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ottobre dicembre 2012
Vuoti di sapere
Premessa 3
Giovanni Scibilia Raccolta. Di Richter, DeLillo
e alcuni “vuoti d’arte” 7
Paulo Barone Passaggi a vuoto. Moribondi,
visionari, desperados, “vita nova” 22 Antonello Sciacchitano Saggio sulla “res
intensa” o l’involucro della cosa epistemica 45 Rosella Prezzo Ricominciare da capo. La nascita 63
INTERVENTI
Massimiliano Nicoli “Io sono un’impresa.”
Biopolitica e capitale umano 85 Raoul Kirchmayr Parresia, giochi di verità
e vita filosofica nell’ultimo Foucault 100 Francesco Valagussa L’autore e la danza.
La questione della causa in tre dialoghi
di Valéry 122
DISCUSSIONI
Luca Taddio Fenomenologia eretica
“iuxta propria principia” 141 IN DIALOGO CON PETER SLOTERDIJK Ubaldo Fadini Pensare la mediazione attraverso
il cinismo. Tra Gehlen e Foucault 157 Giuseppe Ferraro L’arte della fuga 169
POST
Il nome del traduttore [P.A.R.] 183
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Finito di stampare nel novembre 2012
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Premessa
L esperienza fatta per il numero dedicato al Coraggio della filosofia ci ha portato a ri- flettere per l’ennesima volta su cosa voglia dire per noi “fare filosofia”, e più in generale pensare, consapevoli che esercitare un sapere (o un saputo) non significa esercitare il pensiero. In quell’occasione abbiamo intuito (Anschauung che ci ha intimamente unito e su cui in seguito abbiamo a lungo meditato) che ciò che era realmente in gioco in quelle domande non poteva avere a che fare solo con le conoscenze di cui eravamo più o meno diversamente in possesso (il know-how, le competenze si chiamano oggi, la professionalità filosofica, così celebrata nelle accademie del pianeta), ma molto più con un’urgenza di “pensiero” che distur- bava le nostre enciclopedie, i nostri Sacri Nomi, le nostre stesse categorie. Più che un pensiero già formulato, quindi, un assillo, un’inquietudine, un’insofferenza verso “il proprio vischioso voca- bolario ufficiale di partenza” (Barone), in cui “si smette di pensare quando ancora si crede di farlo” (Prezzo).
Questo pensiero ha così fatto vuoto nei nostri saperi, creando un effetto di “nudità”: “noi, vuoti di sapere” (prima accezione del termine) in un paradossale e parossistico “pieno di sapere”. E non tanto perché dogmatico, ma perché saturo e debordante: un sapere che si è tutto esternalizzato, come un Blob televisivo, diventando una massa gelatinosa e caotica, che si estende come una pellicola appiccicosa in cui noi stessi siamo catturati; o che, di converso, si
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dà dei nuovi trainer dello spirito come prêt-à-porter, come esercizio ginnico per rimettere in forma le nostre vite.
“Vuoti di sapere” certo lambisce l’epoché fenomenologica sen- za veicolare, però, alcun volontarismo, alcuna intenzionalità. Una simile condizione ci sembra di non averla né voluta né cercata, ci si è piuttosto imposta come una necessità e, allo stesso tempo, co- me una chiamata: è in primo luogo il nostro presente che ci vuole
“vuoti di sapere”. Non è solo una possibile risposta a un tema di inflazione, di proliferazione incontrollata di conoscenze, modelli, teorie, strumenti. È piuttosto il tentativo di resistere a una volontà di sapere che diventa coazione a concettualizzare accumulo e consumo, ovvero prendere (be-greifen, certo) e mettere da parte, procedere, progredire, inseguendo l’inevitabile correre del tempo. È così iniziata per noi un’operazione di “svuotamento” (seconda accezione del termine), non certo per rifiutare o negare il sapere (se qualcosa del genere è immaginabile), semmai per sospenderne il più possibile l’implacabile voracità e ricreare, sul suo margine, anzitutto uno spazio per sentire in modo diverso, per una “nuova sensibilità” e differenti “mezzi di visibilità”.
Dalla scena della rappresentazione del mondo – il mondo dei fatti e delle procedure, opposto alle parole e al pensare, ma anche il mondo troppo rapidamente giunto alla propria fine e alla fine del tempo e della storia, “decaduto” – verso il tentativo di una pratica plurale dell’immanenza del presente come spazio di potenzialità.
Quanto di più lontano da ogni forma di nichilismo: il vuoto non è il nulla né lo svuotamento mira alla nientificazione, semmai sfrutta questa condizione di “nudità” per articolare un nuovo sguardo su ciò che si dà, sul mondo appunto, e sull’essere al mondo, ma anche nel mondo come superficie in cui ormai convergono culture e tradizioni diverse. Da questa prospettiva il presente si configura non come spazio di presenze e cose ma come luogo che è conglo- merato inestricabile di tracce, riverberi di oggetti e fatti, feticci (cfr.
Barone). Esso non fa più scena, non sta più di contro al pensiero, o
sullo sfondo, ma è sempre inevitabilmente “tra” o “con” il pensiero
stesso, “di lato” o “alle spalle” di esso, in una immanenza reciproca,
o in una trascendenza minima, che, invece di sollevarlo, piuttosto
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lo incide, lo segna. Il presente si cristallizza, direbbe Deleuze, in- globando e scartando passato e futuro, lasciando baluginare così nuove possibili frontiere del senso. La contemporaneità è quindi qui, sia l’inevitabile immanenza del pensiero, sia questo luogo in cui la luce si fa scarsa e fioca, la visibilità si abbassa e precarizza, presente e passato si confondono ma, proprio per questo, sembra potersi vedere e sentire di più e meglio, un po’ come avviene in certi quadri di Richter (cfr. Scibilia) o di Rothko. Soprattutto, da questo modo di pensare il presente è possibile cogliere qualcosa di diverso, qualche aspetto nascosto, per esempio avvertire tutta la forza e l’importanza di un impensato come la “nascita” (cfr.
Prezzo), noi che alla morte siamo certamente destinati ma anche inspiegabilmente consegnati dalla nostra tradizione (si pensi solo al Dasein zum Tode di Heidegger). O ancora ritrovare nella “pelle” la nostra “anima” (res intensa, cfr. Sciacchitano), pelle su cui i grandi non-concetti (il Padre, la Donna, l’Oggetto), su cui da sempre ci interroghiamo, lasciano le loro tracce e descrivono qualcosa di sé.
Oppure ancora sperimentare la singolarità delle cose nel punto di “sparizione originaria” del tradizionale campo dialettico del pensiero (cfr. Barone)
Nella topologia delocalizzata del presente in cui nessun punto conta realmente più di un altro ma tutto riverbera con tutto, il soggetto non ha modo di sottrarsi, semmai è sempre inevitabil- mente co-in-volto, ovvero collettivamente preso dentro. Per questo motivo, “Vuoti di sapere” nasce come pratica completamente segnata dall’autobiografia e come esperienza di un gruppo che si trova a pensare all’unisono pur pensando cose completamente diverse secondo modalità del tutto differenti. Privi di “genere” e programma di qualsiasi tipo, parliamo da uno spazio comune, il presente come evento, che costitutivamente si sottrae e che cer- chiamo di trattenere configurando luoghi diversi. Non una casa comune, quindi, un rifugio, un tetto che unifica e ripara, piuttosto uno spazio caotico, esposto, aggressivo e pulsante che chiede nuove configurazioni plurali.
Non a caso nei nostri testi due sono gli elementi fondamentali
ricorrenti e costanti. Per ragioni diverse e in modi diversi, tutti ci
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interroghiamo sulle implicazioni di alcune “immagini” (da quella di un barcone di immigrati che emerge dal buio alle tele di Richter dedicate alla
RAF, dagli stracci e dai battiti del cuore di Personnes di Boltanski ai tatuaggi). È partendo da queste immagini che ci sforziamo non di ritrovare la via del racconto, che ci sembra ormai fatalmente illusoria, semmai di configurare delle descrizioni capaci di individuare una loro coerenza interna e di mostrare qualcosa di parzialmente inedito e inaudito, sollecitando così un nuovo tipo di ascolto e di visione.
11. Ci auguriamo che “Vuoti di sapere” rimanga uno spazio aperto a ulteriori incursioni ed esplorazioni del paesaggio contemporaneo. Silvana Borutti ha già espresso la sua intenzio- ne di lavorare “a partire dalle immagini che ci riportano la figura dell’assente, o dell’oggetto enigmatico e inesauribile che cova nel pensiero”.
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aut aut, 356, 2012, 7-21
Raccolta. Di Richter, DeLillo e alcuni “vuoti d’arte”
GIOVANNI SCIBILIA
1. Vuoti di sapere ed esperienza artistica
“Vuoti di sapere”: che titolo è? Cosa, quali temi e argomenti può inquadrare? Ci si è imposto, probabilmente, proprio per la sua resistenza a “fare quadrato” attorno a questioni che si ritrovereb- bero altrimenti ridotte a “entità” facilmente circoscrivibili (i temi, appunto). “Vuoti di sapere”, quindi, non palesa alcuna particolare vocazione disciplinare, sembra anzi alludere a un ritrarsi dei saperi e delle competenze (oltre che delle metodologie, degli strumenti…) che lascia in consegna una sorta di nudità in cui in qualche modo ci riconosciamo. In realtà, il titolo non dice “saperi” al plurale ma allude a un sapere singolare, come fosse unico, quello. Immagino questo “sapere” come la posta in gioco del pensiero, la sua ragion d’essere, il suo “perché”, qualcosa attorno a cui il pensiero (e la filosofia) da sempre si interrogano e che da sempre lambiscono. In sostanza, penso questo “sapere” come fosse (una) “verità”, senza per questo necessariamente espormi sulla sua esistenza. “Verità”
resterà in queste pagine una tensione, destinata a rimanere ap- punto “vuota”, senza oggetto. Siamo, cioè, contemporaneamente sempre più “vuoti, privi di verità”, o sapere fondamentale, ma allo stesso tempo tendiamo verso una “verità come vuoto”, uno spazio attorno a cui la nostra esistenza possa liberamente circolare. Anzi:
ciò che vorrei sostenere è che questo vuoto debba restare tale
perché si possa dare senso senza saturazione di senso e che ogni
riempimento del vuoto sia, allo stesso tempo, tanto inevitabile e
necessario quanto strutturalmente minaccioso.
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Ho pensato che l’“esperienza artistica” possa servire da guida eccellente in questo percorso per più di una ragione. Sullo sfondo, è certo l’esperienza costitutivamente fallimentare dell’arte a influen- zarmi, il suo mancarsi concettuale grazie al suo carattere sempre lo- cale, sempre limitato all’esser-lì dell’opera. Questo sfondo hegeliano su cui sempre, alla fine, faccio leva mi sembra dopotutto un buon preludio per accedere a un pensiero meno metafisicamente impli- cato. Ma soprattutto, in questo caso, è il rapporto tormentato con mimesis che mi pare mettere la pratica dell’arte in una condizione ottimale per avvicinarsi ai “vuoti di sapere” che qui ci occupano. Per dirla nei termini di Sciacchitano:
1la tensione mimetica (per esempio tra fotografia e pittura) permette all’esperienza artistica di occupare uno spazio topologicamente paradossale (intriso di vuoto); esso sta tra l’esser “pelle” della res extensa (pelle che Sciacchitano chiama res intensa), ovvero la forma di un corpo (per esempio quello di un terrorista morto), e il “tatuaggio” che su questa pelle si inscrive, nel momento in cui essa interseca un “pensiero asferico e aconcettuale”
(per esempio “terrorismo” nella Germania del dopoguerra). Per rafforzare ulteriormente questo aspetto, non parlo nemmeno di
“arte” ma di “esperienza artistica” intesa non come l’esperienza dell’artista (per quanto un’esperienza possa essere appropriabile) ma l’esperienza di chi guarda (e non solo, probabilmente) un’opera d’arte. Cerco di comprendere come una simile esperienza possa diventare “sapere” e in particolare “vuoto di sapere” nel duplice senso di “sapere che manca” – buco, foro, falla nel sapere – e
“sapere come vuoto”, perno (vuoto ma non assente) attorno a cui l’esperienza stessa circola.
2Per questo motivo non parlerò direttamente di esperienze arti- stiche che con il vuoto hanno lavorato, in particolare dall’inizio del Novecento ai giorni nostri. Anche se queste esperienze raccontano soprattutto del carattere singolare del vuoto, ovvero del suo alludere
1. Cfr. A. Sciacchitano, Saggio sulla “res intensa” o l’involucro della cosa epistemica, in questo fascicolo.
2. Espressioni come “spazio attorno a cui”, “buco” o “perno” non rendono giustizia della natura topologicamente diffusa e imprendibile di questi vuoti. Restano metafore ap- prossimative che facilitano la visualizzazione e la comprensione del discorso.
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strutturalmente sempre a un “pieno” che viene sottratto: non vuoto ma s-vuotamento, operazione che non essenzializza mai il vuo- to ma lo produce nell’operare artistico
3– aspetto, anche questo, che molto ha a che vedere con l’operazione che vorremmo tentare con questo fascicolo. Cercherò, invece, di mostrare come il vuoto lavori a più livelli un’opera peculiarmente “figurativa” come è 18 Oktober 1977, serie di quindici dipinti dedicata da Gerhard Richter nel 1988 ad alcuni membri della Baader-Meinhof e, in particolare, alla loro inquietante morte nel carcere di Stammheim (la data ricor- da proprio il “suicidio” di tre membri della
RAF: Gudrun Ensslin, Andreas Baader e Jan-Carl Raspe). Perché proprio Richter e perché proprio quest’opera? Tre motivi fondamentali: in primo luogo, Richter è uno dei massimi interpreti della “tensione mimetica”
che attraversa l’esperienza artistica nella contemporaneità, grazie a una singolare interrogazione del rapporto figurativo-astratto (Richter dipinge sia fotopitture figurative sia grandi astrazioni e il suo lavoro viene spesso interpretato come pratica postconcettuale, una sorta di meta-pittura che riflette su meccanismi e dinamiche della rappresentazione);
4in secondo luogo, il ciclo ricopre un ruolo emblematico in questo gioco legato al rappresentare/non rappre- sentare: Richter torna in questa occasione a dipingere “figure” (ma il loro statuto è la posta in gioco dell’operazione, come si capirà) dopo anni di astrazione, fatto che pone Oktober come una sorta di apax nella produzione dell’artista; in terzo luogo, l’operazione interviene su un “vuoto di sapere” intuitivo (come e perché sono morti i membri della
RAFa Stammheim?), e lo fa con una strategia
3. In effetti, il percorso che dai quadrati nero e bianco di Malevicˇ porta alla decisione di non esporre di Yves Klein, Laurie Parsons o Maria Eichhorn e molti altri, si fonda in verità su un progressivo s-vuotamento del processo pittorico ed esibitivo. Le esposizioni completamente “vuote” portano in primo piano gli spazi di gallerie e musei: il vuoto d’opera corrisponde cioè a un pieno dello spazio in cui l’opera si situa. È quindi sempre un vuoto che ha a che fare o è compenetrato con un pieno. Per una rassegna su questi temi cfr. Vides.
Une rétrospective, JRP, Zurich 2009, catalogo della mostra tenuta nello stesso anno al Centre Pompidou di Parigi/Metz e alla Kunsthalle Bern.
4. Nella cospicua bibliografia sul tema del complesso rapporto tra figurazione e astra- zione in Richter rimando in particolare a P. Osborne, Abstract images: Sign, Image, and Aesthetic in Gerhard Richter’s Painting, in B.H.D. Buchloh (a cura di), Gerhard Richter, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 2009, p. 95.
22 aut aut, 356, 2012, 22-44
Passaggi a vuoto. Moribondi, visionari, desperados, “vita nova”
PAULO BARONE
Installazione (Gestell)
Prima il Grand Palais di Parigi, poi l’Armory di New York, quin-
di l’Hangar-Bicocca di Milano sono state le tappe, nel 2010, di
una mostra itinerante di grande rilievo di Christian Boltanski. In
questi spazi smisurati l’artista incrociava contemporaneamente
due “idee”. Da un lato, offriva a tutti i visitatori la possibilità di
registrare a turno il loro battito cardiaco, che veniva amplificato
nella sala. Ogni volta, per qualche secondo, si ascoltava nell’aria
il suono di un certo battito vitale, unico e irripetibile. Al di là
dell’ascolto diretto, tuttavia, il progetto di Boltanski – cominciato
nel 2008 – era quello di archiviare tutti i battiti su un hard disk
e di conservarlo nell’isola di Teshima, in Giappone, in un centro
per l’arte contemporanea disegnato da Tadao Ande, dove chiun-
que avrebbe potuto recarsi in futuro per riascoltare quella certa,
conosciuta, sequenza cardiaca, ma soprattutto i battiti di quelle
persone che, viventi all’epoca della registrazione, sarebbero un
giorno scomparse. Il titolo di questa prima “sezione” era, non a
caso, Les archives du cœur. Parallelamente, per tutta l’estensione
dello spazio espositivo, venivano disposti sul pavimento duecen-
tomila abiti usati, o suddivisi in piccoli lotti illuminati dal neon,
oppure accatastati a formare una specie di montagna alta dieci
metri, a sua volta sormontata da una gru che, con un’enorme mano
meccanica, sembrava intenta a impastare il vestiario abbandonato,
sollevandolo e lasciandolo ricadere (con un probabile riferimento
al lager). Anche questa sezione aveva un titolo significativo, Per-
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sonnes, ovvero “persone” e, insieme, “nessuno” (No Man’s Land nella tappa newyorkese).
Qualunque sia il grado di suggestione e di fascinazione offerto dall’una o dall’altra sezione, occorre non cedere alla tentazione di considerarle separatamente e poi di assemblarle o di giustapporle alla rinfusa. La potente forza d’impatto di questa installazione va cercata piuttosto nell’equilibrio sottile e misterioso con cui le due, attraverso un insondabile punto di contatto, si combinano assieme. In virtù di tale combaciamento – vero e proprio fulcro dell’operazione – Archives du cœur e Personnes mettono in tensione i rispettivi elementi e danno luogo a un campo di forze unitario:
impronte istantanee, uniche e anonime, di una bizzarra collezione sonora e, insieme, l’ammassarsi e il rimescolarsi continuo delle nostre spoglie, dei nostri “effetti personali”, forme deposte di tutti e di nessuno. Tutto ciò che attraversa questa piccola camera magnetica sembra subire un trattamento analogo a quello che certi rituali primitivi riservavano al nemico (o una certa immaginazione religiosa popolare all’individuo in punto di morte): espianto dal corpo del suo nucleo più nobile e vitale – il cuore, appunto, o il cervello (o l’anima che esala) – e abbandono, conseguente, dei suoi resti disanimati.
Ma la secolare suddivisione tra polpa e buccia conosce qui un
aggiornamento meno cruento e ben più significativo. Il campo
magnetico prodotto da Archives e Personnes possiede, infatti, la
speciale prerogativa di assorbire, di aspirare al proprio interno la
conformazione abituale e l’andatura ordinaria delle cose e di resti-
tuircele addossate d’un tratto al limite estremo di loro stesse. Così
facendo, questo vortice magnetico non preleva una parte a scapito
di un’altra, non decide a favore dell’una piuttosto che dell’altra,
come potrebbe sembrare. Al contrario, esso condensa e concentra
la presenza delle cose in uno spasmo, coinvolgendo tutte le sue
componenti di partenza senza sacrificarne nessuna. Portando le
cose al culmine della loro visibilità e della loro dicibilità, esso ce
le mostra laddove sono ferme sul punto di svanire. In tal senso,
il battito puntiforme e i resti di ciò che ciascuna cosa è (stata)
danno luogo alla particolare immagine ristretta e al tempo stesso
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sovraccarica, apparentemente immobile e ciononostante sfuggente della scena contemporanea, al ritratto perfetto dello svuotamento per eccesso del nostro presente, rarefatto nella miriade di punti evanescenti che non finiscono di popolarlo, sommerso dalle ster- minate quantità di rifiuti e di resti che non smettono di dilatarlo e di sovvertirlo. Un’immagine, forse, di un nuovo, intensificato e transitorio, modo-limite di esistere.
Moribondi al cinema del presente
Nelle lezioni su Spinoza tenute all’Università di Vincennes tra il 1980 e il 1981,
1Deleuze si sofferma ripetutamente sulla nozione di affectus, distinguendola radicalmente da quella di idea. Pur essendo entrambe “modi del pensiero”, l’affectus si caratterizza per il fatto di non rappresentare nulla, di essere un modo non rappresentativo di pensare. Naturalmente – spiega Deleuze – l’affectus presuppone sempre, in Spinoza, una preminenza logica e cronologica dell’idea – un pensare, dunque, per definizione rappresentativo – con cui è in rapporto. Ma sarebbe un “fraintendimento disastroso” in- terpretare tale preminenza come una semplice riduzione: “L’idea e l’affectus […] differiscono per natura e sono irriducibili l’uno all’altro”.
2Questa differenza spiega perché affectus non vada confuso con affectio. L’affectio – affezione – costituisce, per l’appunto, il primo tipo di idea (confusa e inadeguata), frutto di una combinazione, di una composizione di corpi, “uno che agisce e l’altro che viene segnato dalla traccia del primo”. L’affezione è dunque “l’effetto immediato che l’immagine di una cosa ha su di me”:
3un’idea di primo genere cui seguono l’idea di “nozione comune”, e quindi l’idea di “essenza”. Cosa indica allora l’affectus, l’affetto? Secondo Deleuze il termine definisce – nonostante la definizione non sia usata da Spinoza – una “variazione continua”, un aumento o una
1. G. Deleuze, Cosa può un corpo?, traduzione dalla trascrizione delle lezioni tenute dal novembre 1980 al marzo 1981, cura di A. Pardi, ombre corte, Verona 2007. Nel testo è aggiunta la lezione introduttiva del 24 gennaio 1978, <www.webdeleuze.com>.
2. Ivi, p. 43.
3. Ivi, p. 107.
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aut aut, 356, 2012, 45-62
Saggio sulla “res intensa”
o l’involucro della cosa epistemica
ANTONELLO SCIACCHITANO
L a prima parte di questo saggio traduce in termini topologici l’articolo 3 delle Passio- ni dell’anima di Cartesio. Estende la defi- nizione cartesiana fino a comprendere la teoria degli affetti, intesi come affezioni del corpo, cioè come idee corporee non chiare e non distinte, elaborata da Spinoza nell’Ethica. Si presenta la tran- sizione dell’anima dalla concezione platonica del nocchiero pian- tato dentro la nave (con il corollario della concezione agostiniana della verità che abita dentro l’uomo) alla concezione moderna dell’anima come rivestimento esterno del corpo, la sua pelle, se- condo Didier Anzieu. Nella seconda parte del saggio presento la res intensa come superficie delimitante della res extensa. In senso topologico, la res intensa non è del tutto vuota, ma vuota di punti interni, come frontiera della res extensa. In questo senso è costitu- ita da “vuoti di sapere” (al plurale). Contiene le tracce (le interse- zioni) di pensieri che non possono essere pensati in modo comple- to; sono pensieri non concettuali come il femminile, il paterno, l’inconscio, la follia, l’infinito, il mercato, l’etica; sono pensieri che non possono essere fatti rientrare in una concettualizzazione cate- gorica, che dica le cose come stanno (Sachverhalt), ma le cui tracce parziali abitano la superficie del nostro corpo, dove disegnano le figure dei nostri desideri inconsci (o affetti) come tatuaggi.
Se mai uno guarda verso l’alto, è preso da un presagio implacabilmente struggente, lui che sa che non sa,
verso coloro che non sanno che non sanno e verso coloro che sanno che sanno.
P. Klee, Poesie (1903)
Riprendo qui la nozione di cosa epistemica già affrontata in A. Sciacchitano, La Cosa epi- stemica, “aut aut”, 301-302, 2001, pp. 249-268.
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1. Augustinus antecessor?
Non qui non est, utique nec falli potest, ac per hoc sum; si enim fal- lor, sum. “Chi non è, non può nemmeno sbagliare, e perciò sono;
infatti, se sbaglio, sono.”
1L’affermazione troneggia in mezzo alla Città di Dio. Ma a qualche logico il modo di dedurre la diretta (se pecco, allora sono) dalla contrapositiva (se non sono, allora non pecco) non garberebbe molto.
2Non per sottigliezza, ma perché prudenza consiglia di non abusare del principio del terzo escluso, da cui il teorema agostinia- no dipende.
3Brouwer, il caposcuola dell’intuizionismo, si astiene dall’usare il terzo escluso “al buio”, quando non sia già nota una delle due alternative. Per lui, l’argomentazione di Agostino non sarebbe proprio erronea ma poco convincente.
4Forse che Agostino fu poco ispirato da Dio? Tutt’altro. Il guaio è che Agostino fu troppo ispirato da Aristotele, nella cui logica, che è fortemente binaria, il passaggio dalla contrapositiva alla diretta è del tutto lecito, essendo le due addirittura equivalenti.
5Ma in lo- giche meno binarie
6l’operazione non va da sé. Si capisce, allora, perché il teologo resti attaccato alla logica aristotelica. Perché è binaria come l’ontologia: l’essere è, il non essere non è. Tolta l’ontologia, la città di Dio svanisce.
Anche se non proprio in termini intuizionisti, i professori di storia della filosofia mettono in guardia dal considerare Agostino
1. Agostino, La città di Dio, XI, 26.
2. Dedurre l’implicazione diretta (se p, allora q) dalla contrapositiva (se non q, allora non p) è giustificato grazie a una tesi classica non intuizionista, nota come dimostrazione per assurdo. La dizione è impropria, perché fa credere che in logica intuizionista non valgano dimostrazioni per assurdo (vedi nota 5).
3. Prudenza vuole di stare al largo dall’onniscienza, che il terzo escluso implicitamente presuppone. Infatti, l’onniscienza avrebbe rovinose ripercussioni collettive. Come dimostra la storia, l’onniscienza di qualcuno mette a repentaglio la libertà individuale di tutti.
4. Brouwer anticipa di vent’anni e più, nella pratica matematica, il teorema di incom- pletezza dell’aritmetica di Gödel.
5. La contrapositiva (se non B, allora non A) si usa correntemente nella dimostrazione indiretta di se A, allora B. L’intuizionista preferisce eseguire dimostrazioni per assurdo assumendo la falsità dell’antecedente (invece che negarlo) e derivando contraddizioni nel conseguente (invece che negarlo); l’intuizionista rispetta certe restrizioni sulla falsificazione della negazione e dell’implicazione per non dimostrare “troppo”.
6. Il merito di Brouwer fu di aver avviato il processo di pluralizzazione delle logiche, condizione necessaria per indebolire il logocentrismo della filosofia classica.
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un predecessore di Cartesio. Hanno ragione. Il si fallor, sum non anticipa né preannuncia il cogito, sum. Non lo anticipa, perché fallor non è dubito. Affinché l’errore erri, l’essere deve essere dato in modo categorico,
7perché si possa stabilire senza dubbi se l’intelletto si adegua alla cosa. Non lo preannuncia, perché dubito, invece, non presuppone né la verità categorica né l’essere incondizionato, da infrangere con il peccato. L’essere del dubbio è, infatti, condizionato. Da che cosa? Proprio dal sapere che si interroga su se stesso, mettendosi in dubbio. Se sai, sei; quindi, sei come sai. Questa è la “rivoluzione copernicana” – sarebbe meglio dire epistemica – che non fu di Kant, ma di Cartesio. È questa la base della libertà cartesiana di Sartre e prima di lui di Spinoza.
8Va subito detto che quella epistemica non fu una rivoluzione debole, fu debolissima. Tanto che i successivi pensatori contro- rivoluzionari, come i Leibniz, i Wolff, i Kant
9e i fenomenologi a seguire ebbero buon gioco a renderla non avvenuta. La debolezza della rivoluzione cartesiana è tutta qui: nella sua sostanziale non categoricità.
10Infatti, non solo sull’essere, ma anche sul sapere Cartesio non
7. Avverto che uso il termine “categorico” (da non confondere con “categoriale”) nel senso tecnico della logica moderna di struttura che ammette solo presentazioni (modelli, rappresentazioni) equivalenti (si potrebbe dire “univoco”). “Non categorica”, invece, è una struttura che può essere presentata in modi non equivalenti. Per esempio il modello numerabile presenta l’infinito in modo non equivalente al modello continuo, perché tra i due modelli non esiste una corrispondenza biunivoca (cfr. O. Veblen, A System of Axioms for Geometry, “Transactions of American Mathematical Society”, 5, 1904, pp. 343-384).
8. “L’unico fondamento dell’essere è la libertà [di pensiero]” (J.-P. Sartre, “La liberté cartésienne”, 1946, in Situations philosophiques, Gallimard, Paris 1990, p. 308). La libertà ontologica va intesa alla Spinoza come diritto originario alla libertà di pensiero (cfr. B.
Spinoza, Trattato teologico-politico, 1670, cap. XX, 1). Si tratta sempre della precedenza del sapere sull’essere. Tale precedenza non è solo filosofica ma prima di tutto antropologica.
Due milioni di anni fa, quando in Africa entrò in scena il genere Homo, le probabilità di sopravvivenza in un ambiente scarseggiante di alberi – la savana – erano legate al saper collaborare in gruppo e al saper costruire strumenti litici per scarnificare le carcasse semi- spolpate, abbandonate dai grandi predatori.
9. Termini come Zweifel (dubbio) e Warscheinlichkeit (probabilità) sono scomparsi dalla prima Critica, che funziona tuttora da testo di riferimento del cognitivismo.
10. Più che mai evidente nella formulazione della morale par provision (cfr. Cartesio, Discorso sul metodo, 1637, Terza parte, incipit). Una morale categorica, se esistesse, sarebbe perversa prima che universalmente inapplicabile (cfr. J. Lacan, “Kant avec Sade”, 1963, in Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 675).
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aut aut, 356, 2012, 63-83
Ricominciare da capo. La nascita
ROSELLA PREZZO
L a nascita, l’essere-nati – al contrario dell’es- sere mortali, destinati dunque alla morte – ha avuto scarsissima rilevanza e attenzione
“pensante” nella tradizione filosofica, se non come immagine cri- stallizzata, o riassorbita per lo più nel problema dell’origine, del fondamento o dell’“innatismo”. Un silenzio, almeno fino alla con- temporaneità, tanto più stupefacente se si pensa a quanto costante e ridondante sia stata invece la riflessione sulla morte, quasi un
“imperativo categorico” per il filosofo (riproposto anche di recente dal pur anomalo Sloterdijk, nel suo Stato di morte apparente). Certo, un silenzio che non riguarda altrettanto la vita, poiché l’accento posto sulla morte non è dato in opposizione a essa; anzi, l’una non sta senza l’altra, come due opposti-complementari che si richiama- no. La cosiddetta domanda fondamentale della filosofia, “perché l’essere invece che il nulla?”, sembrerebbe proprio nascondere quest’altra: “Perché la vita invece che la morte?”. Non a caso la vita, anzi la Vita, ha avuto una ricchissima trattazione fino a identi- ficare un’ampia e articolata corrente filosofica e tutto un “mondo”
(la Lebenswelt). Il punto cieco è rappresentato piuttosto dalla na- scita, dal nostro comune venire al mondo, dal fatto cioè che veniamo al mondo nascendo: l’evento della nascita e la nascita come evento.
A cosa dobbiamo questa, a dir poco, indifferenza del pensiero nei
confronti della nascita, questo suo volgerle le spalle? E a che cosa il
primato filosofico della morte che ha indotto anche un tono eroico
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assunto per lo più in filosofia? Una superiorità di senso perpetuata e rielaborata da tutta una tradizione che va da Socrate/Platone, per il quale la filosofia è un continuo “esercizio di preparazione alla morte” (sebbene in lui in modo ancora molto ambivalente, perché è lo stesso Socrate a vantarsi di praticare “l’arte della maieutica”), attraversa potentemente Hegel che, secondo le parole di Bataille,
“mette la morte al lavoro”, per trovare in Heidegger il suo sommo esponente. Dove la morte, o meglio “l’essere-per-la morte”, assurge al sapere del “più proprio”, alla verità ri-velantesi dell’essere-nulla che “ci rivendica a sé”.
Di certo l’oscuramento del venire alla luce dell’umano è dovuto al legame imprescindibile della nascita con un corpo sessuato, di donna, un corpo particolarmente estraneo per la filosofia; il che ha portato a buttare via il nato insieme all’“acqua sporca”, a quelle “fœces et urina” tra cui nasciamo, come si esprime coloritamente Agostino.
Ma c’è un ulteriore aspetto, più attinente al linguaggio; e qui siamo in casa decisamente heideggeriana. Riguarda un’espressione- definizione data per scontata, mai problematizzata al punto da essere riprodotta in una sorta di meccanica ruminazione: “i mortali” quale sinonimo di “uomini”. Un’ovvietà che in realtà origina, e prende il suo senso, dalla contrapposizione degli esseri umani ai “divini”, alla loro invidiata immortalità. È all’interno di questo antico scenario cosmologico che gli esseri umani si posizionano per identità e dif- ferenza in quanto mortali; che cioè la mortalità li identifica specifi- camente nel loro essere umani, mentre la nascita è cosa in comune con gli dei (anche loro infatti nascono, benché in forme bizzarre).
Ereditando e assimilando questa implicita partizione (i divini/i mortali), la filosofia ha ereditato, inglobandola, la definizione che sovrappone in modo assoluto umani e mortali.
A prima vista Heidegger sembrerebbe segnare una profonda
rottura. Ciò è sostanzialmente dovuto al fatto che egli rinomina “l’uo-
mo”, ribattezzandolo col termine Da-sein, luogo/ente privilegiato
in cui si pone la domanda sull’Essere. Ma tale neologismo, coniato
per riformulare l’esistenza umana e indicare l’essere dell’uomo
affrancandolo dal soggetto sostanziale della metafisica, è davvero
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quel nuovo inizio che egli darebbe alla filosofia? O non piuttosto la radicalizzazione di una sua inveterata tradizione?
Il Dasein, figura centrale di Essere e tempo, si regge in realtà su un presupposto incondizionato, su un’asserzione apodittica o, se vogliamo, su un detto. È la definizione stessa, con la sua implicita identificazione di umani-mortali, a costituire la premessa sine qua non dell’analitica esistenziale. Nel corso delle lezioni dell’anno ac- cademico 1924-25 dedicate al concetto di tempo, precedenti quindi di due anni la pubblicazione della sua opera capitale, Heidegger afferma infatti che non è tanto il cogito a costituire la vera defini- zione del suo sum, bensì il suo “morirò”. E propone la seguente perifrasi del cogito cartesiano: la certezza che esprime il sum existo della Seconda meditazione mostra il suo vero senso se lo traduciamo in sum moribondus.
1La certezza del dover morire è il fondamento della certezza: dai primi istanti della nostra vita noi sappiamo che dobbiamo morire. Di conseguenza, la nascita umana non comporta niente di nuovo, è in sé insignificante, perché il suo senso pieno le deriva dal sapere della morte. Come se tale sapere, posto nel soggetto a partire dalla sua nascita, perciò innato, si iscrivesse così profonda- mente nel cogito da costituirne la stessa ipseità. Con un’unica mossa poi, attraverso un abile slittamento dei tempi verbali, dal presente al futuro, Heidegger introduce anche l’apertura: la possibilità propria in quanto destinale. È solo il “destinato a morire”, il già in cammino verso la morte, a fornire al sum il suo senso strutturante e aperto.
È la morte a costituire essenzialmente il rapporto dell’uomo al suo essere che Heidegger indica come esistenza: essa lo chiama e lo implica in prima persona, lo evoca, potremmo dire. A questa voce il “moribondo” deve cor-rispondere come alla “possibilità più pro- pria, incondizionata e insuperabile”, così leggiamo in Essere e tempo.
La radicalizzazione operata da Heidegger lo porta a fare dell’essere umano, o meglio del soggetto che si eleva all’essere in quanto Dasein, l’essere-nel-mondo-attraverso-la-morte; in altri termini: il mortale per antonomasia, che trova nel morire e nella “risoluzione anticipatrice”
1. M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (1925), a cura di R. Cristin e A. Marini, il Melangolo, Genova 1999.
Interventi
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aut aut, 356, 2012, 85-99
“Io sono un’impresa.”
Biopolitica e capitale umano
MASSIMILIANO NICOLI
N el 1979 Michel Foucault dedica il suo corso al Collège de France alla raziona- lità di governo liberale, indagata a parti- re dalle sue prime formulazioni nel XVIII secolo per arrivare infine alle versioni novecentesche, tedesca e americana.
1 Come noto, sarà l’unica incursione effettuata da Foucault all’interno della storia contemporanea, un anno prima di consacrare la propria ricerca al Collège alle pratiche di “governo di sé e degli altri”
nell’antichità greco-romana. Il corso del 1979 si inserisce nel qua- dro delle analisi sul biopotere, e precisamente all’interno della polarità della biopolitica, da intendersi – secondo le indicazioni della Volontà di sapere
2– come l’insieme dei “controlli regolatori”
che si esercitano sui processi vitali del “corpo-specie”, a livello, cioè, della “popolazione” – mentre la polarità delle “discipline”
insiste sul corpo individuale e sul suo dressage, inserendolo in quei minuziosi sistemi di controllo che delineano una “anatomo-poli- tica del corpo umano”.
Procedendo lungo la linea di ricerca della biopolitica come tecnologia di governo delle popolazioni, Foucault incontra, dopo
1. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France, 1978-1979 (2004), trad. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2007.
2. Id., La volontà di sapere. Storia della sessualità 1 (1976), trad. di P. Pasquino e G.
Procacci, Feltrinelli, Milano 2006, p. 123. Il termine biopolitica è impiegato da Foucault per la prima volta al Collège de France nel corso del 1976, lezione del 17 marzo. Cfr. Id.,
“Bisogna difendere la società” (1997), trad. a cura di M. Bertani e A. Fontana, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 206-227.
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un’analisi della ragione di stato moderna e del modello “pastorale”
di esercizio del potere,
3la razionalità di governo liberale e neolibe- rale, in cui vede il quadro di intelligibilità della biopolitica stessa.
4È durante la fase storica di affermazione e diffusione della pratica di governo liberale che si dispiegano – secondo Foucault – sia le tecniche disciplinari che prendono in carico le condotte degli individui fin nei minimi dettagli, sia i “dispositivi di sicurezza”
5che sorvegliano, limitano e regolano i fenomeni della popolazione all’interno di un rapporto paradossale fra “produzione” e “distru- zione” di libertà.
Nell’analisi foucaultiana del liberalismo, la questione della “veri- tà” assume un ruolo decisivo, fungendo da spartiacque fra la “gover- namentalità” liberale e le pratiche di governo delle popolazioni che l’hanno preceduta. In estrema sintesi, il principio liberale dell’au- tolimitazione dell’arte di governo (“governare meno per governare meglio”, “governo minimo”, “governo frugale”, “laissez-faire”) corrisponde all’innesto sulla ragion di stato di un certo “regime di verità”, che trova “la propria espressione e formulazione teorica nell’economia politica”.
6Le possibilità di intervento dell’attività propria del governo liberale sono limitate dalla verità che si manifesta nel campo pratico-discorsivo dell’economia politica. La verità in questione è la naturalità dei processi economici, vale a dire l’insieme delle connessioni, delle regolarità, dei meccanismi intelligibili che l’economia politica fa emergere all’interno dei fenomeni economi- ci. Il mercato, in buona sostanza, funziona secondo leggi naturali che l’economia politica è in grado di portare a visibilità. A questo punto, il compito del governo – secondo il liberalismo – sarà quello di conoscere le leggi naturali del mercato e rispettarle, favorirne il
3. Si veda in proposito M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France, 1977-1978 (2004), trad. di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005 e Id., “Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica” (1981), trad. di O. Marzocca, in Biopo- litica e liberalismo, Medusa, Milano 2001.
4. “Solo dopo che avremo saputo in che cosa consiste propriamente il regime di governo chiamato liberalismo, potremo allora comprendere che cos’è la biopolitica”, Id., Nascita della biopolitica, cit., p. 33.
5. Cfr. Id., Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 13-48.
6. Id., Nascita della biopolitica, cit., p. 37.
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funzionamento, non interferire, non alterare – attraverso un eccesso di governo – il gioco naturale dei fenomeni economici. Il luogo in cui pratiche di governo e verità economica si annodano, lo spazio di manifestazione di tale verità, è per l’appunto il mercato:
Vi era qualcosa, nel regime e nella pratica di governo del
XVIe
XVII
secolo, e prima ancora nel Medioevo, che aveva costituito uno degli oggetti privilegiati dell’intervento e della regolazione del governo, ed era stato anzi l’oggetto principale della sua vigilanza e dei suoi interventi. Ed è questo luogo, non la teoria economica, che comincia a diventare un luogo e un meccanismo di formazione della verità a partire dal
XVIIIsecolo. Si arriverà a riconoscere – ed è questo l’aspetto decisivo – che tale luogo di formazione della verità, [anziché] continuare a saturarlo con una governamentalità regolamentare indefinita, lo si dovrà lasciar funzionare con il minimo di interventi possibili perché possa, a ragione, sia formulare la propria verità, sia proporla come regola e norma alla pratica di governo. Questo luogo di verità naturalmente è il mercato, non la testa degli economisti.
7Si registra, secondo Foucault, un fondamentale passaggio dal mercato come bersaglio di un continuo intervento legislativo e regolamentare al mercato come luogo di “veridizione”, come
“meccanismo di formazione della verità” che la pratica di governo deve tutelare affinché quella verità emerga, per poi assumerla come norma e regola, come principio di “verificazione-falsificazione”
delle proprie pratiche. La libertà di mercato come condizione di produzione della verità economica si avvia a diventare “il principio regolatore e organizzatore dello stato”, a partire dal
XVIIIsecolo e fino alla nostra contemporaneità: “Uno stato sotto la sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello stato”
– così dirà Foucault in relazione all’ordoliberalismo tedesco, nella lezione del 7 febbraio 1979.
87. Ibidem.
8. Ivi, p. 108.
100 aut aut, 356, 2012, 100-121
Parresia, giochi di verità e vita filosofica nell’ultimo Foucault
RAOUL KIRCHMAYR
D a Nietzsche a Derrida e nelle sue diverse declinazioni, la nozione di gioco percor- re obliquamente la scena del pensiero contemporaneo, ponendosi all’incrocio di campi d’indagine, lin- guaggi, discipline. Almeno un tratto importante della ricerca di Michel Foucault è di certo ascrivibile a questa scena: la formula
“giochi di verità” si presenta infatti come un punto teorico di particolare densità all’interno del cantiere aperto sulla funzione della parresia nella cultura greco-antica, che marca i corsi al Col- lège de France e l’investigazione della “cura di sé” condotta du- rante gli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta. Per funzione, struttura e “logica”, il “gioco di verità” pare acquisire negli ultimi anni un ruolo di cerniera teorica, che permette a Foucault di col- legare il versante wittgensteiniano del “gioco linguistico” (il cam- po delle regole e della produzione discorsiva) con quello del
“gioco di potere” (il piano delle strategie e delle pratiche). In questo modo Foucault ridisegna il nesso sapere/potere in relazio- ne allo studio genealogico dei processi di soggettivazione.
Prima di muovere qualche passo verso l’esame del “gioco di verità”, credo occorra prestare attenzione al modo in cui Foucault costruisce il campo di ricerca in cui adopera questo strumento di descrizione e di analisi. Anzitutto, un riferimento essenziale a Kant
Il testo è una rielaborazione della prima parte della conferenza “Giochi di verità”, tenuta all’Università di Trieste, il 14 maggio 2010, nella cornice del seminario internazionale di studi Michel Foucault e il coraggio della verità.
101
incornicia il tema dei “giochi di verità”. Nel corso del 1982-83, Il governo di sé e degli altri,
1Foucault avvia il suo discorso sulla parresia con un riferimento programmatico a Che cos’è l’Illuminismo? e a Il conflitto delle facoltà,
2mentre un ulteriore riferimento compare nelle ultime due pagine del corso dell’anno seguente, Il coraggio della verità, quasi a chiudere la cornice.
3Ricordiamo questo inquadra- mento, perché l’intero percorso è segnato dalla preoccupazione di saggiare tenuta e porosità dei limiti del sapere, oltre a presentarsi al tempo stesso come una pratica filosofica del limite
4o, in altre parole, come un gesto volto ad affermare una praticabilità del limite. Questo atteggiamento non solo ha un valore epistemologico, poiché sposta le linee di confine che compartimentano le discipline, ma, più radi- calmente, mira ad attualizzare il potenziale sovversivo del pensiero nella ricerca di un differente ethos, di una differente articolazione tra sapere e vita. È lungo questo crinale che la nozione di verità viene ripensata e rimodellata da Foucault, secondo un certo movimento del limite che definisce lo spazio di gioco discorsivo in cui hanno luogo le molteplici varianti della pratica parresiastica nella cultura greco-antica. Al tema della parresia come “gioco di verità” corri- sponde, dunque, da parte di Foucault, una costruzione del discorso che mette in scena un certo spazio di gioco e delle figure-limite. In diversa misura spazio di gioco e figure-limite ci offrono alcuni punti di riferimento con cui orientarci nel campo investigato da Foucault.
Confido che possano essere di un qualche ausilio per individuare la direzione del suo discorso e il senso di quella “trasformazione del soggetto” che forse rappresenta il filo conduttore maggiore degli ultimi corsi al Collège de France.
1. M. Foucault, Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France, 1982- 1983, Gallimard-Seuil, Paris 2008.
2. Ivi, pp. 9-24.
3. Id., Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France, 1984, Gallimard-Seuil, Paris 2009, pp. 309-311, in particolare sul limite vedi p. 310.
Qui la considerazione del limite si presenta come uno straordinario bilancio del cammino compiuto e al tempo stesso come un rilancio che non ha potuto avere luogo a causa della morte di Foucault.
4. Lo stesso motivo dell’ethos filosofico come “atteggiamento limite” è affermato in M.
Foucault, “Che cos’è l’Illuminismo?” (1984), trad. di S. Loriga, in Antologia. L’impazienza della libertà, Feltrinelli, Milano 20083, pp. 229-233.
102
1. Spazi di gioco e volontà di verità
Che cosa intende Foucault quando parla di gioco? E a quali gio- chi si riferisce? Facciamo un passo indietro e andiamo al corso inaugurale che Foucault tiene nel 1970 al Collège de France. Ci si potrà forse stupire se fin dalla prima lezione egli dà avvio al suo insegnamento sotto il segno del gioco. Tuttavia, l’ingresso del si- gnificante “gioco” nel lessico foucaultiano ha una funzione precisa:
esso permette di riconoscere la presenza, all’interno del pensiero greco, di due regimi filosofici in competizione e la cui posta consiste nella verità del soggetto. Foucault, contrapponendoli, li mette in relazione tra loro: da una parte, si tratta di una concezione della filosofia come conoscenza o episteme, che trova in Aristotele il suo modello; dall’altra, Foucault fa emergere una filosofia come savoir tragique che rimanda all’eredità filosofica di Nietzsche.
Nella lezione di apertura del 9 dicembre 1970, Foucault indica in “una teoria della volontà di sapere”
5l’obiettivo programmatico delle sue ricerche. Lo fa nei termini di un “gioco” che da lì in avanti dichiara di voler giocare. Qui la parola “gioco”, con cui apre il suo stesso gioco filosofico sulla volontà di sapere, inaugura una prospettiva teorica sulla questione della verità e al contempo rimanda a un arrière-plan che segnala la permanenza di alcune grandi questioni. Foucault dichiara infatti: “Il gioco che vorrei giocare [le jeu que je voudrais jouer]: si tratterebbe di sapere se la volontà di verità non esercita, in relazione al discorso, un ruolo di esclusione, analogo […] a quello che può giocare l’opposizione tra la follia e la ragione, o il sistema dei divieti”.
6Facciamo una prima osservazione: il riferimento alla Storia della follia nell’età classica non è peregrino perché per analogia è ripreso il filo conduttore della ragione come sistema normativo. Il gioco funge qui da spoletta con cui ritessere la questione del rapporto tra folie, raison, déraison e la nozione di verità. In questo passo la parola che occorre sottolineare è allora esclusione, perché proprio
5. Id., Leçons sur la volonté de savoir. Cours au Collège de France, 1970-1971 suivi de Le savoir d’Œdipe, Gallimard-Seuil, Paris 2011, p. 3.
6. Ivi, p. 4.
122 aut aut, 356, 2012, 122-139
L’autore e la danza. La questione della causa in tre dialoghi di Valéry
FRANCESCO VALAGUSSA1
“ Quando gli oggetti dei nostri giudizi sono delle medie, ciò vuol dire che abbiamo ri- nunciato a considerare gli avvenimenti in sé.
Il nostro sapere tende verso il potere, allontanandosi da una con- templazione coordinata delle cose”,
2scrive Valéry nel 1924. Alcu- ni anni più tardi Musil si esprimerà in maniera simile nel raffron- to tra probabilità e storia, proiettando la tendenza della progres- siva perdita del senso sull’arco dell’intera civiltà occidentale: “Se la storia umana avesse un compito, e se fosse questo, allora non potrebbe essere migliore di quello che è, e giungerebbe strana- mente al suo scopo col non averne alcuno! […] Tutto questo si sarebbe anche potuto esprimere dicendo che a poco a poco ‘l’uo- mo probabile’ e la ‘vita probabile’ incominciavano a occupare il posto dell’‘uomo vero’ e della ‘vita vera’, che erano pura immagi- nazione e illusione”.
3La storia si dirige verso il mondo dell’uomo probabile: una me- dia, una statistica quantifica ogni aspetto della vita del corpo, dello spirito, del mondo. Letteralmente non vi è più corpo né mondo, piuttosto “sempre le stesse cose”, perenne adeguamento di tutti
1. P. Valéry, Mon Faust, Gallimard, Paris 1946; trad. di V. Magrelli e G. Pontiggia, Il mio Faust, SE, Milano 1992, p. 153.
2. Id., Variété I. Nouvelle revue française, Gallimard, Paris 1924; trad. di S. Agosti, “A proposito di Eureka”, in Varietà, SE, Milano 2007, p. 186.
3. R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften (1932), in Gesammelte Werke, a cura di A.
Frisé, Rowohlt, Hamburg 1978, vol. IV, p. 1208; trad. di A. Frisé, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1996, vol. II, pp. 1369-1370.
Così, di secolo in secolo, s’innalza l’edificio monumentale dell’ILLEGGIBILE.1
123
i corpi alla vita, senza più alcuna necessità di risposta, senza più squilibri nella vita dell’essere. La statistica e la media coincidono con l’assenza di senso: “L’uomo medio è la materia con cui il mondo lavora e che sempre rinasce da se stesso”.
4L’avvento della tecnica come quantificazione assoluta del mondo comporta che anche l’uomo sia quantificato, misurato, reso oggetto di statistica sino a trasformarsi, a essere trasformato, da reale in probabile, quasi come se l’unica cosa veramente esistente fosse la media, la risultante della ponderazione di tutte le varianti. All’intreccio di eccezioni di cui pullula l’energia inesauribile della vita si tenta di sostituire la mera efficacia, l’utilità allo scopo, il mediamente. Qui risuonano le parole di Valéry: “Ogni cosa che è, se non fosse, sa- rebbe enormemente improbabile”.
5È questo livello di riflessione che risulta inattingibile alla considerazione tecnico-scientifica, qui si verifica un caso clamoroso di “non adattamento finale”:
“Gladiator è insomma lo sforzo dell’essere contro la probabilità.
Sforzo chiamato Arte, cambiamento del caso in quasi certezza”.
6Questa è la malinconia, l’indizio di un’età dell’oro scomparsa: la celebre incisione del Dürer del 1514, Melancolia
I– come notano Klibansky, Panofsky e Saxl –, benché presenti alcune affinità con la Geometria
7del Margarita philosophica del 1504, mai potrà essere confusa con essa, poiché “la Melanconia non sta facendo nulla con tutti questi strumenti intellettuali o manuali e le cose su cui il suo occhio potrebbe posarsi semplicemente non esistono per lei”.
8Ci si potrebbe spingere a dire che “l’officina della geometria si è tra- sformata da un cosmo di utensili chiaramente ordinati e utilizzati in vista di uno scopo in un caos di cose inutilizzate”.
9Perché questa scissione tra la Pratica e l’Arte? “Se l’Arte sente
4. Ivi, p. 1206; trad. p. 1366.
5. P. Valéry, Cahiers, Centre national de la recherche scientifique, Paris 1957-1961; trad.
di J. Robinson-Valéry, Quaderni, Adelphi, Milano 2002, vol. II, p. 171.
6. Ivi, vol. I, p. 396.
7. Cfr. G. Reisch, Margarita philosophica, J. Gruninger, Strasbourgh 1504. Citazione tratta da R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturn and Melancholy, Thomas Nelson, Lon- don 1964; trad. di R. Federici, Saturno e la melanconia, Einaudi, Torino 2002, p. 293. Cfr.
ivi, fig. 110.
8. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, cit., p. 297.
9. Ivi, p. 298.
124
di essere di fronte a limiti insormontabili, la cieca Pratica non av- verte alcuna limitazione.”
10A qualcosa di simile si riferiva Valéry, volendo scindere la riflessione dalla mera prassi che si adatta di volta in volta alle condizioni del mondo: “Non bisogna trascurare nulla per allontanare la minaccia, e far capire a tutti che l’uomo è uomo solo nella misura in cui l’utile non ne orienta tutte le azioni e non ne governa il destino”.
11Di fronte all’incursione che, per usare una felice intuizione di Dilthey, le scienze della natura muovono verso le scienze dello spi- rito al fine di conquistare porzioni sempre più ampie del territorio nel quale si radicano, il punto di vista di Valéry può essere inteso alla stregua di una controincursione, che mostri la cifra e insieme il limite dell’espansione delle scienze, che a torto viene ritenuta infinita e progressiva. Il carattere della controincursione appare soprattutto nei Quaderni, dove sempre pressante è l’esigenza di
“trovare una rappresentazione intuitiva del funzionamento totale del vivente”;
12“il mio oggetto – cercare una forma capace di rice- vere tutte le discontinuità, tutto l’eterogeneo della coscienza”;
13“io cerco indefinitamente il calcolo delle cose totali, vale a dire del sentire-pensare-agire o della trasformazione più generale – e reale – che definisce l’Eterno Presente”.
14Queste istanze potrebbero apparire come volontà di potenziamento massimo della prassi tecnico-scientifica, e in effetti possono essere considerate tali, salvo il fatto che la conoscenza del mondo è sempre rappresentazione, forma, calcolo, mai possesso della cosa in sé. Tutto ciò appare in maniera ancora più evidente se si considera che per Valéry “la psi- cologia non deve essere esplicativa, ma soltanto rappresentativa”.
15Nessuna spiegazione del mondo della vita in quanto tale, ma soltanto rappresentazioni di esso, all’interno di un preordinato orizzonte di senso: “Quel che noi riceviamo dai sensi non è il
10. Ivi, p. 321.
11. P. Valéry, Regard sur le monde actuel, Librairie Stock, Paris 1930; trad. di F.C.
Papparo, Sguardi sul mondo attuale e altri saggi, Adelphi, Milano 1994, p. 291.
12. Id., Quaderni, cit., vol. III, p. 15.
13. Ivi, vol. III, p. 45.
14. Ivi, vol. III, p. 67.
15. Ivi, vol. III, p. 16.
Discussioni
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aut aut, 356, 2012, 141-155
Fenomenologia eretica
“iuxta propria principia”
LUCA TADDIO
“ Daß alle unsere Erkenntnis mit der Erfahrung anfange, daran ist gar kein Zweifel”, sentenzia Kant in apertura alla prima Kritik. L’afferma- zione che tutte le nostre conoscenze inizino dall’esperienza, ahimè, è ancora “cosa” dubbia. Sul banco degli imputati troviamo, come maggiore responsabile della strage di certezze sull’esistenza del mondo esterno, il concetto di “rappresentazione” che rende media- ta, e non immediata, la nostra esperienza. L’evidenza della cosa che si offre alla nostra coscienza è apodittica, ma non la sua esistenza nel mondo esterno. La rappresentazione segna una distanza dal mondo difficilmente sanabile dal linguaggio e dalle cure offerte dalle metafisiche di matrice “soggettivistica”. Eppure vi sono ottime ragioni per pensare la conoscenza come qualcosa di immediato: non ogni conoscenza, ma l’inizio della conoscenza in quanto tale. Que- sto inizio non va incentrato unicamente nel cogito, nel pensiero o nel linguaggio, non risiede nel “nome” che dice la cosa, non riposa nel linguaggio, bensì nella cosa stessa, nel fenomeno colto iuxta propria principia. Il linguaggio rappresenta un aspetto, un possibile sistema di riferimento sulla cosa. Rovesciamo la prospettiva dal pensiero al phainomenon, per ri-tornare al logos. Possiamo ritrovare il senso della fenomeno-logia nella relazione e nel rinvio di questi due concetti che ne compongono il termine. Tale giunzione sarà operata attraverso l’“esperienza immediata”, nozione che contrad- distingue la storia della fenomenologia: altrove abbiamo definito
“eretica” questa fenomenologia, per la sua eterodossia rispetto a
142