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Conclusioni

Nonostante i passi in avanti compiuti in materia di tutela delle acque dall’inquinamento dai tempi della legge n. 319/1976 (c.d. legge Merli) fino ad oggi, il quadro normativo riguardante gli scarichi di acque reflue industriali risulta ancora abbastanza frammentario, non essendo prevista una disciplina specifica ed unitaria all’interno del d.lgs. n. 152/2006 (c.d. Codice dell’ambiente).

Quando si parla di tutela qualitativa delle acque, in effetti, ci si trova davanti un quadro estremamente variegato, sia per la molteplicità dei corpi ricettori oggetto di tutela (acque superficiali, suolo, sottosuolo, rete fognaria), sia per le diverse tipologie di acque reflue che possono essere scaricate (domestiche, industriali, urbane); la disciplina risulta poi ulteriormente differenziata se si tratta di sostanze pericolose o di altri specifici ambiti di tutela contemplati dalle numerose direttive europee (ad esempio, acque destinate alla balneazione, molluschicoltura, ambiente marino, acque destinate al consumo umano, ecc.).

Altro motivo di disomogeneità deriva, lo si è visto, dalla pluralità dei livelli normativi con i quali bisogna confrontarsi, essendoci da un lato una legislazione nazionale profondamente influenzata dall’imponente mole delle direttive comunitarie, dall’altro lato un importante spazio prescrittivo lasciato alla potestà legislativa delle Regioni.

Anche il sistema delle autorizzazioni e delle relative sanzioni risente, ovviamente, della complessità della disciplina, pur essendo stati compiuti ulteriori passi in avanti, nell’ottica della tutela integrata e della semplificazione, con l’introduzione delle discipline dell’AIA e dell’AUA.

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Certamente oggi si può considerare chiusa in modo definitivo la discussione sulla definizione di «scarico», ai fini dell’applicazione della normativa sull’inquinamento idrico. La questione era sorta, come abbiamo visto, durante la vigenza della legge Merli, la quale si prefiggeva di disciplinare gli scarichi di qualsiasi tipo, diretti e indiretti, a prescindere dalle modalità con le quali il refluo giungeva nel corpo ricettore, creando così dubbi circa i confini dei rispettivi ambiti di applicazione della normativa sulle acque e di quella sui rifiuti, che era contenuta nel D.P.R. n. 915/19821. Il problema si poneva per quelle operazioni, definibili come «scarico indiretto» (off site), che allontanavano dal luogo di produzione le acque reflue verso un altro e diverso impianto di trattamento, in assenza di un collegamento diretto con l’insediamento produttivo.

Con la prima definizione di scarico ad opera del d.lgs. n.

152/1999 (c.d. Testo Unico delle acque), la questione era stata risolta in modo soddisfacente2, delimitando la nozione alle sole immissioni dirette tramite condotta ed eliminando così la categoria dello scarico indiretto; al contrario, le operazioni off site, determinando la qualifica delle acque reflue come rifiuti liquidi, erano affidate alla disciplina della gestione dei rifiuti.

Tuttavia, il legislatore, nella definizione originaria di scarico contenuta nel d.lgs. n. 152/2006, aveva eliminato il riferimento all’immissione diretta nel corpo ricettore, reiterando la nozione di scarico indiretto e riaprendo inevitabilmente il dibattito.

Oggi, finalmente, la questione può ritenersi risolta, in quanto la nuova formulazione dell’art. 74, 1° comma, lett. ff), del Codice

1 A. ZAMA, La protezione del suolo e la disciplina dell’ambiente idrico, in L.

MEZZETTI (a cura di), Manuale di diritto ambientale, Cedam, Padova, 2001, pp.

500-501.

2 P. DELL’ANNO, Diritto dell’ambiente. Commento sistematico al d.lgs. 152/2006, integrato con le nuove norme sul SISTRI, sull’autorizzazione unica ambientale e sul danno ambientale, Cedam, Padova, 2014, pp. 42-43.

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dell’ambiente, in seguito all’intervento correttivo operato dal d.lgs. n.

4/2008, definisce lo scarico come «qualsiasi immissione di acque reflue effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione».

Il collegamento senza soluzione di continuità del ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore costituisce, dunque, il criterio di discrimine tra la disciplina dei rifiuti liquidi e quella delle acque.

Pertanto, affinché si abbia uno «scarico» e si applichi, di conseguenza, la normativa sulle acque di cui alla Parte terza, occorre che il sistema di collettamento non sia oggetto di alcuna interruzione o soluzione di continuità che impedisca il collegamento diretto; al contrario, le acque reflue che vengono scaricate off site e smaltite in un diverso impianto di trattamento sono assoggettate alla normativa sui rifiuti di cui alla Parte quarta del Codice dell’ambiente.

La riforma del 2008 è intervenuta anche, lo si è detto, sulla definizione di «acque reflue industriali», che nella formulazione originaria dell’art. 74, 1° comma, lett. h), del d.lgs. n. 152/2006, erano descritte come «qualsiasi tipo di acque reflue provenienti da edifici o installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti qualitativamente dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate nello stabilimento»; nella nuova versione, invece, i reflui industriali sono definiti come «qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici o impianti in cui si svolgono attività

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commerciali o di produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento».

Le acque reflue industriali, quindi, non sono più quelle semplicemente provenienti da edifici o impianti industriali, ma esclusivamente quelle scaricate tramite un sistema di collettamento.

Inoltre, non è più indicata la differenza qualitativa dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento3.

Quanto all’inciso «intendendosi per tali anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate nello stabilimento», riferito alle acque meteoriche di dilavamento, la sua previsione nella versione originaria del 2006 aveva indotto gli interpreti a ritenere che «quando le acque meteoriche siano, invece, contaminate da sostanze impiegate nello stabilimento, non debbano più essere considerate come “acque meteoriche di dilavamento”, con la conseguenza che dovrebbero essere considerate reflui industriali»4.

Si è visto come l’eliminazione di tale inciso abbia fatto nascere nuovi interrogativi sulla questione dell’assimilabilità delle acque meteoriche di dilavamento ai reflui industriali5, dovuti anche al

3 AA. VV., Manuale Ambiente 2014, IPSOA, Milano, 2014, p. 260.

4 In tal senso Cass. pen., sez. III, 4 settembre 2007, n. 33839; id., 30 ottobre 2007, n.

40191.

5 Giova ricordare che le acque meteoriche di dilavamento sono sottoposte a regolamentazione regionale, ai fini della prevenzione di rischi idraulici ed ambientali, nei casi previsti dall’art. 113, 1° comma: per gli scarichi provenienti da reti fognarie separate (cioè adibite a raccogliere esclusivamente le acque meteoriche di dilavamento) la Regione ha il potere di disciplinare le forme di controllo, mentre nel caso di scarichi provenienti da altre condotte (diverse dalle reti fognarie separate) la Regione può prevedere particolari prescrizioni, compresa l’eventuale autorizzazione.

Al di fuori di questi casi, le acque meteoriche non sono soggette a vincoli o prescrizioni (2° comma), fermo restando il divieto di scarico o immissione diretta nelle acque sotterranee (4° comma).

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susseguirsi di diverse pronunce della Cassazione sul tema, che hanno dato luogo, recentemente, ad orientamenti contrastanti.

In particolare, con sentenza del 22 gennaio 2014, n. 2867, la Sezione III penale della Suprema Corte ha superato i suoi precedenti indirizzi, affermando che la nuova formulazione dell’art. 74 «esclude ogni riferimento qualitativo alla tipologia delle acque, dal momento che è stato eliminato dal dato normativo sia il riferimento alla differenza qualitativa dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, sia l’inciso “intendendosi per tali (acque meteoriche di dilavamento) anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connesse con le attività esercitate nello stabilimento”, di talché sembrerebbe non più possibile oggi assimilare, sotto un profilo qualitativo, le due tipologie di acque (reflui industriali e acque meteoriche di dilavamento) né sembrerebbe possibile ritenere che le acque meteoriche di dilavamento (una volta venute a contatto con materiali o sostanze anche inquinanti connesse con l’attività esercitata nello stabilimento) possano essere assimilate ai reflui industriali».

Tuttavia, come abbiamo visto, tale indirizzo interpretativo, che esclude l’assimilabilità delle acque meteoriche di dilavamento alle acque reflue industriali, non è stato accolto nella successiva sentenza del 22 gennaio 2015, n. 2832, in cui la medesima Sezione della Cassazione, dopo un anno esatto, è ritornata sul tema affermando, al contrario, che «l’eliminazione dell’inciso, frutto di una precisa scelta del legislatore, sta ad indicare proprio l’intenzione di escludere qualunque assimilazione delle acque contaminate con quelle meteoriche di dilavamento: l’eliminazione dell’inciso, insomma, non ha affatto ampliato il concetto di “acque meteoriche di dilavamento”, ma, al contrario, lo ha ristretto in un’ottica di maggior rigore, nel senso di operare una secca distinzione tra la predetta categoria di acque e quelle reflue industriali o quelle reflue domestiche»; da tale

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constatazione, dunque, la Suprema Corte trae il principio secondo cui

«le acque meteoriche, comunque venute a contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non possono essere più incluse nella categoria di acque meteoriche di dilavamento, per espressa volontà di legge».

Abbiamo detto come una parte della dottrina6 abbia fortemente criticato quest’ultimo orientamento, dichiarando che le acque meteoriche di dilavamento, contaminate o meno e, nel caso lo siano, contaminate da sostanze connesse o non connesse con le attività esercitate nello stabilimento, non potranno mai venire ricondotte alle acque reflue industriali perché è lo stesso legislatore che dal 2008 ci dice che sono altra cosa rispetto a quelle. Richiamando una nota sentenza del Consiglio di Stato7, viene ribadito che le acque reflue industriali, per essere qualificate come tali, devono essere anzitutto scaricate; inoltre, si dice, le acque di dilavamento non possono certamente perdere la loro natura di «acque scese dal cielo» per il solo fatto che siano venute in contatto, una volta a terra, con sostanze o materiali connessi con le lavorazioni industriali, essendo peraltro insito e connaturato in tale tipologia di acque sia che esse “dilavino”, cioè entrino in contatto e trascinino i materiali che si trovano sul suolo, sia che questi materiali possano essere quelli risultanti da attività industriali svolte presso l’impianto di volta in volta considerato.

Di diverso avviso, invece, e forse più convincentemente, si dichiara altra dottrina8, la quale, tra i due orientamenti completamente contrastanti espressi a distanza di un anno esatto, ritiene preferibile

6 A. L. VERGINE, L’evanescente certezza del diritto. La “marcia indietro” della Cassazione in tema di acque meteoriche di dilavamento, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2015, n. 1, pp. 62-74.

7 Cons. Stato, sez. IV, 4 dicembre 2009, n. 7618.

8 G. AMENDOLA, Acque meteoriche di dilavamento: la Cassazione tentenna, in www.lexambiente.it.

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quello espresso nella seconda sentenza, anche se con qualche precisazione.

Appare chiaro, si dice, che il legislatore del 2006, nel delineare le varie categorie di acque, si è basato soprattutto sulla loro qualità e sul livello di contaminazione, perché è questo che conta ai fini della tutela ambientale; pertanto, se un’acqua originariamente meteorica, per effetto del dilavamento non si può più considerare qualitativamente diversa rispetto ad un’acqua reflua industriale, deve essere considerata essa stessa acqua reflua industriale, e non più meteorica.

A conferma di questa teoria, peraltro, viene richiamato l’art.

113, i cui primi due commi parlano di «acque meteoriche di dilavamento» senza fare alcun cenno alla possibilità di contaminazione, mentre, quando si profila nel terzo comma questa possibilità, si parla di «acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne». Pertanto, fermo restando che le acque meteoriche di dilavamento escluse dalla normativa generale sulle acque possono essere solo quelle «pulite» del primo comma non disciplinate dalle Regioni, tutte le acque, anche di dilavamento, contaminate o potenzialmente inquinanti non sono considerate acque meteoriche di dilavamento e sono soggette alla disciplina sulle acque di cui alla Parte terza del d.lgs. n. 152/2006.

La conclusione sull’assimilabilità, quindi, è la stessa raggiunta dalla Cassazione nella seconda sentenza, ma si fa una precisazione:

anche se un’acqua originariamente meteorica, per effetto di contaminazione da dilavamento non può essere considerata diversa da un’acqua reflua industriale, tuttavia sarà soggetta alla disciplina della Parte terza sull’inquinamento idrico prevista per i reflui industriali solo se incanalata in uno scarico diretto. Infatti, la modifica dell’art. 74, 1°

comma, lett. h) apportata nel 2008 – si dice – era in realtà finalizzata ad eliminare ogni dubbio in ordine alla differenza tra acque di scarico e rifiuti liquidi, con la sostituzione di acque reflue provenienti da con

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scaricate. Pertanto, in assenza di uno scarico diretto, o comunque di un intervento della Regione che stabilisca l’obbligo di convogliamento e depurazione, non sarà applicabile la disciplina sugli scarichi di cui alla Parte terza.

La questione resta però ancora irrisolta. Sarebbe auspicabile un nuovo intervento del legislatore, che definisca in maniera più chiara i confini tra le due tipologie di acque.

Peraltro, come si è avuto modo di constatare, l’importanza della definizione di acque reflue industriali deriva principalmente dall’obbligo di autorizzazione cui sono assoggettati i relativi scarichi, nonché dal regime sanzionatorio più duro previsto in caso di violazione delle norme riguardanti gli stessi.

Infatti, abbiamo visto che una delle regole fondamentali in materia di tutela delle acque dall’inquinamento, espressa fin dalla legge Merli, è che tutti gli scarichi devono essere preventivamente autorizzati (art. 124, 1° comma, d.lgs. n. 152/2006). Tuttavia, il quarto comma dello stesso articolo prevede, in deroga alla regola generale, che gli scarichi di acque reflue domestiche in reti fognarie sono sempre ammessi, nell’osservanza dei regolamenti fissati dal gestore del servizio idrico integrato; pertanto, il regime autorizzatorio previsto dalla legge si può considerare riferito essenzialmente agli scarichi industriali.

Come abbiamo detto, la complessità della disciplina sugli scarichi deriva anche dalla differente normativa prevista in relazione al corpo ricettore.

Infatti, la modalità ordinaria per scaricare i reflui è indirizzarli nelle acque superficiali (oltre che in fognatura), e cioè in un lago, in un bacino artificiale, in un torrente, in un fiume, in un canale, in un tratto di acque costiere oppure in acque di transizione9. Invece, gli scarichi

9 Per la definizione di «corpo idrico superficiale» cfr. art. 74, 2° comma, lett. h), d.lgs. n. 152/2006.

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sul suolo e negli strati superficiali del sottosuolo, nonché gli scarichi nel sottosuolo e nelle acque sotterranee sono vietati, tranne nelle ipotesi eccezionali indicate rispettivamente negli artt. 103 e 104 del Codice dell’ambiente.

La normativa risulta poi ulteriormente differenziata, lo si è visto, in caso di scarichi contenenti sostanze pericolose.

Ma fra i nodi più problematici che tuttora insistono sulla materia, emerge senz’altro quello della combinazione tra obiettivi di qualità e valori-limite di emissione, che costituisce il cardine della disciplina generale degli scarichi.

Infatti, l’art. 101, 1° comma, del Codice dell’ambiente prevede che tutti gli scarichi sono disciplinati in funzione del rispetto degli obiettivi di qualità dei corpi idrici e devono comunque rispettare i valori-limite previsti nell’Allegato 5 alla Parte terza10; tuttavia, le Regioni «nell’esercizio della loro autonomia, tenendo conto dei carichi massimi ammissibili e delle migliori tecniche disponibili, definiscono i valori-limite di emissione, diversi da quelli di cui all’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto, sia in concentrazione massima ammissibile, sia in quantità massima per unità di tempo in ordine ad ogni sostanza inquinante e per gruppi o famiglie di sostanze affini»

(art. 101, 2° comma).

In sostanza, i limiti di emissione agli scarichi idrici sono fissati dal legislatore nazionale nell’Allegato 5 alla Parte terza del Codice dell’ambiente; in particolare, per quel che ci interessa, nella Tabella 3 sono indicati i limiti per gli scarichi in acque superficiali e in fognatura, nella Tabella 4 i limiti per gli scarichi sul suolo e nelle Tabelle 5 e 3/A i limiti per gli scarichi di sostanze pericolose. Tuttavia,

10 Giova ricordare che l’art. 74, 1° comma, lett. oo) definisce il valore-limite di emissione come il «limite di accettabilità di una sostanza inquinante contenuta in uno scarico, misurata in concentrazione, oppure in massa per unità di prodotto o di materia prima lavorata, o in massa per unità di tempo».

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le Regioni possono stabilire valori-limite diversi, anche meno restrittivi, tranne nei casi indicati al secondo comma dell’art. 101, relativi agli scarichi di acque reflue urbane e agli scarichi contenenti sostanze pericolose. E’ chiaro, dunque, che la possibilità per il legislatore regionale di introdurre una disciplina derogatoria dei limiti di emissione può determinare anche una significativa differenziazione tra le varie normative regionali.

Come abbiamo visto, il collegamento dei limiti di emissione agli obiettivi di qualità dei corpi idrici viene introdotto nel nostro ordinamento dal d.lgs. n. 152/1999, che si caratterizza per un approccio completamente nuovo, in quanto il fine del legislatore non è più semplicemente quello di evitare l’inquinamento, ma è la qualità dell’acqua in positivo a diventare un obiettivo da perseguire11.

L’inefficienza del sistema è stata ben sottolineata in uno studio di qualche anno fa da D.P. Selmi, il quale ha osservato come, in particolare per la tutela delle acque, il meccanismo del tipo command and control possa rivelarsi insufficiente a garantire un’efficace tutela dell’ambiente, specie quando i limiti previsti dalle norme si basano sulla tecnologia di depurazione disponibile ad un dato momento, magari anche tenendo conto dei costi di installazione. In questo modo, si dice, il grado di inquinamento di un determinato corpo idrico finisce col dipendere, oltre che dalla efficacia dei controlli, dal numero di sorgenti inquinanti che gravano su quel particolare corpo ricettore12.

La Direttiva 2000/60/CE (c.d. «Direttiva quadro» in materia di acque) afferma, pertanto, la necessità di fissare obiettivi ambientali per raggiungere un buono stato delle acque superficiali e sotterranee in tutta la Comunità e impedire il deterioramento dello stato delle acque a

11 A. PIOGGIA, Acqua e ambiente, in G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2015, p. 268.

12 D.P. SELMI, L’applicazione degli standard di qualità dell’acqua negli Stati Uniti, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2004, n. 1, pp. 181-187.

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livello comunitario (25° considerando); più in generale, afferma l’obiettivo di raggiungere un buono stato di qualità per tutti i corpi idrici entro il 2015.

Il d.lgs. n. 152/2006 recepisce la «Direttiva Acque» e conferma sostanzialmente l’impostazione della legislazione previgente, riprendendo la struttura e la disciplina dell’abrogato T.U. del 1999.

L’art. 73 del Codice dell’ambiente, infatti, contiene al primo comma un elenco di finalità da raggiungere per la tutela delle acque superficiali, marine e sotterranee, tra le quali, in particolare, quella di prevenire e ridurre l’inquinamento e di conseguire il miglioramento dello stato delle acque; per il perseguimento di tali finalità, al secondo comma sono previsti specifici strumenti, tra i quali l’individuazione degli obiettivi minimi di qualità ambientale e per specifica destinazione dei corpi idrici e il rispetto di valori-limite di emissione agli scarichi.

Si è visto come il Codice dell’ambiente, conformemente alle direttive, avesse previsto al quarto comma dell’art. 76 che, mediante il Piano di tutela delle acque, fossero adottate misure affinché, entro il 22 dicembre 2015:

a) fosse mantenuto o raggiunto per i corpi idrici significativi superficiali e sotterranei l’obiettivo di qualità ambientale corrispondente allo stato di «buono» (con un termine intermedio al 31 dicembre 2008 per il raggiungimento dello stato di «sufficiente», previsto all’art. 77, 3° comma);

b) fosse mantenuto, ove già esistente, lo stato di qualità ambientale «elevato»;

c) fossero mantenuti o raggiunti, altresì, per i corpi idrici a specifica destinazione gli obiettivi di qualità per specifica destinazione di cui all’Allegato 2, salvi i termini di adempimento previsti dalla normativa previgente.

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Tuttavia, da una pubblicazione dell’ISPRA riferita al primo ciclo triennale di monitoraggio delle acque 2010-2012, si è potuto osservare come il nostro Paese fosse già in grande ritardo per il raggiungimento degli obiettivi di qualità fissati al 2015; infatti, dal documento emerge che lo stato ecologico dei fiumi monitorati risulta da «elevato» a «buono» per il 40% e inferiore al «buono» per il 60%;

lo stato di qualità dei laghi presenta una classe di qualità tra «elevato»

e «buono» per il 35%, inferiore al «buono» per il restante 65%; lo stato chimico delle acque sotterranee risulta per il 69,2% in classe «buono», mentre il restante 30,8% in classe «scarso»13.

Peraltro, come abbiamo visto, gli ultimi dati disponibili relativi alla Regione Toscana, pubblicati dall’ARPAT, non sono affatto rassicuranti, in quanto, dai risultati provvisori del 2014, emerge uno stato ecologico per i corsi d’acqua che circa nel 27% dei punti di monitoraggio ha raggiunto l’obiettivo uguale o superiore a «buono»;

per lo stato chimico la situazione è meno critica, con il 69% dei punti in qualità «buona». In generale, più critica rispetto ai corsi d’acqua risulta la situazione per laghi e invasi, il cui stato ecologico è in larga maggioranza «sufficiente», e per le acque di transizione, rispetto alle quali la totalità delle stazioni ha uno stato chimico «non buono»14.

Il quadro si è inevitabilmente complicato a seguito dell’attuazione nel nostro Paese della Direttiva 2008/56/CE (c.d.

Marine Strategy).

Per quanto riguarda la tutela delle acque marine, accanto ai tradizionali strumenti di command and control, fondati su meccanismi autorizzatori volti a regolamentare il rilascio di sostanze inquinanti da parte di una molteplicità di sorgenti, ovvero sulla previsione di

13 ISPRA, Ricapitolando l’ambiente – Annuario dei Dati Ambientali 2014-2015, in www.isprambiente.gov.it.

14 Cfr. Report ARPAT, Monitoraggio delle acque. Rete di monitoraggio acque superficiali interne, fiumi, laghi e acque di transizione - Risultati 2014, Firenze, 2015, in www.arpat.toscana.it.

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obiettivi di qualità dei corpi ricettori ancorati al rispetto di certi parametri fisico-chimici oppure di valori-limite relativi alle concentrazioni di sostanze inquinanti, il legislatore ha infatti previsto altri strumenti, che mirano a promuovere la qualità delle acque attraverso l’introduzione di obiettivi di qualità relativi allo «stato ecologico» o «ambientale» del corpo ricettore-mare15.

Come abbiamo visto, il d.lgs. n. 190/2010, attuativo della Direttiva 2008/56/CE, istituisce un quadro diretto all’elaborazione di strategie per l’ambiente marino e all’adozione delle misure necessarie a conseguire e a mantenere un buono stato ambientale entro il 2020. La strategia marina prevista si articola in quattro fasi16: la valutazione iniziale (art. 8), la determinazione del buono stato ambientale (art. 9), la definizione dei traguardi ambientali (art. 10) e la predisposizione dei programmi di monitoraggio (art. 11). Mentre tali fasi si sono già concluse, sono invece ancora in fase di elaborazione uno o più programmi di misure necessarie al conseguimento o mantenimento del buono stato ambientale (art. 12), anche se il termine previsto dall’art.

12, 8° comma, era il 31 dicembre 2015. Più precisamente, il Ministero dell’ambiente dovrà predisporre un programma di misure da intraprendere in funzione degli obiettivi ambientali, tenendo in considerazione il principio dello sviluppo sostenibile e l’impatto socio- economico delle misure stesse. Peraltro, i dati elaborati in tutte le fasi dovranno essere aggiornati, successivamente all’elaborazione iniziale, ogni sei anni per ciascuna regione o sottoregione marina (art. 7, 2°

comma).

Si può notare, dunque, la complessità del sistema che ne viene fuori, in quanto, mentre per le acque costiere (assieme alle acque

15 I. LOLLI, La protezione del mare fra tutela delle acque marine e tutela delle acque costiere, in Atti del Quarto Simposio Internazionale “Il monitoraggio costiero mediterraneo”, Livorno 2012, CNR-Ibimet, 2012.

16 Sul contenuto del d.lgs. n. 190/2010 cfr. Consiglio scientifico ISPRA, Il percorso attuativo della Direttiva sulla Strategia Marina, in www.isprambiente.gov.it.

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interne e alle acque di transizione) spetta alla Regione predisporre gli strumenti per il raggiungimento degli obiettivi di qualità, secondo quanto previsto dal Codice dell’ambiente, per le acque marine tout court, invece, la competenza è dello Stato, più precisamente del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, come previsto dal d.lgs. n. 190/2010.

Il MATTM, peraltro, oltre ad avere una competenza generale per la verifica di conformità dei piani e dei programmi, può anche incidere direttamente sui provvedimenti autorizzatori, modificando i limiti di emissione o le condizioni richieste per il rilascio dell’autorizzazione allo scarico. Da tale quadro derivano, inevitabilmente, notevoli problemi di coordinamento fra Regioni, Ministero dell’Ambiente e Autorità competenti al rilascio del provvedimento.

Con riguardo invece al sistema autorizzatorio, indubbiamente si è assistito, come già accennato, ad un’evoluzione della disciplina negli ultimi anni. Infatti, con un approccio maturo alle problematiche ambientali, volto alla tutela integrata e alla semplificazione, sono stati introdotti nel nostro ordinamento altri due tipi di provvedimenti autorizzatori, oltre all’autorizzazione allo scarico di cui all’art. 124 del Codice dell’ambiente: l’AIA, attualmente disciplinata dal Titolo III bis del Codice, e l’AUA, la cui normativa è contenuta nel D.P.R. n.

59/2013.

Come abbiamo detto, l’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale), prevista in attuazione della normativa comunitaria sulla riduzione e prevenzione integrata dell’inquinamento (c.d. IPPC), nasce dall’esigenza di superare l’approccio settoriale e di considerare l’interconnessione delle diverse forme di inquinamento riferibili ad una singola attività, in una visione complessiva del fenomeno inquinante17.

17 G. ROSSI, Funzioni e procedimenti, in G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2015, p. 83.

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Infatti, essa sostituisce le singole autorizzazioni per le emissioni nell’aria, nell’acqua e nel suolo, nonché quelle relative ai rifiuti, e si applica agli stabilimenti che svolgono determinate attività (chimiche, energetiche, minerali, di gestione dei rifiuti, di produzione e trasformazione dei metalli). A differenza dell’autorizzazione allo scarico, che è valida per 4 anni dal momento del rilascio, l’AIA ha una durata di 10 anni, prolungati a 12 o 16 in funzione premiale, a vantaggio di impianti in possesso di certificazioni ambientali.

A sua volta, l’AUA (Autorizzazione Unica Ambientale) si applica, invece, a tutti gli impianti non assoggettati ad AIA ed è volta all’adozione di un unico provvedimento che sostituisce diverse autorizzazioni ambientali, nell’ottica della semplificazione procedimentale. Essa, infatti, ha una durata molto lunga (15 anni) ed è adottata con un procedimento semplificato che coinvolge lo Sportello Unico per le Attività Produttive, con la previsione di tempi brevi per l’istruttoria e per l’adozione del provvedimento finale.

Si è visto, poi, come l’attività di controllo rivesta un’importanza fondamentale per la tutela dall’inquinamento idrico, in quanto consente da un lato di avere una conoscenza affidabile e aggiornata dell’evoluzione dei fenomeni antropici sul territorio, dall’altro lato, di verificare la validità delle scelte operate per la salvaguardia qualitativa e quantitativa dei corpi idrici e, nel caso, modificarle18. In particolare, si è posta l’attenzione sulla verifica del rispetto dei valori-limite di emissione dello scarico, che si svolge attraverso una duplice attività: il prelievo di un campione e la successiva sottoposizione ad analisi.

Al contrario di quanto dichiarato dalla Cassazione in una recente sentenza19, e cioè che è irrilevante il luogo in cui è stato realizzato il prelievo del campione, ai fini della configurabilità

18 AA. VV., Manuale Ambiente 2014, IPSOA, Milano, 2014, p. 291.

19 Cass. pen., sez. III, 21 novembre 2012, n. 45434.

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dell’illecito di scarico di acque reflue industriali oltre i limiti tabellari, in dottrina si sottolinea invece come il profilo relativo al punto di campionamento assuma grande rilevanza20. D’altro canto, è la legge stessa che impone che il prelievo va effettuato «immediatamente a monte della immissione nel recapito in tutti gli impluvi naturali, le acque superficiali e sotterranee, interne e marine, le fognature, sul suolo e nel sottosuolo» (art. 101, 3° comma, Codice dell’ambiente), assumendo la questione ancora più rilievo con riferimento agli scarichi di sostanze pericolose, per i quali il punto di misurazione è fissato

«subito dopo l’uscita dallo stabilimento o dall’impianto di trattamento che serve lo stabilimento medesimo» (art. 108, 5° comma). La questione appare, in definitiva, tutt’altro che secondaria, incidendo la stessa sull’esito dei riscontri analitici e, conseguentemente, sulla sussistenza o meno dell’illecito.

Per concludere, si può osservare come anche il regime sanzionatorio previsto in caso di violazione delle norme sugli scarichi risulti abbastanza articolato, non solo in relazione alle diverse tipologie di acque reflue scaricate21, ma anche all’interno della stessa categoria degli scarichi industriali, essendo previste sanzioni amministrative o penali di differente entità in relazione al corpo ricettore, alla presenza o meno di sostanze pericolose, nonché all’assoggettamento dell’attività ad AIA.

A proposito di AIA, infatti, abbiamo visto che per opera della recente riforma avvenuta con il d.lgs. n. 46/2014, le singole norme sanzionatorie di settore contengono ora la precisazione che si

20 B. DI LELLA, Nota a Cassazione penale, sez. III, 21 novembre 2012, n. 45434, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2013, n. 2, pp. 227-229.

21 Si ricorda che in caso di scarico non autorizzato, la natura del refluo scaricato costituisce il criterio di discrimine tra il regime punitivo di tipo amministrativo e quello strettamente penale, con la configurazione dell’illecito amministrativo ex art.

133, 2° comma, per le acque reflue domestiche, e del reato di cui all’art. 137, 1°

comma, qualora lo scarico abbia ad oggetto acque reflue industriali.

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applicano «fuori dai casi sanzionati ai sensi dell’art. 29 quattuordecies», contenente, appunto, l’intero sistema punitivo previsto per gli impianti soggetti ad autorizzazione integrata ambientale.

Suscita perplessità, invece, la mancata previsione di norme sanzionatorie collegate alla disciplina dell’AUA, ancor di più se si ritiene, come ha sostenuto la dottrina22, che, per come è stata concepita l’autorizzazione unica ambientale, non possano valere per relationem le sanzioni previste dalle norme settoriali, in quanto l’AUA è una nuova autorizzazione che sostituisce determinati titoli ambientali e non è, semplicemente, un atto nel quale essi confluiscono.

E’ auspicabile, pertanto, un intervento del legislatore che stabilisca gli strumenti sanzionatori opportuni, anche per questa nuova figura di autorizzazione ambientale.

22 A. POSTIGLIONE-S. MAGLIA, AUA: modifiche impiantistiche e sanzioni, in www.tuttoambiente.it.

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