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Il carattere empirico del sapere analitico

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Academic year: 2021

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Il carattere empirico del sapere analitico

Saverio P arise. Roma

La manipolazione è l'azione di chi intende indurre l'altro a un comportamento desiderato, privandolo della qualità di centro autonomo di elaborazione, di decisione e di iniziativa. Non si tratta evidentemente del tentativo di diffondere un'idea nella quale si crede e suscitare i com- portamenti ad essa coerenti. Chi pone in essere una manipolazione, costretto a ottenere il consenso dalla ne- cessità di perseguire un qualunque tornaconto, materiale o morale, non vuole certo entrare in contatto con la sen- sibilità o il raziocinio del soggetto passivo dell'opera- zione, le cui prerogative di personalità sono piuttosto un ostacolo alla realizzazione dell'obbiettivo perseguito.

Un'antica tecnica psicoterapeutica, l'ipnosi classica, pre- vedeva che il terapeuta agisse mettendo fuori gioco la coscienza e la volontà del paziente. Ciò che in condizioni ordinarie non era considerato lecito, perché rappresentava una sorta di mutuazione psichica e determinava il pieno dominio di una persona su un'altra, era tuttavia permesso con il consenso dell'interessato, in vista del fine terapeutico. Si sa che la psicoanalisi storicamente è nata dalla pratica dell'ipnosi, come una sua variante sostanzialmente alternativa: mentre l'ipnotista poneva il soggetto in stato di incoscienza, al contrario in psicoanalisi la terapia si basa sul tentativo di portare alla coscienza lo psichismo inconscio. Tuttavia, se l'ipnosi era una condizione di massima esposizione al pericolo della manipolazione, l'analisi non

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riesce a sottrarsi del tutto a tale pericolo, sia perché l'analizzando si consegna fiduciosamente all'analista con la speranza di trarre un beneficio dalla pratica che questi gli propone, sia perché la strada che conduce alla presa di coscienza dei contenuti inconsci (a ricordare il passato ancora attivo nella ripetizione presente o alla rappresen- tazione simbolica di un progetto di realizzazione di sé) passa sovente attraverso il momento del transfert, per definizione generatore di una forma infantile di dipenden- za, più o meno profonda, dell'analizzando dall'analista.

D'altra parte quest'ultimo, se non pronunzia come l'ipno- tista delle caricature la fatidica frase «a me gli occhi», non solo - e per le meritorie ragioni del proprio ufficio -si guarda bene dall'impedire l'insorgere di tale dipendenza, ma, al contrario, costruisce attivamente le condizioni in cui essa possa realizzarsi, prima, e poi risolversi. Nel- l'ipnosi come in analisi, infatti, la relazione fra i partner del rapporto è vista come il principale fattore terapeutico.

Tuttavia, mentre un tempo lo psicoterapeuta, e in partico- lare l'analista, aveva pochi punti di riferimento che lo aiutassero a orientare le proprie azioni, oltre a quelli che di volta in volta gli rappresentava la sua stessa coscienza etica e il suo giudizio, la letteratura specialistica mette oggi a disposizione degli operatori una ricca strumenta- zione concettuale e normativa per cercare di rendere più facilmente raggiungibile il fine del rapporto terapeutico e per aiutare a evitare le possibili deviazioni, mirando al contempo all'obbiettivo di ottenere una certa trasmissibilità delle esperienze. Così, appaiono ogni tanto nuove riformulazioni teoriche che propongono variazioni su temi di teoria della tecnica più o meno sofisticate e differenti fra loro, ciascuna delle quali rivendica per sé almeno una certa efficacia curativa. Di solito si tratta di proposte che almeno formalmente salvano la possibilità dell'esistenza di differenti risposte ai problemi che cercano di risolvere, anche se non mancano esplicite (ed ingenue) pretese di esclusivo possesso della verità. In un contesto caratterizzato dalla curiosità e dalla tolleranza, nonché dalla consapevolezza dei limiti impliciti in ogni punto di vista, il moltiplicarsi delle metafore, dei concetti e delle proposte operative, rappresenta una ricchezza e un progresso, e

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la presenza nel campo di visioni diverse consente il con- fronto e la conseguente relativizzazione di asserzioni troppo unilaterali. Ma non è facile sostenere la tensione che comporta questo atteggiamento di apertura - forse solo l'individuo può farlo, perché il gruppo tende ad aggregarsi attorno ad enunciati piuttosto rigidi e reagisce con intolleranza alla manifestazione del diverso. La situazione che si determina quando il narcisismo di un gruppo pretende di possedere la verità non è proprio di quelle che meglio favoriscono un sereno dibattito, anche perché i dettati dei sistemi teorico-pratici con aspirazioni asso-lutistiche tendono ad autocollocarsi nel registro delle norme etiche: nella prospettiva di quelle costruzioni, infatti, se l'analista non rispetta i principi in esse enunciati, che pretendono di esprimere la verità sull'uomo, finalmente scoperta, e non attua i comportamenti che ne derivano, non solo è un cattivo professionista, ma è anche un uomo che si comporta in modo eticamente scorretto -proiezione d'Ombra forse più grave, che si aggiunge a quelle (facilmente praticabili, se degrada il tono del confronto) di incompetenza o follia. Il pregiudizio che ne deriva a carico di chi adotta modelli operativi diversi, mina alle basi la possibilità di un proficuo confronto, già di per sé difficile in una materia in cui lo stato d'animo del ricercatore è di primaria importanza per l'efficacia delle comunicazioni e degli scambi - ben più che in altri ambiti suscettibili di verifiche di tipo oggettivo.

L'inopportuna equiparazione di costrutti ipotetici e provvi- sori strumenti operativi a sistemi di imperativi morali può quindi trasformare il dibattito fra scuole e orientamenti diversi in uno scontro dove ciascuna delle parti ritiene davvero di combattere contro il demonio in persona - o suo vicino parente. D'altra parte, anche in assenza di tali difficoltà, già la semplice competizione fra proposte e modelli teorico-pratici in disaccordo fra loro, l'accentua- zione della necessità di operare con chiara determinazio- ne in un campo che nonostante tutto rimane estrema- mente complesso e pieno di incertezze, sono circostanze che espongono gli analisti al pericolo derivante dall'en- fatizzare il tono emotivo delle rispettive appartenenze e dal cercare di inserire a tutti i costi - in modo inconscio,

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naturalmente - le osservazioni empiriche nelle rigide categorie di una teoria preconfezionata, per confermarla.

Tutto ciò può condurre, nella situazione clinica, all'appli- cazione meccanica del «pacchetto» teorico-pratico pre- scelto, operazione che diventa manipolatoria se è realiz- zata per ottenere la (solita) conferma della propria verità, o soltanto per acquietare i dubbi più fastidiosi.

La professionalizzazione estrema dell'analisi, alla quale abbiamo assistito negli ultimi anni, ha anch'essa indub- biamente molti aspetti positivi: tutti, direi, i valori che hanno reso desiderabile il processo e ne hanno consen- tito la realizzazione - ma propone alcune possibili conse- guenze negative. Una di queste può essere verificata già nella fase di formazione: qui il pericolo è la creazione di strutture in cui domini un clima da «scuola dell'obbligo», con l'attenzione generale (di allievi e maestri) catturata da quelli che potrebbero essere definiti i «riti curriculari»

e la sopravvalutazione dell'importanza degli aspetti co- gnitivi della preparazione dell'analista. Tutto ciò può ri- durre l'efficacia del lavoro propriamente analitico, favo- rendo l'insorgere dei fenomeni di intolleranza prima de- precati.

L'analisi, d'altra parte, risente delle più vaste dinamiche sociali presenti nel collettivo: oggi esiste una forte do- manda di mezzi per acquisire professionalità (il termine, variamente proposto nella vasta gamma dei suoi derivati, da qualche anno è molto di moda) e una corrispondente offerta di corsi ed esperienze formative diverse. Anche in analisi, appunto. Queste sedi spesso sono davvero luo- ghi in cui ci si impegna alacremente: tutti sanno ormai che solo chi lavora sodo, con la giusta aggressività e tensione al limite dello stress, può avere successo. Ma l'allievo analista catturato dal sentimento della necessità di acquisire rapidamente la più grande quantità possibile di letteratura specialistica, di trovare formule che lo legit- timino dall'esterno ad agire professionalmente, limitando la propria personale responsabilità alla loro corretta appli- cazione, rischia di trascurare aspetti centrali della forma- zione: sono aspetti che ruotano intorno all'ovvia ma cen- trale questione dell'analisi personale, i cui risultati non possono essere scanditi dai termini di un regolamento, e

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ai valori correlati, come l'acquisizione della capacità di prestare attenzione alle caratteristiche uniche della situa- zione empirica anche in quanto evocatrice di un senso legato al proprio personale cammino psicologico - o la possibilità di aprirsi ad una responsabilità nello svolgi- mento del proprio lavoro che vada al di là dell'applicazio- ne della «giusta tecnica». La competenza tecnica, senza queste aperture critiche, può dare luogo a forme di ma- nipolazione, attive e passive. Se, infatti, l'analista non riferisce costantemente il proprio sapere a una pratica capace di suscitargli una autentica riflessione, che lo mantenga in contatto anche con le proprie nevrosi, fini- sce per consacrarsi allo studio di sistemi teorici che van- no a sostituire la sua possibilità di comprendere in termini personali le vicende della psiche. Egli diventa così soggetto passivo di un'operazione di manipolazione, oltre che manipolatore, e le formule tecniche con cui si attrezza diventano espedienti magici - parole e riti vissuti come efficaci in se stessi, nella loro concretezza, più che strumenti operativi da usare con discernimento critico.

Un allievo analista spesso per lungo tempo non ha espe- rienza che del proprio desiderio di essere un alunno modello, per avere successo. L'attuale sofisticata impostazione della formazione analitica, forse necessaria, tende a moltiplicare i controlli e le supervisioni «d'ufficio», i testi che occorre conoscere per poter essere considerati esperti; predispone sedi di confronto in cui è essenziale che l'allievo, in competizione con i colleghi, si mostri sicuro del fatto suo, capace di disporre di nozioni e strategie da applicare tempestivamente nella (eventuale) situazione operativa...

essendo per di più umanamente gradevole, perché non si dica di lui che è nevrotico. Da tutto questo sembra dipendere l'acquisizione della necessaria «pro- fessionalità» e la possibilità stessa di accedere al lavoro, mentre invece tutto questo può allontanare dalla effettiva pratica dell'analisi e favorire la costruzione di personalità

«manipolate», quindi «manipolanti». Chi si è formato come analista all'interno di una «scuola», quindi con un'esperienza solo culturale delle difficoltà che esistevano in epoche pionieristiche, qualche volta confessa di avere invidiato i colleghi più anziani (dimenticando certo il caro

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prezzo pagato per questo loro «privilegio»), fantasticando un apprendistato svolto più direttamente sul campo... Ma incidenze analoghe a quelle descritte a carico degli allievi si propongono all'analista che ha ormai terminato il curriculum formativo: egli si trova a lavorare con colleghi che praticano teorie e tecniche in astratto non conciliabili con quelle che ritiene valide per se stesso, e allora può chiudersi nel fortilizio delle proprie vedute e trattare gli

«altri» come nemici da distruggere, creando sempre nuovi campi di battaglia dove sia possibile la sopravvivenza di uno solo dei contendenti - se non si educa a frequentare spazi in cui stare bene e lavorare bene anche con chi ha modelli di vita e referenti teorici diversi dai propri.

Forse ormai questo assunto è stato qui ripetuto oltre il limite della noia: l'analista al quale i pazienti devono for- nire la prova della validità delle teorie a cui si ispira, sarà portato a forzare i loro materiali all'interno dei propri schemi. Ma essere consapevoli del fatto che un atteggiamento esasperato in un senso costituisce un pericolo, non significa doversi costringere in una posizione tale da cedere nel pericolo opposto, svalutando in analisi l'attività di studio e di approfondimento teorico:

la mole non trascurabile di proposte teoriche attualmente presenti anche solo nell'ambito della psicologia del profondo è in effetti, come pure si è detto, un arricchimento per tutti coloro che si interessano a questo ramo del sapere. Anche una valutazione molto severa riguardo all'effettiva validità scientifica della letteratura esistente, non potrebbe non salvarne una considerevole parte. Il problema su cui prima veniva posto l'accento, non è dato certo dai libri in se stessi, ma dal modo in cui essi vengono letti e utilizzati. I libri sottopongono delle idee allo spirito critico dei lettori, e in questo senso ogni scritto può risultare utile, in quanto rappresenta pur sempre uno stimolo a pensare. Diverso è il caso in cui la letteratura viene utilizzata come faceva il povero Don Chisciotte, per sentirsi un prode cavaliere, ed è proprio questa la situazione che trasforma innocui mulini a vento in agguerrite schiere di sanguinar! nemici. Certo costituirebbe un'immeritata svalutazione, nonché un'indebita confusione di generi e di livelli, paragonare la

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letteratura prodotta nell'ambito della psicologia del pro- fondo con i romanzi di cavalleria del Medio Evo, per stigmatizzare una possibile degenerazione del moderno spirito scientifico, peraltro poco avente a che fare con lo spirito cavalieresco del buon Don Chisciotte. Per impedi- re una tale indebita assimilazione, la scienza analitica ha molti argomenti, non ultimo quello consistente nel sotto- lineare il carattere empirico del proprio sapere. In effetti, non è possibile negare che alcune leggi di psicodinamica siano state enunciate dopo lunghe e attente osservazio- ni, e che le stesse leggi, se sottoposte a verifica nelle opportune condizioni, possono ricevere una validazione quasi sperimentale. Più difficile è forse estendere la por- tata di queste uniformità al di fuori di un ambito relativa- mente angusto e limitato, tanto elementare da rappresen- tare un aiuto notevole, certo, ma riferito soltanto alla impostazione di base del lavoro dell'analista, che nella sua globalità è inteso non tanto a cogliere piccoli mecca- nismi istintuali, quanto a rilevare e a consentire la realiz- zazione di ampi movimenti di senso relativi al lungo pe- riodo e riferiti alla personalità nel suo insieme.

D'altra parte, è anche difficile prendere sul serio una parte di questa moderna letteratura «scientifica», quando fonda le sue più o meno drastiche asserzioni su improba- bili risultati clinici o sugli applausi di platee di allievi a volte in principio un po' increduli, ma poi inesorabilmente costretti dall'evidenza del vero a convenirsi alle idee del maestro.

Le verità psicologiche di base, ormai acquisite, forse ser- vono a orientare l'analista nella strutturazione del setting - nella definizione cioè delle caratteristiche delle condi- zioni esterne dell'incontro e delle regole contrattuali che obbligano entrambi i partner del rapporto - e a evitare in questa fase grossolane distorsioni che poi ridondino in modo negativo su tutto il processo. Esse forniscono punti di riferimento sufficientemente precisi all'analista e gli facilitano il compito di mantenere il rapporto analitico nelle condizioni in cui è più probabile che esso serva al suo scopo dichiarato... che, effettivamente, è molto, ma non la parte principale dell'impresa, che rimane incerta nel suo contenuto, e che consiste essenzialmente nella ricer-

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ca e nella creazione di qualcosa di nuovo nell'esperienza dell'analizzando, qualcosa che non è mai esistito e non esisterà mai ne nella mente dell'analista ne tanto meno negli enunciati generali ed astratti delle verità scientifiche della psicologia del profondo.

L'analista attento al setting, inteso come l'insieme degli elementi concreti e normativi (contrattuali) della relazio- ne, e al mantenimento di una posizione interna di dispo- nibilità ad accogliere le diverse parti della personalità del paziente via via emergenti nel corso del processo, si colloca forse nella posizione che meglio consente di evi- tare possibili manipolazioni. Egli, infatti, mette in contatto la propria realtà psichica con la realtà psichica della per- sona con cui lavora e considera le proprie inferenze sui processi mentali dell'analizzando come semplici conget- ture operate a partire dai comportamenti osservabili e dalle parole pronunziate nella situazione artificiale del setting - congetture non verificabili direttamente se non attraverso altri comportamenti osservabili e altre parole fornite nello stesso contesto. Egli non entra nell'esistenza concreta dell'analizzando, ma percepisce se stesso come una figura dell'universo simbolico dell'analizzando mede- simo, e questi come una figura del proprio universo sim- bolico. Da tale sua posizione l'analista può anche verifi- care lo scarto che (sempre) separa l'«idea» dalla «real- tà». Scarto che in analisi non è tanto l'elemento inde- siderabile da sopportare per la deprecabile circostanza che condanna all'imperfezione tutti gli esseri umani, quanto un fenomeno essenziale alla realizzazione del processo - com'è confermato dal fatto che in molti sistemi analitici, non escluso quello junghiano, l'inevitabile

«errore» gioca un ruolo centrale.

La dimensione «umana» dell'analista finisce per diventa- re tanto più evidente in analisi quanto più massicci sono i suoi sforzi per mascherarla - forse perché nessuno può fare a meno di impegnare nelle relazioni la propria realtà.

Al riguardo possono essere significative già soltanto alcu- ne circostanze oggettive come l'ubicazione e l'arreda- mento dello studio, il modo di vestire, l'aspetto esteriore con le sue variazioni incontrollabili, le inflessioni della voce, le posture fisiche, il modo di esprimersi con la

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gestualità o con gli sguardi... tutti questi elementi, per molti versi espressione di circostanze preconsce o addi- rittura inconsce, sono percepiti dall'analizzando e il pro- blema è vedere quali particolari significati essi acquistano all'interno del suo personale sistema simbolico.

Ciò rende superfluo e indesiderabile ogni eventuale più o meno goffo tentativo dell'analista di realizzare in concreto una sorta di impossibile asetticità. Il mantenere una vigile consapevolezza della propria funzione sembra, in defini- tiva, compatibile con l'orientare la propria presenza in analisi alla bussola interna di uno stare a proprio agio...

comunicando magari all'analizzando il salutare gusto di fare altrettanto.

Riguardo ai temi di cui qui si tratta, occorre anche valu- tare con discernimento critico un atteggiamento ispirato al tradizionale «ama e fa ciò che vuoi» che nella sua sostanziale validità suona sempre polemico e un po' reattivo verso lo sviluppo di una casistica prescrittiva esasperata e soffocante. Dopo aver decretato la crisi delle teorie in analisi e valorizzato come punti di riferimento nel lavoro analitico l'impegno dell'analista e le sue doti di personalità, non è il caso di formulare enunciazioni che possano indurre a idealizzare la persona dell'analista stesso. Ciò significherebbe porre un pesante fardello a suo carico ed esporlo a pericolo di trovarsi invaso da potenti immagini dell'inconscio collettivo, come per esempio l'archetipo del Salvatore.

L'analista potrebbe essere spinto a considerare se stesso una sorta di pietra di paragone della salute mentale - quando può solo constatare di esprimere una funzione rispondente alle necessità del collettivo in un certo contesto di tempo e di luogo. Una fusione tra ambito privato e ambito professionale non sarebbe utile ne all'equilibrio dell'analista (che deve aver modo di sperimentare se stesso anche al di fuori del ruolo sociale) ne alla sua esperienza clinica, nella quale a causa della succitata confusione di ambiti potrebbero farsi spazio, in modo non riconoscibile, istanze contrarie agli interessi del paziente. D'altra parte in ogni rapporto analitico che minimamente si approfondisce si manifesta prima o poi l'incidenza della nevrosi dell'analista o co- munque delle sue parti inconsce. Anche per questo è

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importante collocare la relazione in una cornice che con- senta il riconoscimento delle istanze attivate - che è pure una condizione del loro manifestarsi. La personalità del- l'analista è fondamentale non certo nell'ottica dell'idea- lizzazione, ma nel contesto che sottolinea il carattere empirico della ricerca condotta in ogni situazione clinica e nella definizione del limite a cui può giungere una particolare esperienza concreta, limite segnato dal punto in cui l'analista arriva utilmente a portare la sua propria analisi personale.

Una fusione tra il dentro e il fuori dall'analisi, inoltre, potrebbe incentivare la presenza fra gli analisti di perso- nalità carismatiche e dar luogo alla creazione di gruppi più simili a centri di ricerca mistico-religiosa che non a centri di ricerca analitica. È nota l'insistenza di Freud nel sottolineare la necessità di combattere l'oscura marea di un non meglio precisato «occultismo» e nel difendere la collocazione della disciplina da lui creata nell'ambito delle scienze. Al di là delle note critiche da più parti avanzate all'atteggiamento di Freud riguardo alla religione, c'è da dire che tale atteggiamento era forse giustificato dalla consapevolezza di una fondamentale debolezza della psicoanalisi su questa tematica e della particolare espo- sizione degli psicoanalisti al rischio di diventare una sorta di setta iniziatica. Questo pericolo è tutt'altro che remoto, poiché l'analisi fonda il ruolo centrale del proprio sapere su un'esperienza inferiore, o sulla ricerca di questa espe- rienza con la guida di chi conosce i mezzi attraverso i quali vi si può accedere. Anche nelle sette iniziatiche l'adepto pone il fondamento della propria appartenenza al gruppo su di una ineffabile esperienza inferiore (o sulla ricerca di questa esperienza) condivisa con i fratelli, tali proprio perché figli dello stesso padre, cioè dello stesso spirito. La comune visione diventa poi un credo, una professione di fede sulla quale si fonda la coesione del gruppo e perciò la sua forza - il che spiega perché il dissidente danneggia l'intera collettività e va punito nel più severo dei modi. Anche tali considerazioni spingono a ritenere inopportuna una eccessiva accentuazione del momento cognitivo nella formazione degli analisti. Questa dinamica peraltro non ha bisogno di essere qui ulte-

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riormente esplicitata, perché è ben conosciuta, anche se la sua diffusa trattazione trova un posto di particolare rilievo in tema di manipolazione. Uno dei suoi corollari, infatti, è la circostanza per cui diventa impossibile a un certo punto sapere se gli adepti sono tenuti insieme dalla esperienza inferiore condivisa o se, al contrario, è la necessità di stare insieme - per partecipare alla forza del gruppo - che determina la condivisione dell'esperienza inferiore. Spesso gli analizzandi appena entrati in analisi avvertono un sollievo nel proprio stato di sofferenza mo- tivato dalla sensazione di fare finalmente parte di un sistema scientifico accreditato (in tale prospettiva del tutto assimilabile a un sistema religioso), «in mano» a tecnici esperti (i sacerdoti, appunto, di quella religione). Proprio il carattere empirico della moderna ricerca psicologica, oltre ai suoi fini terapeutici, obbliga l'operatore ad accogliere positivamente ogni fattore di benessere - fer- ma restando la necessità propriamente analitica di riflet- tere allo stesso modo sulle ragioni del benessere come su quelle della sofferenza. D'altra parte, siamo qui in presenza di un dinamismo piuttosto originario, nel quale sarebbe anche possibile osservare all'opera il processo ontogenetico che mette capo alla creazione del simbolo e della capacità di simbolizzare. Senza entrare nel merito di un discorso troppo ampio, mi sembra soltanto il caso di ipotizzare che gli accorati avvertimenti di Freud riguardo al pericolo dell'«occultismo», potessero riferirsi anche al rischio per gli analisti di essere catturati in modo incon- sapevole nelle dinamiche di cui si è trattato. Ed in effetti ancora oggi non è da escludere fra gli analisti l'incidenza della spinta a cercare prima e poi a credere di aver trovato, una verità assoluta...

Dato che si è accennato alla sofferenza psicologica e al complesso problema della guarigione mediante l'analisi, si potrebbe osservare che, se si paragona la sofferenza psichica a un labirinto dal quale la persona soffrente è impegnata a cercare l'uscita, la funzione dell'analista è quella di permettere all'analizzando di concentrare le pro- prie forze in questa ricerca (forze che la presenza del- l'analista certo catalizza e moltiplica), ma non quella di suggerire concretamente la strada. Infatti l'analista dalla

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sua posizione non può conoscere la soluzione del proble- ma dell'analizzando, e la manipolazione si realizza non soltanto in seguito al suggerimento concreto: «vai da quella parte» (che collocherebbe l'analista all'interno del labirinto, come uno dei suoi passaggi ciechi), ma forse anche in seguito alla semplice idea di sapere da che parte l'analizzando debba dirigere i propri passi.

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