l manco lato Del saldo legno a sentir il suo male, Et a cadere ad hor ad hor ne l’onda Alcun'asse sdrusita da la sponda.

15

] Non fu Cittá giamai battuta intorno Da tonde palle di ferro aspro e duro, Che fan talhor tremar tutto il contorno, Scuoter la Terra e ruinare il muro, Come da l'ond’ è questo legno adorno, Di sommergersi homai fatto securo Nel vasto sen del gorgo horrido et rio, Se non l'aiuta la pietà di Dio.

3r

16

] Già l’onde, rotte dal furor insano Di Borea et d'ostro, s'inalzavan tanto Che da la destra et da la manca mano Entrava ne la nave il flutto franto;

Ogni consiglio, ogni rimedio è vano Fuor che di Dio, a cui volte con pianto Et le voci e i pensier, tutti devoti, Il pregano, et li fan promesse et voti.

17

] Con saldo cor, con l’animo costante, Quasi che non paventi il mar, nè 'l vento, Conforta i Marinari Floridante

Et fa ciascuno al suo servigio intento;

In questa, con furor, Borea le piante Fè volger al nemico in un momento, Sparir le nubi et serenare il giorno E’l flutto fare al suo camin ritorno.

18

] Prend’ animo il Nocchiero et grida forte, Giá ricovrati i sensi et la parola,

Che si salpin dal mar l’anchore torte E spieghi al vento la mezzana sola;

Ciascun de' marinar, tolto a la morte

Di man, leggiero al suo uffitio vola

E 'l legno, spinto dal vento secondo,

Fende per forza il flutto alto et immondo.

(7)

359

19

] Ma perché ogn’hor crescon del vento l'ira

E’l grande orgoglio, il conquassato pino Con tal velocità la vela tira

Che sì lieve non va Tonno o Delfino;

L'avveduto nocchier, che ciò rimira Et s'accorge di far troppo camino, Chiude la vela et col Trinchetto solo Va presto sì, che par che vada a volo.

3v

20

] Il dì sequente, allhor che Febo uscìo Da l'onde, discoprì Dobla et Antona Et vide dove Cluda et Thao et Dio Al britannico mar tributo dona;

Di pigliar porto a Dreppi havea desio, E 'l lieve Abete con più vele sprona Il buon Nocchier, ma il vento era sì stretto Che d'andar verso Scotia ei fu costretto.

21

] Alquanto inanzi al tramontar del sole In Aberdonia giunse et ivi scese:

D'esser là trasportato assai si duole, Ch'a gir in Francia havea le voglie intese;

Pur, di veder per le selve herme et sole Le venture li giova del paese,

Che son strane diverse et infinite, Di cui ha tante meraviglie udite.

22

] Era dal mar sì travagliato e stanco Che posò tutto de la notte il resto;

Ma, come il lume suo purpureo et bianco Ci discoperse il dì, subito desto,

Postesi l’arme et con la spada al fianco, Il destrier chiese et vi montò su presto, Per fuggir l’otio e per trovare alcuna Ventura degna de la sua fortuna.

23

] Del donzello del Mare il grido allhora Per quell’ Isola tutta risonava,

Et sol di lui udiva ad hora ad hora Gli alti pregi et le lodi, ovunque andava:

Tal che, di honesta invidia acceso, l’hora Non vedea di trovarlo et seco in prava Et dura et perigliosa aspra battaglia Mostrar al paragon quant’egli vaglia.

24

] Et in questo pensier fermo, d'intorno Solo per quelle selve errando giva;

Ma, mentr’ei passa de l’ardente giorno L’hore più calde a la fresca ombra estiva, Una donzella in vago habito adorno Vide, che poco lunge a lui dormiva;

La qual, poi desta, con lieto sembiante

Chiamol per nome et disse: – O Floridante,

25]

Io non vorrei che quel nobil desire

C'hai d'esser posto fra i piú degni heroi,

T'adducesse a far cosa onde a pentire

Et a forte dolerti havresti poi;

(8)

360 Però ti vo' com’ amica ammonire

Che 'l Donzello del Mar, con cui tu voi O di pugnare almen cercando vai, E’ tuo cugin, come da poi saprai. – 4r sx

26

] Risponder le voleva il giovenetto, Meraviglioso di tanta ventura:

Ma, come verso lei volse l'aspetto,

Sparve, com'a gran lume un'ombra oscura.

Questa fu Urganda, com'altrove ho detto, Che del Donzel del Mar presa havea cura;

Floridante restò stupito et mesto, Che gli fu il suo partir grave et molesto.

27

] Ivi posò, sin che del sole ardente Si fer tepidi i rai ne l’ombra estiva;

Tutto del lungo giorno il rimanente E[r]rand’andò per una fresca riva, Senza giamai trovar casa ne gente;

Pur, allhora che l’aria s’imbruniva, Ritrovò di pastori una capanna Tutta tessuta di giunchi et di canna,

28

] Che l’invitar con molta cortesia Et di latte gli dier dolci vivande;

E ‘l suo scudier, ch’onde cibarsi havria, Pose inanti al suo Sire altro che ghiande;

Letto fu l’herba fresca, ove il copria Co’ suoi frondosi rami un arbor grande:

Ivi dormì, senza cavarsi usbergo, Sin che diede la Notte al giorno il tergo.

29

] Ma, con la prima luce del matino, Fatt’ai Pastor donar [dono] di molto argento Et rese gratie lor, prese il camino

Per quell’hermo paese a passo lento, Con speme che facesse il suo destino Ad hor ad hor il suo desir contento, Et gli ponesse inanti impresa alcuna Che fusse degna de la sua fortuna.

30

] In questa, da lontan vide venire Sei armati guerrieri con l’haste in resta, Forte gridando: – Hor ti convien morire S’a la fuga non hai la voglia presta. – Come ‘l Hispano gli udì così dire Prende la lancia et si pon l’elmo in testa Et senza altro aspettar sprona il cavallo, Lieto come villan che venìa al ballo.

31

] Tre lo colpir e i tronchi rotti andaro come piccioli augej per l’aria a volo, Ma non lo mosser più che di gennaro un monte Borea sotto al freddo polo.

Gli altri tre, per la fretta, il colpo erraro Et le lancie gettar, pieni di duolo:

Ma Floridante l’un col tronco uccise,

Un’ altro, sol con l’urto, in terra mise;

(9)

361

32

] Et volto agli altri, senza stare a bada,

Che ‘ntorno lo ferian col brando in mano, Con furor tanto divalla la spada

Ch’un ne mandò, tronco in due pezzi, al piano Et forz’è anchor che’l cavallo cada,

Sì fu quel colpo oltra misura strano:

Quel morto in tutto et questo da una piaga, L’herbette intorno di gran sangue allaga.

4 r

33

] Fra tanto il re, che come il proprio core Amava il figlio et seppe la partita,

Nasconder non potea il suo gran dolore, La pena sua che grave era, infinita.

Tutta la real corte andò a romore Et la Reina, mesta et sbigottita, Piagne; piagne la figlia et non s'udia Altro che di dolor fiera armonia.

34

] Ben il Re si pensò ch'esser devea, Per soccorrer il Zio, in Francia andato, A cui a torto ingiusta guerra fea Il Re d'Irlanda fiero et dispietato:

Perché congedo d'andarvi gli havea Più volte chiesto et glie l’havea negato;

Lo intese certo, poi, da un camariero, Che sapea del suo Donno ogni pensiero.

35

] Al palagio reale insieme andaro Subito tutti i cavalieri erranti, El re turbato et mesto ritrovaro Et udir delle Donne i gridi e i pianti;

A le lor maiestá s'appresentaro Et li giurar su gli evangeli santi Di girlo, ovunque andasse, a ritrovare Et con lui star, né senza lui tornare.

36

] Non volse il Re, che saggio era et prudente, Ch'andasser tutti et sol dieci n

elesse,

D'illustre grido et fama alta eccellente Sovra quant'altri ne la corte havesse;

Al suo giudizio restò patiente

Ogniun di loro, anchor che gli paresse Ricever torto, et quei senza dimora Se ne partir dopo la terza Aurora.

4v

37

] A licenza pigliar ciascun di loro Venner da i Regi et da le care amate, Con armi ricche et sopraveste d'oro Et di seta et d'argento ricamate.

Il primo fu di questi Lampadoro, Prence di portogallo, de la etate Di Floridante, che per la sorella Ardea d'amor in fiamma dolce et bella;

38

] Portava ei per impresa un chiaro sole

Nel quale s'affisava il sacro augello,

Che sopra scritte havea queste parole

(10)

362 In latino sermon: – Nulla è piú bello. –

Cleante è l'altro, ne le piagge sole D'affrica nato, et portava un ruscello Pieno d'aurate et di minute arene,

Et dicea 'l motto: – Son tante mie pene. –

39

] Il terzo Cavaliero era Silvano,

Conte di Fiandra valoroso et fiero:

Una cerva ha, che segue un fort’ alano Di pelo bianco et lionato et nero, Che in idioma havea colto et Romano Scritto di sotto: – Di pigliarla spero. – Il quarto di Costoro è Florimarte, Che ben sapea de la militia l'arte;

40

] Era principe questi di biscaglia Ardito e forte, et per impresa porta Un foco acceso in gran monte di paglia, Con molto fumo et con la fiamma morta E scolto sovra: – Al mio stato s'aguaglia. – Filidor l'altro, che chiusa la porta

Di Giano adduce et sovra ’l Tago regna, Di sangue illustre et casa antica et degna.

5r

41

] Il sesto che seguiva era Circasso Di real sangue et nome haveva Aronte, Et scolto ha nel cimier colui che 'l sasso Spinge per forza in cima a l'alto monte Che poscia riede ruinando a basso, Ond'ei ritorna a le fatiche conte,

Con lettre impresse nel contorno aurato Che in greco dir volean: – Tal è 'l mio stato. – 5r sx

42

] L’altr’era Hipparco, giovenetto audace Nato sul Mincio et di lui Donno e Duce, Nemico naturalmente di Pace,

Che sul cimiero fra piú gemme adduce Una facella che gran lume face;

Dicea l’inscrition: – Tal mi conduce. – Con questo sempre andava Tesifonte Che bene l’Istro et di conte:

43

] Haveva ne lo scudo un Alicorno Che dormia d’una verginella in seno, Et scritto haveva al bel campo d'intorno In lettre d'oro: – Ahi, chi m'ha posto il freno! – Un cervo Affranio, candido et adorno,

In mezzo un prato fiorito et ameno,

C’haveva duo gran veltri, un nero, un bianco, Che gli mordevan l’uno et l’altro fianco,

44

] Con un monile al collo ove scritt'era:

– Chi mi consiglia? – Il decimo fu Urgante, Che portava scolpita una lumiera

Chius'in una lanterna di diamante,

Con lettre che àvean: – Perché non pera? –

Questi era di statura di Gigante,

(11)

363 In Frisa nato di Tartara Madre

Et di gran Stato et figliuol di gran Padre.

5r

45

] Tutti lieti partir di compagnia, E catalogna e i monti di Pirene Lasciar a tergo, et dove al mar s’invia Rodano, sceso da l’alpestri vene:

Senza trovar, in così lunga via, Cosa che far a Cavalier convene;

Ov’ hebber la novella ch’Amadigi, Ucciso il Re d’Irlanda, era in Parigi

46

] Et che fu per figliuol di Perione Con letitia di tutti conosciuto;

Et li narraro, anchor, per qual cagione L’haveva il Re suo Genitor perduto;

Et ch’ucciso il Gigante have e ‘l leone Anchor fanciul, sol per donar aiuto A la figliuola del gran Re Lisuarte, La cui bellezza suona in ogni parte.

5r sx

47

] Et per ciò far ch’a lor si richiedea, Al gran Re Perion tutti n’andaro:

Da cui raccolti fur come devea Sì degni cavalieri un Re sì chiaro;

Trovar ch’anchora Amadigi giacea Piagato in letto et a lui s’inchinaro, Del suo raro valor inteso il grido Onde sonava già questo et quel lido.

48

] Et inteser da lui che Floridante Duo mesi prima in Scozia havea trovato, Che di voler passare il mar sonante Con lui contra Abiuso(?) havea giurato:

Ma il ciel gli pose una ventura inante Che lasciar con su’honor non gli era dato, Cui, posto fin, saria tosto venuto

A dar al Zio contra il Tirano aiuto:

49

] – Ma, per quanto noi inteso habbiam da poi Da chi prevede ogni futura cosa,

Con meraviglia et duol di tutti noi, Egli ha presa un’impresa aspra et noiosa Contra l’Incantatore e i figli suoi

Che reggono la selva perigliosa, Et giurato col petto ardito et forte Di dargli fine od incontrar morte.

5r inf.

50

] Il che farà, se pur human valore A donar fine a sì gran fatto vale, Perché forza maggior o maggior core Di lui, haver non puote huomo mortale;

Et ben che il Falso iniquo incantatore Ne l’arte maga più d’ogni altro vale, Gli darà aiuto Dio, che senza danno

Fuggirà ogni sua insidia ogni suo inganno. –

(12)

364

5r inf dx

51

] – Andate pur, che ‘l troverete, io spero, Vittorioso di sì degna impresa:

Siede la selva ne lo scoto impero, Già sessant’anni da quel Mago presa;

Vi mostrarà d’andarvi ogni sentiero Una gran face del su’ honore accesa, Tal di lui il grido suona in ogni parte Che già la fama ha le sue lodi sparte. – 5v sx

52

] Lieti, questi Guerrier peser licenza Et pigliar verso scotia il suo camino;

Et v’arrivar insieme uniti, senza Trovar intoppo d’avverso destino:

Et tal de l’ocean fu la clemenza Che salvi v’arrivar l’altro mattino.

\

\

5 v

53

] Ivi detto gli fu con lor piacere C’haveva Floridante a la ventura Già dato fine de le tre riviere, Celebre molto et perigliosa et dura, Onde ciascun, di comun parere, Prese un sentiero, lieto oltra misura, Con speme di trovar ove potesse Lasciar del suo valor vestigia impresse.

CANTO SECONDO

1] Chiuso ne’ suoi pensier Cleante giva Solo, per una selva ombrosa et folta, Tenendo gli occhi fissi in quella Diva

Ch'Amor gli havea nel core impressa et scolta;

Et giunto dove una fontana viva

Spargea l’acque sue fuor, con copia molta, Un scudier vi trovò, che si lagnava Forte de la sua sorte iniqua et prava.

2

] Et intese da lui che 'l suo Signore, Giovene, bello, valoroso et forte, a forza spinto da soverchio amore, O forse da la sua maligna sorte, D'una Dama reale ardea d'amore Da cui giá condannato era a la morte, Sol perché egli aveva havuto ardire Di dirle l'amoroso suo desire.

6r

3

] Et pregato da lui che conto farli Volesse il caso, di pietá ben degno, Cosí piangendo incominciò a narrarli:

– Una Donzella, o feminile ingegno, A cui rodeano il cor ben mille tarli D'ambition, sí come arido legno Deliberato havea, se ciò pur basta, Di viver sempre mai vergine et casta.

4

] Et perché di Cittadi et di castella

(13)

365 Era ricca, et di sangue illustre et chiaro,

Vaga, leggiadra, gratiosa et bella, Sí che può star con le piú belle a paro, Fatt'una legge havea spietata et fella Contra la qual non è schermo o riparo:

Che chi d'amor parlarle ardire havesse In pena de la testa allhor cadesse;

5

] Et ch'essa istessa di sua propria mano Mandasse la sentenza a compimento:

Fatt'havea fare, in mezzo un largo piano, Per donar fine al suo crudele intento, Un tempio di lavor leggiadro e strano, Cinto d’intorno di colonne cento Con egual spatio, et pinto nel contorno Quante mai Donne caste al mondo forno;

6

] Et a la Castitá sacro l'havea, Sí come a Roma fu giá quel di veste:

Sovra d’un ricco altar stava la Dea, Coperta d’un bel vel le membra honeste, Ma, folto sí, che nulla trasparea

Del corpo fuor, e al suo servigio preste Cento vergini havea belle et leggiadre, Ch'eran di mille cor rapaci et ladre.

7

] Andò 'l giovene un dí, come solea, Al ricco tempio, perch’ella v’andava, Et la trovò ch’inanzi a quella Dea China et humíl divotamente orava.

Et mentre gli occhi a rimirarla havea Intenti, et ella intenta ad altro stava, In lui con tanta gratia i lumi volse, Che per forza dal petto il cor gli tolse.

6v

8

] Egli era un Cavalier di gloria vago, Prode del corpo et d'animo gentile, Che sol di ben oprar contento et pago Abborriva ogni cosa infame et vile:

Solo Signor del gran Castel del lago, Ch'in Scotia non è pur tenuto a vile, Et per amor di questa in oblio pose L'arme, l'honore et tutte l'altre cose.

6v sx

9

] Talhora, per diporto, la Donzella Sen gìa cacciando fuggitive belve, Come solea la casta diva in quella Felic’ etá, per alte ombrose selve:

Né perché lieve caprio, o damma snella, Da i cani a forza spinta si rinselve, Ritorna a casa, ma segue la traccia Tanto, che nuova e larga preda faccia.

10

] Andava seco et l’era sempre al fianco

Co i veltri a lassa, il giovenetto amante,

Rendend’ il viso ogn’hor pallido e bianco

Ch'ella in lui rivolgea le luci sante:

(14)

366 Sospirava talhor, veniva manco,

Et ne gli atti il mostrava et nel sembiante:

Ond'ella, accorta, ben ch’altro fingea, L’ardente amore e’l suo duolo vedea.

11

] Né le dispiace, anchor c'haggia la mente Sí rubella ad Amore et sí gelata,

Et la sua legge accusava sovente Et dura la chiamava e dispietata:

Il mirava talhor sí dolcemente Et con la vista di pietá sí ornata,

Che 'l meschinel, se ben paventa et teme, De la sua cruda legge ha qualche speme.

12

] Ma non è ver ch'amore a nullo amato Perdoni, poi ch'a lei non arse il core.

Il Cavaliero alfine, in preda dato Al senso giá Tiranno, al suo dolore, Un giorno, ch'ella il fe' lieto et beato Con la dolcezza d'un guardo d'amore, Pien di timor: – Mercé, disse, vi chero, – Et le fe' manifesto il suo pensiero.

13

] Di ch'ella, irata oltra misura, il segno Mostrò, nel volto di pallor vestito, De la colera sua, del suo disdegno, Et pigliar fece il Cavaliero ardito, Il qual volse soffrir quell'atto indegno:

Che d'esser preso non havria patito, Per non offender lei ch'amava quanto S’ama la vita, o cosa cara tanto.

14

] Varij pensier facean fiero contrasto Ne la feminil mente: et l'un chiedea Giustitia ognhor, ch'era pudico et casto;

L'altro pietá, che d'amor tutto ardea:

Il cor, ch’anchor non era in tutto guasto Dal velen’ amoroso, non sapea

Dove inchinarsi, e in tal dubio ella stava Sempre in battaglia perigliosa et prava.

6v

15

] Pur, destinata d'adempir la legge, Per il seguente giorno ordine diede Che doman fia, se quel che tutto regge Di pietoso soccorso nol provede:

E chi mi mira ne la fronte, legge il grave duol che mi percuote e fiede:

Per questo piango et piangerò ad ogn'hora, Mentre il vitale spirto in me dimora. – 7r

16

] Un affetto gentil mosse a pietate Il nobil cor del Cavaliero errante, Che le fiamme d'amor havea provate Et di soccorrer si pensò l'amante;

Et dimandò s’ a quest'uffitio armate Genti menava la Donzella, et quante:

Et intendendo che dieci guerrieri

Et gli altri contadini e suoi terrieri,

(15)

367

17

] disse al valletto: – Andiam, fammi la scorta,

Che la bontá di Dio ci dará aita:

In lui, non in me, spera, et ti conforta Ch'io provarò di salvargli la vita;

Andiamo pur la strada piú corta, Benché sia piú selvaggia et piú romita, Ch'io vo' veder se Donna saggia et bella Fia tanto a la pietá cruda et rubella. –

18

] Et egli a lui: – Signor, gli è sí vicino Il ricco tempio a la giustitia eletto, Che 'n du' hore farem tutto il camino, Con comodità vostra et con diletto;

Et questa sera a casa d 'un vicino Del Padron mio havremo cena e letto, Et da lui forse consiglio prudente Di ciò che far debbiate in tal periglio. –

19

] Parve l'avviso buon de lo scudiero Et presero il sentier verso quel loco Dov’ un pallagio haveva il cavaliero, Lunge dal tempio, ch'io v'ho detto, poco:

Et v'arrivâr ch'anchora a l’aere nero Il bel lume del dí non dava loco;

Dal quale fur, con molta cortesia, Accolti et rincontrati in su la via.

7v

20

] Intesero da lui che per pietate Ch’al fine haveva la Donzella avuto Del gran valore et de la gran beltate Del cavalier, da tutti conosciuto, Per suo maggior honor et dignitate Dentro il pallagio suo l’havea tenuto, Con guardia buona in una ricca stanza, Ov'a vederlo gía fuor d'ogni usanza;

21

] et che 'l misero giovene pregata L'havea piú volte, afflitto et sí dolente Et con parole tai, ch'humilïata

Avria una Tigre o fiero altro serpente;

Ma ch'ella, sempre fiera et ostinata, Non poteva inchinar la dura mente A le preghiere sue e gratia farli, Et castigo minore e pena darli.

22

] Pur, che si conoscea che giá il veleno Dolce d'amor beveva a poco a poco, Et che nel feminil gelato seno Ad arder cominciava un lento foco:

Ch'ella il mirava con un guardo pieno D'amorosa pietá, né per ciò loco Voleva dar a la pietá lo sdegno, Il che vedeasi aperto a piú d'un segno.

23

] Faceano questi duo nel molle core De la gentil Donzella una gran guerra;

Et eran lor Padrini Amor et Honore,

Tal c'hora l’uno, et hor l'altro, s'atterra:

(16)

368 Havevano ambi doi forza et valore

Nel casto petto; al fin cadeva in terra La pietá stanca et da lo sdegno vinta, Ma non, mercé d'amore, in tutto estinta.

8r

24

] Era l'hospite suo, del cavaliero Preso, parente et caro amico, et spesse Volte di lui salvar fece pensiero:

Ma modo non vedea come potesse,

Che quanto al mondo havea, sotto l’impero Ha de la Donna, ond'a la fine elesse D'haver patienza et sofferir in pace Ciò ch'a l’iniquo suo destin più piace.

25

] Ma, con l’aiuto di Cleante, il quale Mostrava fuor di gran virtute havere, Pur si deliberò, ch’ o bene o male Gli n'avvenisse, far’ il suo dovere.

Venuto il giorno forse a lui fatale, Ch’a farlo lieto il suo destin prescrisse, Che in vece di martír gli diè piacere, Con tre altri su' amici al tempio andaro Armati sotto di lucente acciaro,

26

] Deliberati di star fermi, tanto Che vedessero il cor de la Donzella, Che creder non potean che fosse tanto A mercede, ad amor, cruda et rubella.

Nanzi al solenne altar, ma lunge alquanto, Sotto una ricca, una ducale ombrella, Fatt’ era un palco tutto intorno intorno Di negri panni di veluto adorno;

27

] Sovra la mensa, in cima al palco tesa, Era da un canto il micidial coltello, Che far deveva a sí bel collo offesa;

Da l’altro un vaso d’or, leggiadro et bello, Pien d'acqua rosa, e una tovaglia tesa Di piú color che non ha penne augello, Ove le man contaminate et prave Di sangue, dopo il crudo uffitio lave.

8v

28

] Sovra d’ un carro spatioso et grande, D'avorio d'oro e d'hebano contesto, Tutto adorno di sopra et da le bande Di ferale cipresso, era quel mesto

Baron: et fuor da' suoi begli occhi spande Lagrime rare, che pietá havrian desto In una alpestre selce; e, incontro a lui, Chi dovea donar fine a i giorni sui.

29

] Un manto haveva il poverel vestito Et lungo sino a i piè, d'oscuro panno;

Et, benché fosse afflitto et scolorito, Non può la sua beltá celar l'affanno:

Ahi fiera Donna, a che crudel partito

Hora ti vedi? O che gran guerra fanno,

(17)

369 Per privarti di Gioia et di diletto,

Questi varij pensier dentro al tuo petto?

30

] Ella veniva in maiestate assisa, D'habito adorna il qual solea portarsi, Et che portó, la disperata Elisa Allhor ch'ella volea la morte darsi;

Co i capei di fin’ oro, in quella guisa Che le spose recar sogliono sparsi Sovra le spalle, e 'n testa una corona Ch'ad ogni gran thesor si paragona.

31

] Cela pur, se celar la fiamma poi, Che nel tuo petto homai arde et avampa!

Rinchiudi pur nel core i pensier toi, Che lucon fuor con cosí chiara lampa!

Giá ti sembra, crudel, ne gli occhi soi, Veder di morte la spietata stampa, Et non ti penti, ahi vana ambitione!, De la sua morte et de la sua cagione.

9r

32

] Teneva fissi i begli occhi nel viso De l'innocente, che mercé chiedea Con tal dolor, c'havria vinto e conquiso Qual fiera in selva è piú spietata et rea:

Havea la Donzella in bocca il riso E piangea dentro, ov'altri non vedea, Giá destinata, col cor saldo et forte, Di dar a lui et a sé poi la morte.

33

] Ma quand'ella udí dirli: – Ingrato Amore, Vedi dove m'adduci? Ecco, io ti faccio Vittima del mio sangue et del mio core Et è il coltel de la mia Donna il braccio. – Ruppe il dolor, d'infamia ogni timore:

Et fredda fatta come neve o ghiaccio Disse, con un sospiro basso: – O ben mio non vedi qual sia dentro il mio desio?

34

] O quanto, lassa, io morirei contenta Se di tua man morir mi fosse dato

Dal mio destin; e’l maggior duol ch’io senta, E’ che mi sforza la mia legge e 'l fato

Di darti morte di mia man; ma spenta Che fia la vita tua, quel ferro irato Fará maggiore in me la piaga, et fia La tua vendetta poi la morte mia. –

35

] Et questo detto, benché far gran forza Volesse al duol che sì l’ange et martíra, Non pote: et fuora di lagrime amare Da gli occhi sparse del suo martir l’ira;

Cui l’infelice amante, che beare Si sentì da quel pianto, onde respira L'anima oppressa, lagrimando disse, Tenendo sempre in lei le luci fisse:

9v sx

36

] – Deh, non vogliate questa bianca mano,

(18)

370 Possente a dar altrui salute et vita,

Bagnar nel sangue mio con sí inhumano Uffitio, u' dare a me dovrebbe aita:

Dunque, se per soverchio amor insano, Havendo ogni ragion da me sbandita, Contra la vostra legge presi ardire Di chiedervi pietá, debb'io morire?

37

] O bella morte mia, mercede haggiate D'un servo a voi sí fido et sí leale, Che dar morte a chi v'ama feritate

Fia, senza esempio al mondo et senza eguale.

Deh, mano sí gentile non bagniate Nel mio sangue innocente: che piú vale Et piú si prezza una pietate honesta Ch'empia giustitia, a Dio grave et molesta.

38

] Uccidete chi v'odia et chi non brama Il vostro honor, la vita et la grandezza;

Non un che cerca d'acquistarvi fama, Cui idol è la vostra alma bellezza;

D’un che vie piú che la sua vita v'ama, Che nulla come il vostro amore apprezza;

Et ben il cor di Tigre et orsa havrete, Se con le vostre mane m’ancidete. –

39

] Mentr'ei cosí diceva, ella il bel viso Hor del color di porpora dipinge, Hor i begli occhi suoi mirando fiso Di timido pallore il copre et tinge.

Giá l'havea la pietate il cor conquiso, Se ben altro di fuor simula et finge:

Ma a la pietate honesta, al novo amore, Vuol prepor la giustitia ella et l’honore.

9v

40

] Volea risponder la gentil Donzella, Da la pietate vinta et dal desire;

Ma non consente la sua sorte fella Che possa solo una parola dire;

Da cosí fiera horribile procella Di contrarij pensier, non puote uscire:

La persuade Amor, Honor la sforza, Et la tempesta ogn’hor cresce et rinforza.

41

] Ma, lassa, poi che non vede altra strada Che la conduca in porto di salute,

Vuol ch'al suo fine la sentenza vada, Et cosí dimostrar la sua virtute:

A i caldi preghi del Guerrier non bada, Sorda com'aspe, perché piú non mute, Come giá fatto havea, pensieri et voglia, Sí come al vento exposta arida foglia.

42

] Quante Donne fur giá le torna a mente, Che per servar l’honor si dieder morte, Di cui di gloria una facella ardente Luce, mal grado di maligna sorte:

Con questo essempio rinovarsi sente

(19)

371 Il desir fiero di darsi la morte,

Et giunta al Tempio con un cor costante, Scese dal carro col misero Amante.

10r

43

] I dieci Cavalieri ivano inanti

Con gli elmi in testa et con gli stocchi al fianco;

Et dopo lor seguian mille et piú fanti Con arme et hasta et tutti armati in bianco;

Appresso a questi, Cavalieri alquanti Senza arme indosso; indi il misero et stanco Amante, con le man dietro legate,

Ch'ogni aspro et duro cor mosse a pietate.

44

] Veniva alfin la bella empia Guerriera Di castitá, la sua dolce nemica,

Con gravi passi et con la fronte altera;

Et seco a par, una signora antica, De' suoi dissegni fida consigliera, Con una schiera di Donne ch’amica Hebber Natura: et gratiose e belle Ornan la Terra come il Ciel le Stelle.

45

] Sul palco fu menato il Cavaliero Mentre la Dama intentamente orava:

Et stava come afflitto prigioniero Che de la morte il termine aspettava.

Cleante, che rivolto havea 'l pensiero A liberarlo, alquanto dubitava Che potesser tutti cinque solo, A forza torlo a così grosso stuolo.

46

] Sorge la Donna et con un lento passo Va verso il loco a la giustitia eletto;

Et, volti gli occhi ove qual freddo sasso Immobil stava il vago giovenetto, D'ogni speranza sua privato et casso, Si sente un gran timor nascer nel petto, Tal ch'a tremar cominciò tutta, quale Chi fredda febbre a l'improviso assale:

10v

47

] Di che s'accorser tutti i circonstanti Et ch'ella si pentisse hebber gran speme;

Ma, quanto andava piú la Donna avanti, Tanto piú crescea 'l duol che l'ange et preme:

Monta su 'l palco co i piedi tremanti E quanto è piú vicina a lui piú teme, Sí gran pietate desta in lei Natura, Che de la vita nostra ha sempre cura.

48

] Le s'inginocchia inanzi il giovin bello, Mercé chiedendo con singulti et pianto, Sembrando quasi mansueto agnello Che vicino a la gola ha il ferro tanto:

Ma, tosto ch'ella man pose al coltello

Et d'un bel velo si coperse il manto,

Per nol macchiar, inalzò il popol tutto

Strepito tal qual suole ondoso flutto.

(20)

372

49

] Cadde il ferro di mano a la meschina,

A quelle voci degne di pietate;

Ed ella poco poi cadde supina, Col viso smorto et le membra gelate:

Parea purpurea rosa che da brina Coperta giace, la sua gran beltate;

Rinovò il pianto il popolo pietoso, Ma di salir sul palco è nessun òso.

50

] Cadde in quel punto al giovenetto il core, S'egli pur core haveva, e 'l grido alzando, Verace testimon del suo dolore,

Forte piangeva, il suo nome chiamando.

O nuovo et raro miracol d'amore!

O caso veramente miserando!

Cadd'egli, anchora, tramortito, esangue:

Par fior che tocco da la falce langue.

11r

51

] Il pianto rinforzar le Damigelle, Battendo palma a palma, e 'l popul tutto, Tal che 'l grido n'andò sovra le Stelle;

Né rimase in quel tempio un occhio asciutto Agli alti stridi et sí dolenti, a quelle

Querule voci, che parean un flutto Di mar turbato; la Donzella aperse

Gli occhi e 'l suo amante steso in terra scerse.

52

] Prende il coltello et disperata dice:

– Per che 'l duol non m'uccide, acerbo e strano, Et la morte a lui dare a me non lice,

Che nol consente Amore, questa mia mano M'anciderá, per dar a l'infelice

Vita et perdon del su' ardir folle vano. – Cosí dicendo et per ferirsi, il braccio In alto sollevò, fredda et di ghiaccio.

53

] Ma, come vide ciò, spedito et presto Sul palco, per pietá, saltò Cleante:

Et con un modo cortese et honesto Ritenne il colpo a la misera amante.

Sí nobil atto parve al popol questo, Che non è alcun che non lo pregi et vante;

Ma cadde la Donzella, tramortita, Senza mostrar alcun spirto di vita.

54

] Allhor, correndo, la matrona ascese Et le Donzelle meste et dolorose;

E 'l buon Cleante subito discese, Ma, prima, il ferro micidiale ascose.

La nobil Donna per la man la prese E nel grembo, aiutata, se la pose:

Le fe' slacciare il manto et le spruzzaro Di quell'acqua rosata il volto caro.

11v

55

] Tornò lo spirto nel bel petto allhora Et vedendo l’amante tramortito,

Disse: – Ohimé, lassa, et pur convien ch'io mora,

(21)

373 Poi ch'è tutto il mio ben con lui finito:

Egli è giá morto et io pur vivo anchora, Ingrata: né può il duol, grave, infinito, Darmi la morte; – et quinci il braccio stende Per pigliar il coltel, ma il vento prende.

56

] In piedi s'alza, et furiosa et folle Corre veloce ove l’amante giace,

Sempre piangendo; et con gli gridi estolle Il grave duol, che seco non vuol pace:

Non così d’acqua una caldaia bolle Posta sul foco d'una gran fornace, Come bolliva dentro de la Donna il core, Col foco sotto del suo caldo amore.

57

] Fe' subito portar acqua et aceto Et li bagnò le tempie, il naso e i polsi;

Et benché mostri allhor tacito et cheto Di star di fuor, forse di dentro duolsi.

Non può piú la Donzella il suo segreto Amor celar, che da chi puote, volsi:

Fa medici chiamare et con gran cura Donar soccorso a la debil natura.

58

] Et s'allhor l'honestate e la ragione Non havesser fren posto al suo desire, Fatto havria ciò che sovra il caro Adone Venere fe', quando il vide morire.

A poco a poco il suo gentil Campione Aperse i languid'occhi et gli udí dire:

– Apri quest’occhi, homai, caro mio bene Et mira il mio martíre et le mie pene. – 12r

59

] Non so pensar qual allegrezza sia Di questa di costui maggiore, o pari, Tra gli accidenti che la buona et ria Fortuna adduce, e i fati empi et avari:

Però trovar non sa la Musa mia Alcun piacer human ch'a lei compari;

Egli era morto et de la gratia privo De la sua Donna, et hor gli è caro et vivo.

60

] Di novo s'inginocchia et a lei chiede, Con parole atte ad ammolire i marmi Et a tor l’ira al mar, pietà e mercede.

Più forza este parole hebber, che i carmi Di saggia strega che il Ciel sforza et fiede:

L'alzò da terra et che perdono parmi Non sol li dia, ma ch'ella il chieggia a lui, De la fierezza et vari pensier sui.

61

] Subito il fa spogliar la negra vesta Et coprir d'un leggiadro et ricco manto.

La letitia fu tal, tanta la festa, Che di saperlo dir non mi dò vanto.

Dal palco lieta scende, ove sí mesta

Ascese dianci: et con un dolce pianto

D'amor, presol per mano, Dio ringratia

(22)

374 Et di mirarlo non si vede satia.

62

] Và, fra la turba, co gli occhi cercando Il Cavalier che le salvò la vita

E 'l braccio le ritenne, allhora, quando Dar si voleva la micidial ferita,

Tanta obligation non obliando, Che porterá nel cor sempre scolpita;

Trovollo al fine et con un atto honesto L'obligo suo gli fece manifesto.

12v

63

] Et ben conobbe al signorile aspetto, A l'armi ricche, a la real presenza, Ch'egli era Cavalier prode et eletto, Di nobil sangue et di molta eccellenza, Forse venuto per dare al diletto Suo sposo aita et far che la sentenza Si revocasse: et da lui il seppe poi, Che le fe' manifesti i pensier suoi;

63

] Indi, il pregò con molta cortesia Ch'al maritaggio suo fusse presente.

Fa la statua levar, ch'ella havea pria Adorata cosí devotamente:

Et per l'inanzi vuol che 'l Tempio sia De la Madre di Dio, cui riverente Chiede perdon del suo sí lungo errore, Nato d'ambition di vano honore.

65

] Indi, di compagnia sul carro assisi, Con gridi et allegrezza universale, Che si vedeva ne' ridenti visi

Del volgo, che fuor mostra il bene e 'l male, Al pallagio tornâr, con gli occhi fisi

L'uno ne l'altro et con diletto tale D'ambo gli Amanti, ch'io non so vedere, Tra le gioie del mondo, egual piacere.

66

] Fur con gran pompa et con trionfi egregi Le nozze celebrate di costoro,

Et dati molti doni et molti pregi A chi fecer le giostre ad honor loro:

Le ricche vesti, le ghirlande e i fregi Da varie sete et rare gemme et oro, La liberalitá, che piú s'aprezza, Fer testimonio de la lor grandezza.

Fine

13r

C

ANTO

1

] Va il grande Icasto ove il destrier l'adduce, Col desire, che mai sempre l'accompagna, Di trovar quell'eccelso inclito Duce Di cui, dovunque il mare il lito bagna, D’ardente gloria una facella luce:

Et prende per error verso Bertagna

Il suo camin, che non sapea la strada,

(23)

375 Né dove per trovarlo inanti vada.

2

] Et così andando, scorse un lieto coro Di fanciulle intorn’ a una fontana, Che con le treccie inanellate et d'oro Facevan del giorno ogni gran luce vana;

Solo tre cavalieri eran con loro, A piedi armati, et poco indi lontana Una matrona di reale aspetto, Che di guardarle si prendea diletto.

3

] Volge il destriero in quella parte et sprona, Tirato forse a quel piacer dal senso:

Ma di bianche cervette, una corona, C'havean le corna d'òr, vide et, accenso D'alto desio, dov'era la Matrona Si volge, pieno di stupore immenso.

Ma que' tre Cavalier forte gridaro:

– Indietro torna, se 'l viver t'è caro. –

4

] Ond'ei, non uso a sopportar tant'onta, L'elmo et lo scudo chiede al suo scudiero Et, perch'erano a piè, da caval smonta, Et và verso di loro ardito et fiero.

Uno de' tre, c'havea la man piú pronta, Se gli fe' incontro e disse: – O Cavaliero, Se pur andar non vuoi per la tua via Hor hor t’accingi a la battaglia ria. –

13v

5

] Et egli a lui: – Signore, io son venuto Per farvi honor et non onta et oltraggio, Et s'havessi il voler vostro saputo Men saria forse andato al mio viaggio;

Ma 'l vostro grand'orgoglio conosciuto, A me non mancherá forza et coraggio Per darvi a diveder che per timore

Mai non soglio in oblio porr’il mio honore.

6

] Era quel cavaliero ardito et forte, Però, spinto da l'ira e da lo sdegno, Questo avversario sfidò a la morte;

Ma 'l desir d'ambi lor giva ad un segno:

Pongono mano a i brandi et fu, per sorte, Il primo il Cavaliero a dar il segno Del suo valor, con una gran percossa Che gli fece intronar la carne et l'ossa.

7

] Ma men grave non fu quella d'Icasto, Che menò un colpo periglioso et strano Che certo l'haveria consunto et guasto, Se non se gli volgea la spada in mano:

Che 'l ferro non havria fatto contrasto Contra quel brando, che di rado invano Menava i fieri colpi; ma, ben tosto, Da l'ardito guerrier gli fu risposto:

8

] Che 'l ferro gli tagliò de lo spallaccio

La carne insino a l'osso, et fu ventura

Sua che non li recise anchora il braccio,

Ma l'aiutò di Dio pietosa cura.

(24)

376 Non si sgomenta il Cavalier, ch'impaccio

Poco gli dá la piaga atroce et dura:

Divalla con tal furia il brando crudo Che per traverso gli tagliò lo scudo.

14r

9

] Non con tal rabbia, col veleno in bocca Al povero villan s'aventa un angue, Che gli habbia col baston la testa tocca, Onde doglioso se n'adira et langue, Come d’Icasto dal braccio trabocca Sì gran percossa, che di maglia et sangue L'herba cosparge, et fagli una gran piaga Che non risanarà fuor ch’arte maga.

10

] Durò quattr'hore et piú l'aspra battaglia Tra questi duo, senza posar giamai;

Ma che d'Icasto la virtú prevaglia Sembra et ne l'altro venga manco assai:

Veggio di sangue et di piastre et di maglia Tutto d’intorno sparse, tal c’ homai, Guerrier, s’altrui favor non ti dà aita, Senz'alcun dubbio perderai la vita.

11

] In questa, l'aria, nebbia atra et oscura Coperse sí, che non si scerne il giorno;

Né occhio è alcun d’humana creatura Che si possa vedere un palmo intorno:

Pur, poi ritornò serena et pura

L’aria et fu del suo Sole il Cielo adorno:

Ma questa nebbia ad un con seco ascose Il Guerrier, la matrona et l'altre cose.

12

] Icasto, pien di strana meraviglia, Che tai cose non era uso a vedere, Volto c'hebbe d'intorno ambe le ciglia, Piagato et stanco si pose a sedere;

Il buon scudiero unguenti et pezze piglia Per medicarlo, che con seco havere Soleva sempre per bisogno tale, Il qual sovente il suo signore assale.

14v

13

] Ma a l'improviso una Donzella appare, Che grida a lo scudier: – Non fare, aspetta, Che non potria la tua virtú sanare

Piaghe sí grandi, – et di venir s'affretta.

Giunta, subito il fece disarmare Et cavossi dal lato un'impolletta, Picciola et piena d'un aureo liquore Che, bevuto, gli diè forza et vigore.

14

] Poi medicò le piaghe ad una ad una Con succhi d'herbe et d'incantati carmi, Tal che d’Icasto le gran piaghe in una Hora del tutto che sanasse parmi;

Quinci disse: – Signor, poi che fortuna,

Et non altrui valor, v'ha rotte l'armi,

Quelle ch'a quell'abete appese sono

Vi manda Argea: et non è picciol dono,

(25)

377

15

] Perch'ella sa che tosto tosto havrete

Bisogno di quest'armi et de l'ardire Che qui, in presenza sua, dimostro havete Contra quel franco et animoso sire.

Dice che Floridante cercarete

Piú giorni invan, perché uopo gli è di gire A far vendetta d'una grande offesa, Pria ch'ei dia fine a la sua degna impresa. –

16

]Ciò detto, ella disparve: egli doglioso Restò, perché saper da lei volea

Dove foss'ito quel Guerrier famoso, Che di seguirlo giá disposto havea.

Poscia l’armi spiccò, meraviglioso De la ricchezza loro et si credea,

Perch’era la sua impresa impressa dentro, Che de l’inferno sia fatta nel centro.

15r

17

] L'armi lieto si pone et se n'adorna, Poi siegue ove l’adduce il suo destino.

Era la luna con l'adunche corna Ascesa in Cielo et giva al suo camino, Quando trovaro una gran casa adorna Ove, pinta d'azurro oltramarino Et d'altri color fini, era con arte Di Cildadan la pugna et di Lisuarte.

18

] Era d'un Cavalier giovane et tale Che d'usar cortesia non fu mai stanco:

Ma sí l’haveva Amor con l'aureo strale Trafitto fieramente il lato manco, Che se rimedio alcun non ha il suo male, Lasso, verrá fra pochi giorni manco;

Il quale, da lontano havendol visto, Scese ad accôrlo assai dolente et tristo.

19

] Anchor che lieto si mostrasse in volto Chiudeva il suo martíre in mezzo al core;

Ma, poi che l'hebbe allegramente accolto Et fatto quanto si deveva honore, Fu in un momento da' serventi tolto Et menato a la stalla il Corridore;

Et da loro non meno il suo Scudiero, Che, dal Padrone, accolto il Cavaliero.

20

] Et perché la Stagion calda et estiva Faceva desïare il fresco et l'òra, Menol d’ un fiume in su la fresca riva, Ch’al chin correva mormorando ogn’hora, Ove a l'ardente cane egli dormiva;

Ma, perch'ei sa come un Guerrier s'honora Di tal valor, qual mostra ne l'aspetto, Gli diè la miglior stanza e’l proprio letto.

15v

21

] Tosto gi fur molti scudieri intorno, Che con gran diligenza il disarmaro:

Et perché al fin giá s'inchinava il giorno,

In un vago ghiardin lieti cenaro,

(26)

378 Che d'acque, frutti et d'artificio adorno

Potea ben star con quel d'Alcinoo a paro;

Ma ad hora ad hora conturbava in vista Il miser Cavalier l'anima trista.

22

] Quanto piú cerca di celare il foco, Tanto piú gli arde l'amoroso petto, Tal ch'al martír, che cresce a poco a poco, Non può piú far contesa il giovenetto:

Di nasconderlo homai non è piú loco, Che fuori il mostra il varïato aspetto, Il perduto colore et la parola, Che gli restò parlando ne la gola.

23

] Trasse allhora un sospiro et tramortito Certo cadea, se non havea sostegno Da un suo fido scudiero, ch’avvertito L’aitò, allhor che di cader fè segno.

Sorse Icasto, che 'l vide a tal partito, Mosso a dolce pietá del caso indegno:

Et chiede a lo scudier qual cagion dia Al suo signor pena sí atroce et ria.

24

] – Soverchio Amor, rispose, e ‘l suo destino, Che d’ogni ben, d’ogni piacer l’ha privo, Et certo son che se favor divino, Moss’ a honesta pietá, non lo tien vivo, Acerba morte troncherá il camino Ben tosto a la sua vita, ond'egli è schivo, Sí che, di doglia et di furore insano, Uccider s’ha voluto di sua mano. –

16r

25

] Con acque intanto e varij altri argumenti, Atti a tornar il poverello in vita,

L'havevan’ aiutato i suoi serventi Et fatta in lui tornar l’alma smarrita.

Aperse gli occhi languidi et dolenti Et lagrimando disse: – Ahi la mia vita! – Et qui si tacque, vergognoso et tristo Ch'in tal atto il guerrier l'havesse visto.

26

] Ma, dal gentil Barone al fin pregato Piú d'una volta, che narrar gli piaccia L'empia cagion del suo misero stato, Né cosa che si possa dir gli taccia, Giurando per quel Dio che l’ha creato, Per il su’honore, dovunque uopo gli faccia Col brando in man, col petto ardito et forte, Di farlo lieto, o di ricever morte.

27

] Disse, con un sospiro alto et profondo, Del grave affanno suo messaggio vero:

– Signor, s'al desir vostro io non rispondo, M' havrete per scortese Cavaliero;

Ma 'l vostro non vorrei lieto e giocondo Animo perturbar, dicendo un vero Et certo essempio di miseria, ond'io Altro non ho che di morir desio.

28

] Amai ne' miei primi anni et amo anchora

(27)

379 Et amerò finch’a la Terra io dia

questa carne et quest’ossa, una signora, Piú che la luce et che la vita mia:

Et mi fu sorte sì benigna allhora, Com’hor m’ è cruda dispietata et ria, Che fu l’amor reciproco fra noi E concorde voler resse ambi doi.

16v

29

] Giunti a l'etá ch'a côrre il frutto e i fiori Del nostro amor homai si richiedea, Da i suoi ottenni et da i miei Genitori, Senza contrasto alcun, ciò ch'io volea;

Di queste nozze andâr tosto i romori Per questi regni, ond’ un Signor, c'havea Gran tempo il cor per lei caldo et cocente, Disegno feo di farmi ogn’hor dolente.

30

] Mentre ch'io de le nozze il dí aspettava, Che bear mi dovea piú che mai lieto, Ascaleon, che cosí si nomava Il cavalier, per messo hebbe secreto Avviso ch’ella sola se n’andava A un suo castel: onde, senza divieto La prese nel camin con le Donzelle, Le cui armi fur sol lagrime belle;

31

] Et lo potea securamente, Accompagnato da dieci Guerrieri, Perch'ella, che di ciò sapea niente, Non havea seco fuor ch’ otto scudieri.

A portarmi la nova imantinente Spiegò la Fama i vanni oscuri et neri, Tal ch'io, con molti, disperato andai Per ritrovarlo et non lo giunsi mai.

32

] Egli è Signore et del deserto Conte, De la persona valoroso et forte,

Ma sí superbo et pronto ai danni, a l’onte Altrui, ch'a torto a molti ha dato morte:

Difende in Scotia giá sei mesi un ponte C’ha sovra un fiume, et ha sí destra sorte C'ha giá di spoglie hostili et di trofei Sparso il campo di vinti afflitti et rei.

17r

33

] Ivi ad un suo castello ha lei menata Con invitta honestá, con molto honore:

C’havendol’ egli ardentemente amata, D’usarle cortesia gl’insegna Amore;

Et benché l’habbia spesso invan pregata Che per sposo lo pigli et Servidore, Che le possa far forza non sopporta

Amor, ch’è il suo Campione et la sua scorta.

34

] Io, doloroso de la mia sventura,

Da poi che s’hebbe provato ogni modo

Per ricovrarla, et trovata ogn’hor dura

La mente sua, c’havea già fitto il chiodo,

Disegnai di tentar la mia ventura

(28)

380 Et con la spada in man scior questo nodo,

O morir ne l'impresa: et un Cavaliero Amico gli mandai per messaggero,

35

] A pregar che volesse in singolare Battaglia meco combatter la Dama, Che di far questo non potea negare Se 'l suo valor corrisponde a la fama.

Egli, ch’era superbo, ricusare

Non volle et sodisfare a la mia brama Promise, con speranza, in tempo corto, Posseder lei, poi che m'havesse morto.

36

] Fu stabilito il dí de la battaglia Et, per piú sicurezza, il campo eletto Ne la corte del Re di Cornovaglia, Principe giusto et Cavalier perfetto.

Io, ben provisto di piastra et di maglia Et di destrier, con animoso petto, Da’ parenti et d’ amici accompagnato, M'appresentai quel giorno a lo steccato.

17 v

37] Lunga contesa fra noi due fu, pria Che fusse incominciata la tenzone, Perché seco menata non havia Colei che de la pugna era cagione:

Ch'io dicea di voler la donna mia S'egli era perditore Ascaleone.

Al fine il Re, da lui presa la fede Ch'ivi ei la menarebbe, a me la diede.

38] Durò tre hore e piú l'aspra e mortale Battaglia, ond'io sarò sempre dolente:

E infino allora, per la sorte eguale, De la vittoria in dubbio era la gente;

Volse a la fine il mio destin fatale

Che 'l mio destrier, che destro era e possente, Mi cade adosso homai debile e stanco, Per una piaga ria c’havia nel fianco.

39] Gravoso era il Corsier, io carco d'armi E per il gran travaglio alquanto lasso:

Pur feci forza di poter levarmi, Ma sempre a ricader tornava a basso;

In tanto scese Ascaleon per farmi E di vita e d'honore in tutto casso, E se non era presto il Re, quel rio Havrebbe pago il suo crudel desio.

40]Appena freno pose al suo furore L'autoritá del Re, che giudice era;

Io, che vedea perduto haver l'honore E ad un con quel la mia cara mogliera, Pregai che m'uccidesse il traditore:

E una piaga c'havea, mortale e fiera, Cercai piú volte con le man d'aprire, Disperato e bramoso di morire.

18r

(29)

381

41

] Et me n'andai dolente e sconsolato,

Come quello che in odio havea la vita;

Et egli sen tornò lieto et beato A dar la nova a la mia cara vita, Che pianse il suo et mio misero stato, Sì che n'hebbe quel fier pietá infinita;

Ma, per preghiere mai, né per promesse, Ottenne che per sposo ella il volesse.

42

] Di che, irato e sdegnoso oltre misura Volse, ma non poteo mai, farle forza, Ch’Amor, ch’havea di lei perpetua cura, Gli pone il fren, l’ira e lo sdegno ammorza, Et costumi cangiar gli fa et Natura

Et cortese et humíl tornar per forza, Dandogli speme d’ammollirle il petto Et a le voglie sue farlo soggetto.

43

] Con questa speme, assai patïentemente Sopportò l’ira del suo gran desio,

Talch'ella, che pur saggia era et prudente, Per dar rimedio al suo dolor e al mio, Un dí, ch’ei la pregava assiduamente Et le pagava con lagrime il fio, Gli rispose che sposa li saria Se ciò ch'ella bramava egli faria.

44

] Come ciò intese, piú che mai contento, D'addur sperando il suo desire in porto, Con fede le promette et giuramento Di far ciò ch'essa vuole, o restar morto;

Ella disse che ben era 'l suo intento D'essergli sposa: et fôra in tempo corto, Se fra sei mesi, ch'era breve spatio, Faceva il suo desio contento et satio.

18v

45

] – Farollo, o morirò, che pria d'aprile Sará prato senz'herba et senza fiori Ch'io vi manchi di fè, codardo, vile, O faccia sí gran torto a i nostri amori – Ei le rispose; et che non era stile

Di Cavalier che cari habbia i suo’ honori, Per paura di morte, o di perielio,

La cura del su’ honor porre in essiglio.

46

] Ond'ella, accorta, con molte ragioni Dando honesto colore al suo desire, Che volea, disse, ch'a tutti i Campioni Che venisser per lei seco a ferire Tenesse campo, con le conditioni E i patti honesti di potersen gire Col Vincitor; e i sei mesi passati Tutt'i diletti suoi gli havrebbe dati.

47

] Ei, che forse non è, come si tiene, Ardito et forte, di nuovo ha promesso La fede sua di sodisfarla bene,

O di morir, però col patto espresso,

Ohimè!, che giá mi sento ir per le vene

(30)

382 Il velen del mio duol: poi che concesso

Non m'è dato di far nuova contesa Et vincere o morire in quell'impresa.

48

] Tosto con lettre sue saper mi fece Il tutto la mia Donna, et mi pregava Ch'un Cavalier trovasse che 'n mia vece Fêsse la pugna perigliosa et prava:

Né sin hor l'ho trovato et non mi lece, Come piú d'altra cosa io desïava, Essendo stato vinto una fiata, Tentar di nuovo la mia sort’ ingrata.

19r

49

] Et di sei mesi i cinque son passati, Talch'ei, qual vincitor, si gloria et vanta:

Ella, piú tosto che mai far gl'ingrati Odïosi himenei, la doglia tanta Chiusa nel petto, tiene i modi usati:

E i suoi pensier nel cor cela et amanta, Deliberata et di morir disposta

Col ferro fisso a la sinistra costa.

50] Hor pensate, Cavalier, qual sia L'affanno mio, la mia maligna sorte, Havendo intesa la miseria mia;

E qual sia il duolo che per lei sopporte.

Io le farò per certo compagnia,

Poi ch'in vita non posso, almeno in morte:

E se 'l mio duol non m'aprirá la strada, L'aprirá questa mano e questa spada. – 51] Né piú dir puote, che dal dolor vinto, Che gli rodeva il cor col fiero dente, Cadde supino e, come fosse estinto, Nulla cosa piú vede e nulla sente.

Da pietà generosa Icasto spinto A dar soccorso lor volse la mente, Che non può consentir che vada inanti L'empio martir de' duo gentili amanti.

52

] Sorse il meschin non lungo spatio poi et volto: – Ahi, crudi, a che tenermi vivo – Disse, piangendo e sospirando a i suoi:

– In stato tal c'ho me medesmo a schivo? – Icasto, cui par che pietate annoi,

A lui: – Signor, come pensate, privo Più non sarete del divin soccorso, Che porrá forse al rival vostro morso.

19v

53

] Eccomi pronto ad accettar l'impresa Armato, inerme, a piedi et a cavallo:

Che invendicata non sará l'offesa Vostra, et fia castigato il grave fallo Di quel che tien la vostra Donna presa.

Andiamo pure al periglioso ballo

Senza dimora, che tosto vedrete

Che Cristo aspira a la ragion c’havete.

(31)

383

54

] Ne la vostra giustitia habbiate speme,

Di cui sará ministro il brando mio;

Sgombrate il duol che sí v'annoia et preme, Che in favor vostro è la pietá di Dio:

Il qual fará che sará spento il seme D'un huomo tal, d'un Cavalier sí rio;

Andiamo pur senza piú far dimora, Che lunga parmi ogni brevissim’hora. –

55

] A quel parlare, il mesto Cavaliero Fisse in lui gli occhi et ben conobbe ch'era Atto a ciò far, ch’egli diceva vero:

Et la doglia frenò, crudele et fera;

Gli occhi rasserenò, ch'un manto nero Di duol gli ricopria matina et sera;

E 'l ringraziò con un parlar cortese,

Ch'a quella impresa il bel Campion piú accese.

56

] Et da speme non vana consigliato L'istesso Cavalier mandò a chiamare, Che l'altra volta anchora havea mandato Il suo forte nemico a disfidare:

Perché era quel Baron ricco di stato Et di parenti, et huomo e d'alto affare;

Il qual, instrutto, portò l’ambasciata, Che non fu al Conte del deserto ingrata;

20r

57

] Il qual, del suo valore altiero andava Piú che non era d'uopo: e al paragone Il vederá de la battaglia prava,

Ch'a far havrá con quel gentil Campione.

Il campo eletto, come ei desïava, Fu sul suo ponte pria d'Ascaleone, Tolta la fede et poi col giurarnento Assicurato d'ogni tradimento:

58

] Che la Donzella anchor menata in campo Volse che fusse et data al vincitore

Per caro pregio, accioché che qualche inciampo Non gli ponesse inanti ira et furore.

Consente il fiero, che par che meni vampo Credendosi per certo haver l'honore De la battaglia et, con l’honor, colei Che rendeva i suoi dí dogliosi et rei.

59] Venuto il tempo a la battaglia eletto, Il Cavalier, che di null'altro ha cura, Tolto de' suoi parenti un drappelletto Che de la morte non havean paura, In compagnia del Cavalier perfetto, Quasi presaghi de la sua ventura, Andaro al campo, ove molti serventi Preparati gli havean gl’ alloggiamenti.

60] Stava appoggiato con la donna il conte, Che fra speme e timore era pensosa, Ad un balcon che riguardava il ponte, Onde veder si poteva ogni cosa.

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