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profili sensibili della giurisdizione e dell’agire del giudici, nei quali la Formazione Decentrata intende affrontare il dilemma “più regole o meno regole”

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CORTE DI CASSAZIONE  Ufficio dei Referenti  per la Formazione Decentrata 

 

“IL GIUDICE E L’ECONOMIA” 

 

Convegno di studi  Roma, 17 febbraio 2010  Aula magna Corte di Cassazione  Introduzione  

MARIA ACIERNO  

L’incontro  è  propedeutico  ad  altri,  del  pari  incentrati  sui  cd.  profili  sensibili  della  giurisdizione  e  dell’agire  del  giudici,  nei  quali  la  Formazione  Decentrata  intende  affrontare il dilemma “più regole o meno regole”. 

VINCENZO CARBONE  

I giudici debbono essere consapevoli dell’impatto che la decisione assume sull’enforcement,  la  tutela  espropriativa    del  diritto  di  credito,  collocandosi  invero  l’Italia  al  156°  posto  secondo i parametri di efficienza in base alle catalogazioni elaborate dalla Banca mondiale. 

Occorrono  infatti  1210  giorni  per  riscuotere  un  credito.  Se  un  tempo  invero,  anche  nella  formazione classica dei giudici, vi era un’assegnazione di specialità alla parte economica  nel più ampio sistema delle regole del diritto, oggi in realtà si può assumere che “tutto è  diritto  dell’economia”.  Né  la  stessa  regolazione  delle  questioni  economiche,  cui  a  loro  volta  dà  impulso  il  Governo,  appare  di  immediata  ed  esclusiva  pertinenza  nazionale,  in  virtù di un fenomeno, la globalizzazione dei mercati, che esige risposte coordinate non più  all’interno  ma  all’esterno  del  sistema  o  dell’ordinamento  giuridico  domestico.  Invero  la  produzione giurisdizionale, che completa e fa vivere nella norma finale la legge, opera in  un  sistema  che  scavalca  lo  Stato  nazionale,  in  una  triangolazione  che  coinvolge  le  istituzioni  comunitarie  e  del  Consiglio  d’Europa  alla  stregua  di  sistemi  normativi  e  giudiziari  che  confermano  l’avvenuto  superamento  dei  vecchi  confini,  fino  a  poco  fa  impensabili.  La  regola  di  diritto  di  Hans  Kelsen  prevale  sulla  regola  di  governo  di  Carl  Schmitt. 

 

 Non  va  infatti  dimenticato  il  tempo  occorso,  in  passato,  per  il  superamento  dei  confini  nazionali da parte di importanti istituti giuridici ed il loro arrivo solo più tardi nel nostro 

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ordinamento,  come  accaduto  per  il  divorzio,  scisso  dal  codice  napoleonico  del  1804  e  recepito  oltre  un  secondo  e  mezzo  dopo;  la  medesima  sorte  accompagnò  anche  il  diritto  agli  acquisti  patrimoniali,  senza  il  consenso  del  marito,  in  capo  alle  donne,  introdotto  in  Italia  solo  da  una  legge  del  1919.  Questi  esempi,  a  dimostrazione  dello  stretto  collegamento  fra  diritto  e  territorio,  esprimono  una  doppia  valenza:  storica,  a  dimostrazione  della  importanza  del  diritto  nazionale  e  della  sovranità  statuale  sul  territorio,  non  permeata  per  lungo  tempo  da  generalizzazioni  altrove  invece  maturate  in  materia  di  diritti;  economica,  per  la  capacità  immediata  del  mercato,  da  un  lato,  di  profittare  di tali recezioni  normative, dall’altro, anche di spingere verso la loro adozione  (non a caso negli anni ’20, in Italia, proprio l’acquisto   delle macchine da cucire, da parte  di  molte  famiglie  italiane,  fu  concomitante  alla  citata  apertura  contrattuale  verso  gli  acquisti delle donne). 

Oggi il rapporto tra economia e società, sempre più complesso e transnazionale, si riflette  non  solo  in  ‘normative  prive  di  sistema’  (perché  ad  esempio  formate,  su  esigenze  di  comunicazione  con  l’opinione  pubblica,  in  modo  non  rigorosamente  attento  alle  conseguenze ordinamentali, come avvenuto da ultimo sull’estensione di competenza della  corte d’assise in materia di pena aumentata ex art. 416bis cod. pen.) ma in un più generale  fenomeno  per  cui  le  regole  economiche  appaiono  sempre  più  inseguite  da  quelle  giuridiche, e dunque in grado – le prime ‐ di imporsi ex se. È vero che, come diceva il Betti, 

“il diritto non è ma si fa”, ed infatti il diritto privato di una società moderna non è più solo  il  codice  del  1942,  in quanto  molti  di  quegli  istituti  tradizionali  ed  ivi  previsti  vanno  ora  declinati  al  plurale,  per  mutazione  interna  della  rispettiva  nozione  socio‐economica:  così  ora  esistono  le  proprietà,  le  famiglie,  le  affiliazioni,  la  bigenitorialità,  le  successioni.  Si  tratta  cioè  di  assumere    una  declinazione  plurale  e  composita  di  istituti  pensati  al  singolare,  con  enormi  riflessi  sul  contratto  ed  il    consumatore,  divenuto  planetario. 

Ancora, si tratta di temi e problematiche aggiornati dalla profonda mutazione del sistema  ordinario dei fornitori e subfornitori attivi in un dato mercato. 

Ed  invero  le  conseguenze  non  sono  mancate  anche  negli  istituti  di  indagine  tradizionale  del giurista, non potendosi certo più assumere, come alla loro nascita, gli originari oggetti  di regolazione di norme fondamentali come le clausole generali di cui agli artt. 2043 e 2059  cod. civ., pur ospitate in testi formalmente immutati.  

Nelle  riunioni  dei  Presidenti  delle  Corti  di  Cassazione  degli  Stati  dell’UE  emerge  che  i  giudici,  al  di  là  del  territorio  e  delle  diverse  norme,  affrontano  oggi  problemi  di  riconoscibile  identità,  ed  in  ognuno  dei  rispettivi  ordinamenti,  in  particolare,  assume  prevalenza  la  accentuazione  economica  rispetto  a  quella  giuridica.  Così  come  sotto  al  contratto  codicistico  vive  una  operazione  economica,  cui  l’art.  11  Cost.  prima  e  l’art.117 

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Cost.  da  ultimo  assegnano  permeabilità  all’ingresso  di  discipline  transnazionali,  oltre  il  territorio. 

 

SABINO CASSESE 

Il nesso tra economia e rivisitazione moderna della decisione giudiziaria può muovere da  tre esempi emblematici, a loro volta implicanti autonomi interrogativi.  

In  Germania:  tre  famiglie  deducono  avanti  a  più  giudici,  ed  infine  al  tribunale  costituzionale  federale,  la  questione  della  pretesa  insufficienza  del  sussidio  di  inoccupazione  (fissato  da  due  istituti,  uno  dei  quali  introdotto  nel  2005).  L’esiguità  della  misura  sarebbe  contraria  alla  Costituzione,  in  particolare  al  precetto  di  cui  all’art.1,  concernente il principio fondamentale della dignità della persona e all’art.20, che prevede   lo  stesso  Stato  sociale.  Occorre  che  le  persone  siano  sussidiate  per  più  dei  395  euro,  cioè  della  misura  normativa:  così  la  decisione  del  giudice  costituzionale  federale,  assunta  nel  febbraio 2010, ma con effetti che vengono, dalla Corte stessa, differiti a dicembre del 2010,  secondo  una  competenza  che  appartiene  alle  decisioni  integrative  dei  poteri  di  dichiarazione di illegittimità costituzionale riservati in quell’ordinamento al giudice delle  leggi.  Si  è  calcolato  che  gli  aventi  diritto  alla  misura  integrativa  sono  circa  7  milioni  di  cittadini, più 2 milioni di minori, con un costo di circa 5 miliardi di euro; mentre le norme  avevano ridotto il sussidio, la decisione giudiziaria ha un impatto diretto e forse opposto  sull’economia,  potendosi  declinare  come  una  ‘decisione’  economica,  per  gli  effetti  di  fuoriuscita  dal  mercato  di  persone  che  ritengono  più  conveniente  ricevere  il  sussidio  piuttosto che accettare o  cercare un lavoro peggio pagato. 

In USA: un  microbiologo di origine indiana, all’esito di un progetto di ricerca, trova alla  fine dei ‘70 un ceppo di nuovi batteri, che sciolgono le catene degli idrocarburi. Al diniego  di  brevetto  del  Patent  office  si  accompagna  la  spiegazione  dell’impossibilità  (giuridica)  di  tutelare con la privativa delle entità viventi. La Suprema Corte applica il diverso principio  per cui è brevettabile ‘qualunque cosa fatta sotto il sole da una persona umana’, dunque  anche la individuazione ovvero lo sviluppo di un ceppo batterico. Ne consegue la nascita  di  un  nuovo  costo  per  attuare  il  disinquinamento,  dovendo  tale  attività  industriale  sostenere le royalties connesse alla privativa. 

Ad Harvard: si studiano, come casi di dottrina, i criteri di misurazione dell’attrattività dei  sistemi  legali  in  economia,  sulla  base  di  indicazioni  della  Banca  mondiale.  La  classificazione  dei  Paesi  fa  emergere  una  complessiva  nozione  di  ‘ambienti  più  adatti’: 

sono quelli di Common Law, ove vige  il principio del judge‐made law, a prevalere sui paesi  di  civil  law,  essendo  più  efficienti  gli  ambienti  in  cui  il  giudice  crea  il  diritto.  Si  tratta  di  

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conclusioni contestate da molti comparatisti, per via dell’apparente riproposizione di una  separatezza di due mondi in realtà molto più convergenti . 

Ora, questi esempi, richiamano la complessità delle funzioni  distributiva (per la quale lo  Stato  eroga  le  risorse  ovvero  muta  le  relazioni  tra  i  soggetti  percettori  di  ricchezza)  e   allocativa (con cui lo Stato stabilisce le funzioni dei vari soggetti nel mercato), comunque  determinando  le  condizioni  dell’agire  economico,  anche  quando  assume  in  un  proprio  codice (civile) un suo primo piano economico. Di qui gli interrogativi:  

1. come e se il giudice deve valutare gli effetti diretti ed indiretti delle sue azioni? il giudice  deve  darsi  carico  del  costo  che  le  sue  decisioni  hanno  sulla  finanza,  sul  mercato,  sul  mondo del lavoro? 

2.  il  giudice  deve  calibrare  i  modi  del  suo  intervento?  perché,  nell’esempio  tedesco  –  e  dunque, in generale e dove gli è consentito, in base a quali criteri giuridici – gli effetti di  una decisione sono fissati al 31 dicembre e non prima o dopo? 

3. al giudice si applicano le stesse regole che si predicano per gli interventi dello Stato? ad  esempio, rispetto al mercato ed alla concorrenza, deve  astenersi da interventi o è libero o  ha regole diverse? il giudice – dice la dottrina anglosassone ‐ agisce reactive, non proactive; 

come  giustificare  ed  aggiornare  il  principio  per  cui  il  giudice  non  è  responsabile  dell’ambito  della  propria  azione  (non  potendo  ad  esempio  adottare  un’attività  sequenziale) e non può essere retribuito in modo collegato all’affare trattato? 

 

NATALINO IRTI 

La  riflessione  odierna  indica  una  precisa  selezione  concettuale  sin  dal  suo  titolo,  non  essendosi indicato “il diritto e l’economia”, ma la relazione fra il “giudice e l’economia”,  infatti nozioni nettamente diverse.  

L’economia  è  capace  di  autoregolarsi?  ‘L’ordine  giuridico  del  mercato’,  secondo  la  titolazione  di  una  riflessione  del  1998,  indica  l’avvenuta  rottura  della  coestensione  tra  politica  ed  economia:  non  rinvenendo    più una  unità  territoriale,  l’economia  ha  ora    una  dimensione  planetaria,  mentre  il  diritto  mostra  di  essere  rimasto  chiuso  entro  confini  tendenzialmente  territoriali.  Ed  invero  la  territorialità  segna  la  cifra  della  politica  e  del  diritto, come invece la  spazialità rappresenta la tecnica e l’economia. 

Giudice  ed  economia,  dunque:  esiste  un’intima  controversia,  poiché  tale  rapporto  obbedisce  alla  necessità  di  una  ‘decisione’.  E  decidere  è  infatti  ‘tagliare’,  cioè  uscire  dal  dubbio  con  una  scelta.  Ma  decidere,  altro  interrogativo  moderno,  è  sempre  applicare  il 

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diritto? O vi è una disgiunzione:, per cui decidere non è più soltanto ‘applicare il diritto’. 

Dal  dogma  della  completezza  dell’ordinamento  giuridico  derivava  l’art.4  code  Napoléon,  essendo  in  esso  sanzionato  il  rifiuto  del  giudice  di  giudicare,  sulla  base  di  una  considerazione di responsabilità per un diniego di giustizia, in quanto il carattere ordinato  e  conchiuso  dell’ordinamento  gli  avrebbe  senz’altro  consentito  di  decidere,  semmai  mediante ricorso all’analogia (come nelle codificazioni attuali previsto all’art. 12 prel. cod. 

civ.):  è  la  conferma  organizzativa  di  un  dogma,  la  presunzione  di  autocompletamento  dell’ordinamento  giuridico,  cioè  la  sua  suscettibilità  di  espandersi  anche  ai  casi  non  testualmente previsti. Tale dogma è però oggi tramontato, l’analogia non assolvendo alla  funzione  originaria  proprio  perché  l’ordinamento  giuridico  non  è  più  un  sistema. 

Dovendo  però  arrivare  una  decisione,  occorre  un  modo  nuovo  di  pervenirvi  quando  la  legge non soccorre, per aver perduto unità sistematica. 

Di qui l’interrogativo su chi sia il giudice moderno, se ancora e solo applicatore del diritto  ovvero, e piuttosto, essenzialmente il terzo che decide (la controversia). Anche nella nostra  Costituzione,  non  c’è  una  norma  che  imponga  al  giudice    di  ‘applicare  il  diritto’;  si  dice  invece  all’art.111  che  il  processo  si  svolge  avanti  ad  un  giudice  terzo  e  imparziale,  assoggettato solo alla legge. La terzietà tiene luogo allora della vecchia imparzialità della  norma? O magari prende il posto della vecchia ‘intenzionalità’ della norma? La garanzia  per  le  parti  che  litigano,  portatrici  del  conflitto  nella  controversia,    sembra  in  realtà  oggi  risiedere  proprio  nella  “imparzialità  di  chi  decide”  e  nella  “coerenza  argomentativa”,  qualità  e  metodologia  dell’attività  che  restituiscono  al  giudice  dignità  (ed  accettazione)  della funzione decisoria. 

Ci sono diffusi e solidi spunti per accreditare tale osservazione, come notato dalla stessa  magistratura dalle riflessioni di  Rordorf nel 2000 fino alle ricostruzioni di Rovelli nel 2010,  nonché  nella  Relazione  di  inaugurazione  dell’Anno  giudiziario  del  2010  del  Presidente  Carbone,  ove  emerge  l’inquietudine  di  un  giudice  educato  ad  applicare  la  legge  ed  oggi  stretto  a  dover  prendere  ‘solo’  una  decisione,  epigono  moderno  della  commedia  di  Menandro  ‐  ivi  citata  –  ov’è  la  disputa  fra  un  pastore  ed  un  boscaiolo  sui  gioielli  trovati  insieme a un bambino disperso nel bosco e la controversia viene affidata ad un passante,  un ‘terzo’, cui si affida il decidere (“se nulla te lo impedisce, dirimi la nostra questione”). Di qui  il significato di una società che sempre ha bisogno di una decisione, divenendo il giudice il  decisore  della  controversia,  secondo  una  funzione  che  attribuisce  risposte  ai  problemi  sentiti dalla società. 

 

RENATO RORDORF 

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In  questa  riflessione  sussiste  l’imbarazzo  proprio  dell’osservatore  di  una  realtà  di  cui  fa  parte  il  relatore  stesso.    Nel  binomio  giudice  –  economia  è  comunque  generalmente  riconosciuta da tempo l’inscindibilità dei due poli, la società nella sua dinamica e le regole  di mercato  vissute nella giurisdizione. Proprio l’osservazione dei fenomeni economici, sin  dall’inizio  della  nostra  società  occidentale,  postula  infatti  la  creazione  di  un  diritto  dei  mercati, fatto dai mercanti e dai giudici, lo jus mercatorum. 

Oggi  il  modo  con  cui  i  soggetti  statuali  (ed  istituzionali)  intervengono  nelle  relazioni  critiche  dell’economia  è  profondamente  mutato  e,  per  la  giurisdizione,  sinteticamente  si  afferma  che    i  giudici  sanno  poco  dell’economia  e  l’economia  ne  vuole  sapere  poco  dei  giudici.  Resta  un  fondo  di  istintiva  diffidenza  verso  un  mondo  di  interessi  e  di  opportunità,  che  si  vorrebbe  guidato  da  scelte  politiche,  per  regolare  un’opacità  che  si  pretende di chiarire nei concetti giuridici, che però appaiono per lo più ispirati su scelte di 

‘dover essere’, all’insegna della tradizionale dicotomia (e scelta) del ‘giusto/ingiusto’. Tale  difficoltà  di  approccio  della  giurisdizione  è  ancora  maggiore  nel  confronto  con  l’esperienza  del  mondo  di  common  law:  nell’ambiente  di  civil  law,  infatti,  l’universo  di  riferimento teorico è tipicamente ‘concettuale’ perché così si esprime il diritto scritto. Per  questo il giudice della civil law può risultare meno aperto alle esigenze tipiche del mondo  dell’economia e, conseguentemente, anche meno esperto. 

A tale mondo a sua volta va riferita una forte insofferenza verso l’approccio del giurista: la  lentezza  e  l’imprevedibilità  delle  sue  decisioni  sono  patite  come  effetti  distorsivi  delle  relazioni  economiche.  L’intervento  del  giudice  è  così  assunto  a  variabile  impazzita,  incidente  di  percorso  e  non  reale  risorsa  del  sistema,  cioè  attuatore  delle  garanzie  del  sistema stesso. Oggi il mercato è invero esso stesso intriso di valenza giuridica, a partire  dalla descrizione effettuale delle sue dinamiche (il luogo dello scambio) e dunque si può  ragionevolmente sostenere che non esisterebbe un mercato senza regole. Di qui l’esigenza  di conseguire, tuttavia, un equilibrio tra incoercibile dinamicità delle relazioni  di mercato  e    garanzia  di  una  regola  giuridica  come  strumento  indispensabile  di  tutela  dei  limiti  dell’agire economico. Alle domande del prof.  Cassese andrebbe dunque risposto che oggi  il  giudice    dell’economia  non  può  limitarsi  ad  una  mera  attività  combinatoria  di  regole  giuridiche,  declinata  come  funzione  che  si  attiene  ad  una  stretta  prospettiva  formalprocedurale,  quasi  burocratica,  entrando  tale  modus  operandi  in  collisione  con  una  funzione di reale garanzia dei diritti. 

Il  proliferare  delle  fonti  giuridiche,  anche  internazionali,  a  sua  volta  riduce  il  tasso  di  sistematicità  dell’ordinamento:  con  l’evoluzione  storicamente  irreversibile  e  sul  piano  globale dei mercati, dunque anche l’operazione decisoria di tipo meramente concettuale (e  sillogistico) è posta in crisi, evidenziando un tratto di coerenza che funzionerebbe solo in 

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un mondo di  completezza ed intima armonia, la cui scomparsa deve far mutare il modo  stesso  della  decisione  giudiziaria.  Ciò  nel  senso  che  il  giudice,  nel  suo  agire,  in  cui  si  riassume l’attività giurisdizionale, non può più prescindere da una profonda comprensione  di merito del mondo degli interessi e degli effetti della sua azione. Tale agilità metodologica  è  comunque  iscritta  in  uno  statuto  per  cui  il  giudice  non  è  libero  nel  fine  e  tuttavia  è  chiamato  a  verificare  ed  integrare  le  prescrizioni  legali  in  modo  coerente  con  le  finalità  ultime  indicate  dalla  Costituzione  (e  dagli  ordinamenti  sovranazionali),    dovendo  egli  perseguire un atteggiamento di comprensione e conoscenza competente rispetto a quegli  interessi,  e  perciò  ‘saper  guardare’  a  quel  mondo,  proprio  per  la  realizzazione  di  quegli   interessi, eteronomi rispetto all’oggetto di osservazione cui è consueto  il proprio orizzonte  tradizionale, improntato al ragionamento sillogistico. Un rispetto meramente formale della  logica  processualistica,  assecondata  in  modo  acritico  soprattutto  quanto  agli  esiti  di  lentezza  dei  giudizi,  rischia  così  –  ove  le  prassi  commerciali  si  radicano  nel  tempo  ben  prima  della  costruzione  di  un  predittibile  sistema  giurisprudenziale  ‐  di  far  sì  che  il  giudice  sia espulso da quel mondo che è chiamato a regolare. Non è più possibile infatti 

“applicare  il  codice  solo  studiando  il  codice”,  come  insegnato  nell’800  dalla  Scuola  dell’esegesi. 

Si impone pertanto la necessità di un approccio specialistico del giudice  dell’economia. A  fronte di un fenomeno di produzione legislativa contraddittoria, nella quale  coesistono ‐  apparentemente  opposti  –  una  crescente  normazione  di  dettaglio,  norme  tecniche  con  prescrizioni  molto  specialistiche  (es.  l’art.  2423  cod.  civ.  sul  bilancio,  il  TUF)  e  clausole  generali, da riempire di contenuti aggiornati alle nuove relazioni di potere nel mercato, di  tutela dei diritti e di danno, senza un’adeguata conoscenza di quei dati il giudice  non può  svolgere la sua funzione. Se ci sono dunque anche norme aperte, appunto clausole generali  (ad  es.  per  la  definizione  dei  compiti  degli  amministratori  delegati  sull’adeguatezza  dell’organizzazione  amministrativa  e  contabile  della  società,  ai  fini  della  responsabilità   dell’amministrazione    societaria;  per  il  trattamento  di  postergazione  dei  crediti  di  finanziamento alla società ove la società, ai sensi dell’art. 2467 cod. civ., sia in situazione di  squilibrio  nell’assetto  finanziario),  occorre  un  giudice  in  possesso  di  cognizioni  specialistiche adeguate. 

L’art.12  disp.  prel.  cod.  civ.  va  perciò  inteso  come  ‘intenzione  del  legislatore’,  e  dunque  intelligenza preliminare della materia di cui si occupa la controversia, del funzionamento  dei rapporti economici ad essa propri e non solo della veste esteriore delle norme ovvero  del  rito  con  cui  alla  relativa  applicazione  è  chiamato  il  giudice.  In  tale  prospettiva  necessaria  di  magistratura  economica,  solo  un  giudice  dotato  di  tali  competenze  specialistiche può decidere i conflitti economici, definendo le controversie in modo meno  incerto e più veloce. Insomma, un giudice a Berlino, ma che deve sapere quel che fa. 

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GUIDO ROSSI 

Come  studioso,  va  sostenuto  un  intervento  eretico:  con  il  mutamento  del  ‘mondo’,  è  cambiata,  specie  nell’economia,  anche  la  funzione  del  giudice,  divenuta  ora  attività  di  creazione  del  diritto  e  primaria,  in  passato  mai  espletata  dalla  magistratura  a  questo  livello.  Il  superamento  del  sillogismo  esemplificato  da  Beccaria  o  della  bouche  de  la  loi  di  Montesquieu  si  può  dare  per  definitivo  e,  con  esso,  la  constatazione  che  nell’alluvione  legislativa,  le  contraddizioni  aumentano.  Semmai  risaltano  eccessi  di  ‘non  lacune’,  per  un’ipertrofia della produzione delle norme. 

Già  in  una  conferenza  del  1955,  Piero  Calamandrei  esaltava  la  funzione  di  produzione  giuridica  assegnata  alla  giurisprudenza.  Nel  tempo  precedente,  osservava,  prevaleva  la  ricerca  di  una  casella  teorica  in  cui  collocare  la  realtà.  Ma  con  l’aggiunta  sempre  più  frequente  di  caselle  supplementari  la  giurisdizione  ha  finito  con  l’allargarsi  oltre  una  tradizionale opera di interpretazione e pervenire ad una consapevole attività di creazione: 

se ciò è meno evidente in epoche di maggiore stasi sociale, ove il giudice può essere fedele  seguace  del  legislatore,  in  quelle  di  rapida  trasformazione  il  giudice  deve  essere  precursore, antesignano, anticipatore. Tale monito vale anche per i sistemi non di common  law, come il nostro. 

La funzione del giudicare diventa perciò più creativa, perché il giudice, non disponendo di  una  norma  puntuale  e  di  dettaglio,  deve  ricorrere  ai  principi  dell’ordinamento,  percorso  ermeneutico  assolutamente  tipico  anche  del  sistema  di  civil  law.  I  principi  costituiscono  dunque  un’alternativa  al  rinvenimento  di  una  norma  puntuale,  ma  ne  consentono  la  graduale ed appropriata creazione. Si possono dare degli esempi. 

Dall’art. 1 comma 2 del cod. civ. della  Svizzera: nei casi non previsti dalla legge  il giudice  decide secondo consuetudine e in mancanza di quella sceglie la regola che adotterebbe se  fosse il legislatore. È un convincimento diffuso l’erroneità dell’attribuzione di capacità di  autoregolazione  pur  frequentemente  riferita  al  capitalismo.  Parimenti,  nel  nostro  ordinamento,  e  dunque  volendo  riconoscere  in  modo  sostanziale  tale  tesi,  il  diritto  comunitario opera attraverso la Corte di Giustizia secondo principi di common law, vale a  dire ricorrendo in fatto al precedente e mutandolo solo con motivazione ‘catafratta’. 

L’art.  1  comma  4  della  legge  n°  287  del  1990:  vi  si  dà  esplicita  codificazione  dei  principi  comunitari, nell’interpretazione della normativa antitrust si deve infatti far riferimento ad  essi. E non va sottaciuto che proprio il diritto dell’antitrust è stato fatto sempre da giuristi: 

si pensi, in Italia, alla pronuncia di  Cass. 14726/2005 (la legittimazione attiva all'esercizio dell'azione di nullità e di risarcimento del danno prevista dall'art. 33 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato - azione la cui cognizione è rimessa dallo stesso art. 33 alla competenza esclusiva della corte d'appello - spetta non solo agli imprenditori, ma anche agli altri soggetti del mercato che abbiano interesse alla conservazione del suo carattere competitivo e, quindi, anche al consumatore finale che subisce danno da una

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contrattazione che non ammette alternative per effetto di una collusione tra gli imprenditori del settore, ancorché egli non sia partecipe del rapporto di concorrenza con gli autori della collusione). A sua volta nelle vicende Courage  del 1999 e Manfredi del 2004, le sentenze della Corte di Giustizia UE hanno riconosciuto  effetti diretti nei rapporti fra i singoli, con diritti che vanno tutelati dai giudici  nazionali. E  in Italia Cass. 2305/2007 ha sancito che L'azione risarcitoria, proposta dall'assicurato - ai sensi del 2° comma dell'art. 33 della legge n. 287 del 1990 (norme per la tutela della concorrenza e del mercato) - nei confronti dell'assicuratore che sia stato sottoposto a sanzione dall'Autorità garante per aver partecipato ad un'intesa anticoncorrenziale tende alla tutela dell'interesse giuridicamente protetto (dalla normativa comunitaria, dalla Costituzione e dalla legislazione nazionale) a godere dei benefici della libera competizione commerciale (interesse che può essere direttamente leso da comportamenti anticompetitivi posti in essere a monte dalle imprese), nonché alla riparazione del danno ingiusto, consistente nell'aver pagato un premio di polizza superiore a quello che l'assicurato stesso avrebbe pagato in condizioni di libero mercato. 

Anche la recente normativa sulle Class actions, regolate dall’art. 49 della  legge n. 99/2009,  in  modifica  dell’art.  140bis  codice  di  consumo,  introduce  il  sistema  dell’opt  in  (facoltà  di  ingresso del singolo consumatore), con il giudice che decide sull’applicabilità della norma  e dunque il corso o meno della procedura. Ciò che va subito rilevato è che non va escluso,  come accaduto negli USA, un possibile sconvolgimento delle competenze delle authorities. 

In materia di responsabilità delle società, si segnala il fondamentale d. lgs. n.231 del 2001,  recentemente oggetto di applicazione presso il Tribunale di Milano (novembre 2009) con la  regola  per  cui  la  riferibilità  della  persona  fisica  all’ente  non  consente  spazio  ad  una  responsabilità  anche della controllata; così la direzione ed il coordinamento nella società  per  azioni  innova  e  pone  in  crisi  la  tradizionale  separatezza  dei  patrimoni  tra  società  e  soci. 

Sui mercati finanziari, Cass. S.U. 2674/2007 hanno sancito che In relazione alla nullità del contratto per contrarietà a norme imperative in difetto di espressa previsione in tal senso (cd. "nullità virtuale"), deve trovare conferma la tradizionale impostazione secondo la quale, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch'esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti la quale può essere fonte di responsabilità. Ne consegue che, in tema di intermediazione finanziaria, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario (nella specie, in base all'art. 6 della legge n. 1 del 1991) può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguenze risarcitorie, ove dette violazioni avvengano nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti (cd. "contratto quadro", il quale, per taluni aspetti, può essere accostato alla figura del mandato); può dar luogo, invece, a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del contratto suddetto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del "contratto quadro"; in ogni caso, deve escludersi che, mancando una esplicita previsione normativa, la violazione dei menzionati doveri di comportamento possa determinare, a norma dell'art. 1418, primo comma, cod. civ., la nullità del cosiddetto "contratto quadro" o dei singoli atti negoziali posti in essere in base ad esso.

Le citate consapevolezze debbono peraltro indurre il giudice ad una attività di accurata e  prudente  selezione  del  consulente  economico,  per  evitare  appunti  di    ‘dubbia  autorevolezza’  della  successiva  decisione  giudiziaria.  Laddove  non  ci  sono  le  norme  occorre riferirsi ai principi, anche a quelli dell’ordinamento giuridico, e addirittura a quelli 

‘morali’ (come ad es. la Corte USA che ha impedito  che il minore venisse condannato a 

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morte, secondo una convinzione  propria di tutti i paesi civili, con il ricorso alla nozione di  decenza). 

A  dispetto  dell’efficient  market  capitalism  hypothesis,  in  realtà  il  mercato  non  si  autoregola,  come  ammesso  da  Posner  che  ha  riconosciuto  alfine  (in  A  failure  of  capitalism)    la  fallacia  della fissità dei principi di una rigida filiazione dalle tesi dell’analisi economica del diritto. 

 

SABINO CASSESE 

Le  relazioni  riassumono  la  necessità  di  una  coerenza  delle  decisioni,  indicano  il  differenziale  tra  il  giudice  e  l’economia,  riconoscono  l’attività  creativa  del  giudice.  Il  filo  rosso che unisce le relative ricostruzioni appare essere proprio la distanza tra il giudice e  l’economia,  anche  come  ritardo  culturale  nella  recezione  giurisdizionale.  Ma  tale  ruolo  crescente  del  giudice  si  è  sempre  storicamente  determinato  ad  identico  modo?  Ci  sono  state epoche in cui la cultura giuridica ha predicato indicazioni di modernizzazione invece  non  accolte  dai  giudici?  C’era  magari  già  una  creatività  maggiore  in  passato  della  giurisprudenza? 

Ed in realtà, la cennata funzione creativa del giudice come può svolgersi nell’ordinamento  attuale?  Con  quali  limiti?  E  con  quali  relazioni  di  self  restraint  della  magistratura?  Può  predicarsi un assecondamento acritico ad eventuali scelte di non regolazione del mercato  provenienti dal legislatore?  

 

VINCENZO PROTO 

Il dibattito fa emergere un interrogativo moderno: le acquisizioni  impongono di definire  come può concepirsi un giudice  terzo ed imparziale, se gli si riconosce un aggiornamento  di tale ruolo creativo. 

 

ADOLFO DI MAIO 

Il  diritto  conferisce  forma  (giuridica)  alla  materia  economica;  secondo  insegnamenti  già  risalenti a Guido Calabresi, la stessa distinzione tra regole proprietarie e risarcitorie ha alla  base  una  soluzione  economica.  Qui  lo  spazio  è  più  per  il  legislatore  che  del  giudice.  Il  giudice,  dunque,  nella  sua  decisione  deve  tener  conto  anche  degli  effetti  economici? 

Alcune  norme  già  lo  autorizzano,  come  nella  determinazione  della  clausola  penale,  se  eccessivamente  onerosa,  che  diventa  parte  della  coerenza  argomentativa,  entra  così  nella 

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decisione.  Ma  anche  il  recesso  a  distanza  di  notevole  tempo,  per  il  bilanciamento  tra  l’affidamento  del  contratto  nel  contraente  e  la  formale  perfezione  della  fattispecie,  potendosi  evitare  alfine  una  soluzione  antieconomica.  In  generale  però  va  preferito  il  rimedio del risarcimento del danno, poichè  le decisioni antieconomiche diventano anche  antigiuridiche. 

FEDERICO ROSELLI 

La motivazione orientata alle conseguenze economiche (come recitava un saggio del prof. 

Mengoni) può risolversi solo mettendo dei paletti agli economisti o alle scelte economiche: 

così è accaduto nella giurisprudenza sull’art.36 Costituzione, in tema di salario minimo. Le  imprese  che  non  riescono  ad  assicurarlo  devono  uscire  dal  mercato,  come  sostenuto  già  negli  anni  ’30  ed  il  giudice  deve  fare  come  l’arbitro  nelle  gare  sportive,  sanzionando  comportamenti difformi alle regole e sorvegliando la lealtà della competizione tra soggetti  economici. Restano fondamentali differenze con la ‘creazione del diritto’: l’intervento del  giudice  è  infatti  del  singolo  e  per  il  singolo  caso,  non  avviene  secondo  i  caratteri  di  generalità  com’è  per  il  legislatore.  Sulla  completezza  dell’ordinamento  giuridico,  sancita   sin dall’epoca del code Napoléon, non va esclusa la possibilità di ricorrere ad un esperto che  agevoli la ricostruzione sull’interpretazione del testo di legge. 

GIUSEPPE SALMÉ 

La parola ‘creazione’ del diritto evoca nell’interprete, chiamato ad applicare le norme, un  comprensibile  orgoglio  ma  anche  un’apprensione,  potendo  rivelare  –  se  non  adeguatamente  spiegata  –  il  pericolo  di  uno  slogan,  il  suo  utilizzo  come  arma  di  lotta  politica,  il  riferimento  testuale  ad  un  motivo  di  apparente  tensione  fra  il  giudice    ed  il  legislatore,  se  tale  lessico  fuoriesce  da  un  ambito  che  condivida  innanzitutto  e  subito  il  senso problematico di tali espressioni. È innegabile, come già Kelsen aveva chiarito, che  il  diritto vive ed è la sua applicazione concreta e tuttavia una correttezza di relazioni, specie  nel  dibattito  istituzionale,  impone  un  chiarimento:  le  regole  di  ermeneutica  attraverso  le  quali  il  giudice  ‘crea’  il  diritto  sono  pur  sempre  regole    della  legge,  cui  egli  rimane  fondamentalmente  sottoposto.  Va  dunque  contrastata  l’idea  che  il  giudice  ‘occupi  uno  spazio’  realmente  vuoto  di  diritto,  proprio  perché  è  la  legge  ad  imporgli,  dettando  il  sistema  delle  fonti  ed  i  criteri  di  tale  attività  integratrice,  il  presupposto  ordinamentale,  anche  sopranazionale,  per  assicurare  a  tale  ‘creatività’  una  premessa  di  senso  del  tutto  interna ad uno statuto del giudice che resta indipendente  e soprattutto terzo. 

Infatti  anche  le  strette  regole  legali  di  interpretazione  impongono,  per  ogni  vicenda  non  espressamente  disciplinata  dalla  legge,  il  ricorso  ai  principi  generali  del  medesimo  ordinamento, così conferendo a tale ‘lacuna’ una specifica inerenza pur sempre ed ancora 

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alla  legge.  La  soggezione  ad  essa  spiega  allora  perchè  il  giudice,  nell’interpretare  e  decidere,  agisce  ‘nella  legge’,  da  intendere  in  senso  ampio  e  dunque  comprensiva  altresì  delle  norme  sopranazionali,  oltre  che  costituzionali,  ma  anche  dell’attività  di  fissazione  concettuale  della  dottrina.  In  questo  ambito  l’attribuzione  di  senso  alla  ‘creazione  del  diritto’  consegue  al  riconoscimento  di  un  significato  di  conformità  del  diritto  stesso  alla 

‘legge’, applicabile per sua natura ad una serie di casi. 

Il giudice, decidendo, applica infatti la regola ad una serie di casi indeterminati ed attua  così  una  funzione  obbligatoria,  in  ciò  esprimendo  l’assenza  di  ogni  ‘arbitrio  creativo’  e  dunque svolgendo una funzione istituzionale distinta da quella del legislatore; il giudice  che ‘decide’, nell’ambito di una sistema di regole, non opera pertanto alcuna supplenza né  attua invasioni istituzionali verso campi diversi. 

 

NATALINO IRTI 

Va  riconosciuta  l’esistenza  di  un  bisogno  di  nuova  razionalità,  specie  con  riguardo  alle  esigenze  di  affrontare  le  lacune  del  sistema  di  diritto  positivo.  Ma  al  giudice  si  richiede  una costante coerenza argomentativa. 

 

RENATO RORDORF 

Occorre evitare una vertigine concettuale:  il giudice molto raramente si trova a decidere in  uno stato vuoto di diritto, anche se lo scarto tra norma e fattispecie riguarda la realtà su  cui la decisione interviene e quello per cui la legge era stata pensata al momento della sua  confezione.  Ma  i  paletti  già  esistono  e  sono  fissati  nella  Carta  Costituzionale. 

Istituzionalmente  e  come  segnalato    sin  da  Ascarelli:  il  giudice    è  il  ponte  tra  la  realtà  mutevole ed il corpus juris, e per questo egli deve comprendere e conoscere quella realtà. In  ogni caso tale comprensione  non si richiama ad interessi che il  giudice inventa, bensì  ad  interessi che esistono. La giurisprudenza a sua volta è un corpus più ampio che diventa un  punto di riferimento per successive integrazioni, così formando un sistema, cui concorre al  pari  anche  la  dottrina,  secondo  un’attività  egualmente  non  libera  nei  suoi  presupposti,  dovendo  partire  anch’essa  dalla  norma.  Di  fronte  al  mercato  come  nuovo  sovrano,  occorrono pertanto sempre più limiti e competenze. 

 

GUIDO ROSSI 

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Non  è  solo  da  ora  che  il  giudice  svolge  un  ruolo  nella  creatività  nel  campo  del  diritto  dell’economia. I primi principi sono invero quelli di carattere costituzionale ed i limiti alla  descritta  funzione  creativa  possono  essere  posti  solo  dal  legislatore.  Lo  stesso  Posner,  sostenendo  la  necessità  dell’analisi  economica  del  diritto,  affermava  che,  in  un  ordinamento democratico, si può fare a meno del legislatore ma non dei giudici. 

 

Roma, 23 febbraio 2010 

dr. Massimo Ferro  

 magistrato dell’Ufficio del Massimario   

   

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