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La C.T.U. nel Contenzioso Civile

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Academic year: 2022

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Dr. Luigi Scotti

Capo Ufficio Legislativo del Ministero di Grazia e Giustizia

La C.T.U. nel Contenzioso Civile

Il Consiglio Superiore di Magistratura organizza spesso riunioni di studio che durano 5-6 giorni. Ne ha fatte due sul problema della perizia tecnica: una nel 1964 e l’altra nel 1982. Ho avuto la fortuna di partecipare ad entrambe. In quella del 1964 c’era una grossa diffidenza, si tagliava l’aria con il coltello tra i periti e i magistrati. Nel 1982 la diffidenza era notevolmente ridotta e si erano fatti molti passi in avanti.

Noto che questa diffidenza oggi non c’è più e credo che queste due culture si siano molto avvicinate almeno per quanto riguarda la trattazione della problematica che poi si cala nella realtà del processo. Problematica che il mio ufficio dovrebbe affrontare anche perché presso il mio ufficio esistono varie commissioni, due in particolare: quella per la riforma dei codici di procedura penale, diritto penale e quella della riforma del codice civile in cui la tematica le Consulente Tecnico d’Ufficio è di non secondaria importanza. Commissioni in cui vengono trattati questi problemi, sia i minori che i maggiori: albo, quesiti, tipologia, esclusività od attenuata esclusività di una certa categoria medica nell’affrontare determinati problemi, rapporti tra giudici e consulente tecnico, tra giudici e periti. La tematica si allarga notevolmente anche alle altre figure:

consulenti tecnici, periti e alle altre discipline. Si tratta dunque di problemi che devono essere affrontati e per cui ci sono state presentate varie proposte e disegni in sede parlamentare.

Vorrei però fare una premessa brevissima. Stiamo per calare questi problemi in un contesto che si va rapidamente modificando, perché abbiamo già a che fare con un nuovo presidio giudiziario: il giudice di pace, e con nuovi meccanismi processuali, caratterizzati dal sistema delle preclusioni qual è la miniriforma del codice civile.

Attenzione, dunque, perché alcuni dei problemi che sono stati sollevati dovranno fare i conti con una nuova realtà processuale, in cui i soggetti del processo e i cosiddetti ausiliari, che divengono altrettanti protagonisti del processo accanto al Magistrato o nel sistema delle prove si devono misurare con queste nuove realtà. Ma c’è allo stesso tempo un’altra realtà che spiega tante cose, il corposo contenzioso soprattutto in materia civile: due milioni di pratiche, non tutte cause vere e proprie, ma all’incirca un milione e seicento cause arretrate e con un incremento che ha un indice geometrico e non aritmetico.

Che cosa comporta questa dimensione: comporta che c’è una ricerca disperata di disciplinare e comunque di potenziare la soluzione precontenziosa.

Ad esempio quando era ministro l’onorevole Conso fu elaborato nell’ambito del ministero della Giustizia, dall’ufficio legislativo un pacchetto di riforme per la soluzione precontenziosa, e sapete quanto l’infortunistica abbia contribuito e contribuisca tuttora al numero delle cause!

La cosiddetta perizia arbitrale ad esempio potrebbe essere un meccanismo di soluzione che prescinda dall’intervento del Magistrato e che potrebbe essere affidata ad un collegio formato da due giudici di pace e da un medico legale.

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Rivolgendosi a tale presidio in maniera spontanea non si avrebbe più la possibilità di impugnare la decisione, ed è chiaro quale è la finalità che si vorrebbe raggiungere, ossia impedire questa crescita enorme di contenzioso.

Per cui chi arriva volontariamente a questo meccanismo è chiaro che non può poi rivolgersi ad un Magistrato se non nel caso di dolo o di assoluto travisamento del fatto da parte di questo collegio.

Da parte mia, anche con la prospettiva di un’eventuale riforma legislativa, cercherò di ripercorrere alcune problematiche. Dalla realtà concreta non mi spavento di constatare alcuni fenomeni molto semplici. Il caso ad esempio del C.T.U. che svolge attività per compagnie assicuratrici e ,o per studi legali. Dopo il giuramento può sorgere un velo di sospetto anche se si tratta di persone onestissime. Allora bisogna vedere come risolvere il caso, ad esempio attraverso un codice deontologico che si leghi ad un sistema disciplinare.

Molte categorie professionali si sono date un codice deontologico, ed alcuni di questi codici in virtù del decreto legislativo di due anni fa sono legati anche a meccanismi di sanzione disciplinare nell’ambito delle categorie di appartenenza. Questo dunque è un problema concreto. Bisognerebbe misurarne la dimensione per vedere se esso merita un meccanismo di ammortamento per vie interne attraverso diciamo le prospettive di miglioramento delle stesse categorie professionali e un controllo attento da parte della magistratura, oppure se ha dimensioni tali da giustificare un intervento legislativo.

Ad un altra problematica vorrei accennare. Per fare bene le cose bisogna essere in due, probabilmente in tre, se non in quattro. In due il perito e il giudice, in tre l’avvocato, in quattro l’avvocato dell’attore e l’avvocato del convenuto. Di conseguenza bisognerebbe anche costruire un vademecum del buon giudice e del buon avvocato.

Tutto ciò che è stato detto da parte del Dr. Rossetti a proposito della nascita del consulente tecnico nel processo, della sua identificazione, la tipologia ai fini della scelta, del suo radicamento strutturale nel rapporto funzionale sono cose sacrosante che i francesi attuano già da tempo e che il nostro codice avrebbe voluto che noi realizzassimo.

Perché dunque non sono mai state fatte? Per vari motivi e non sono convinto che per tutti sia valido un discorso di innovazione normativa. Ho l’impressione che alcuni di questi problemi abbiano bisogno invece di confrontarsi con la realtà concreta, con le aule giudiziarie, con le professionalità, con le psicologie professionali e con la realtà del peso del contenzioso. Prima di tutto, questo contenzioso enorme spinge talvolta a trasformare l’apporto e quindi la ricerca, l’incarico del consulente tecnico, la dinamica del rapporto endoprocessuale tra il Magistrato ed il consulente tecnico in un meccanismo di consumazione burocratica.

Che cosa significa questo? Esiste un profilo tecnico nelle cause. Io giudice ne ho tantissime, mi serve un consulente per cui gli do l’incarico a cliché.

Cerchiamo dunque di comprendere questa attualità nella problematica generale.

Avendo tante cause affido al consulente i quesiti cliché e se la vede lui. Le più delle volte glieli affido all’inizio delle cause, sbagliando enormemente. Così facendo si risolvono molti problemi che si presentano nelle innumerevoli cause di routine, ma questo rappresenta la prima grossa difficoltà in cui ci si imbatte.

Intendiamoci, questa è una difficoltà che spesso crea alibi all’uno, all’altro e a tutti e quattro protagonisti. Di fronte a questa mole di cause, non ho la possibilità di formulare incarichi e quindi quesiti secondo la dizione comune: precisi, specifici, adattati alla singola causa, ma mi affido alle formulazioni delle parti, al buonsenso del consulente

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tecnico, il quale saprà interpretare quello che voglio. Se la vede lui e poi alla fine quando la causa sta per essere mandata in decisione leggerò tutto con certe conseguenze che sono state prospettate.

Un secondo fattore è rappresentato dall’arroganza di un vecchio aforisma: il giudice peritus peritorum?

Così significa questa espressione? Come va inteso in termini moderni, e di sinergismo interdisciplinare? Va inteso forse che ogni giudice sappia tutto, che il giudice possa formulare i quesiti migliori del mondo, e di qualunque altro, degli stessi avvocati e periti? Significa che il giudice può leggere come vuole gli elaborati peritali e disattenderli se, quando e come vuole? Significa che può trasformare nella decisione definitiva il contributo del perito? Assolutamente no. Anche se questa arroganza talvolta per ragioni di fretta, per ragioni di ignavia, per ragioni di contesto processuale, per il numero enorme di processi, riappare di tanto in tanto senza quella dolosità di tanti anni fa, per fortuna.

Va intesa, ed è già stato detto in un vostro precedente convegno dall’amico senatore Senese a proposito dell’aforisma peritus peritorum, che il giudice deve fare i conti con la realtà processuale e deve stabilire con una certa discrezionalità se c’è sentore di situazioni anomale, ad intuito, ma anche con l’aiuto delle carte processuali capire e misurare le proprie forze, senza arroganza, ma con estrema umiltà. Quando le ha misurate ecco che si vede come la discrezionalità dell’art. 61 del codice di procedura civile non è una discrezionalità piena. Il giudice deve valutare dal punto di vista giuridico, ma con sensibilità tecnica, se a quelle problematiche tecniche può rispondere in base alla sua ordinaria cultura di giurista.

Se no è obbligato a nominare un consulente tecnico. Questa è la corretta interpretazione dell’art. 61. E’ vero che ce n’era fino a poco tempo fa un’altra. Questa però ha un suo corollario, che mi fa piacere ribadire perché ho sentito invece qualche voce diversa. E’ il giudice che nomina il perito e questo significa che egli ha il dovere, il potere e la responsabilità di stabilire l’incarico - vorrei sottolineare la responsabilità.

E’ vero che la causa è la causa delle parti, ma c’è ancora un principio inquisitorio, altri lo chiamano di officialità nel rapporto processuale, e io dico semplicemente che il diritto processuale civile è diritto pubblico e non diritto privato.

Quando invece diventerà diritto privato la causa sarà la causa delle parti, esclusivamente, degli avvocati e dei periti. Anche in sede parlamentare c’è la tendenza a vedere il rapporto processuale civile, e quindi anche i protagonisti di questo rapporto, fra questi inserisco anche il perito di parte ed il C.T.U., che sarebbe sottoposto in una logica binaria, diventando il consulente dell’uno e dell’altro in un rapporto dialettico processuale più o meno al margine di una certa lettura del rapporto processuale penale.

E’ la logica di chi sostiene che il rapporto sostanziale è un rapporto disponibile a partire dalle parti le quali decidono di portarlo in giudizio o di ritirarlo o di transigerlo.

Ma dobbiamo anche riportare alla stessa logica questo rapporto sovrastrutturale che è il rapporto processuale. Fino ad ora non è stato così e non è così. Bisogna perciò trasformare il codice affinché sia così. Il codice attuale conferisce al giudice la grande responsabilità di fare i quesiti. Ma egli li fa arbitrariamente, li fa come sono stati descritti ovvero con delle deficienze, oppure copiando un cliché.

Sicuramente in questo panorama esistono delle isole felici, ma anche delle zone in cui il contesto generale ha queste grosse difficoltà. Certo il giudice si deve avvalere delle formulazioni dei quesiti dello stesso consulente d’ufficio, deve avere un rapporto franco e leale e prima che con lui con le stesse parti, con chi ha richiesto, stimolato la consulenza; poi la redazione dei quesiti verrà fatta in modo che non si chieda al perito

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delle cose assurde, a cui non può rispondere, non si violi il principio probatorio, non si anteponga l’accertamento tecnico al soddisfacimento dell’onere probatorio.

Mi domando se è veramente necessario chiedere al legislatore di inventarsi un cliché? O se invece è necessario un avvio sempre più robusto, audace e responsabile al senso della responsabilità, all’incontro tra le culture, purché si decongestioni il numero enorme di cause ed i giudici vengano privati anche dei loro maggiori alibi: “ho tanto da fare e non posso perdere tempo in un rapporto costante con il perito”.

Se questo dunque accade allora può darsi che non sia necessario invocare il dettato legislativo per una cosa del genere. Il rapporto deve essere costante, poiché il consulente tecnico è un ausiliario del giudice, lo deve accompagnare e deve farsi accompagnare dallo stesso Magistrato in ogni passaggio o snodo perché deve dare conto e ragione della tramatura logica del suo elaborato e di quanto lui gli dirà, in modo che l’altro, e sotto questo aspetto, sì peritus peritorum, possa controllare in base agli ordinari sistemi di identificazione degli snodi logici e delle argomentazioni che non abbiano passaggi indimostrati, che non ci siano clausole vuote, che non abbiano richiami a dottrine astratte, che vengono portati semplicemente come appoggio e sostegno di una teoria non dimostrata e di una verifica non fatta.

La realtà ci dimostra che un tale rapporto costante non è sempre possibile. Dobbiamo fare un intervento legislativo proprio per questo? Non credo. Invece guardiamo alla possibilità di scelta, se nelle nostre categorie professionali, nei nostri censimenti, od in sedi accademiche, presso i consigli nazionali forensi si possono raccogliere notizie. Se noi dunque potessimo individuare dei cliché virtuali, ma non obbligatori, ma adattabili, e mi risulta che alcuni magistrati lo abbiano fatto con l’aiuto della moderna informatica, allora non mi scandalizzo: bisogna aprirsi al nuovo purché il nuovo abbia sempre una certa relatività e rispetti la veridicità dei fatti e soprattutto la specificità del rapporto processuale.

Come scegliere il consulente? Questo è il punto più delicato, dove mi sembra l’intervento legislativo sia più opportuno. Anche perché la giurisprudenza si è orientata a proposito di alcuni reclami, dove si domanda perché sia stato incaricato un medico generico al posto di uno specialista pur essendo tutti e due iscritti nell’albo.

La Suprema Corte ha detto che la scelta dall’albo non ha un carattere cogente, ma è solo di aiuto al Magistrato nella ricerca di periti disponibili e tecnicamente capaci per fare questo. Forse questo orientamento giurisprudenziale è ispirato a tante cose non ultimo anche a proteste di categorie professionali.

Purtroppo la soluzione di problemi giuridici, organizzativi, normativi, addirittura le stesse scelte normative talvolta si devono confrontare e fare i conti anche con situazioni banali come la pletora medica e la necessità di far lavorare il giovane disoccupato.

L’albo va meglio disciplinato ed un intervento in questo settore è senz’altro auspicabile.

Mi ricordo una bellissima relazione che fu fatta dal decano dei medici legali in un convegno del Consiglio Superiore del ‘82. Egli spiegava cos’è la medicina legale, quali sono le sue strutturazioni, i suoi campi d’azione e soprattutto come sia l’unica disciplina medica che ha la possibilità di operare una sintesi virtuale tra le esigenze della giustizia e le realtà biologiche della medicina.

Il relatore parlava anche di una ipotesi di cui medici legali non sono contenti e cioè di creare una medicina legale per la giustizia, come esiste negli Stati Uniti d’America, dove vi è un presidio di medici legali i quali fanno parte in senso lato del corpo giudiziario.

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So bene che la rappresentanza ufficiale della medicina legale è contraria, ma è anche vero che la struttura degli istituti di medicina legale e di centri privati ha raggiunto livelli tali da poter offrire un servizio costante alla magistratura.

E’ comunque auspicabile una modifica degli albi che riguardano il C.T.U. in materia penale che ha una formulazione previsionale più stretta o quelli in materia di lavoro che anch’essa ha una previsionale stretta. So di una tendenza ad avviare un processo di adeguamento del processo civile e del processo del contenzioso lavoristico sulla falsa riga della dinamica del processo penale.

Come sapete il processo penale moderno ha subito delle regolamentazioni nel ‘18, nel ‘30, nel ‘55 e poi nel 1988. Il legislatore è andato avanti e indietro considerando la perizia come fonte di prova ed il perito come consulente. Poi ancora il giudice può avvalersi del perito, di seguito il giudice si avvale del perito con denominazioni e nomenclature che hanno un loro significato. Le ultime formulazioni legislative del codice dell’88 se lette attraverso la filigrana della commissione ministeriale per la redazione del codice di procedura penale fa capire come la valorizzazione dell’apporto tecnico nel processo penale e nella dinamica di un processo a parti contrapposte ha avuto un grossissimo salto di qualità rispetto al codice del ‘30 e come quanto questo protagonista del sapere tecnico abbia avuto un campo di azione assolutamente inimmaginabile nel codice del ‘30.

Quindi abbiamo un processo civile nella stessa prospettiva. Probabilmente un avvio del genere finirebbe inevitabilmente per sposarsi con quella concezione del processo civile che io personalmente ho rinnegato e che è comunque molto diverso alla nostra impalcatura? Fare dunque dei passi intermedi? Questi sì. Riunire dunque la stessa formulazione dell’art. 61, anche se la giurisprudenza si è incaricata di farne una lettura estremamente correttiva rispetto alle letture che si facevano negli anni ‘60-65;

probabilmente è opportuno adeguarsi a questa interpretazione ed evitare che l’eclettismo giurisprudenziale vada nuovamente in senso diverso rispetto a quella interpretazione, che ripeto è più corretta e più moderna rispetto alla discrezionalità.

Tutto questo richiede un quadro di ristrutturazione visibile e vissuto non tanto in una nuova realtà normativa - stiamo cambiando ogni 4-5 anni le norme e questo è insostenibile - e allora piuttosto che guardare alle grandi innovazioni misuriamoci con una realtà concreta, con l’affinamento delle nostre culture, con l’interscambio e con l’umiltà, e qui parlo per la mia categoria professionale, della magistratura, affinché abbandonata qualunque concezione di supremazia culturale che è la peggiore, ci si confronti con gli altri, ci si avvicini a certi problemi con umiltà e si guardi soprattutto non tanto ai protagonisti formali di questi problemi, ma ai protagonisti reali che sono le parti in causa, i danneggiati, gli imputati, o i condannati perché essi hanno diritto ad una giustizia non solo giusta ed equa, ma anche professionalmente resa in termini corretti con l’ausilio di tutti.

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