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La sostenibilità di un modello universale di copertura contro il rischio di non autosufficienza

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Academic year: 2022

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STUDI E APPROFONDIMENTI

La sostenibilità

di un modello universale

di copertura contro il rischio

di non autosufficienza

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RICONOSCIMENTI

Il lavoro è stato coordinato da Sabrina Iommi e Nicola Sciclone, nell’ambito dell’Area tematica Lavoro, Istruzione e Welfare. La premessa e il capitolo 1 sono frutto di un gruppo di lavoro cui hanno partecipato, per IRPET Elena Cappellini, Tommaso Ferraresi, Sabrina Iommi, Letizia Ravagli e Nicola Sciclone e, per ARS Toscana Paolo Francesconi e Matilde Razzanelli. Il capitolo 2 è stato curato da Cristiano Gori e Giselda Rusmini.Il capitolo 3 è stato curato da Natalia Faraoni. Chiara Coccheri ha curato l’allestimento del testo.

RINGRAZIAMENTI

Si ringraziano per il prezioso contributo informativo fornito Barbara Trambusti, Sara Madrigali e Claudia Magherini del Settore Politiche per l’integrazione socio-sanitaria della Regione Toscana; Antonio Aggio della Direzione regionale Attuazione Programmazione Sanitaria della Regione Veneto; Raffaele Fabrizio, Mauro Mirri e Simonetta Puglioli del Servizio integrazione socio-sanitaria e politiche per la non autosufficienza della Regione Emilia-Romagna

Lo studio presentato fa parte di una collana a diffusione digitale e può essere scaricato dal sito Internet:

http://www.irpet.it

© IRPET Maggio 2014 - ISBN 978-88-6517-058-8

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Indice

Prefazione 5

Premessa 7

1.

Una proposta per il sistema di Long Term Care in Toscana 17

2.

Le politiche per la non autosufficienza della Regione Toscana in prospettiva comparata 29

3.

I sistemi di Long Term Care in un confronto internazionale 87

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PREFAZIONE

Il tema dei servizi di cura per gli anziani non autosufficienti è emblematico delle difficoltà che il nostro tradizionale modello di welfare deve oggi affrontare per conciliare una domanda crescente di prestazioni, a fronte di una minore disponibilità di risorse pubbliche.

Si tratta inoltre di un tema, che apre la discussione su una pluralità di questioni, di natura non esclusivamente organizzativa.

La costruzione di un sistema di finanziamento per la non autosufficienza, che sia sostenibile da un punto di vista economico e sociale, richiede, ad esempio, di stabilire criteri condivisi per l’individuazione dei beneficiari, la misurazione dei loro fabbisogni, la quantificazione e l’organizzazione delle modalità di erogazione degli interventi e la scelta del conseguente modello di finanziamento.

Molti dei passaggi elencati presuppongono in realtà una riflessione su quello che debba essere il compito dello Stato e su ciò che debba invece rimanere a carico degli individui, ovvero su come possa essere ripensato il patto di solidarietà tra classi sociali e generazioni. La revisione dei confini del welfare deve tener conto, tuttavia, che il rischio di non autosufficienza è prevalentemente connesso al processo d’invecchiamento della popolazione e merita l’attenzione della collettività perché riguarda potenzialmente tutti e perché comporta costi troppo elevati per il singolo che ne viene colpito.

Il sistema di risposta oggi vigente è in gran parte il frutto della sovrapposizione di strumenti più o meno recenti, dalle indennità di accompagnamento ai fondi per la non autosufficienza, e di aggiustamenti spontanei, basti pensare al fenomeno delle badanti. Per come si è evoluto, il sistema presenta ampi margini di riorganizzazione e di recupero di efficienza. La riorganizzazione del modello di governance e la definizione di criteri condivisi di valutazione del fabbisogno e di livelli minimi di assistenza sono senza dubbio strumenti prioritari per migliorare l’uso delle risorse esistenti e accrescere l’equità tra i cittadini.

La dinamica demografica sfavorevole, tuttavia, può rendere insufficiente la riorganizzazione dell’esistente (che comunque implica la redistribuzione delle risorse tra i beneficiari) e richiedere il reperimento di risorse finanziarie aggiuntive. Anche in questo caso le opzioni attivabili possono essere diverse: una già ampiamente utilizzata e che potrebbe essere ulteriormente allargata è quella della compartecipazione al costo da parte degli utenti, da estendersi anche alla ricchezza patrimoniale; altro tema frequente nel dibattito è quello delle

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assicurazioni integrative private, ad oggi poco sviluppate, mentre un’ulteriore soluzione è quella che prevede la socializzazione del rischio, tramite l’introduzione di contributi sociali obbligatori. È evidente che ogni operazione di reperimento di risorse aggiuntive si scontra con il problema della pressione fiscale già elevata che caratterizza il nostro paese, di contro, però, le soluzioni “collettive” sono quelle che garantiscono maggiormente l’individuo in caso di bisogno.

Infine, le soluzioni adottate nel campo della cura per i non autosufficienti interagiscono anche con il funzionamento del mercato del lavoro. I diversi modelli organizzativi implicano, infatti, un contributo diverso di assistenza familiare e professionale, una diversa composizione tra lavoro regolare e irregolare, ma anche opportunità occupazionali che differiscono per ammontare, per livello di qualificazione e per condizioni di lavoro.

Il materiale raccolto in questo volume vuole fornire dati e argomentazioni a un dibattito necessariamente ancora aperto, approfondendo il modello toscano vigente e le sue possibili alternative, ma anche fornendo spunti derivanti dal confronto regionale e internazionale.

Stefano Casini Benvenuti Direttore IRPET

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PREMESSA

Le questioni aperte nel dibattito sulla revisione del welfare

I materiali inseriti nel presente lavoro, nonché le informazioni quantitative raccolte, le ipotesi formulate sui modelli organizzativi e le stime fatte sui fabbisogni finanziari e i relativi sistemi di finanziamento hanno l‟obiettivo di stimolare una riflessione informata sul problema della riorganizzazione del welfare. Essi servono, quindi, a ragionare su vantaggi e svantaggi di soluzioni alternative, più che a proporne una definitiva.

Il lavoro è articolato come segue: nella premessa si ripercorrono gli argomenti principali sui quali è articolato l‟attuale dibattito scientifico e politico sulla revisione del sistema di protezione sociale; nel capitolo 1, facendo riferimento al caso toscano, si stima il fabbisogno di assistenza introducendo un sistema di valutazione omogeneo, si propone un modello di riorganizzazione del servizio di cura e si quantifica il fabbisogno finanziario del sistema, elaborando anche una proposta per il reperimento delle risorse necessarie, per arrivare infine alla stima dell‟impatto in termini di occupazione aggiuntiva; nel capitolo 2 si mettono a confronto i sistemi di Long Term Care di 4 regioni del Centro Nord Italia (Toscana, Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia), grazie all‟accurata ricostruzione sia delle procedure amministrative di accesso ai servizi, sia delle informazioni quantitative relative al numero di persone assistite, all‟intensità delle cure fornite, ai modelli organizzativi e ai livelli di spesa sostenuti dal settore pubblico; nel capitolo 3, infine, viene presentata una breve rassegna ragionata dei sistemi di Long Term Care presenti nei principali paesi europei, mettendo in evidenza i diversi impatti che si ottengono sia in termini di risposta al bisogno di assistenza, sia in termini di contributo alla creazione di nuova occupazione.

La cura degli anziani non autosufficienti come emblema della sfida del ripensamento del welfare

La domanda di cura proveniente dagli anziani non autosufficienti ha il pregio di evidenziare in maniera chiara i limiti strutturali del nostro sistema di welfare. Consolidatosi soprattutto nel secondo dopoguerra, il welfare state tradizionale era inserito in un contesto socio-economico con caratteristiche opposte a quelle attuali: un rapporto favorevole tra popolazione attiva e inattiva, un sistema economico in crescita, un mercato del lavoro in espansione, confini certi sia per il sistema economico, che produceva le risorse, sia per la popolazione di riferimento, che esprimeva i bisogni. È evidente che fenomeni quali l‟invecchiamento della popolazione, la riduzione dei ritmi di crescita, la competizione internazionale, lo sviluppo dei fenomeni migratori hanno fatto venir meno le condizioni strutturali che consentivano al precedente modello di mantenere in equilibrio risorse e bisogni.

Come è noto, anche nella sua massima espansione il modello di welfare state italiano non era immune da difetti. Cresciuto in modo incrementale in assenza di un disegno complessivo, ha mantenuto i limiti di un approccio prevalentemente categoriale, centrato sulla partecipazione al mercato del lavoro piuttosto che sull‟intensità del bisogno e basato prevalentemente sull‟erogazione di prestazioni monetarie dal centro invece che sulla costruzione di un solido sistema di servizi territoriali. Tale evoluzione spiega quelle che sono le criticità oggi più comunemente riconosciute al sistema: un welfare insostenibile dal punto di vista economico perché eccessivamente costoso rispetto alle risorse provenienti dal mercato del lavoro, ma insostenibile anche dal punto di vista sociale perché troppo generoso con alcune categorie e troppo poco con altre, dove lo spartiacque tra insider e outsider è in gran parte generazionale,

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essendo molto più costoso in termini di consenso ridisegnare i cosiddetti “diritti acquisiti”

piuttosto che scaricare i costi sulle generazioni successive. La crisi del modello di welfare tradizionale, dunque, non è solo di natura finanziaria, ma deriva anche da un deficit crescente di legittimazione politica e culturale (Saraceno, 2012). Detto in altri termini, oggi ci troviamo nella necessità di ripensare profondamente il welfare non solo perché abbiamo meno risorse, ma anche perché si tratta di un welfare poco equo, per cui se da un lato c‟è l‟esigenza di tenere sotto controllo la spesa pubblica e, possibilmente di ridurla, dall‟altro c‟è la necessità di distribuirla in modo diverso tra settori di intervento e categorie sociali.

Perché allora la questione dell‟assistenza agli anziani non autosufficienti è emblematica della più generale crisi del welfare? In primo luogo perché riproduce, con numeri di tutto rilievo, lo scarto tra dinamica della domanda di cura e disponibilità di risorse pubbliche, in secondo luogo perché non può prescindere del tutto da una risposta pubblica se non con costi sociali estremamente elevati, in terzo e ultimo luogo perché la risposta al bisogno richiede innovazioni delle modalità organizzative e di finanziamento, che implicano il ripensamento del sistema dei diritti e delle responsabilità, del più generale patto di solidarietà tra generazioni, tra categorie di lavoratori e tra ceti sociali.

Il presente contributo vuole dunque essere un primo tassello di una riflessione che è potenzialmente estendibile ad altri comparti del welfare.

Meno Stato, meno mercato, più società?

Il ripensamento del sistema socio-assistenziale dura in Italia almeno da due decenni e ha condotto a numerosi aggiustamenti, ma a nessuna riforma organica, per cui sono validi ancora oggi i limiti evidenziati dai lavori della Commissione Onofri nel 1997: basso livello di esigibilità dei diritti, forti disparità categoriali e territoriali, scarsità - ma soprattutto cattivo utilizzo- delle risorse impegnate (IRS, 2013).

Le riforme, in parte tentate e in parte attuate, possono essere ricondotte a due fasi distinte:

negli anni „90 si è promossa soprattutto la strada della separazione di responsabilità organizzativa e produzione dei servizi, attraverso l‟esternalizzazione della seconda a favore dei soggetti del mercato e del Terzo Settore. Il contracting out e la costruzione del cosiddetto welfare mix ha consentito la sopravvivenza del modello tradizionale di protezione sociale tramite il contenimento dei costi, ottenuto sia attraverso il superamento di alcune rigidità tipiche del settore pubblico, sia soprattutto grazie al progressivo abbassamento del costo del lavoro.

Tale soluzione è stata ampiamente utilizzata soprattutto in due settori la cui domanda ha sperimentato una forte impennata, quello dell‟assistenza agli anziani e quello dei servizi educativi per la prima infanzia, e ha avuto come conseguenza positiva la crescita di un‟offerta privata di servizi, di tipo prevalentemente non profit. Pur con alcune situazioni di eccellenza, tuttavia, è in genere prevalsa una visione residuale del Terzo Settore, che ha assunto il ruolo di produttore di servizi a basso costo per conto dello Stato, piuttosto che di attivatore di risorse sociali aggiuntive (Longo e Tanzi, 2010). Si tratta di una soluzione che nel lungo periodo viene considerata insostenibile, perché le risorse reperite con la sola tassazione saranno comunque insufficienti, data la dinamica demografica sfavorevole.

Più recentemente, dunque, l‟attenzione si è concentrata sugli strumenti in grado di attivare, in modo organizzato, le risorse private e della società civile. A seconda dell‟approccio ideologico prevalente, tali risorse possono essere lette come sostitutive o integrative dell‟intervento pubblico, soprattutto in ambiti nei quali la domanda sociale è in crescita e l‟intervento tradizionale poco sviluppato, quali assistenza per la non autosufficienza, sanità integrativa, servizi per la prima infanzia, interventi di contrasto alla povertà. Se da un lato vi

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sono autori che sottolineano i rischi di forte differenziazione, tra soggetti e tra territori, insiti nel far affidamento su tali risorse, che ricordano, con pregi e difetti, le esperienze mutualistiche antecedenti la costruzione del welfare state (Ascoli et al., 2012; Gori, 2012), dall‟altro vi sono studiosi che ne colgono le potenzialità. I concetti di welfare di comunità (Ferrera e Maino, 2012), welfare societario (Donati, 2011), welfare civile (Zamagni, 2011) o welfare generativo (Magatti, 2012), pur con importanti differenze, hanno infatti in comune l‟idea di superare il conflitto tra bisogni e risorse andando oltre la tradizionale dicotomia tra Stato e mercato, tramite l‟attivazione della società civile e la costruzione di un welfare di tipo compiutamente sussidiario.

Tale obiettivo si realizza, da un lato portando a compimento il modello del “quasi-mercato”, riconoscendo il più possibile agli utenti il diritto di scegliere il soggetto presso cui acquistare i servizi e agli operatori l‟opportunità di arricchire e migliorare l‟offerta aggiuntiva rispetto allo schema pubblico (si tratta del binomio: assegnazione di voucher e accreditamento dei produttori); dall‟altro cercando di incentivare e incanalare le risorse private, in primo luogo la spesa out of pocket delle famiglie per l‟acquisto di servizi o le scelte di risparmio verso forme più convenienti di assicurazione sociale.

Secondo Magatti e Lodigiani (2013) si tratta di costruire un welfare a tre pilastri (pubblico, privato e civile) che abbia come obiettivo quello di attivare e portare a sinergia tutte le risorse esistenti, finanziarie e non. In questo modello allo Stato compete un ruolo duplice quale quello di assicurare i livelli essenziali di assistenza e di farsi promotore di un sistema di governance che coordini risorse pubbliche e private per l‟offerta di servizi integrativi. Uno Stato pertanto allo stesso tempo “garante” del livello minimo dei diritti sociali e “capacitatore”, in grado cioè di attivare risorse aggiuntive latenti. Dal lato della domanda ciò significa promuovere politiche in grado di attivare risorse private in modo aggregato (fondi integrativi, forme associative di tipo mutualistico, ancorate ai territori e alle comunità più che ai posti di lavoro); dal lato dell‟offerta ciò implica conferire più ampie possibilità di azione ai providers e favorirne l‟aggregazione. Secondo Zamagni (2011) lo sviluppo dell‟offerta passa anche dalla progettazione di nuovi strumenti di finanziamento che consentano agli operatori del Terzo Settore più ampie opportunità di accesso al capitale, come la possibilità di emettere

“obbligazioni di solidarietà” e in quella di accedere ad un “mercato sociale dei capitali”. Se lette in quest‟ottica, le forme di finanziamento privato del welfare non implicano necessariamente individualizzazione e mercatizzazione, ma promuovono socializzazione dei rischi e sostenibilità sociale delle risposte, insieme alla costruzione di una nuova visione delle responsabilità collettive rispetto alla produzione del benessere. In questo senso le forme organizzate di finanziamento privato rivelano un potenziale innovativo da valorizzare, che va oltre il necessario contenimento dei costi per ridare senso al patto di solidarietà tra i diversi soggetti sociali. La condizione per cui si attivino gli effetti positivi, tuttavia, è che esse vengano considerate integrative e non sostitutive dell‟intervento pubblico (Gori, 2012).

Ambito di spesa pubblica o bacino occupazionale?

Pur in tempi di austerità e di necessità di controllo della spesa pubblica, si va rafforzando un filone di studi che vede nel vasto settore dei servizi alla persona, che comprende quelli a contenuto prevalentemente assistenziale (LTC per non autosufficienti), ma anche quelli educativi (servizi per la prima infanzia) e quelli di supporto in generale alle famiglie (pulizie e aiuti domestici, assistenza per i compiti, piccole riparazioni, attività di giardinaggio, ecc.), un ambito con un alto potenziale di attivazione di nuova occupazione.

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L‟idea non è nuova ed era già stata sostenuta con forza nel Libro Bianco di Delors del 1993, intitolato “Crescita, competitività, occupazione” e centrato sulle misure di lotta alla disoccupazione nei paesi membri della Comunità Europea. Più recentemente essa è stata ripresa in una consultazione pubblica promossa dalla Commissione Europea -DG Occupazione, affari sociali e inclusione- in cui si indica il settore dei cosiddetti “white jobs”, vale a dire dell‟assistenza sanitaria e sociale e quello degli altri servizi alla persona come uno degli ambiti più promettenti per la creazione di nuove opportunità di lavoro (Commissione Europea, 2012).

Al potenziamento del settore vengono associati una serie di effetti positivi, di tipo diretto e indiretto che giustificano il supporto pubblico, anche nella forma di sostegno alla solvibilità della domanda, e ne riducono il costo a carico della collettività.

È opinione molto diffusa che laddove il lavoro di cura è lasciato alla risposta informale all‟interno della famiglia, ciò incide negativamente sulla partecipazione al mercato del lavoro delle donne e sulla diffusione di lavoro irregolare, privo di tutele e spesso associato con la produzione di servizi di scarsa qualità. Di conseguenza, il sostegno allo sviluppo del settore avrebbe tra le conseguenze desiderabili, quella di rispondere ad un bisogno di assistenza che è destinato a crescere a causa della dinamica demografica sfavorevole e dell‟evoluzione delle strutture familiari, di facilitare la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, di accrescere la partecipazione al mercato del lavoro della manodopera femminile e a bassa qualificazione, di far emergere una parte di economia al momento sommersa, di migliorare le condizioni di lavoro e la qualità dell‟assistenza. Anche in caso di supporto pubblico, il settore dei servizi alla persona ha inoltre il vantaggio di avere un basso contenuto di importazione e di produrre pertanto effetti significativi sull‟economia locale.

L‟argomento con cui gli Stati dell‟Unione Europea sono soliti giustificare il sostegno pubblico ai servizi socio-assistenziali è quello dell‟inclusione sociale e della partecipazione femminile al mercato del lavoro (quindi, un obiettivo di coesione sociale uno di efficienza economica), ma per le caratteristiche fin qui elencate, tali servizi potrebbero essere oggetto di politiche pubbliche per il potenziale di attivazione di occupazione aggiuntiva che possiedono (Commissione Europea, 2012). Del resto, i paesi che hanno puntato sullo sviluppo del settore, come è il caso della Francia con politiche di sostegno della solvibilità della domanda (CESU voucher e Piano Borloo) e della Germania con l‟unione di sgravi fiscali e contratti di lavoro semplificati (minijob) hanno ottenuto risultati notevoli in termini di crescita numerica degli impieghi, anche se controverso resta l‟effetto sulla qualità del lavoro creato (Ciarini et al., 2013).

Se le condizioni economiche generali suggeriscono dunque cautela nel prevedere aumenti di spesa pubblica, è vero che occorre valutare il costo netto del sostegno pubblico, calcolato cioè come differenza tra risorse inizialmente richieste ed effetti espansivi sull‟occupazione e sul reddito. Con quest‟ottica, si potrebbe giustificare anche un innalzamento degli investimenti finanziari nelle politiche sociali, per esempio tramite l‟utilizzo dei fondi strutturali europei, che potrebbe costituire una leva strategica per la creazione di nuovo lavoro che vada oltre le tradizionali politiche offertiste, tese unicamente ad accrescere l‟occupabilità dei soggetti.

I limiti dell’attuale modello di Long Term Care

Torniamo, però, all‟argomento centrale di questo lavoro. Al contrario di quanto avvenuto in alcuni paesi europei, dove a partire dagli anni „90 si sono implementate vere e proprie riforme strutturali per rispondere ai bisogni di cura di lungo periodo per la popolazione anziana (i casi più noti sono quelli di Germania e Francia), in Italia, a fronte di numerose proposte presentate, nessuna riforma organica è stata ad oggi avviata (Barbieri, 2013; Caruso et al., 2013). Ad oggi, il sistema fornisce prestazioni complessivamente insufficienti, integrate in misura sostanziale

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dalla spesa out of pocket delle famiglie, distribuite in maniera non sempre commisurata ai bisogni e frammentate, per quanto attiene alla filiera pubblica, tra competenze dello Stato, delle Regioni, delle ASL e dei Comuni.

Il perno del sistema a livello nazionale è rappresentato dall‟indennità di accompagnamento, erogata in somma fissa (492 euro mensili per il 2012) alle persone non autosufficienti, indipendentemente dalla gravità dello stato di salute e dal livello del reddito. La prestazione monetaria è erogata direttamente ai beneficiari senza vincolo di destinazione, per cui manca qualsiasi finalizzazione dell‟intervento alla regolarizzazione dei rapporti di cura informali (tramite care giver familiare o tramite “badante”) o allo sviluppo di un mercato regolare e qualificato dell‟assistenza. Nel 2012 le risorse erogate in questo modo per i beneficiari con più di 65 anni ammontano a circa 9,5 miliardi di euro. È opinione diffusa tra gli esperti del tema che l‟utilizzo di tali risorse ad oggi sia molto al di sotto delle potenzialità, di assistenza per gli utenti e di occupazione per gli operatori che potrebbe dispiegare (IRS, 2013; Ciarini et al., 2013).

Altro strumento di livello centrale è il Fondo Nazionale per la non autosufficienza, finanziato per la prima volta nel 2007 con una dotazione di 100 milioni, poi portata a 400 milioni negli anni di massima contribuzione, ma azzerato nel 2011, per poi essere rifinanziato nel 2013. È evidente che i suoi limiti possono essere facilmente individuati nella scarsità e variabilità delle risorse disponibili1, oltre che nel complesso meccanismo di governance. Il Fondo Nazionale, infatti, al pari di altri (ci si riferisce in particolare al Fondo Sanitario Nazionale e al Fondo Nazionale per le Politiche Sociali) viene erogato alle Regioni, le quali possono integrarlo con risorse proprie e a loro volta lo trasferiscono alle ASL e ai Comuni. In questa complessa catena delle responsabilità, in genere le Regioni governano i meccanismi di accesso alle prestazioni, le ASL valutano lo stato di bisogno degli utenti ed erogano parte dei servizi (di solito quelli a contenuto più sanitario), i Comuni organizzano in maniera più o meno intensa l‟offerta dei rimanenti servizi.

Altro difetto evidente del livello nazionale, che si traduce in un‟elevata variabilità territoriale della risposta al bisogno di cura, è la mancanza di una definizione giuridica univoca della condizione di non autosufficienza, graduata possibilmente per livelli di gravità, cui fa da complemento la mancata fissazione normativa dei livelli minimi di assistenza da garantire su tutto il territorio nazionale (i LEP, Livelli Essenziali delle Prestazioni indicati dall‟art. 117 della Costituzione), che avrebbero il pregio di definire chiaramente ciò che il cittadino ha il diritto di chiedere al settore pubblico (i cosiddetti diritti esigibili di cittadinanza).

Passando al livello regionale, l‟evidenza empirica mostra che si stanno determinando divari crescenti in termini di risposte al bisogno di cura, mentre si vanno delineando modelli molto diversi di governo dei settori socio-sanitari. Sul primo aspetto, è in crescita il tradizionale dualismo tra il Sud e il Centro-Nord, essendo il primo caratterizzato con poche eccezioni (ad esempio la Puglia) da un equilibrio più conservativo, fatto di bassa dotazione di fondi propri e debole offerta di servizi territoriali. In merito al secondo, i casi di Lombardia e Emilia-Romagna sono indicati dalla letteratura come due modelli agli antipodi in grado di assicurare elevati livelli di risposta2. La prima ha infatti puntato decisamente sullo sviluppo della logica dei quasi- mercati, riconoscendo agli utenti dei voucher di cura da spendere presso alcuni produttori accreditati, profit e non profit, messi pertanto in concorrenza tra loro. La seconda, invece, ha

1 Si noti che su una spesa socio-assistenziale tradizionalmente povera per l‟Italia a confronto con quanto avviene in altri paesi europei, dal 2008 si sono innestati tagli robusti: i fondi finalizzati (principalmente Fondo Nazionale per le Politiche Sociali, Fondo per la Non Autosufficienza, Piano Nidi, Fondo Famiglia) sono passati da 2.520 milioni di euro a 271 e i trasferimenti indistinti dallo Stato agli Enti Locali hanno subito la stessa sorte (Gori, 2012).

2 Fra le regioni a statuto speciale, di solito considerate come gruppo a parte per le disponibilità finanziarie che le contraddistinguono, spiccano i casi di Trento e Bolzano.

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spinto decisamente sul potenziamento dei servizi territoriali e sulla valorizzazione del ruolo degli enti locali. In termini di meccanismi di finanziamento, di solito si distingue tra regioni che hanno o non hanno attivato un fondo regionale specifico per la non autosufficienza. Fanno parte del primo gruppo le regioni di solito considerate più attive sul tema, tra cui la Toscana, anche se l‟istituzione del fondo di solito non serve a trovare risorse aggiuntive, quanto piuttosto a raccogliere e finalizzare in modo più visibile risorse già esistenti, provenienti o da trasferimenti statali o da altri capitoli di bilancio. L‟Emilia-Romagna rappresenta l‟unico caso in cui è stata prevista l‟introduzione di una tassa di scopo volta a raccogliere risorse aggiuntive, mentre in generale l‟attuale congiuntura economica è considerata sfavorevole all‟introduzione di nuovi tributi (Beltrametti, 2008). Si noti, però, che alcune regioni hanno comunque messo in campo risorse e sistemi di risposta per la non autosufficienza, pur non creando un fondo dedicato, come è il caso della Lombardia.

Come è ricavabile da quanto sopra, il ruolo degli enti locali è quello più variabile sul territorio nazionale, essendo condizionato, da un lato dalla disponibilità di risorse e dalla presenza o meno di una tradizione di welfare locale, dall‟altro dalle scelte organizzative fatte dai governi regionali. Ugualmente variabile è il ruolo affidato ai produttori privati dei servizi di cura, siano essi profit o più frequentemente non profit. In genere, tuttavia, questi agiscono in una condizione di subordinazione rispetto al committente pubblico, da cui dipendono dal punto di vista finanziario. Infine, l‟ultimo attore rilevante del sistema è rappresentato dalle famiglie, che contribuiscono con risorse proprie di tutto rilievo nella modalità in kind (lavoro di cura informale) e in cash (pagamento di una parte delle rette delle strutture di ricovero e dell‟aiuto fornito dalle “badanti”). Anche in questo caso, il coinvolgimento richiesto alla famiglia dipende dall‟equilibrio individuale tra situazione di bisogno e livello di risposta della filiera pubblica.

Le linee guida per una riforma

Le proposte di riforma tendono ovviamente a ripercorrere i punti critici evidenziati per il sistema vigente. Pur nella varietà delle soluzioni ipotizzate, vi è un generale consenso su alcuni aspetti di fondo (Caruso et al., 2013). È opinione condivisa, ad esempio, che occorra mantenere un‟impostazione generale di tipo universalistico nel determinare il diritto all‟assistenza, cui associare però una selettività sulla condizione economica, misurata con il modello ISEE, per stabilire il grado di compartecipazione dell‟utente e/o della sua famiglia alla spesa. Di fatto si tratta di un modello ad universalismo selettivo, giustificabile anche con il fatto che l‟assistenza non è un bene pubblico in senso stretto, al pari di quanto avviene con gli interventi in campo sanitario e previdenziale (Bosi et al., 2005). Tale approccio presuppone tuttavia l‟adozione, a livello di governo centrale, sia di un criterio uniforme per la valutazione delle condizioni di salute che per la quantificazione dei livelli di assistenza minima di competenza del settore pubblico, come pure dei criteri di compartecipazione degli utenti. Si tratta, dunque, di fissare in maniera chiara e uniforme per il territorio nazionale i confini dello Stato.

Altra caratteristica comune alle proposte di riforma è l‟integrazione dei servizi sanitari e sociali e lo sviluppo di un‟adeguata offerta territoriale di servizi, che favorisca la cura presso la casa di residenza della persona bisognosa di assistenza. Un‟opzione quest‟ultima che viene giudicata positivamente sotto due diversi punti di vista, quello del benessere dell‟utente, ma anche quello del minor aggravio del bilancio pubblico.

Per quanto riguarda le modalità di finanziamento, una delle proposte più recenti (IRS, 2013) suggerisce di assumere come vincolo l‟attuale livello di spesa pubblica, data la difficoltà a reperire risorse aggiuntive nell‟attuale momento storico, e di procedere ad una sua redistribuzione fra beneficiari e tipologie di intervento. L‟idea centrale è quella di trasformare

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l‟attuale indennità di accompagnamento in una prestazione universalistica destinata a tutti i non autosufficienti, chiamata “dote di cura” il cui importo sia graduato, però, in base sia alla gravità della condizione di salute, sia alla disponibilità economica. La proposta prevede di lasciare all‟utente la possibilità di scelta tra ricevere un trasferimento monetario o un voucher spendibile per l‟acquisto di servizi prodotti dal settore pubblico, da privati accreditati (comprese le assistenti familiari) o da care giver familiari, premiando però la seconda scelta con un valore più alto della prestazione, sulla falsariga del modello tedesco. La seconda opzione ha infatti il vantaggio di sviluppare l‟offerta dei servizi sul territorio e l‟occupazione. Il modello proposto ragiona sulle risorse pubbliche attuali, assumendo che esse debbano continuare ad essere reperite tramite prelievo fiscale generale e non tramite il versamento di contributi o premi appunto perché l‟obiettivo è quello di finanziare un livello minimo di assistenza da considerare corrispondente ai diritti di cittadinanza. Esso presuppone il consolidamento del Fondo Nazionale per la non autosufficienza in cui far confluire le risorse attualmente utilizzate per le indennità di accompagnamento, per l‟invalidità civile in età anziana e per i servizi socio-sanitari per i non autosufficienti. Al contempo prevede di valorizzare il ruolo delle regioni per l‟implementazione dei processi di presa in carico e di costruzione del sistema dei servizi territoriali su bacini sovracomunali.

La proposta non si pone, invece, il problema di trovare risorse aggiuntive, che la dinamica demografica sfavorevole potrebbe invece rendere necessarie. In genere, coloro che si sono posti il problema del reperimento di risorse aggiuntive hanno escluso la possibilità di ricorrere ad un aumento della pressione fiscale (tramite aumento delle addizionali o introduzione di un‟imposta di scopo), per cui le scelte possibili sono di solito individuate: nello spostamento di risorse dalla spesa previdenziale (in particolare nella parte di prestazione che eccede i contributi versati e supera un livello di reddito considerato vitale) e/o dalla spesa sanitaria (l‟idea centrale è di erogare l‟assistenza continuativa in età anziana più propriamente attraverso il canale residenziale o con strutture assistite piuttosto che tramite gli ospedali), come pure nella valorizzazione del patrimonio immobiliare dei beneficiari delle prestazioni (sul modello del reverse mortgage statunitense) o nel ricorso alle cosiddette “risorse private organizzate”, ovvero quelle provenienti dalla contrattazione di primo livello, dal welfare aziendale, dalle assicurazioni private, dalle fondazioni bancarie e dalle organizzazioni mutualistiche.

Ciascuna delle strategie proposte presenta vantaggi e svantaggi.

Lo spostamento di risorse da altri capitoli di spesa pubblica presenta di solito forti resistenze e ha il difetto di richiedere un ridisegno complessivo e ragionevole del sistema di protezione sociale e, soprattutto, una forte autorevolezza del policy maker che per la prima volta dal dopoguerra deve declinare il criterio dell‟equità sociale con quello del livellamento dei trattamenti verso il basso piuttosto che verso l‟alto (Onida, 2013).

La strada della mobilizzazione della ricchezza patrimoniale degli utenti, tramite il meccanismo del reverse mortgage (o prestito vitalizio ipotecario) offre il vantaggio di fornire una modalità di finanziamento dei servizi utilizzati, che non preclude al beneficiario il diritto di abitare a vita nella casa di proprietà e agli eredi la possibilità di riscattare l‟immobile. Ciò risponde anche ad un criterio di equità distributiva, evitando che gli eredi godano del doppio beneficio di ottenere un supporto pubblico gratuito per il loro familiare e poi, attraverso l‟eredità senza alcun onere (il prelievo sull‟eredità in Italia è poco più che simbolico) ottenere un patrimonio che non è frutto del proprio lavoro (Bosi e Guerra, 2008). Ad oggi, tuttavia, tale strumento esistente dal 2005 anche in Italia ha avuto poca diffusione, vuoi per motivi culturali (il valore anche identitario attribuito alla casa, il desiderio di lasciare un‟eredità ai figli), vuoi per i costi di transazione legati alla stipula dei contratti e alle asimmetrie informative tipiche del

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mercato immobiliare. La messa a punto di meccanismi standardizzati di mobilizzazione della ricchezza potrebbe consentire tuttavia di superare almeno il secondo tipo di difficoltà.

Le soluzioni che passano attraverso le assicurazioni private, la contrattazione di primo livello e il welfare aziendale, le organizzazioni mutualistiche hanno infine il limite di movimentare una massa molto ridotta di risorse e di creare un sistema di protezione sociale molto differenziato in base alle opportunità economiche e occupazionali dei soggetti e al livello di sviluppo delle aree geografiche (Ascoli et al., 2012; Gori, 2012). La proposta di legare questo tipo di contribuzione all‟appartenenza territoriale, come suggerito dalla teoria del welfare di comunità, rischia solo di spostare il problema, a meno di considerare tutte queste modalità un modo per finanziare interventi aggiuntivi a quelli essenziali garantiti dal servizio pubblico.

La previsione di un sistema di assicurazione pubblica, basata su versamenti obbligatori di contributi ha da questo punto di vista il vantaggio di socializzare il rischio e omogeneizzare il livello di tutela ottenibile. Il limite maggiore di questo canale di finanziamento è lo stesso che riguarda la soluzione dell‟aumento del prelievo fiscale, perché, a meno di individuare una diversa platea di contribuenti, finisce per gravare ancora una volta sulla popolazione attiva. Tale sistema si scontra poi con il problema dell‟equità generazionale, specialmente se organizzato sul modello a ripartizione, che prevede che le generazioni attive finanzino il bisogno degli inattivi.

Di contro, però, un sistema a capitalizzazione pura rischia di lasciare scoperto il bisogno di persone che oggi si trovano già nella fase finale della vita lavorativa. Se la centralità degli schemi pubblici universali non può essere negata, occorre tuttavia attivare meccanismi che permettano ai sistemi a ripartizione di garantire un livello accettabile di equità tra generazioni sia pure in presenza di dinamiche demografiche ed economiche sfavorevoli: il modello di Bolzano, ad esempio, prevede l‟accantonamento di risorse per garantire la continuità temporale della risposta ai bisogni, il modello tedesco prevede invece un contributo obbligatorio a carico di tutti i percettori di reddito e crescente con l‟età e dunque con il rischio di aver bisogno di servizi di cura.

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(16)
(17)

1.

UNA PROPOSTA PER IL SISTEMA DI LONG TERM CARE IN TOSCANA

1.1

Introduzione

L‟obiettivo di questo lavoro è quello di esporre, nelle sue linee generali, un modello di finanziamento per la non autosufficienza, sostenibile sia da un punto di vista economico che sociale.

È un tema, questo, di particolare rilievo perché emblematico delle difficoltà che il nostro tradizionale modello di welfare deve oggi affrontare per conciliare una domanda crescente di prestazioni a fronte di una minore disponibilità di risorse pubbliche. Per superare questa contraddizione è possibile muovere in più direzioni: i) ridistribuendo le risorse esistenti tra beneficiari e tipologie di intervento, ii) aumentando la copertura attraverso la fiscalità generale e/o la compartecipazione degli utenti, iii) attivando e organizzando nuove risorse private, integrative o sostitutive di quelle pubbliche; iv) innovando le modalità organizzative e, più in generale, il patto di solidarietà tra generazioni, categorie di lavoratori e ceti sociali; v) riducendo i servizi pubblici e lasciando libero di operare il mercato.

Escludendo l‟ultima opzione, le altre sono tutte coerenti - se opportunamente declinate- con l‟obiettivo di soddisfare in modo universale il fabbisogno di cura ed assistenza dei non autosufficienti. La proposta qui illustrata si muove in questa direzione, con l‟obiettivo di offrire una soluzione strutturale al problema della non autosufficienza, attraverso un modello incentrato sulla socializzazione del rischio ed in grado di attivare nuova occupazione.

L‟approccio seguito, diversamente da altri lavori (IRS, 2013), è di tipo bottom up. Ciò significa che il dato di partenza, assunto come vincolo, non è l‟ammontare di risorse pubbliche esistenti, da redistribuire in funzione del numero e della gravità dei non autosufficienti, bensì il fabbisogno effettivo di assistenza. È questo ultimo a determinare quindi il fabbisogno finanziario necessario per assicurare a tutti gli anziani non autosufficienti le prestazioni di cui hanno bisogno. Un tale schema non è a costo zero, perché richiede un aumento della pressione fiscale e/o contributiva sui cittadini. Tuttavia presenta due vantaggi. Il primo risiede negli effetti redistributivi connessi al meccanismo solidaristico, che consiste nel pagare un poco tutti per risolvere un problema che coinvolge una minoranza della popolazione, ma che è foriero di grandi iniquità economiche e sociali. Ad oggi, infatti, il sistema fornisce prestazioni complessivamente insufficienti, integrate in misura sostanziale dalla spesa out of pocket delle famiglie, distribuite in maniera non sempre commisurata ai bisogni e frammentate, per quanto attiene alla filiera pubblica, tra competenze dello Stato, delle Regioni, delle ASL e dei Comuni.

Il secondo vantaggio del modello proposto consiste nella creazione di occupazione aggiuntiva, coerentemente con le strategie dell‟Europa che individua nel settore dei servizi sociali uno dei potenziali bacini su cui puntare per creare lavoro (European Commission, 2012).

Il presente contributo è così articolato. Il paragrafo due espone l‟attuale sistema di offerta e finanziamento degli interventi per la non autosufficienza degli ultra 65 enni. Quello successivo descrive, nei singoli aspetti, il modello di cura e finanziamento proposto e l‟ultimo ne fornisce una quantificazione del possibile impatto occupazionale. Le stime, per motivi legati alla disponibilità dei dati, si riferiscono alla Toscana, ma lo schema di lavoro qui esposto può naturalmente essere esteso a tutte le Regioni.

(18)

1.2

L’offerta dei servizi e le risorse pubbliche attuali per la non autosufficienza

L‟attuale modello di offerta e finanziamento dei servizi per la non autosufficienza vede coinvolti diversi attori istituzionali e risorse di fonte sanitaria e sociale. La maggior parte delle risorse provengono dall‟INPS (46 per cento), che finanzia l‟indennità di accompagnamento, e dal Fondo Sanitario Nazionale (45 per cento), che tramite la Regione viene distribuito alle ASL.

Le prestazioni sanitarie sono erogate prevalentemente all‟interno delle residenze sanitarie assistenziali (RSA), ma anche a livello ambulatoriale o attraverso l‟assistenza domiciliare integrata. Nel finanziamento della non autosufficienza sono coinvolti, sebbene in misura inferiore (9 per cento), anche gli enti locali (Comuni o, come in Toscana, le Società della Salute3), che realizzano interventi di assistenza domiciliare (talvolta integrata con i servizi sanitari), contribuiscono alla copertura dei costi delle RSA (per la cd. quota sociale) ed erogano assegni di cura per assistenza formale ed informale.

Tabella 1.1

LE RISORSE PUBBLICHE PER LA NON AUTOSUFFICIENZA IN TOSCANA. 2010

Strumento Val. ass. (mln euro) Val. %

Indennità accompagnamento 546 46

Fondo Sanitario Nazionale 531 45

di cui ambulatoriale + domiciliare 146 12

di cui semi-residenziale 52 4

di cui residenziale 250 21

di cui altro 84 7

Spesa enti locali 101 9

di cui assistenza domiciliare 40 3

di cui trasferimenti in denaro 32 3

di cui strutture 28 2

TOTALE 1.179 100

Fonte: nostre elaborazioni su dati ISTAT e RGS

Questo sistema ha evidenti limiti sia sotto il profilo dell‟efficienza, a causa dell‟assenza di coordinamento tra i vari interventi, sia sotto il profilo dell‟equità, per l‟eterogeneità dei servizi erogati sul territorio. Ad esempio, l‟indennità di accompagnamento erogata dall‟INPS è a somma fissa e non tiene sufficientemente conto né dell‟eterogeneità dei livelli di gravità né della condizione economica dei beneficiari. Quanto all‟intervento comunale, poi, è molto differenziato sul territorio tanto nelle prestazioni offerte quanto nel grado di compartecipazione al finanziamento dei servizi residenziali. Ma soprattutto l‟offerta di prestazioni che il sistema vigente garantisce non riesce quasi mai a soddisfare completamente il fabbisogno di assistenza da parte dei cittadini. Basti pensare alle liste di attesa per entrare in RSA e, soprattutto, alle varie forme di assistenza domiciliare, che sia in termini di quota di soggetti presi in carico che di intensità del servizio offerto restano al di sotto dei livelli medi europei (Caruso et al., 2013).

3 Le Società della Salute sono soggetti pubblici senza scopo di lucro, costituiti per adesione volontaria dei Comuni di una stessa zona-distretto e dell'ASL territorialmente competente, per l'esercizio associato delle attività sanitarie territoriali, socio-sanitarie e sociali integrate.

(19)

1.3

Un nuovo modello di intervento per la non autosufficienza

Il superamento dei limiti appena descritti richiede un nuovo modello di offerta che risponda a due principi: da un lato, l‟estensione della copertura dei bisogni di assistenza a tutti gli anziani non autosufficienti; dall‟altro, l‟incremento del livello delle prestazioni in termini di ore di assistenza di base e cura tutelare. Nella proposta tale duplice obiettivo è conseguito nel seguente modo:

i) mantenimento della cd. quota sanitaria, tanto nella residenzialità quanto nella domiciliarietà, nella copertura del Fondo Sanitario Nazionale;

ii) invarianza della attuale quota di non autosufficienti trattati nelle residenze sanitarie assistite pubbliche (RSA) o convenzionate;

iii) erogazione delle prestazioni domiciliari in funzione dei fabbisogni stimati attraverso il sistema RUG4, integrato per l‟assistenza tutelare;

iv) erogazione delle prestazioni domiciliari mediante una figura professionale che sia contrattualmente equiparabile alla cd. badante;

v) individuazione di un opportuno meccanismo di finanziamento dei cd. costi sociali delle prestazioni domiciliari e di quelli residenziali al netto dei costi alberghieri;

vi) partecipazione degli utenti al costo delle prestazioni, a causa della natura di bene non pubblico puro dei servizi offerti.

In questo schema, basato sulla socializzazione del rischio di non autosufficienza, ogni contribuente pagherebbe un ammontare annuo di risorse (da calcolarsi sull‟imponibile fiscale o contributivo), mentre tutti i non autosufficienti riceverebbero un trasferimento che consentirebbe loro di coprire le spese necessarie per l‟assistenza, con un consistente alleggerimento dei costi individuali rispetto al sistema vigente.

Un tale modello richiede per la sua implementazione i seguenti passaggi: la quantificazione del numero di non autosufficienti; la stima del carico di cura corrispondente ai bisogni effettivi; la traduzione della dote necessaria di servizi in un valore monetario; la costruzione di un consolidato delle risorse pubbliche già disponibili; il calcolo, infine, del residuo di risorse da reperire con un opportuno meccanismo di finanziamento. Di seguito sono descritte le suddette fasi.

1.3.1 Il numero di non autosufficienti

Per la quantificazione dei non autosufficienti è stato fatto riferimento alla definizione adottata da ARS (2009) nello studio di popolazione BiSS, basata su un incrocio di 27 diversi profili di bisogno legati alla dipendenza nelle attività di base della vita quotidiana e alle problematiche di natura cognitiva e di comportamento. Partendo da questa classificazione i soggetti non autosufficienti sono stati collocati in 5 livelli di isogravità, attraverso uno studio Delphi che ha visto la partecipazione di esperti nella valutazione dello stato di salute degli anziani.

4 Brizioli E, Bemabei R, Grechi F. et al. (2003); Fries B.E., Schneider D.P., Foley W.J., Gavazzi M., Burke R., Cornelius E. (1994);

Fries B.E., Cooney L.M. Jr. (1985).

(20)

Tabella 1.2

CRITERI DI CLASSIFICAZIONE DEL LIVELLO DI ISOGRAVITÀ DEL BISOGNO SULLA BASE DEI PROFILI FUNZIONALI - COGNITIVO - COMPORTAMENTALI

Compromissione cognitiva

Dipendenza BADL

Lieve Dipendenza BADL

Moderata Dipendenza BADL

Grave Disturbi del comportamento e dell’umore

Assente-Lieve Moderata Grave Assente-Lieve Moderati Grave Assente-Lieve Moderata Grave

Assente-Lieve 1 2 3 2 3 4 4 4 5

Moderata 2 2 3 3 3 4 4 4 5

Grave 3 3 4 3 4 5 4 5 5

Fonte: ARS

La tabella sottostante riporta una descrizione della tipologia di pazienti identificata da ciascuno dei 5 livelli di isogravità.

Tabella 1.3

DESCRIZIONE DELLE TIPOLOGIA DI PAZIENTE PER LIVELLO DI ISOGRAVITÀ

Livello 1 Persone pienamente collaboranti, senza problemi di memoria né disturbi del comportamento, che necessitano di un aiuto fisico leggero non continuo per compiere le attività di base della vita quotidiana;

Livello 2

Persone che, oltre ad avere bisogno di un aiuto fisico leggero non continuo per compiere le attività di base della vita quotidiana, presentano un leggero decadimento cognitivo e/o moderati disturbi del comportamento che riduce la loro collaboratività nell’assistenza; oppure persone pienamente collaboranti che però necessitano di moderato aiuto per compiere le attività di base della vita quotidiana;

Livello 3

Persone che oltre ad avere bisogno di un aiuto lieve e non continuo per compiere le attività di base della vita quotidiana, presentano un grave decadimento della funzione cognitiva o gravi disturbi del comportamento che rendono l’assistenza più difficile; oppure persone che necessitano di un aiuto fisico di livello intermedio per compiere le attività di base della vita quotidiana, poco collaboranti a causa di un decadimento della funzione cognitiva moderato o grave o che presentano un livello moderato nei disturbi del comportamento;

Livello 4

Persone che necessitano di un aiuto fisico pesante per compiere le attività di base della vita quotidiana, poco collaboranti a causa di un grave o moderato decadimento della funzione cognitiva e che presentano disturbi del comportamento di livello moderato;

oppure persone che necessitano di assistenza pesante o totale nello svolgimento delle attività di base della vita quotidiana, come nel caso di uno stato vegetativo persistente;

Livello 5 Persone che necessitano di un aiuto fisico pesante per compiere le attività di base della vita quotidiana, per niente collaboranti a causa di un decadimento della funzione cognitiva moderato o grave, ma soprattutto di gravi disturbi del comportamento che richiedono peraltro sorveglianza continua.

Fonte: ARS

Dalle nostre elaborazioni risultano in Toscana presenti oltre 86mila anziani non autosufficienti nel 2014, di cui circa 10mila ricoverati in RSA convenzionate, e gli altri distribuiti nei 5 livelli di isogravità (Tab. 1.4). Proiettando su questa base l‟evoluzione demografica della struttura della popolazione toscana e assumendo che ogni anno guadagnato in termini di speranza di vita sia speso, mediamente, per metà in buona salute, è previsto al 2030 un aumento di circa il 21 per cento della platea di ultra 65enni non autosufficienti.

(21)

Tabella 1.4

IL NUMERO DI NON AUTOSUFFICIENTI PER LIVELLO DI ISOGRAVITÀ: STIMA E PROIEZIONI

Scenario centrale

2014 2020 2025 2030

RSA convenzionati 10.049 10.896 11.478 12.177

1 13.872 14.651 15.472 16.298

2 8.568 9.241 9.787 10.388

3 17.928 19.529 20.564 21.771

4 27.918 30.365 31.982 34.056

5 8.412 9.373 9.801 10.424

TOTALE 86.749 94.054 99.083 105.114

Fonte: nostre elaborazioni su dati ARS e ISTAT

1.3.2 Il fabbisogno di assistenza, le modalità organizzative e i costi

Le fasi successive alla quantificazione del numero di non autosufficienti attengono alla scelta del mix tra prestazioni residenziali e domiciliari, alla determinazione dei livelli di assistenza, all‟individuazione delle modalità organizzative e dei relativi costi.

Il fabbisogno ed i costi dei servizi residenziali

Il modello proposto ipotizza di lasciare invariata l‟attuale quota di non autosufficienti in residenza. Pertanto per ricostruire le risorse assorbite dalla residenzialità è necessario conoscere il numero di soggetti non autosufficienti accolti in strutture e il relativo costo per utente. Nel 2014 si stimano circa 10 mila i non autosufficienti presenti nelle strutture residenziali toscane. I costi dei servizi delle strutture residenziali sono distinti in due quote: sanitaria e sociale. In base ai dati in possesso degli uffici regionali, confermati da interviste svolte con alcuni rappresentanti delle cooperative sociali operanti in Toscana, il costo per utente della quota sanitaria, a carico del SSN, è mediamente attorno ai 1.600 euro al mese. La quota sociale, anch‟essa quantificabile attorno ai 1.600 euro, è invece distribuita tra il paziente e il Comune, secondo un sistema di compartecipazione diverso da territorio a territorio. Della quota sociale fa parte anche il costo del servizio alberghiero erogato dalla struttura, che è quantificabile nell‟ordine di 450 euro al mese per utente. La spesa complessivamente sostenuta dalle strutture pubbliche e dalle famiglie per i servizi residenziali corrisponde quindi a circa 386 milioni di euro (Tab. 1.5).

Tabella 1.5

COSTO E UTENTI DEI SERVIZI RESIDENZIALI Costo per utente

(euro/mese) N. utenti Costo complessivo (mln euro)

Quota sanitaria 1.600 10.049 193

Quota sociale 1.600 10.049 193

di cui alberghiera 450 10.049 54

Fonte: nostre elaborazioni su dati ARS e RT

Il fabbisogno ed i costi dei servizi domiciliari

Tutti i non autosufficienti che non entrano nelle strutture residenziali hanno diritto, nel nostro schema, all‟assistenza domiciliare. Per quantificare il fabbisogno complessivo di servizi

(22)

domiciliari occorre quindi associare a ciascun livello di isogravità una stima del tempo medio di assistenza per tipo di prestazione. Distinguiamo dunque l‟assistenza di base, necessaria per svolgere le attività fondamentali della vita quotidiana, come lavarsi, mangiare, alzarsi, coricarsi, dall‟assistenza tutelare, che serve a garantire la sorveglianza nei casi più gravi di deficit cognitivo e disturbi del comportamento.

Il fabbisogno della assistenza di base è stato stimato applicando il sistema RUG5 che, grazie alla collaborazione di una Unità di Valutazione Multidimensionale del territorio, ha permesso di ricostruire l‟indice di case mix medio dei 27 profili funzionali -cognitivi - comportamentali. La media di tali indici e dei rispettivi minuti di assistenza attesi, pesata per prevalenza di popolazione di ciascun profilo all‟interno dei livelli di isogravità, costituisce la stima del tempo medio di assistenza di base attesa nei 5 livelli di isogravità.

Poiché il tempo atteso per la sorveglianza attiva è compreso di default nell‟assistenza residenziale, quindi non rilevato direttamente dai RUG, per l‟assistenza tutelare è stato stabilito a priori un quantitativo medio di ore di sorveglianza nei diversi profili funzionali - cognitivi - comportamentali, e cioè:

- 0 ore di assistenza tutelare ai soggetti con non autosufficienza solo funzionale, preservando le ore di assistenza di base calcolata col precedente sistema;

- 12 ore per persone con deficit cognitivo moderato/grave e disturbi del comportamento moderati;

- 24 ore per persone con deficit cognitivo moderato/grave e disturbi del comportamento gravi.

Come per l‟assistenza di base, il tempo medio di sorveglianza attiva è stato stimato come la media dei tempi attesi pesata per prevalenza di popolazione in ciascun profilo all‟interno dei livelli di isogravità. I risultati della stima del fabbisogno di attività di base e assistenza tutelare sono riportati in tabella 1.6.

Tabella 1.6

STIMA DEL FABBISOGNO DI ASSISTENZA PER I SERVIZI DOMICILIARI PER LIVELLO DI ISOGRAVITÀ (H/DAY)

Livello isogravità Assistenza tutelare Attività di base

1 0h 1h 20’

2 8h 1h 50’

3 12h 2h 5’

4 12h 2h 10’

5 18h 2h 30’

Fonte: nostre elaborazioni sui dati ARS

Individuato il fabbisogno di assistenza, il passo successivo riguarda la determinazione del costo orario delle prestazioni offerte.

Le attività di assistenza sociale domiciliare, sia di base sia tutelari, nella pratica possono essere svolte da una varietà di figure, con livelli di qualifica più o meno elevati. Ovviamente, ai vari profili corrispondono costi orari sostanzialmente diversi. Il costo orario di un operatore socio-sanitario (qualifiche OSA e OSS) si aggira attorno a 18 euro lordi all‟ora6, quello degli operatori domestici (badanti) varia tra circa 9 euro lordi l‟ora per un tempo pieno diurno e 6

5 il RUG (Resource Utilization Groups - RUGs) è uno strumento che consente di classificare, in base ad alcuni parametri estratti dal protocollo di valutazione multidimensionale VAOR (Valutazione dell'anziano Ospite di Residenza), gli ospiti delle residenze sanitarie assistite in 44 gruppi omogenei (RUGs) per tipologia del bisogno assistenziale ed assorbimento di risorse sia in termini di peso assistenziale che di minuti giornalieri di assistenza attesi (assistenza di base, infermieristica, riabilitativa).

6 Il dato si riferisce al costo di tali figure operanti nelle cooperative sociali presenti sul territorio.

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euro lordi l‟ora per un collaboratore convivente7. In questo lavoro sono state effettuate varie ipotesi sulle modalità di erogazione delle prestazioni sociali e dei relativi costi. La prima modalità prevede che per il primo livello di isogravità le ore di assistenza di base siano effettuate dall‟operatore socio-sanitario, mentre per i livelli successivi tutta l‟assistenza, di base e tutelare, sia svolta dalle badanti. La seconda modalità, invece, suppone che le attività di assistenza di base siano svolte da operatori socio-sanitari e l‟assistenza tutelare dalla badante. La terza modalità prevede, infine, che il modello di finanziamento copra solo le attività di assistenza di base, attraverso l‟operatore socio-sanitario, mentre la sorveglianza rimanga a carico della famiglia. Di seguito ci riferiremo alla prima modalità, che tiene insieme l‟obiettivo della copertura universale dei bisogni e della sostenibilità economica. I relativi costi sono riportati in tabella 1.7.

Tabella 1.7

COSTO E UTENTI DEI SERVIZI DOMICILIARI SOCIALI PER LIVELLO DI ISOGRAVITÀ

Livello isogravità Costo per utente

(euro/mese) N. utenti Costo complessivo (mln euro)

1 624 13.872 95

2 1.399 8.568 144

3 1.399 17.928 301

4 1.399 27.918 469

5 2.396 8.412 242

TOTALE 76.700 1.251

Fonte: nostre elaborazioni su dati ARS e RT

Il fabbisogno finanziario complessivo e le modalità di finanziamento

Il modello descritto in Toscana costerebbe circa 1,7 mld. di euro. Al netto della quota sanitaria, che rimarrebbe a carico della fiscalità generale, e delle risorse pubbliche attualmente stanziate (indennità di accompagnamento8 e spesa sociale comunale), il valore da finanziare ammonterebbe a circa 880 milioni di euro (Tab. 1.8). Poiché i benefici delle prestazioni sono individuali, inoltre, una quota di risorse a discrezione del decisore pubblico spetterebbe direttamente all‟utenza sotto forma di una compartecipazione da realizzarsi sulla base dell‟ISEE9.

Tabella 1.8

COSTO COMPLESSIVO, RISORSE ATTUALI E FINANZIAMENTO INTEGRATIVO (MLN EURO). 2014

COSTO COMPLESSIVO (A + B + C + D) 1.737

Quota sanitaria servizi residenziali (A) 193

Quota sociale servizi residenziali (B) 139

Quota sanitaria servizi domiciliari (C) 155

Quota sociale servizi domiciliari (D) 1.251

COSTO COMPLESSIVO SOCIALE (B + D) 1.389

RISORSE PUBBLICHE ATTUALI (E + F) 509

Indennità di accompagnamento (E) 406

Spesa comunale sociale (F) 103

FINANZIAMENTO INTEGRATIVO (B + D - E - F) 880

Fonte: nostre elaborazioni sui dati ARS e RT

7 Dati stimati attraverso il CCNL badanti.

8 Per l'indennità di accompagnamento è stata stimata la quota destinata alla popolazione di non autosufficienti attraverso l'indagine BISS.

9 Ulteriori schemi potrebbero essere introdotti attraverso la mobilizzazione della ricchezza patrimoniale degli utenti.

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