CORTE DI CASSAZIONE Ufficio dei Referenti per la Formazione Decentrata
“IL GIUDICE E L’ECONOMIA”
Convegno di studi Roma, 17 febbraio 2010 Aula magna Corte di Cassazione Introduzione
MARIA ACIERNO
L’incontro è propedeutico ad altri, del pari incentrati sui cd. profili sensibili della giurisdizione e dell’agire del giudici, nei quali la Formazione Decentrata intende affrontare il dilemma “più regole o meno regole”.
VINCENZO CARBONE
I giudici debbono essere consapevoli dell’impatto che la decisione assume sull’enforcement, la tutela espropriativa del diritto di credito, collocandosi invero l’Italia al 156° posto secondo i parametri di efficienza in base alle catalogazioni elaborate dalla Banca mondiale.
Occorrono infatti 1210 giorni per riscuotere un credito. Se un tempo invero, anche nella formazione classica dei giudici, vi era un’assegnazione di specialità alla parte economica nel più ampio sistema delle regole del diritto, oggi in realtà si può assumere che “tutto è diritto dell’economia”. Né la stessa regolazione delle questioni economiche, cui a loro volta dà impulso il Governo, appare di immediata ed esclusiva pertinenza nazionale, in virtù di un fenomeno, la globalizzazione dei mercati, che esige risposte coordinate non più all’interno ma all’esterno del sistema o dell’ordinamento giuridico domestico. Invero la produzione giurisdizionale, che completa e fa vivere nella norma finale la legge, opera in un sistema che scavalca lo Stato nazionale, in una triangolazione che coinvolge le istituzioni comunitarie e del Consiglio d’Europa alla stregua di sistemi normativi e giudiziari che confermano l’avvenuto superamento dei vecchi confini, fino a poco fa impensabili. La regola di diritto di Hans Kelsen prevale sulla regola di governo di Carl Schmitt.
Non va infatti dimenticato il tempo occorso, in passato, per il superamento dei confini nazionali da parte di importanti istituti giuridici ed il loro arrivo solo più tardi nel nostro
ordinamento, come accaduto per il divorzio, scisso dal codice napoleonico del 1804 e recepito oltre un secondo e mezzo dopo; la medesima sorte accompagnò anche il diritto agli acquisti patrimoniali, senza il consenso del marito, in capo alle donne, introdotto in Italia solo da una legge del 1919. Questi esempi, a dimostrazione dello stretto collegamento fra diritto e territorio, esprimono una doppia valenza: storica, a dimostrazione della importanza del diritto nazionale e della sovranità statuale sul territorio, non permeata per lungo tempo da generalizzazioni altrove invece maturate in materia di diritti; economica, per la capacità immediata del mercato, da un lato, di profittare di tali recezioni normative, dall’altro, anche di spingere verso la loro adozione (non a caso negli anni ’20, in Italia, proprio l’acquisto delle macchine da cucire, da parte di molte famiglie italiane, fu concomitante alla citata apertura contrattuale verso gli acquisti delle donne).
Oggi il rapporto tra economia e società, sempre più complesso e transnazionale, si riflette non solo in ‘normative prive di sistema’ (perché ad esempio formate, su esigenze di comunicazione con l’opinione pubblica, in modo non rigorosamente attento alle conseguenze ordinamentali, come avvenuto da ultimo sull’estensione di competenza della corte d’assise in materia di pena aumentata ex art. 416bis cod. pen.) ma in un più generale fenomeno per cui le regole economiche appaiono sempre più inseguite da quelle giuridiche, e dunque in grado – le prime ‐ di imporsi ex se. È vero che, come diceva il Betti,
“il diritto non è ma si fa”, ed infatti il diritto privato di una società moderna non è più solo il codice del 1942, in quanto molti di quegli istituti tradizionali ed ivi previsti vanno ora declinati al plurale, per mutazione interna della rispettiva nozione socio‐economica: così ora esistono le proprietà, le famiglie, le affiliazioni, la bigenitorialità, le successioni. Si tratta cioè di assumere una declinazione plurale e composita di istituti pensati al singolare, con enormi riflessi sul contratto ed il consumatore, divenuto planetario.
Ancora, si tratta di temi e problematiche aggiornati dalla profonda mutazione del sistema ordinario dei fornitori e subfornitori attivi in un dato mercato.
Ed invero le conseguenze non sono mancate anche negli istituti di indagine tradizionale del giurista, non potendosi certo più assumere, come alla loro nascita, gli originari oggetti di regolazione di norme fondamentali come le clausole generali di cui agli artt. 2043 e 2059 cod. civ., pur ospitate in testi formalmente immutati.
Nelle riunioni dei Presidenti delle Corti di Cassazione degli Stati dell’UE emerge che i giudici, al di là del territorio e delle diverse norme, affrontano oggi problemi di riconoscibile identità, ed in ognuno dei rispettivi ordinamenti, in particolare, assume prevalenza la accentuazione economica rispetto a quella giuridica. Così come sotto al contratto codicistico vive una operazione economica, cui l’art. 11 Cost. prima e l’art.117
Cost. da ultimo assegnano permeabilità all’ingresso di discipline transnazionali, oltre il territorio.
SABINO CASSESE
Il nesso tra economia e rivisitazione moderna della decisione giudiziaria può muovere da tre esempi emblematici, a loro volta implicanti autonomi interrogativi.
In Germania: tre famiglie deducono avanti a più giudici, ed infine al tribunale costituzionale federale, la questione della pretesa insufficienza del sussidio di inoccupazione (fissato da due istituti, uno dei quali introdotto nel 2005). L’esiguità della misura sarebbe contraria alla Costituzione, in particolare al precetto di cui all’art.1, concernente il principio fondamentale della dignità della persona e all’art.20, che prevede lo stesso Stato sociale. Occorre che le persone siano sussidiate per più dei 395 euro, cioè della misura normativa: così la decisione del giudice costituzionale federale, assunta nel febbraio 2010, ma con effetti che vengono, dalla Corte stessa, differiti a dicembre del 2010, secondo una competenza che appartiene alle decisioni integrative dei poteri di dichiarazione di illegittimità costituzionale riservati in quell’ordinamento al giudice delle leggi. Si è calcolato che gli aventi diritto alla misura integrativa sono circa 7 milioni di cittadini, più 2 milioni di minori, con un costo di circa 5 miliardi di euro; mentre le norme avevano ridotto il sussidio, la decisione giudiziaria ha un impatto diretto e forse opposto sull’economia, potendosi declinare come una ‘decisione’ economica, per gli effetti di fuoriuscita dal mercato di persone che ritengono più conveniente ricevere il sussidio piuttosto che accettare o cercare un lavoro peggio pagato.
In USA: un microbiologo di origine indiana, all’esito di un progetto di ricerca, trova alla fine dei ‘70 un ceppo di nuovi batteri, che sciolgono le catene degli idrocarburi. Al diniego di brevetto del Patent office si accompagna la spiegazione dell’impossibilità (giuridica) di tutelare con la privativa delle entità viventi. La Suprema Corte applica il diverso principio per cui è brevettabile ‘qualunque cosa fatta sotto il sole da una persona umana’, dunque anche la individuazione ovvero lo sviluppo di un ceppo batterico. Ne consegue la nascita di un nuovo costo per attuare il disinquinamento, dovendo tale attività industriale sostenere le royalties connesse alla privativa.
Ad Harvard: si studiano, come casi di dottrina, i criteri di misurazione dell’attrattività dei sistemi legali in economia, sulla base di indicazioni della Banca mondiale. La classificazione dei Paesi fa emergere una complessiva nozione di ‘ambienti più adatti’:
sono quelli di Common Law, ove vige il principio del judge‐made law, a prevalere sui paesi di civil law, essendo più efficienti gli ambienti in cui il giudice crea il diritto. Si tratta di
conclusioni contestate da molti comparatisti, per via dell’apparente riproposizione di una separatezza di due mondi in realtà molto più convergenti .
Ora, questi esempi, richiamano la complessità delle funzioni distributiva (per la quale lo Stato eroga le risorse ovvero muta le relazioni tra i soggetti percettori di ricchezza) e allocativa (con cui lo Stato stabilisce le funzioni dei vari soggetti nel mercato), comunque determinando le condizioni dell’agire economico, anche quando assume in un proprio codice (civile) un suo primo piano economico. Di qui gli interrogativi:
1. come e se il giudice deve valutare gli effetti diretti ed indiretti delle sue azioni? il giudice deve darsi carico del costo che le sue decisioni hanno sulla finanza, sul mercato, sul mondo del lavoro?
2. il giudice deve calibrare i modi del suo intervento? perché, nell’esempio tedesco – e dunque, in generale e dove gli è consentito, in base a quali criteri giuridici – gli effetti di una decisione sono fissati al 31 dicembre e non prima o dopo?
3. al giudice si applicano le stesse regole che si predicano per gli interventi dello Stato? ad esempio, rispetto al mercato ed alla concorrenza, deve astenersi da interventi o è libero o ha regole diverse? il giudice – dice la dottrina anglosassone ‐ agisce reactive, non proactive;
come giustificare ed aggiornare il principio per cui il giudice non è responsabile dell’ambito della propria azione (non potendo ad esempio adottare un’attività sequenziale) e non può essere retribuito in modo collegato all’affare trattato?
NATALINO IRTI
La riflessione odierna indica una precisa selezione concettuale sin dal suo titolo, non essendosi indicato “il diritto e l’economia”, ma la relazione fra il “giudice e l’economia”, infatti nozioni nettamente diverse.
L’economia è capace di autoregolarsi? ‘L’ordine giuridico del mercato’, secondo la titolazione di una riflessione del 1998, indica l’avvenuta rottura della coestensione tra politica ed economia: non rinvenendo più una unità territoriale, l’economia ha ora una dimensione planetaria, mentre il diritto mostra di essere rimasto chiuso entro confini tendenzialmente territoriali. Ed invero la territorialità segna la cifra della politica e del diritto, come invece la spazialità rappresenta la tecnica e l’economia.
Giudice ed economia, dunque: esiste un’intima controversia, poiché tale rapporto obbedisce alla necessità di una ‘decisione’. E decidere è infatti ‘tagliare’, cioè uscire dal dubbio con una scelta. Ma decidere, altro interrogativo moderno, è sempre applicare il
diritto? O vi è una disgiunzione:, per cui decidere non è più soltanto ‘applicare il diritto’.
Dal dogma della completezza dell’ordinamento giuridico derivava l’art.4 code Napoléon, essendo in esso sanzionato il rifiuto del giudice di giudicare, sulla base di una considerazione di responsabilità per un diniego di giustizia, in quanto il carattere ordinato e conchiuso dell’ordinamento gli avrebbe senz’altro consentito di decidere, semmai mediante ricorso all’analogia (come nelle codificazioni attuali previsto all’art. 12 prel. cod.
civ.): è la conferma organizzativa di un dogma, la presunzione di autocompletamento dell’ordinamento giuridico, cioè la sua suscettibilità di espandersi anche ai casi non testualmente previsti. Tale dogma è però oggi tramontato, l’analogia non assolvendo alla funzione originaria proprio perché l’ordinamento giuridico non è più un sistema.
Dovendo però arrivare una decisione, occorre un modo nuovo di pervenirvi quando la legge non soccorre, per aver perduto unità sistematica.
Di qui l’interrogativo su chi sia il giudice moderno, se ancora e solo applicatore del diritto ovvero, e piuttosto, essenzialmente il terzo che decide (la controversia). Anche nella nostra Costituzione, non c’è una norma che imponga al giudice di ‘applicare il diritto’; si dice invece all’art.111 che il processo si svolge avanti ad un giudice terzo e imparziale, assoggettato solo alla legge. La terzietà tiene luogo allora della vecchia imparzialità della norma? O magari prende il posto della vecchia ‘intenzionalità’ della norma? La garanzia per le parti che litigano, portatrici del conflitto nella controversia, sembra in realtà oggi risiedere proprio nella “imparzialità di chi decide” e nella “coerenza argomentativa”, qualità e metodologia dell’attività che restituiscono al giudice dignità (ed accettazione) della funzione decisoria.
Ci sono diffusi e solidi spunti per accreditare tale osservazione, come notato dalla stessa magistratura dalle riflessioni di Rordorf nel 2000 fino alle ricostruzioni di Rovelli nel 2010, nonché nella Relazione di inaugurazione dell’Anno giudiziario del 2010 del Presidente Carbone, ove emerge l’inquietudine di un giudice educato ad applicare la legge ed oggi stretto a dover prendere ‘solo’ una decisione, epigono moderno della commedia di Menandro ‐ ivi citata – ov’è la disputa fra un pastore ed un boscaiolo sui gioielli trovati insieme a un bambino disperso nel bosco e la controversia viene affidata ad un passante, un ‘terzo’, cui si affida il decidere (“se nulla te lo impedisce, dirimi la nostra questione”). Di qui il significato di una società che sempre ha bisogno di una decisione, divenendo il giudice il decisore della controversia, secondo una funzione che attribuisce risposte ai problemi sentiti dalla società.
RENATO RORDORF
In questa riflessione sussiste l’imbarazzo proprio dell’osservatore di una realtà di cui fa parte il relatore stesso. Nel binomio giudice – economia è comunque generalmente riconosciuta da tempo l’inscindibilità dei due poli, la società nella sua dinamica e le regole di mercato vissute nella giurisdizione. Proprio l’osservazione dei fenomeni economici, sin dall’inizio della nostra società occidentale, postula infatti la creazione di un diritto dei mercati, fatto dai mercanti e dai giudici, lo jus mercatorum.
Oggi il modo con cui i soggetti statuali (ed istituzionali) intervengono nelle relazioni critiche dell’economia è profondamente mutato e, per la giurisdizione, sinteticamente si afferma che i giudici sanno poco dell’economia e l’economia ne vuole sapere poco dei giudici. Resta un fondo di istintiva diffidenza verso un mondo di interessi e di opportunità, che si vorrebbe guidato da scelte politiche, per regolare un’opacità che si pretende di chiarire nei concetti giuridici, che però appaiono per lo più ispirati su scelte di
‘dover essere’, all’insegna della tradizionale dicotomia (e scelta) del ‘giusto/ingiusto’. Tale difficoltà di approccio della giurisdizione è ancora maggiore nel confronto con l’esperienza del mondo di common law: nell’ambiente di civil law, infatti, l’universo di riferimento teorico è tipicamente ‘concettuale’ perché così si esprime il diritto scritto. Per questo il giudice della civil law può risultare meno aperto alle esigenze tipiche del mondo dell’economia e, conseguentemente, anche meno esperto.
A tale mondo a sua volta va riferita una forte insofferenza verso l’approccio del giurista: la lentezza e l’imprevedibilità delle sue decisioni sono patite come effetti distorsivi delle relazioni economiche. L’intervento del giudice è così assunto a variabile impazzita, incidente di percorso e non reale risorsa del sistema, cioè attuatore delle garanzie del sistema stesso. Oggi il mercato è invero esso stesso intriso di valenza giuridica, a partire dalla descrizione effettuale delle sue dinamiche (il luogo dello scambio) e dunque si può ragionevolmente sostenere che non esisterebbe un mercato senza regole. Di qui l’esigenza di conseguire, tuttavia, un equilibrio tra incoercibile dinamicità delle relazioni di mercato e garanzia di una regola giuridica come strumento indispensabile di tutela dei limiti dell’agire economico. Alle domande del prof. Cassese andrebbe dunque risposto che oggi il giudice dell’economia non può limitarsi ad una mera attività combinatoria di regole giuridiche, declinata come funzione che si attiene ad una stretta prospettiva formalprocedurale, quasi burocratica, entrando tale modus operandi in collisione con una funzione di reale garanzia dei diritti.
Il proliferare delle fonti giuridiche, anche internazionali, a sua volta riduce il tasso di sistematicità dell’ordinamento: con l’evoluzione storicamente irreversibile e sul piano globale dei mercati, dunque anche l’operazione decisoria di tipo meramente concettuale (e sillogistico) è posta in crisi, evidenziando un tratto di coerenza che funzionerebbe solo in
un mondo di completezza ed intima armonia, la cui scomparsa deve far mutare il modo stesso della decisione giudiziaria. Ciò nel senso che il giudice, nel suo agire, in cui si riassume l’attività giurisdizionale, non può più prescindere da una profonda comprensione di merito del mondo degli interessi e degli effetti della sua azione. Tale agilità metodologica è comunque iscritta in uno statuto per cui il giudice non è libero nel fine e tuttavia è chiamato a verificare ed integrare le prescrizioni legali in modo coerente con le finalità ultime indicate dalla Costituzione (e dagli ordinamenti sovranazionali), dovendo egli perseguire un atteggiamento di comprensione e conoscenza competente rispetto a quegli interessi, e perciò ‘saper guardare’ a quel mondo, proprio per la realizzazione di quegli interessi, eteronomi rispetto all’oggetto di osservazione cui è consueto il proprio orizzonte tradizionale, improntato al ragionamento sillogistico. Un rispetto meramente formale della logica processualistica, assecondata in modo acritico soprattutto quanto agli esiti di lentezza dei giudizi, rischia così – ove le prassi commerciali si radicano nel tempo ben prima della costruzione di un predittibile sistema giurisprudenziale ‐ di far sì che il giudice sia espulso da quel mondo che è chiamato a regolare. Non è più possibile infatti
“applicare il codice solo studiando il codice”, come insegnato nell’800 dalla Scuola dell’esegesi.
Si impone pertanto la necessità di un approccio specialistico del giudice dell’economia. A fronte di un fenomeno di produzione legislativa contraddittoria, nella quale coesistono ‐ apparentemente opposti – una crescente normazione di dettaglio, norme tecniche con prescrizioni molto specialistiche (es. l’art. 2423 cod. civ. sul bilancio, il TUF) e clausole generali, da riempire di contenuti aggiornati alle nuove relazioni di potere nel mercato, di tutela dei diritti e di danno, senza un’adeguata conoscenza di quei dati il giudice non può svolgere la sua funzione. Se ci sono dunque anche norme aperte, appunto clausole generali (ad es. per la definizione dei compiti degli amministratori delegati sull’adeguatezza dell’organizzazione amministrativa e contabile della società, ai fini della responsabilità dell’amministrazione societaria; per il trattamento di postergazione dei crediti di finanziamento alla società ove la società, ai sensi dell’art. 2467 cod. civ., sia in situazione di squilibrio nell’assetto finanziario), occorre un giudice in possesso di cognizioni specialistiche adeguate.
L’art.12 disp. prel. cod. civ. va perciò inteso come ‘intenzione del legislatore’, e dunque intelligenza preliminare della materia di cui si occupa la controversia, del funzionamento dei rapporti economici ad essa propri e non solo della veste esteriore delle norme ovvero del rito con cui alla relativa applicazione è chiamato il giudice. In tale prospettiva necessaria di magistratura economica, solo un giudice dotato di tali competenze specialistiche può decidere i conflitti economici, definendo le controversie in modo meno incerto e più veloce. Insomma, un giudice a Berlino, ma che deve sapere quel che fa.
GUIDO ROSSI
Come studioso, va sostenuto un intervento eretico: con il mutamento del ‘mondo’, è cambiata, specie nell’economia, anche la funzione del giudice, divenuta ora attività di creazione del diritto e primaria, in passato mai espletata dalla magistratura a questo livello. Il superamento del sillogismo esemplificato da Beccaria o della bouche de la loi di Montesquieu si può dare per definitivo e, con esso, la constatazione che nell’alluvione legislativa, le contraddizioni aumentano. Semmai risaltano eccessi di ‘non lacune’, per un’ipertrofia della produzione delle norme.
Già in una conferenza del 1955, Piero Calamandrei esaltava la funzione di produzione giuridica assegnata alla giurisprudenza. Nel tempo precedente, osservava, prevaleva la ricerca di una casella teorica in cui collocare la realtà. Ma con l’aggiunta sempre più frequente di caselle supplementari la giurisdizione ha finito con l’allargarsi oltre una tradizionale opera di interpretazione e pervenire ad una consapevole attività di creazione:
se ciò è meno evidente in epoche di maggiore stasi sociale, ove il giudice può essere fedele seguace del legislatore, in quelle di rapida trasformazione il giudice deve essere precursore, antesignano, anticipatore. Tale monito vale anche per i sistemi non di common law, come il nostro.
La funzione del giudicare diventa perciò più creativa, perché il giudice, non disponendo di una norma puntuale e di dettaglio, deve ricorrere ai principi dell’ordinamento, percorso ermeneutico assolutamente tipico anche del sistema di civil law. I principi costituiscono dunque un’alternativa al rinvenimento di una norma puntuale, ma ne consentono la graduale ed appropriata creazione. Si possono dare degli esempi.
Dall’art. 1 comma 2 del cod. civ. della Svizzera: nei casi non previsti dalla legge il giudice decide secondo consuetudine e in mancanza di quella sceglie la regola che adotterebbe se fosse il legislatore. È un convincimento diffuso l’erroneità dell’attribuzione di capacità di autoregolazione pur frequentemente riferita al capitalismo. Parimenti, nel nostro ordinamento, e dunque volendo riconoscere in modo sostanziale tale tesi, il diritto comunitario opera attraverso la Corte di Giustizia secondo principi di common law, vale a dire ricorrendo in fatto al precedente e mutandolo solo con motivazione ‘catafratta’.
L’art. 1 comma 4 della legge n° 287 del 1990: vi si dà esplicita codificazione dei principi comunitari, nell’interpretazione della normativa antitrust si deve infatti far riferimento ad essi. E non va sottaciuto che proprio il diritto dell’antitrust è stato fatto sempre da giuristi:
si pensi, in Italia, alla pronuncia di Cass. 14726/2005 (la legittimazione attiva all'esercizio dell'azione di nullità e di risarcimento del danno prevista dall'art. 33 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato - azione la cui cognizione è rimessa dallo stesso art. 33 alla competenza esclusiva della corte d'appello - spetta non solo agli imprenditori, ma anche agli altri soggetti del mercato che abbiano interesse alla conservazione del suo carattere competitivo e, quindi, anche al consumatore finale che subisce danno da una
contrattazione che non ammette alternative per effetto di una collusione tra gli imprenditori del settore, ancorché egli non sia partecipe del rapporto di concorrenza con gli autori della collusione). A sua volta nelle vicende Courage del 1999 e Manfredi del 2004, le sentenze della Corte di Giustizia UE hanno riconosciuto effetti diretti nei rapporti fra i singoli, con diritti che vanno tutelati dai giudici nazionali. E in Italia Cass. 2305/2007 ha sancito che L'azione risarcitoria, proposta dall'assicurato - ai sensi del 2° comma dell'art. 33 della legge n. 287 del 1990 (norme per la tutela della concorrenza e del mercato) - nei confronti dell'assicuratore che sia stato sottoposto a sanzione dall'Autorità garante per aver partecipato ad un'intesa anticoncorrenziale tende alla tutela dell'interesse giuridicamente protetto (dalla normativa comunitaria, dalla Costituzione e dalla legislazione nazionale) a godere dei benefici della libera competizione commerciale (interesse che può essere direttamente leso da comportamenti anticompetitivi posti in essere a monte dalle imprese), nonché alla riparazione del danno ingiusto, consistente nell'aver pagato un premio di polizza superiore a quello che l'assicurato stesso avrebbe pagato in condizioni di libero mercato.
Anche la recente normativa sulle Class actions, regolate dall’art. 49 della legge n. 99/2009, in modifica dell’art. 140bis codice di consumo, introduce il sistema dell’opt in (facoltà di ingresso del singolo consumatore), con il giudice che decide sull’applicabilità della norma e dunque il corso o meno della procedura. Ciò che va subito rilevato è che non va escluso, come accaduto negli USA, un possibile sconvolgimento delle competenze delle authorities.
In materia di responsabilità delle società, si segnala il fondamentale d. lgs. n.231 del 2001, recentemente oggetto di applicazione presso il Tribunale di Milano (novembre 2009) con la regola per cui la riferibilità della persona fisica all’ente non consente spazio ad una responsabilità anche della controllata; così la direzione ed il coordinamento nella società per azioni innova e pone in crisi la tradizionale separatezza dei patrimoni tra società e soci.
Sui mercati finanziari, Cass. S.U. 2674/2007 hanno sancito che In relazione alla nullità del contratto per contrarietà a norme imperative in difetto di espressa previsione in tal senso (cd. "nullità virtuale"), deve trovare conferma la tradizionale impostazione secondo la quale, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch'esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti la quale può essere fonte di responsabilità. Ne consegue che, in tema di intermediazione finanziaria, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario (nella specie, in base all'art. 6 della legge n. 1 del 1991) può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguenze risarcitorie, ove dette violazioni avvengano nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti (cd. "contratto quadro", il quale, per taluni aspetti, può essere accostato alla figura del mandato); può dar luogo, invece, a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del contratto suddetto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del "contratto quadro"; in ogni caso, deve escludersi che, mancando una esplicita previsione normativa, la violazione dei menzionati doveri di comportamento possa determinare, a norma dell'art. 1418, primo comma, cod. civ., la nullità del cosiddetto "contratto quadro" o dei singoli atti negoziali posti in essere in base ad esso.
Le citate consapevolezze debbono peraltro indurre il giudice ad una attività di accurata e prudente selezione del consulente economico, per evitare appunti di ‘dubbia autorevolezza’ della successiva decisione giudiziaria. Laddove non ci sono le norme occorre riferirsi ai principi, anche a quelli dell’ordinamento giuridico, e addirittura a quelli
‘morali’ (come ad es. la Corte USA che ha impedito che il minore venisse condannato a
morte, secondo una convinzione propria di tutti i paesi civili, con il ricorso alla nozione di decenza).
A dispetto dell’efficient market capitalism hypothesis, in realtà il mercato non si autoregola, come ammesso da Posner che ha riconosciuto alfine (in A failure of capitalism) la fallacia della fissità dei principi di una rigida filiazione dalle tesi dell’analisi economica del diritto.
SABINO CASSESE
Le relazioni riassumono la necessità di una coerenza delle decisioni, indicano il differenziale tra il giudice e l’economia, riconoscono l’attività creativa del giudice. Il filo rosso che unisce le relative ricostruzioni appare essere proprio la distanza tra il giudice e l’economia, anche come ritardo culturale nella recezione giurisdizionale. Ma tale ruolo crescente del giudice si è sempre storicamente determinato ad identico modo? Ci sono state epoche in cui la cultura giuridica ha predicato indicazioni di modernizzazione invece non accolte dai giudici? C’era magari già una creatività maggiore in passato della giurisprudenza?
Ed in realtà, la cennata funzione creativa del giudice come può svolgersi nell’ordinamento attuale? Con quali limiti? E con quali relazioni di self restraint della magistratura? Può predicarsi un assecondamento acritico ad eventuali scelte di non regolazione del mercato provenienti dal legislatore?
VINCENZO PROTO
Il dibattito fa emergere un interrogativo moderno: le acquisizioni impongono di definire come può concepirsi un giudice terzo ed imparziale, se gli si riconosce un aggiornamento di tale ruolo creativo.
ADOLFO DI MAIO
Il diritto conferisce forma (giuridica) alla materia economica; secondo insegnamenti già risalenti a Guido Calabresi, la stessa distinzione tra regole proprietarie e risarcitorie ha alla base una soluzione economica. Qui lo spazio è più per il legislatore che del giudice. Il giudice, dunque, nella sua decisione deve tener conto anche degli effetti economici?
Alcune norme già lo autorizzano, come nella determinazione della clausola penale, se eccessivamente onerosa, che diventa parte della coerenza argomentativa, entra così nella
decisione. Ma anche il recesso a distanza di notevole tempo, per il bilanciamento tra l’affidamento del contratto nel contraente e la formale perfezione della fattispecie, potendosi evitare alfine una soluzione antieconomica. In generale però va preferito il rimedio del risarcimento del danno, poichè le decisioni antieconomiche diventano anche antigiuridiche.
FEDERICO ROSELLI
La motivazione orientata alle conseguenze economiche (come recitava un saggio del prof.
Mengoni) può risolversi solo mettendo dei paletti agli economisti o alle scelte economiche:
così è accaduto nella giurisprudenza sull’art.36 Costituzione, in tema di salario minimo. Le imprese che non riescono ad assicurarlo devono uscire dal mercato, come sostenuto già negli anni ’30 ed il giudice deve fare come l’arbitro nelle gare sportive, sanzionando comportamenti difformi alle regole e sorvegliando la lealtà della competizione tra soggetti economici. Restano fondamentali differenze con la ‘creazione del diritto’: l’intervento del giudice è infatti del singolo e per il singolo caso, non avviene secondo i caratteri di generalità com’è per il legislatore. Sulla completezza dell’ordinamento giuridico, sancita sin dall’epoca del code Napoléon, non va esclusa la possibilità di ricorrere ad un esperto che agevoli la ricostruzione sull’interpretazione del testo di legge.
GIUSEPPE SALMÉ
La parola ‘creazione’ del diritto evoca nell’interprete, chiamato ad applicare le norme, un comprensibile orgoglio ma anche un’apprensione, potendo rivelare – se non adeguatamente spiegata – il pericolo di uno slogan, il suo utilizzo come arma di lotta politica, il riferimento testuale ad un motivo di apparente tensione fra il giudice ed il legislatore, se tale lessico fuoriesce da un ambito che condivida innanzitutto e subito il senso problematico di tali espressioni. È innegabile, come già Kelsen aveva chiarito, che il diritto vive ed è la sua applicazione concreta e tuttavia una correttezza di relazioni, specie nel dibattito istituzionale, impone un chiarimento: le regole di ermeneutica attraverso le quali il giudice ‘crea’ il diritto sono pur sempre regole della legge, cui egli rimane fondamentalmente sottoposto. Va dunque contrastata l’idea che il giudice ‘occupi uno spazio’ realmente vuoto di diritto, proprio perché è la legge ad imporgli, dettando il sistema delle fonti ed i criteri di tale attività integratrice, il presupposto ordinamentale, anche sopranazionale, per assicurare a tale ‘creatività’ una premessa di senso del tutto interna ad uno statuto del giudice che resta indipendente e soprattutto terzo.
Infatti anche le strette regole legali di interpretazione impongono, per ogni vicenda non espressamente disciplinata dalla legge, il ricorso ai principi generali del medesimo ordinamento, così conferendo a tale ‘lacuna’ una specifica inerenza pur sempre ed ancora
alla legge. La soggezione ad essa spiega allora perchè il giudice, nell’interpretare e decidere, agisce ‘nella legge’, da intendere in senso ampio e dunque comprensiva altresì delle norme sopranazionali, oltre che costituzionali, ma anche dell’attività di fissazione concettuale della dottrina. In questo ambito l’attribuzione di senso alla ‘creazione del diritto’ consegue al riconoscimento di un significato di conformità del diritto stesso alla
‘legge’, applicabile per sua natura ad una serie di casi.
Il giudice, decidendo, applica infatti la regola ad una serie di casi indeterminati ed attua così una funzione obbligatoria, in ciò esprimendo l’assenza di ogni ‘arbitrio creativo’ e dunque svolgendo una funzione istituzionale distinta da quella del legislatore; il giudice che ‘decide’, nell’ambito di una sistema di regole, non opera pertanto alcuna supplenza né attua invasioni istituzionali verso campi diversi.
NATALINO IRTI
Va riconosciuta l’esistenza di un bisogno di nuova razionalità, specie con riguardo alle esigenze di affrontare le lacune del sistema di diritto positivo. Ma al giudice si richiede una costante coerenza argomentativa.
RENATO RORDORF
Occorre evitare una vertigine concettuale: il giudice molto raramente si trova a decidere in uno stato vuoto di diritto, anche se lo scarto tra norma e fattispecie riguarda la realtà su cui la decisione interviene e quello per cui la legge era stata pensata al momento della sua confezione. Ma i paletti già esistono e sono fissati nella Carta Costituzionale.
Istituzionalmente e come segnalato sin da Ascarelli: il giudice è il ponte tra la realtà mutevole ed il corpus juris, e per questo egli deve comprendere e conoscere quella realtà. In ogni caso tale comprensione non si richiama ad interessi che il giudice inventa, bensì ad interessi che esistono. La giurisprudenza a sua volta è un corpus più ampio che diventa un punto di riferimento per successive integrazioni, così formando un sistema, cui concorre al pari anche la dottrina, secondo un’attività egualmente non libera nei suoi presupposti, dovendo partire anch’essa dalla norma. Di fronte al mercato come nuovo sovrano, occorrono pertanto sempre più limiti e competenze.
GUIDO ROSSI
Non è solo da ora che il giudice svolge un ruolo nella creatività nel campo del diritto dell’economia. I primi principi sono invero quelli di carattere costituzionale ed i limiti alla descritta funzione creativa possono essere posti solo dal legislatore. Lo stesso Posner, sostenendo la necessità dell’analisi economica del diritto, affermava che, in un ordinamento democratico, si può fare a meno del legislatore ma non dei giudici.
Roma, 23 febbraio 2010
dr. Massimo Ferro
magistrato dell’Ufficio del Massimario