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CAPITOLO 1 : DEONTOLOGIA FORENSE E OPERATORI DEL DIRITTO

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CAPITOLO 1 : DEONTOLOGIA FORENSE E OPERATORI DEL DIRITTO

1.Deontologia : origine e sviluppo

Il termine deontologia (dal greco dèon), coniato nella forma inglese deontology da Jeremy Bentham (1748 – 1832) per designare la propria dottrina dei doveri, indicata come dottrina utilitaristica, è passato successivamente ad indicare lo studio empirico in relazione a particolari situazioni sociali1.

La deontologia può infatti essere intesa come espressione della legge morale che ciascun uomo possiede in sé; questa si può riconnettere dunque a quell’imperativo, di kantiana memoria, che fa appello alla coscienza dell'uomo il quale desidera, o meglio, sente di desiderare, di fare “ciò che è giusto per conseguire un fine di giustizia inteso come bene comune”2.

Si tratta dunque di una valutazione in termini di correttezza in relazione all'agire quotidiano.

La fonte principale della deontologia è la consuetudine: ci troviamo infatti in un settore dove la norma nasce dall'esperienza concreta e cambia nel tempo con l'evolversi della società; per questo motivo le norme deontologiche di solito non erano poste dal legislatore, e non erano raccolte in un elenco esaustivo.

1Www.treccani.it ( consultato in data 08 – 01 – 15).

2 E. Pellecchia, Beni comuni e diritti fondamentali della persona, in Diritto e formazione,

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Con il tempo si comincia tuttavia a sentire la necessità di rendere più effettivo il rispetto di queste regole di comportamento. La società civile, e soprattutto le categorie interessate, avvertivano il bisogno di diffondere e rendere note le norme deontologiche, attraverso raccolte che assumeranno fondamentale importanza al fine di garantire adeguatamente i diritti del cittadino.

In particolar modo per gli avvocati, questi “codici” deontologici individuano standard comportamentali di vita ed esperienza professionale.

Insieme alla competenza, la responsabilità costituisce uno dei cardini di ogni etica professionale, una certa cultura giuridica “teorica” ha insegnato che il modo più facile per dare un contenuto al concetto di responsabilità è quello di metterlo in relazione con quello di sanzionabilità.

Samuel von Pufendorf (1632 – 1694) aveva teorizzato un altro modello di responsabilità molto importante, che si basa sul parallelismo tra diritto e morale asserendo che questi funzionino allo stesso modo, infatti, all’inosservanza del dovere segue una conseguenza sfavorevole, cioè una sanzione.

La differenza tra morale e diritto sarebbe risieduta nel fatto che le sanzioni morali sono interne e quelle giuridiche sono esterne e istituzionalizzate.

La responsabilità giuridica potrebbe imparare da quella morale i percorsi della prevenzione e precauzione.

“Quest’ultima esigenza è particolarmente importante per capire le cosiddette responsabilità deontologiche, che sono tipicamente responsabilità per ruolo.

Questa idea suggerisce importanti prospettive per il concetto generale di responsabilità e contribuisce a mettere in crisi quella iniziale identificazione tra responsabilità e sanzionabilità. Per questo è fuorviante identificare la responsabilità deontologica con l’esposizione a sanzione disciplinare e da qui deriva la differenza tra la deontologia e regime disciplinare.

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La responsabilità per ruolo è quella che deriva dalla posizione degli individui all’interno dell’organizzazione sociale”.3

1.1 Deontologia forense

La deontologia forense si occupa quindi dell'insieme dei comportamenti (professionali e non) ai quali devono far riferimento gli iscritti all'Ordine, e lo scopo primario di tali norme risulta essere la tutela del cittadino e la garanzia effettiva del suo diritto alla difesa, sancito dalla Costituzione della Repubblica all’art.24.

La deontologia forense si è andata specificamente formando attraverso le decisioni disciplinari dei Consigli degli Ordini territoriali e la giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense, che ha consolidato il diritto vivente in norme generali di principio.

Ricorrendo quindi all'enunciazione di principi generali s'intende pertanto costruire un sistema di valori a cui l'avvocato deve richiamarsi.

Il contenuto etico, ma allo stesso tempo dotato di valenza giuridica, della norma deontologica deve trovare una precisa formulazione che consenta uniformità applicativa.

La validità giuridica di tali norme è confermata sia dalla rilevanza che assumono le sanzioni nell’ordinamento a seguito della loro violazione, vuoi dalla natura giurisdizionale del procedimento in sede di impugnazione dei provvedimenti

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disciplinari che dalla competenza, in ultima istanza di legittimità, delle Sezioni Unite della Suprema Corte di cassazione.

Dignità, decoro e diligenza sono i principi cardine a cui l'avvocato non può fare a meno di riferirsi nello svolgimento della sua professione.4

Questo nucleo esemplificativo dei valori portanti della deontologia forense ha continuato a mantenere importanza nel tempo. Nell’art.5 del codice deontologico del 19975 troviamo infatti ribaditi i principi: “L'avvocato deve ispirare la propria condotta all'osservanza dei doveri di probità, dignità e decoro “.

Un ulteriore riaffermazione di questi valori si ritrova nel nuovo codice deontologico6 dove all'art.9 accanto ai doveri di probità, dignità e decoro se ne affiancano altri: “L'avvocato deve esercitare l'attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa rispettando i principi della corretta e leale concorrenza.

L'avvocato anche al di fuori dell'attività professionale deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro nella salvaguardia della propria reputazione e dell'immagine della professione forense”.

Prima della codificazione ogni illecito deontologico veniva sanzionato solo attraverso il riferimento alla violazione di questi principi generali; dal 1997, ed ora 4 V. L. n. 247/2012, art. 9 “Doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza” e art. 12

“Dovere di diligenza”.

5 Testo approvato dal C.N.F. nella seduta del 17 aprile 1997 e aggiornato con le

modifiche introdotte il 16 ottobre 1999 , il 20 ottobre 2002 , il 27 gennaio 2006 , il 18 gennaio 2007 , il 12 giugno 2008, 15 luglio 2011 e 16 dicembre 2011.

6 Testo approvato dal C.N.F. nella seduta del 31 gennaio 2014, pubblicato in G.U. del

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a maggior ragione con un sistema più definito, tali principi sono stati concretizzati e diffusi per garantirne la conoscenza in modo più pratico a tutti gli operatori del diritto, e gli illeciti sono oggi puniti attraverso specifiche sanzioni ( avvertimento, censura, sospensione dell'attività professionale e radiazione dall'albo).

Il nuovo procedimento disciplinare a carico degli avvocati è stato introdotto dalla L. n. 247/2012 di riforma dell’ordinamento della professione forense: la disciplina ha previsto, infatti, diverse novità rispetto al vecchio impianto normativo risalente alla legge professionale del 1933, demandando al Consiglio Nazionale Forense sia il compito di delineare gli illeciti disciplinari e le relative sanzioni che di aggiornare il codice stesso, (art. 35, co. 1, lett. d), in virtù della riconosciuta potestà sanzionatoria e regolamentare che prescrive agli avvocati, nell'esercizio della loro professione, di uniformarsi ai principi e alle norme comportamentali contenuti nel codice, sia nei rapporti con il cliente, che con la controparte e gli altri professionisti.

Il procedimento si articola in varie fasi:

Il regolamento n. 2/2014 del C.n.f., in conformità al dettato della nuova legge professionale, disciplina le fasi del procedimento disciplinare che si apre, a seguito della notizia di illecito (tramite esposto o denuncia) pervenuta al Consiglio dell'Ordine, il quale è tenuto a darne notizia all'iscritto, invitandolo a presentare le proprie deduzioni entro un termine perentorio, e a trasmettere immediatamente gli atti al Cdd competente. Il procedimento disciplinare consta di tre fasi: la prima, preliminare, in cui viene acquisita la notizia dell'illecito e viene svolta l'istruttoria pre-procedimentale entro sei mesi dall'iscrizione della notizia stessa nell'apposito registro; la seconda, in cui avviene la formulazione del capo di incolpazione

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e la citazione a giudizio, ovvero la deliberazione dell'archiviazione; la terza, infine, del dibattimento e della decisione, che può concludersi con il proscioglimento (con formula "non esservi luogo a provvedimento disciplinare") ovvero con un richiamo verbale nel caso di infrazioni lievi o,

infine, con l'irrogazione della sanzione.

Il Cdd competente è quello del distretto in cui l'avvocato (o il praticante) è iscritto oppure quello nel cui territorio è stato compiuto il fatto oggetto di

indagine o di giudizio disciplinare.

È previsto l'obbligo, a carico del consigliere istruttore, di redigere verbali da cui risultino tutte le attività espletate (testimonianze, acquisizione di atti, informazioni, ecc.), nonché il diritto di accesso agli atti per l'incolpato. Viene disciplinato, altresì, uno speciale potere ispettivo del Consiglio Nazionale Forense, il quale può richiedere notizie ai Cdd, nominare ispettori per esaminare gli atti, compresi quelli relativi ai procedimenti archiviati, al fine di vigilare sul corretto svolgimento dei procedimenti e sul regolare funzionamento degli organi disciplinari, potendo anche disporre la

decadenza dei componenti.

Una volta ultimata la fase decisoria, copia del provvedimento deve essere notificata, da parte della segreteria del Cdd, sia all'incolpato che al Consiglio dell'Ordine presso cui lo stesso è iscritto, nonché al pubblico ministero e al procuratore generale presso la Corte d'appello del distretto in cui ha sede il Cdd.

Contro la decisione, è possibile proporre ricorso, entro trenta giorni dalla notifica. Soggetti legittimati a ricorrere sono: l'incolpato; il Consiglio dell'ordine presso cui l'incolpato è iscritto e il procuratore generale presso la

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Ove decorrano i termini per l'impugnazione, la decisione diviene esecutiva e il Consiglio dell'ordine presso il cui albo è iscritto l'incolpato deve provvedere all'esecuzione delle sanzioni disciplinari inflitte7.

2. La figura dell'avvocato

L'avvocato (dal latino advocatus, sostantivo derivante dal participio passato del verbo advoco = ad vocatum = chiamato a me, ovverosia “chiamato per difendermi”, cioè difensore) è un libero professionista che svolge attività di assistenza e consulenza giuridica a favore di una parte.

Per poter esercitare la professione è necessario essere in possesso di un idoneo titolo di studio (la laurea magistrale in giurisprudenza), lo svolgimento dei 18 mesi della pratica forense, il superamento dell’esame di stato; quest’ultimo requisito, di particolare importanza, consente l'iscrizione all'albo professionale (l' “albo degli avvocati” ).

L'attività dell'avvocato è caratterizzata da una forte autonomia e costituisce esercizio di una professione intellettuale.

In punto di disciplina professionale, l'avvocato è soggetto alla vigilanza del Consiglio dell' Ordine degli avvocati presso cui è iscritto, ed al giudizio dei Consigli Distrettuali di disciplina.

La riforma della professione forense, avvenuta con L. n.247 del 31 dicembre 2012, si preoccupa di definire la figura dell'avvocato sottolineandone il ruolo in relazione alla tutela del diritto costituzionale di difesa in base al quale “la difesa deve essere garantita in ogni stato e grado del giudizio” ex art.24 Cost., e di valorizzare la funzione sociale della difesa stessa.

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Al fine di rendere effettiva ed efficace questa importante funzione, il professionista deve non solo affidarsi a norme ed istituti giuridici in genere, ma anche a regole di comportamento dalle quali non può prescindere.

La deontologia, inoltre, non può non essere un riferimento costante nell'agire dell'avvocato anche al di fuori dell'attività professionale in senso stretto8: in tutte le sedi quotidiane in cui egli si trovi ad agire, è tenuto a serbare un comportamento tale da non ledere la propria immagine di professionista e quella della categoria di appartenenza.

L'avvocato, nell'esercizio della sua professione, soggetto alle norme deontologiche, è tenuto quindi ad uniformarsi ai principi e alle regole di comportamento contenute nel Codice, con lo scopo ultimo di perseguire l'interesse collettivo ad uno svolgimento corretto della professione, obiettivo ricercato dal nuovo codice che mette il cittadino, e la sua tutela, al vertice dei propri interessi. Degna di nota è inoltre l'introduzione del titolo IV dedicato ai “Doveri dell'avvocato nel processo” che comprende tutte le norme relative alla funzione difensiva, e prevede l’inserimento del diritto all'ascolto del soggetto minore (art.56), che rappresenta una novità assoluta nel panorama della codificazione deontologica.

L'inserimento di questa importante normativa rafforza la figura dell'avvocato come “buon cittadino” che si comporta ed agisce secondo le regole del proprio stato personale e della funzione che esercita con grande sensibilità.

Alle regole comportamentali di natura deontologica, contenute all’interno del Codice sono soggetti, oltre agli avvocati (e gli avvocati patrocinanti in Cassazione) anche quei professionisti dotati di autonomia professionale parimenti iscritti ai 8

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Consigli degli Ordini, ovverosia gli avvocati stabiliti e gli avvocati professori docenti universitari professori o presso enti pubblici.

Un caso particolare riguarda la figura del praticante avvocato, il quale giammai non dotato di autonomia professionale, poiché affidato alle cure del proprio “dominus” è tuttavia soggetto alle norme del Codice deontologico ad eccezione di quelle che presuppongono il raggiungimento della qualifica di avvocato, nelle sue varie diramazioni.

Il praticante è dunque vincolato ad osservare gli stessi doveri deontologici validi per gli avvocati (art. 1 codice deontologico forense) ed è sottoposto a procedimento disciplinare se si rende colpevole di fatti non conformi alla dignità ed al decoro della professione forense (art. 57, prima parte, r.d. 37/1934); se poi è ammesso al patrocinio, oltre a ciò è sottoposto a procedimento disciplinare anche se si rende colpevole di abusi, o mancanze nell’esercizio del patrocinio (art. 57, seconda parte, r.d. 37/1934). Si è, pertanto, ritenuto – ad esempio – che anche per il praticante ammesso al patrocinio opera il divieto di esercizio della professione per il tramite di una società di capitali e quello di utilizzare forme di pubblicità non consentite (Cass., sez. unite, 10 dicembre 2003, 18838). Va pure notato che dal

principio dell’unitarietà dell’ordinamento

disciplinare della professione forense – desumibile dal rinvio contenuto nell’art. 58 del Rd 22 gennaio 1934, n. 37, oltre che dalla funzione della pratica forense – è stata derivata la conseguenza che la sanzione della sospensione applicabile ai praticanti, pur trovando attuazione attraverso la differente modalità della sospensione dalla pratica e dall’eventuale esercizio del patrocinio, non è diversa dalla sospensione dall’esercizio della professione prevista per gli avvocati e può essere scontata anche dopo l’iscrizione del professionista

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nell’albo degli avvocati (cfr. Cass. Sez. unite, 9 aprile 2008 n. 9166)9.

3. La figura del magistrato

Carattere essenziale dell’ordine giudiziario è l’indipendenza garantita con particolare riguardo ai rapporti con gli altri poteri dello stato ( potere legislativo e potere esecutivo).

Anche l'attività dei magistrati è negli ordinamenti contemporanei soggetta a regole di comportamento di natura deontologica.

Per avere un quadro completo occorre riferirsi a tutte le fonti che in diverso modo concorrono a comporre il “sistema” della deontologia dei magistrati e il quadro di valori a cui la stessa è ispirata.

Questo percorso trova il suo punto di partenza nella Costituzione10, vanno poi considerate le norme di legge contenute nella L. c.d. Delle “Guarentigie” di cui al r.d.leg. n. 511 del 31 maggio 1946, ed oggi soprattutto il D.lgs. n.109/2006, la giurisprudenza della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, e da ultimo i codici etici recentemente adottati dalle associazioni rappresentative dei magistrati, italiane ed internazionali.

9

U. Perfetti, Ordinamento e deontologia forensi, 2011, www.praticantidiritto.it 10

V. Cost. Artt da 101 a 108 , 97 , 98 , 111 , nonché tutti gli articoli relativi ai diritti di libertà di cui alla Parte 1 , titoli da 1 a 1V

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La finalità immediata di tali norme è quella di indirizzare il comportamento dei soggetti cui si riferiscono verso modelli di comportamento che mirano al rispetto dei principi di buon funzionamento, imparzialità e credibilità di un “servizio” essenziale come quello della giustizia, che viene reso nei confronti dei cittadini-utenti.

Considerata la formulazione delle norme deontologiche in generale, per comprendere realmente quali siano le norme, che in concreto, presiedono alla regolazione del comportamento dei magistrati, non può che farsi riferimento alla giurisprudenza della sezione disciplinare del C.s.m.

A tale organo, spetta infatti la valutazione dei comportamenti dei magistrati e quindi l’individuazione del complesso delle regole cui questi ultimi devono attenersi.

Il ruolo della giurisprudenza della sezione disciplinare del C.s.m. è ancora più importante, proprio alla luce della varietà e complessità di fonti che caratterizzano la materia della deontologia forense. Le pronunce giurisdizionali, anche in quest’ambito particolarissimo, costituiscono la guida alla reale comprensione della portata e del valore delle norme che si occupano del comportamento dei magistrati. Non vanno poi dimenticate le pronunce della Corte di Cassazione, quali sentenze a seguito di impugnazione dei provvedimenti emessi dalla sezione disciplinare del C.s.m.

Osservando l’evoluzione dell’elaborazione dei precetti deontologici, da parte delle fonti esaminate, emergono, nel corso della recente storia della magistratura italiana, con riguardo alle finalità ultime della deontologia, due momenti.

Mentre in passato i precetti deontologici e di responsabilità disciplinare, si preoccupavano di una tutela persistente di determinati valori tradizionali come il prestigio, il decoro e la dignità dell’Ordine, in epoca più recente l’attenzione si è

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spostata in direzione dei valori del buon funzionamento, imparzialità, credibilità della funzione e correttezza di un servizio che deve essere reso in favore della collettività dei cittadini. Si è verificato nella cultura giuridica italiana un passaggio da una concezione della funzione giurisdizionale come un potere a considerarla come un servizio11.

4. Operatori del diritto: analogie e differenze

Magistrati e avvocati come operatori del diritto, hanno in comune valori e scopi, e tra questi ultimi contribuire in modo determinante al funzionamento del sistema -giustizia.

Indipendenza ed imparzialità sono insieme mezzo e scopo principale della regolamentazione deontologica della magistratura, ai quali è strettamente legato il tema della responsabilità.

Già sul profilo dell'indipendenza, ad esempio, si riconosce un punto di contatto con la deontologia forense, ma ciò che le accomuna è la responsabilità verso la collettività, declinata anche come “responsabilità sociale”.

Il buon funzionamento dei due sistemi disciplinari è uno dei più importanti presupposti della garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini.

In primo luogo il sistema della responsabilità dei magistrati si fonda sul controllo del corretto esercizio della funzione giudiziaria, compito attributo al Consiglio Superiore della Magistratura.

In secondo luogo la potestà disciplinare esercitata dai Consigli Distrettuali di disciplina ed in sede giurisdizionale dal Consiglio Nazionale Forense nei confronti 11

Le regole deontologiche dei magistrati: dalla costituzione ai codici etici,

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degli avvocati, rappresenta anch’essa un mezzo di autoregolamentazione interna volta a prevenire, dissuadere e sanzionare violazioni di regole che sono i pilastri dello status del professionista.

La riforma del 2006 del sistema disciplinare dei magistrati (D.Lgs. 109/2006) ha tratto origine da un ampio dibattito politico teso al superamento del sistema tradizionale improntato ai principi di atipicità dell'illecito e discrezionalità nell'esercizio dell'azione; le ragioni di una riforma del sistema erano dettate dall'esigenza di ammodernamento dei principi generali della deontologia giudiziaria.

La riforma disciplinare che ha interessato la classe forense, ha origine dalla L. n. 247 del 2012, che ha previsto una nuova redazione del Codice Deontologico, attuata con delibera del Consiglio Nazionale Forense del 31 gennaio 2014. Tale riforma presenta alcune analogie con quella riguardante il sistema disciplinare dei magistrati.

Esse, infatti, si prefiggono le medesime finalità: avvocati e magistrati devono essere perseguiti e sottoposti a sanzione per comportamenti scorretti o negligenti derivanti da abusi; tuttavia entrambi non possono essere arbitrariamente perseguiti ogni volta che, facendo il loro lavoro, si scontrino loro malgrado con poteri forti e soggetti reattivi o mossi da intenti emulativi12.

Il 13 novembre 2010 il Comitato direttivo centrale dell'Associazione nazionale magistrati ha approvato il codice etico della magistratura che innova la figura del magistrato inserito in una società in continua evoluzione.

Il magistrato come l'avvocato è, dunque, un operatore del diritto il cui scopo è garantire la piena effettività dei diritti dei cittadini.

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CAPITOLO 2: UNO SGUARDO ALL’EUROPA

1. Convenzioni in materia di diritti fondamentali dell’uomo

Il sistema, caratterizzato da nuove fonti del diritto e da nuovi diritti, (in senso stretto), ha subito una forte evoluzione.

Partendo dal principio, in ambito di Convenzioni in materia di diritti fondamentali dell’uomo, non si può non parlare della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (C.E.D.U.), firmata a Roma il 4 novembre 1950 sotto la direzione del Consiglio d'Europa, la quale ha predisposto un originale sistema di tutela internazionale dei diritti dell'uomo, offrendo ai singoli soggetti la facoltà di invocare il controllo giudiziario sul rispetto dei loro diritti. La Convenzione, successivamente ratificata da tutti gli Stati membri dell'UE, ha istituito diversi organi di controllo, insediati a Strasburgo con lo scopo di rendere concreta ed effettiva la tutela dei diritti riconosciuti dalla Convenzione stessa, furono dunque istituiti nell’ordine: una commissione, incaricata di istruire le istanze presentate da persone fisiche o da Stati membri; la Corte europea dei diritti dell'uomo, che può essere adita dalla Commissione o dagli Stati membri, previo rapporto della Commissione stessa (in caso di composizione giudiziaria); il comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, che svolge il ruolo di "custode" della C.E.D.U. e si pronuncia in merito alle controversie sulle violazioni della C.E.D.U. che non siano state trattate dalla Corte. In seguito, il numero crescente di cause che vengono proposte alla Corte ha reso necessaria una riforma del meccanismo di controllo istituito dalla Convenzione. Pertanto, gli organi sopra descritti sono stati sostituiti, il 1° novembre 1998, da un'unica Corte europea dei diritti dell'uomo.

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La semplificazione delle strutture ha consentito di accorciare la durata dei procedimenti e di accentuare la natura giurisdizionale del sistema in termini maggiormente garantistici per i cittadini comunitari e gli Stati membri.

È stata più volte avvertita l'idea di un'adesione dell'Unione europea alla C.E.D.U ma, in un parere del 28 marzo 1996, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha stabilito che la Comunità non poteva aderire a tale convenzione poiché il trattato CE non prevede alcuna competenza delle istituzioni comunitarie per emanare norme o concludere accordi internazionali in materia di diritti dell'uomo. Questo stato di cose non ha però impedito al trattato di Amsterdam, intervenuto successivamente, di sottolineare in alcuni punti il rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla C.E.D.U., mentre in altri articoli è stata formalizzata sul piano legislativo la giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee in materia.

Con riferimento ai rapporti fra le due Corti (la Corte europea e la Corte dei diritti dell'uomo) va osservato che la prassi della Corte di giustizia europea, di accogliere i principi della C. E. D. U. quali componenti dell'ordinamento comunitario ha consentito di salvaguardare la coerenza della loro giurisprudenza e la rispettiva indipendenza dei due organi13.

L’impulso dato dalla giurisprudenza della C. E. D. U. di Strasburgo nella tutela dei diritti umani, ha condotto alla svolta storica segnata dal Trattato di Lisbona il 1° dicembre 2009, con il quale la base giuridica per l’adesione dell’Unione alla C. E. D. U. è diventata il trattato UE.

Questo consentirà di interpretare la legislazione dell’UE alla luce della Convenzione nonché di migliorare la protezione giuridica dei cittadini dell’UE, 13

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estendendo la protezione che essi ricevono dagli Stati membri agli atti dell’Unione.

L’estrema importanza del succitato Trattato risiede nell’aver attribuito ai diritti e alle libertà sanciti nella Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea14 valore giuridico sovraordinato rispetto agli ordinamenti nazionali, e riconosciuto come principi generali del diritto europeo i diritti garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (1950).

La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea di Lussemburgo ha inoltre aperto nuove e più ampie prospettive nell'interpretazione e applicazione di tali norme e principi negli ordinamenti giuridici degli stati membri.

E' evidente che un tale scenario, dal quale emergono valori morali e principi giuridici che investono il mondo del diritto innovando concezioni tradizionali, impone anche all'avvocatura una riflessione sulla propria identità.

Nel panorama europeo la necessità di una sensibilizzazione del ruolo dell'avvocato si nota soprattutto in rapporto a materie che coinvolgono soggetti deboli come i minori: molte convenzioni si sono occupate di questa importante tematica, a cominciare dalla Convenzione di New York del 1989 dove viene garantito al fanciullo, capace di discernimento, il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, e, aspetto eccezionale, si inserisce il diritto all'ascolto15.

14

Www.federalismi.it, “Rivista italiana di diritto pubblico comparato ed europeo.

15

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La Convenzione di Strasburgo del 25 Gennaio 199616 all'art.3 presenta anch'essa innovazioni riguardo a misure di ordine procedurale per promuovere l'esercizio dei diritti del minore.

Queste normative comunitarie coinvolgono le figure degli operatori del diritto attraverso la richiesta di una formazione specialistica necessaria a garantire l'attuazione di tali diritti negli ordinamenti interni.

2. Il Trattato di Lisbona

L'approvazione del Trattato di Lisbona, che modifica il Trattato sull’ Unione Europea ed il Trattato che istituisce la comunità Europea, è avvenuta nella capitale portoghese il 13 dicembre 2007 ad opera dei rappresentanti dei 27 Stati Membri. Il Trattato è entrato in vigore il 01 Dicembre 2009 dopo essere stato ratificato da tutti gli Stati Membri, determinando una svolta giuridica di grande importanza nell'ordinamento dell'Unione ed in quello dei paesi membri.

L'art.6 ha riconosciuto valore giuridico di trattato alla Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (2000/2007), e ha stabilito in linea di principio l'adesione dell'Unione alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle libertà Fondamentali, percorso in realtà piuttosto accidentato. L'attribuzione alla Carta di Nizza del valore di trattato comporta, nell'ordinamento interno, una notevole svolta rispetto al quadro giuridico preesistente.

La svolta consiste nell'aver introdotto le norme del diritto europeo negli ordinamenti interni degli Stati membri in materia di diritti umani e diritti 16

Www.federalismi.it, “Rivista italiana di diritto pubblico comparato ed europeo”[v. il parere del 18 dicembre 2014 della Corte di Giustizia Europea].

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fondamentali, vincolando i giudici ad un'interpretazione conforme, e determinandone la disapplicazione qualora sussista un contrasto non sanabile in via interpretativa.

Dalla Carta di Nizza, inoltre, emergono nuovi doveri e nuove responsabilità: nel Preambolo si afferma che l'Unione Europea si fonda sui valori della dignità umana, della libertà, dell’ uguaglianza e della solidarietà e si basa sul rispetto dei principi di democrazia e dello stato di diritto.

E' evidente come tali diritti facciano sorgere di rimando, doveri e responsabilità nell'avvocato, in quanto la tutela dei diritti umani e fondamentali si realizza soprattutto nelle aule giudiziarie, ed è pertanto affidata a giuristi pratici come gli avvocati, i quali sono chiamati ad orientare lo svolgimento dell'attività difensiva al rispetto dei su citati diritti.

3. Etica professionale nell'Unione Europea

Quello dell’etica professionale è un ampio concetto che abbraccia nuovi doveri. E' una nozione che comprende la tradizionale deontologia ma anche i valori etici sui quali si fonda la Comunità, le Costituzioni, le dichiarazioni dei diritti e delle libertà e i doveri verso gli altri e verso la società, volti a garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali.

Dai doveri inerenti al rapporto tra avvocatura e società deriva il principio della responsabilità sociale, la cui origine è legata alle violazioni di regole etico - sociali nell'esercizio dell'impresa, regole che attengono alla tutela dei diritti umani, del lavoro, dei soggetti più deboli.

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“Responsabilità” è dunque la condizione di chi deve rispondere delle proprie azioni e l'aggettivo “sociale” indica il contesto di riferimento.

Il concetto di responsabilità sociale assume particolare rilevanza alla fine degli anni Ottanta, quando la globalizzazione della finanza e del mercato hanno imposto alla pubblica opinione la riflessione circa il problema di un'etica nella finanza e nell'impresa17.

Nasce da questo fenomeno la convinzione che esista una responsabilità sociale dell'avvocato che si fonda su obblighi morali, da rispettare nelle scelte professionali derivanti dal rapporto privatistico di mandato.

Le regole deontologiche della professione legale, infatti, curano il ruolo del professionista all'interno della comunità.

Responsabilità sociale significa quindi che l'avvocato nelle sue scelte difensive deve armonizzare i doveri verso la parte assistita con quei doveri e quelle responsabilità che fanno riferimento ai diritti fondamentali, rendendosi garante del loro rispetto e della loro applicazione.

4. Il Codice Deontologico degli Avvocati Europei

Il Codice Deontologico degli Avvocati Europei è stato approvato dal Consiglio degli Ordini Forensi Europei (CCBE) nel 1988. Nel suo Preambolo sono indicati i doveri dell'avvocato, in particolare i doveri verso la società, per garantire la tutela dei diritti dell'uomo nei confronti dello Stato.

17

Mariani Marini,“Una responsabilità sociale per l’avvocato”, Cultura e Diritti; 2012, p. 10.

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Il Codice nel corso della sua vigenza è stato modificato tre volte, l'ultima delle quali nella sessione plenaria tenutasi ad Oporto nel 2006.

Si tratta di un testo di riferimento di base: tutti gli avvocati iscritti presso gli Ordini dei paesi che ne fanno parte dovrebbero rispettare il Codice nell'esercizio delle loro attività.

Si è trattato di una significativa novità nel panorama europeo; questa concezione dell'avvocato attento e sensibile ai bisogni della comunità ne rafforza sempre di più l'indipendenza e lo allontana dai condizionamenti dell'economia di mercato, che rischia di avere come unico scopo la massimizzazione del profitto.

L'evoluzione del sistema dei diritti fondamentali, anche attraverso la giurisprudenza delle Corti europee, richiede all'avvocato anche un forte impegno culturale che investe la presa di coscienza dell'identità della professione legale nella società contemporanea.

Al Codice Deontologico degli Avvocati Europei si affianca un altro testo basilare redatto più recentemente dal C. C. B. E.: la Carta dei Principi Fondamentali dell'Avvocato Europeo, adottata nella sessione plenaria tenutasi a Bruxelles il 25 novembre 2006, che si rivolge agli avvocati ed agli organi di giustizia.

La Carta, che enuncia in apertura18 dieci principi fondamentali, è destinata ad essere applicata in tutta Europa e mira in particolare ad aiutare gli Ordini forensi che lottano per affermare la loro indipendenza nonché a far comprendere sempre di più il ruolo dell'avvocato nella società.

Il rispetto di tali principi è alla base del diritto alla difesa legale, che costituisce le fondamenta di tutti gli altri diritti fondamentali di una democrazia.

18

V. Carta dei Principi Fondamentali dell'Avvocato Europeo adottata nella sessione plenaria del CCBE del 25 novembre 2oo6, www.ccbe.eu

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Tali principi fondamentali sono espressione del sostrato comune su cui si fondano tutte le norme nazionali e internazionali che disciplinano la deontologia degli avvocati europei.

In ambito di fonti, la Carta tiene conto: - delle regole professionali nazionali degli Stati europei, compresi quelli non appartenenti al CCBE ma che condividono tali principi comuni agli avvocati europei; - del Codice Deontologico degli Avvocati Europei del CCBE; - dei principi generali del Codice Deontologico Internazionale dell’International Bar Association; - della Raccomandazione Rec (2000) 21 del 25 ottobre 2000 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri in materia di libertà di esercizio dell’avvocatura; - dei Principi di base sul ruolo degli ordini forensi, adottati dall’ottavo Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei colpevoli tenutosi all’Avana (Cuba) dal 27 agosto al 7 settembre 1990; - della giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte di Giustizia delle Comunità europee, e in particolare della sentenza del 19 febbraio 2002 della Corte di Giustizia delle Comunità europee nel caso Wouters c. Algemene Raad van de Nederlandse Orde van Advocaten (C-309/99); - della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, e della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea; e - della risoluzione del Parlamento europeo del 23 marzo 2006 sulle professioni legali e sul generale interesse al funzionamento dei sistemi giuridici.

Il complesso di norme contenuto in questi documenti, Codice e Carta dei Principi, costituisce la base della deontologia forense in Europa e contribuisce a formare l'immagine dell'avvocato.

La Carta mira a far comprendere sempre di più agli avvocati, agli organi cui spetta assumere le decisioni e al pubblico l’importanza del ruolo dell’avvocato nella

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società, e il modo in cui i principi che disciplinano l’avvocatura sostengono tale ruolo. Il compito dell’avvocato, a prescindere dal fatto che difenda una persona fisica, un ente o lo Stato, è quello di consigliare e rappresentare fedelmente il cliente, agendo come professionista rispettato dai terzi e come attore imprescindibile per la buona amministrazione della giustizia. L’avvocato che, riunendo in sé tutti questi elementi, persegua fedelmente gli interessi del suo cliente e garantisca il rispetto dei suoi diritti, svolge anche un funzione sociale, che è quella di prevenire ed evitare i conflitti e di garantire che questi siano risolti secondo diritto, al fine di promuovere l’evoluzione del diritto e di difendere la libertà, la giustizia e lo Stato di Diritto19.

19

Carta dei principi fondamentali dell’avvocato europeo e Codice deontologico

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CAPITOLO 3: PRIMA E DOPO RIFORMA FORENSE

1. La deontologia forense prima della legge professionale

Da sempre gli avvocati si sono attenuti a principi di etica trascendenti la moderna concezione giuridica dell'agire professionale, oggi consistente nella meticolosa applicazione di regole tecniche, di natura processuale e sostanziale.

La prima legge dell’ordinamento unitario ad occuparsi della professione forense risale al 1874, e non contiene riferimenti precisi all'etica professionale, in quanto le regole etiche si confondevano con quelle giuridiche ma erano talmente note da non richiedere ulteriori delucidazioni: erano conosciute dagli appartenenti alla classe professionale di riferimento.

A quel tempo, anziché di norme etiche, si parlava anche di “galateo degli avvocati”20, comprendendo, in tale dicitura non solo il comportamento che gli

20

“Il galateo degli avvocati”, Vincenzo Moreno (1809-1852) apparso a Napoli nel 1843, ristampato a cura dell'Ordine degli avvocati di Taranto e della Fondazione della scuola forense locale, www.academia.edu.

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avvocati dovevano osservare nell'ambito dell'esercizio della loro professione, ma anche l'immagine dell'Avvocatura e della rettitudine dei professionisti.

All'epoca si distinguevano tre categorie di professionisti legali: gli avvocati, dediti a consigliare, scrivere, argomentare; gli “avvocati-procuratori”, che svolgevano prevalentemente attività giudiziale, e i patrocinatori che effettuavano le operazioni di cancelleria.

In pratica il numero di esercenti la professione forense già relativamente alto e da qui nasceva l'esigenza di suggerire regole etiche e di esperienza a tutti coloro che, volendo fare l'avvocato, dovevano distinguersi dalla “folla” che invadeva le aule dei tribunali.

Molti precetti etici del tempo si ritrovano ancora oggi nel Codice deontologico forense, quali quelli riguardanti i rapporti con il cliente, i rapporti con i colleghi, e con i giudici.

In questo contesto nasce dunque la necessità di costruire normativamente la professione forense e, in materia di disciplina, di ridisegnare per principi i canoni cui si deve ispirare il comportamento dell'avvocato.

L’esigenza di un organo centrale dell’avvocatura, venne raccolta in seguito all’avvento del periodo fascista con la L. 453/1926, promossa dal nuovo Ministro della Giustizia Alfredo Rocco, che regolò in maniera organica tutta la materia professionale superando il sistema legislativo del 1874 istitutivo dell’Ordine degli avvocati e dei procuratori (L. 1938/1874).

In base alla citata legge del 1926, il Consiglio Superiore Forense era composto da trentadue membri: sedici eletti dalla classe forense, tra gli avvocati iscritti nell’albo speciale dei cassazionisti e altri sedici nominati con decreto reale su proposta del Ministro della Giustizia sempre tra gli avvocati cassazionisti.

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Successivamente, a seguito di un ulteriore riforma, i membri del C. s. f. furono ridotti a ventiquattro.

Infine, con il D. Lgs. del 23 novembre 1944, n. 382 (concernente la riorganizzazione dei Consigli degli Ordini e dei Consigli nazionali delle professioni), che mantenne la citata consistenza numerica, l’organismo centrale dell’Avvocatura assunse l’attuale nome di “Consiglio Nazionale Forense” e tale denominazione sarà sempre confermata21.

Il C. n. f. è, dunque, sempre stato organo apicale del sistema forense e tra i suoi compiti annovera anche quello di giudicare sui ricorsi proposti contro le decisioni disciplinari dei Consigli distrettuali di disciplina.

In punto di disciplina professionale, l’avvocato è infatti soggetto alla vigilanza del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati presso cui è iscritto, che è territorialmente competente in relazione ad un eventuale procedimento disciplinare.

Dove la mancanza disciplinare sia stata commessa nel circondario di un tribunale differente da quello di appartenenza, sussiste la competenza concorrente del Consiglio dell’Ordine del luogo della commessa violazione.

L’avvocato cui il competente Consiglio dell’Ordine abbia inflitto una sanzione disciplinare può proporre gravame contro la stessa al Consiglio Nazionale Forense, deducendo sia in punto di merito che in via di diritto.

Avverso la decisione del C. n. f., che riveste natura di provvedimento giurisdizionale, dove la stessa sia sfavorevole, potrà essere esperito ricorso alla Corte di cassazione.

Inoltre, l’art. 3 del regio decreto legge 27 novembre 1933 n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), consente di cumulare in un unico 21

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soggetto la qualità di dipendente pubblico con quella di professionista con l'assunzione dei relativi obblighi e della relativa responsabilità, a condizione che l'avvocato sia stabilmente preposto ad apposito servizio legale presso una pubblica

amministrazione italiana.

La giurisprudenza, tanto di Cassazione a Sezioni Unite, quanto della Corte Costituzionale, hanno costantemente evidenziato che l'iscrizione all'elenco speciale annesso all'albo di cui all'art. 3, ultimo comma, lett. b), RDL 1578/1933, essendo prevista per gli avvocati degli uffici legali degli enti indicati nel precedente comma 2, richiede il concorso di due presupposti: 1) deve esistere nell'organizzazione dell'ente pubblico un'avvocatura che costituisca un'entità organica autonoma; 2) il dipendente dell'ente deve essere in possesso del titolo abilitativo e deve essere adibito in via continuativa e non a titolo precario a svolgere l'attività professionale per conto dell'ente.

Gli avvocati pubblici costituiscono una componente dell’avvocatura che conta all’incirca 6.000 dipendenti, il cui status è profondamente variegato.

Infatti, mentre negli enti del cosiddetto parastato (INPS, INAIL, e ASL), gli avvocati godono di un ruolo separato dal resto del personale e di una contrattazione specifica, ciò non avviene nel solo comparto degli enti locali, dove gli avvocati non hanno ruolo separato dal resto del personale amministrativo/contabile, né una contrattazione che tenga conto di peculiarità

specifiche a questa sola categoria.

Proprio il tema dell'organizzazione delle avvocature pubbliche e degli uffici legali delle autonomie territoriali pone numerosi problemi di natura giuridica la cui soluzione ha provocato significativi interventi giurisprudenziali che hanno consentito di tracciare le coordinate ermeneutiche per lo scioglimento dei nodi interpretativi ed applicativi, che al momento si sono condensati in numerose

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proposte formulate dall'associazione di categoria, l’Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici, sia con riguardo all'inserimento nella legge di riforma forense di una disposizione specifica, che con riguardo alla proposta di attrarre detti professionisti alla Cassa di previdenza forense sull'esempio della sistemazione previdenziale assegnata ai giornalisti dipendenti della pubblica amministrazione.

La stessa Corte Costituzionale, d'altra parte, ha avuto modo di precisare che le norme organizzative in materia di avvocati pubblici devono farsi carico di disciplinare separatamente due aspetti: quello che riguarda il dipendente pubblico

e quello che afferisce al professionista avvocato.

Tuttavia, poiché il R.D.L. 1578/1933 riveste carattere di norma primaria, il riconoscimento della peculiarità dello status di professionista legale dipendente da ente pubblico non può essere inciso da contratti collettivi nazionali e/o da accordi sindacali decentrati che contrastino con la citata norma22.

1.1 La deontologia forense ante 1997

E' solo con la legge professionale del 1983 (r.d.l. 27/11/1933 n.1578) che si riforma la prima organizzazione normativa della materia risalente a quasi sessanta anni prima.

L'art 11 di tale legge, dispone infatti che: “L'avvocato non può, senza giusto motivo, rifiutare il suo ufficio”; questa disposizione già sottolineava la funzione sociale che l'avvocato svolge nella difesa dei diritti, e quindi nella tutela della libertà e degli interessi della persona, mentre ai sensi dell'art.12: “Gli avvocati debbono adempiere il loro ministero con dignità e con decoro come si conviene, 22

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all'altezza della funzione che sono chiamati ad esercitare nell'amministrazione della giustizia”.

La legge prevedeva che questi principi fossero solennemente enunciati dall’”aspirante avvocato” nel giuramento che doveva pronunciare prima di esercitare la professione (Art.12 co.2) che recita: “Giuro di adempiere i miei doveri professionali con lealtà, onore e diligenza per i fini della giustizia e per gli interessi superiori della Nazione”.

Inizialmente il legislatore non fece che scrivere ciò che era il comune sentire degli appartenenti alla professione forense, ma l'operazione di scrittura delle regole, accompagnata dalla prassi giurisprudenziale degli Ordini e del C. N. F., finì per assumere valenza superiore a quella del mero “riordino” delle regole in materia. Sulla base dei principi fondanti della dignità e del decoro si venivano consolidando regole giuridiche vere e proprie, che avevano un rivestimento formale e un contenuto etico.

I contenuti essenziali delle regole comportamentali vennero quindi raccolti nel 1997 con la prima edizione del Codice deontologico forense, aggiornato successivamente più volte.

Caratteristica degna di nota è la presenza di un preambolo: “L'avvocato esercita la propria attività in piena libertà, autonomia e indipendenza, per tutelare i diritti e gli interessi della persona, assicurando la conoscenza delle leggi e contribuendo in tal modo all'attuazione dell' ordinamento per i fini della giustizia.

Nell'esercizio della sua funzione l'avvocato vigila sulla conformità della legge ai principi della Costituzione, nel rispetto della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e dell'ordinamento comunitario; garantisce il diritto alla libertà e sicurezza e l'inviolabilità della difesa; assicura la regolarità del giudizio e del contraddittorio.

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Le norme deontologiche sono essenziali per la realizzazione e la tutela di questi valori”.

Posto come incipit, il preambolo racchiude quella che è la missione dell'avvocato esplicitandone cardini e punti di riferimento.

Ad esso seguono i principi, articolati in formule di natura generale e canoni esemplificativi: i principi fanno rinvio all'applicazione della dignità e del decoro ai fini dell’individuazione degli illeciti disciplinari; i canoni tipizzano in modo innovativo alcuni comportamenti senza limitarsi ad un elenco esaustivo.

Il Titolo primo (artt.1-21) è dedicato ai principi generali che si richiamano, per quanto riguarda quelli di indirizzo, ai valori espressi dal R.d.l. n. 1578/33 ovvero dignità, decoro, lealtà, onore e diligenza.

I doveri espressi dal codice deontologico sono dei doveri addittivi, propri dell’avvocato, in ragione dell’altezza della funzione che lo stesso è chiamato a svolgere nell’amministrazione della giustizia.

Il Titolo secondo (artt.22-34) è dedicato al rapporto con i colleghi e con il Consiglio dell’Ordine. L’importanza di tali norme discende dall’insieme di due fattori: l’aumento dei traffici giuridici, e l’aumento esponenziale del numero degli avvocati iscritti negli albi.

Il terzo Titolo (artt. 35-47) riguarda i rapporti con la parte assistita e comprende norme di una rilevanza tale che subiranno un inversione con la riforma forense del 2012 e saranno contenute nel Titolo II, mentre il rapporto di colleganza sarà disciplinato dal Titolo III.

Il Titolo quarto (artt.48-59) regolamenta i rapporti con la controparte; ed infine il Titolo quinto si compone di un solo articolo (art.60), la norma di chiusura23.

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1.2 Riforma della disciplina forense (L. 247/2012)

La nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense introdotto dalla L. 31 dicembre 2012 n. 247, costituisce il nuovo punto di riferimento per la regolamentazione di settore e si sostanzia in un intervento di riforma necessitato, di fronte all’indiscutibile inidoneità della previgente disciplina che, affondava le sue radici nel periodo fascista.

Il merito più rilevante del nuovo assetto legale è, infatti, quello del definitivo superamento delle logiche autoritarie sottese alla disciplina corporativa e all’inserimento delle professioni legali nel regime totalitario, che vedeva il ministero degli avvocati concretizzarsi nell’esercizi di una funzione inserita nell’amministrazione pubblica, in cui le attività professionali dovevano essere svolte: “per i fini della giustizia e per gli interessi superiori della Nazione” (art.12 r. d. l. 27 novembre 1933 n. 1578), non solo sotto il controllo dei sindacati fascisti degli avvocati e dei procuratori, ma anche sotto la permanente vigilanza del Ministro di grazia e giustizia.

Dopo numerosi tentativi di riforma avviati nelle precedenti legislature, ad ottant'anni dalla legge professionale forense del 1933, con la L. 247/2012 è stata approvata una organica normativa che ridisegna la professione di avvocato.

“La nuova disciplina, dunque, nel pieno rispetto dei principi costituzionali dello Stato repubblicano democratico afferma: la specificità della funzione difensiva dell’avvocatura ed il ruolo dell’avvocato nel garantire al cittadino l’effettività della tutela dei diritti (artt. 1 e 2); delinea l’intera disciplina ordina mentale forense

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proprio in rapporto alla primaria rilevanza, non solo giuridica, ma anche sociale, dei diritti alla cui tutela la funzione difensiva è preposta (art. 1); richiama direttamente come criterio di riferimento delle disposizioni quello del pieno rispetto dei principi costituzionali e della normativa comunitaria e dei trattati internazionali (art.1).

Affianca poi, al fine primario di garantire la tutela degli interessi individuali del cliente attraverso prestazioni professionali di qualità, la concorrente garanzia degli interessi collettivi sui quali l’attività forense incide, oltre che la tutela dell’affidamento sul pieno e costante rispetto dell’obbligo della correttezza dei comportamenti dei singoli professionisti (art.1)”.

Il ruolo dell’avvocato, viene così in definitiva connotato positivamente in linea con i principi fissati dagli artt. 2, 24 e 41 della Costituzione, in ragione dell’assolvimento di un compito essenziale in vista del pieno riconoscimento e della più elevata tutela dei diritti, così che l’esercizio riservato dell’attività professionale viene accompagnato dalla previsione concorrente di doveri inderogabili non solo nei confronti dei clienti, ma anche delle controparti, dell’amministrazione e dei terzi in genere.

La riforma, in questa rinnovata prospettiva di sistema, oltre ad innovare la disciplina più propriamente ordina mentale, si indirizza verso un’importante modernizzazione di alcune delle regole che presiedono all’esercizio dell’attività professionale, tratteggiando un nuovo assetto della disciplina civilistica della prestazione d’opera intellettuale e della stessa responsabilità professionale24.

24

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La riforma della professione forense del 2012 si ispira ad una concezione moderna della professione e conferma il ruolo degli Ordini e del Consiglio Nazionale Forense.

I principi generali contenuti all'interno del nuovo Codice deontologico vengono (art. 3 l. 247/2012) rafforzati dalla tipizzazione degli illeciti disciplinari, cui si affianca una specifica sanzione.

La tipizzazione degli illeciti risponde a criteri di certezza del diritto e porta con sé quattro tipi di sanzioni che secondo il principio nulla poena sine lege, in base al quale non potevano essere emanate sanzioni non previste dal codice, vengono comminate in rapporto alla maggiore o minore gravità del comportamento tenuto dal professionista.

Nella determinazione della sanzione dovrà in concreto tenersi conto anche del pregiudizio della parte assistita, del cliente, della compromissione della vita, personale e dei precedenti.

L’obiettivo delle nuove disposizioni è consentire l’accesso e la permanenza nella professione forense in base a criteri meritocratici, garantire una maggiore qualificazione e preparazione dei professionisti ed un maggiore controllo sulla correttezza.

In particolare le principali novità previste dalla citata riforma attengono: la specifica competenza stragiudiziale, al fine di evitare abusi a danno dei cittadini; l’accesso alla professione: sono state infatti previste tre prove scritte ed una orale da svolgersi nella stessa sede senza l’uso di codici commentati; assicurazione: è stato sancito, al riguardo, l’obbligo per il legale, pena l’illecito disciplinare, di stipulare una polizza di assicurazione per la responsabilità civile volta a coprire anche documenti, somme di denaro, titoli e valori ricevuti in deposito; formazione permanente: il professionista ha l’obbligo di curare il costante e continuo

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aggiornamento della propria competenza allo scopo di garantire la qualità delle prestazioni professionali e di contribuire al migliore esercizio della professione nell’interesse dei clienti.

Altrettanta importanza assumono: gli illeciti disciplinari e la pubblicità, trattando di quest’ultima è necessario considerare che al professionista è consentito fornire informazioni sulle modalità di esercizio della professione, purchè ciò avvenga in maniera trasparente, veritiera, non suggestiva, né comparativa.

Il compenso è sempre pattuito tra professionista e cliente ed il primo è sempre tenuto a rendere nota la complessità dell’incarico: fornendo le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili al momento del conferimento (in mancanza di accordo si applicano le tariffe professionali vincolanti nel minimo e nel massimo); torna il divieto del patto di quota lite; riguardo al tirocinio: la durata della pratica è di diciotto mesi. Decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio. La difesa d’ufficio assume un ruolo centrale in conseguenza della riaffermazione della figura dell’avvocato come operatore sociale attento e vicino ai bisogni dei cittadini che gli si rivolgono; per quanto concerne infine la permanenza nell’albo: la prova dell’effettività dovrà prescindere dal reddito25.

2. Vecchio e nuovo Codice : normative a confronto

Il Codice deontologico nella sua versione del 1997 era formulato con una struttura triplice, composta da norme di tenore generale (i principi generali : Titolo I), 25

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clausole generali (ad esempio probità, dignità e decoro), standard di comportamento (diligenza e competenza), i “canoni”, cioè fattispecie esemplificative contrassegnate da numeri romani per distinguerle dai commi della disposizione di base, infine una norma di chiusura di tenore generale (art. 60 ). Le regole deontologiche sono state di volta in volta qualificate dalla Suprema Corte come principi, norme primarie o norme consuetudinarie.

La legge di riforma del 2012 obbliga gli avvocati ad esercitare la professione “uniformandosi ai principi contenuti nel Codice deontologico emanato dal C. N. F.26Ne individua i contenuti e prevede che le norme in essa presenti, dirette alla tutela di un interesse pubblico al corretto esercizio della professione, siano caratterizzate dall'osservanza del principio della tipizzazione della condotta, indicando anche la sanzione applicabile.

Il nuovo Codice deve essere letto nel contesto della riforma, che delinea una figura moderna di avvocato, qualificato, specializzato, conscio della responsabilità sociale assunta dalla categoria a cui appartiene, un avvocato che gode delle garanzie di autonomia e indipendenza.

Vi sono quindi alcune differenze rispetto al sistema precedentemente illustrato. Innanzitutto il Codice previgente prevedeva, oltre a principi generali, esemplificazioni di comportamenti non corretti senza collegarli a specifiche sanzioni.

Degna di nota è l'inversione, rispetto all'attuale Codice, tra il Titolo II (Rapporti con i colleghi) e il Titolo III (Rapporti con il cliente e la parte assistita) nel senso che la precedenza è stata affidata a quest'ultimo con lo scopo marcare la vocazione pubblicistica di tali norme.

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Vengono inoltre denominati due titoli appositamente dedicati ai: “Doveri dell'avvocato nel processo” e ai “Rapporti con le istituzioni forensi”.

L'introduzione del titolo “Doveri dell'avvocato nel processo” ha il compito di regolare in modo sistematico previsioni sparse in diversi ambiti.

In tale contesto, è stata inserita una norma dedicata all'ascolto del minore (art. 56) per assicurare una maggior correttezza in un ambito particolarmente delicato. In merito al titolo “Rapporti con le istituzioni forensi” va segnalato l'obbligo di collaborazione dell'avvocato iscritto, e soprattutto viene pesantemente sanzionata l'attività volta a favorire candidati durante l'esame di abilitazione , in particolare da parte dell'avvocato-commissario d'esame: attività punita con la sospensione dell'esercizio dell'attività professionale da uno a tre anni.

Tutta la normativa tutela l'affidamento della collettività in un corretto esercizio della professione che esalti lo specifico ruolo dell'avvocato come attuatore del diritto costituzionale di difesa, e garante dell'effettività dei diritti riconosciuti al cittadino.

L'obbligato ripensamento del Codice nato nel 1997 è stato occasione per rivalutarne e riconsiderarne la struttura con un metodo ispirato da un'esigenza di critica conservazione, che non ne disperdesse l'assetto favorendone però una razionalizzazione.

“In quest'ambito si è ritenuto opportuno anche sopprimere l'incipit del Codice nella forma del preambolo (che nel 1997 riprendeva l'esempio del Codice Europeo) senza mandarne disperso il contenuto che andava però in parte corretto, attualizzato e reso coerente con le previsioni di principio della legge ordinamentale; è apparso infatti più funzionale alla nuova impronta del Codice, l'incipit diretto con il primo articolo dei principi generali, tenendo conto che, a

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differenza del 1997, oggi il nuovo ordinamento professionale scolpisce ed individua la missione dell'avvocato27”.

3. Il nuovo Codice deontologico forense

Il nuovo Codice deontologico forense, colloca quindi al centro delle sue previsioni il cittadino, perseguendo l'interesse pubblico al corretto esercizio della professione. Come già ricordato le principali novità riguardano la tipizzazione degli illeciti disciplinari e l'espressa indicazione di sanzioni, che nel Codice corredano ogni fattispecie; esse prevedono un meccanismo di aggravamento e di attenuazione in relazione alla maggiore o minore gravità del fatto contestato.

Il nuovo Codice, approvato nella seduta amministrativa straordinaria del C.N.F. del 31 Gennaio 2014, è entrato in vigore sessanta giorni dopo la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, avvenuta nel n. 241 del 16/10/2014, e quindi il 15/12/2014. Il Codice si compone di settantatre articoli raccolti in sette titoli: il primo (artt.1-22) individua i principi generali; il secondo (artt. 23-37) è riservato ai rapporti con il cliente e la parte assistita; il terzo (artt. 38-45) si occupa dei rapporti tra colleghi; il quarto (artt. 46-62) attiene ai doveri dell'avvocato nel processo; il quinto (artt. 63-68) concerne i rapporti con i terzi e le controparti; il sesto (art. 69-72) concerne i rapporti con le istituzioni forensi; il settimo (articolo 73) comprende la norma di chiusura.

Secondo i principi generali racchiusi nel primo titolo, l'attività dell'avvocato deve essere connotata da indipendenza ed autonomia, e dedita all'osservanza di una leale concorrenza.

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Consiglio Nazionale Forense, Relazione illustrativa della bozza del nuovo Codice Deontologico, in www.consiglionazionaleforense.it

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Il suo esercizio deve escludere conflitti di interesse con il cliente/parte assistita, svolgendosi con diligenza e competenza, garantendo un aggiornamento e una formazione continua.

L'avvocato deve infine adempiere ad ogni onere fiscale, previdenziale, assicurativo e contributivo e non può rifiutare l'incarico propostogli d'ufficio.

Il Titolo II attiene ai rapporti con il cliente e la parte assistita e comprende tutta quella serie di doveri dell’avvocato inerenti al conferimento del mandato, al conflitto di interessi, ad accordi sulla definizione del compenso, all’adempimento del mandato (quindi l’intero excursus dell’attività del professionista, dal suo inizio con l’accettazione, al suo svolgimento e alla sua conclusione).

Trovano poi ubicazione, i doveri di informazione e di corretta informazione, segretezza, richiesta di pagamento, compensazione, rinuncia al mandato, restituzione dei documenti, azione contro il cliente e la parte assistita per il pagamento del compenso, il divieto di esercizio dell’attività professionale senza titolo o con titolo inesistente ed il divieto di accaparramento della clientela.

Nel Titolo III trovano disciplina: il rapporto di colleganza connesso al rapporto con i collaboratori dello studio e quindi anche al rapporto con il praticante.

Il Titolo IV, nel caso di specie di maggiore interesse rispetto agli altri, racchiude quelli che sono “i doveri dell’avvocato nel processo”, in questa sede il rapporto di colleganza disciplinato nel Titolo III del Codice si rapporta alla difesa in sede processuale, emergono a seguito i doveri del difensore nei confronti della parte (“L’avvocato nominato difensore d’ufficio deve comunicare alla parte assistita che ha facoltà di scegliersi un difensore di fiducia e informarla che anche il difensore d’ufficio ha diritto ad essere retribuito. L’avvocato non deve assumere la difesa di più indagati o imputati che abbiano reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di altro indagato o imputato nel medesimo procedimento o in procedimento connesso

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o collegato. L’avvocato indagato o imputato in un procedimento penale non può assumere o mantenere la difesa di altra parte nell’ambito dello stesso procedimento. La violazione del dovere di cui al comma 1 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento. La violazione dei divieti di cui ai commi 2 e 3 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da sei mesi ad un anno).

All’art. 56, si trova il cuore di questo elaborato, l’ascolto del minore, novità assoluta del Codice, guida l’avvocato nei rapporti che si instaurano con il minore in ogni tipo di procedimento che lo vede coinvolto.

Il Titolo V riguarda i rapporti con i terzi e le controparti. Il Titolo VI è incentrato sui rapporti con le istituzioni forensi.

Ed infine, il Titolo VII, comprensivo di una sola norma, contiene la disposizione finale: “Il presente codice deontologico entra in vigore decorsi sessanta giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale”.

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CAPITOLO IV: PRESENTAZIONE ED INTERPRETAZIONE DELL'ART. 56 C. D.

1. L' ascolto del minore nella normativa internazionale

Il termine ascolto o audizione si riferisce ad un atto processuale ben preciso, in cui il minore si presenta al giudice che lo interroga liberamente, prendendo nota di ciò che egli spontaneamente afferma e traendo, quindi, le proprie conclusioni28.

L'ascolto del minore rappresenta per lo stesso una vera e propria opportunità di esprimere le proprie opinioni e i propri bisogni circa la vicenda che lo vede coinvolto.

L'ascolto si differenzia dai mezzi istruttori poiché attraverso di esso si realizza il diritto del minore a far sentire la propria voce e si distingue dal mero “sentire” che fa riferimento ad un procedimento di audizione funzionale alla raccolta di informazioni utili per il processo, evidenziandone un aspetto più tecnico.

Interpretabile e quindi degno di considerazione è anche il silenzio del bambino che può manifestare i segni di un disagio interiore.

Nel contesto europeo, dove per primo si sviluppa una normativa sulla tutela del minore come soggetto titolare del diritto all'ascolto, lo si mette in primo piano

28

[Convegno Ami del 5 aprile 2013 sezione distrettuale Corte d’appello di Lecce], Relazione su “le novità dell’art. 315 bis c.c”

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rafforzandone i diritti soggettivi di cui è titolare in quanto persona fisica e si rende destinatario di cure maggiori e più specifiche.

Punto centrale della normativa comunitaria nella realizzazione della cura del minore è il “best interest”: questo segna il punto di partenza per mettere in atto una tutela sempre più incisiva dei soggetti minori di età.

Best interest oggi denota la necessità che ogni decisione riguardante un minorenne

sia adottata tenendo conto del suo prioritario interesse, ossia di come i diritti soggettivi di cui è a capo siano considerati in relazione ai suoi bisogni.

Al riconoscimento della titolarità in capo alla persona minore di età, di diritti soggettivi e conseguenzialmente della tutela giudiziaria di tali diritti, non può non essere attribuita una valenza etica; il soggetto e il destinatario dell'agire etico e del diritto è l'uomo, con la dignità della sua persona, declinabile anche come dignità culturale, religiosa e sociale: anticipare ciò al minorenne è dunque un chiaro segnale dell'affermazione di un rispetto di diritti e doveri reciproci tra adulti e bambini.

La tutela dei diritti della persona minore d'età è stata enunciata attraverso i principi universali contenuti nella Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, di New York del 20 Novembre 1989, ratificata con L. n176 del 27 Maggio 1991.

I diritti garantiti dalla Convenzione Internazionale sui diritti dell'Infanzia sono raccolti in un documento omnicomprensivo senza distinzioni né suddivisioni perché ogni articolo è di uguale importanza, indivisibile, correlato agli altri e indipendente29.

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Tale Convenzione è stata il primo strumento di tutela internazionale a sancire nel proprio testo le diverse tipologie di diritti umani: civili, culturali, economici, politici e sociali, nonché quelli concernenti il diritto internazionale umanitario. Il testo contiene articoli rivolti alla protezione contro l'abuso e lo sfruttamento e si impegna a far si che il fanciullo faccia valere il proprio pensiero.

Il primo articolo recita: ”Ai sensi della presente Convenzione si intende per bambino ogni essere umano avente un età inferiore agli anni diciotto” e prosegue evidenziando la protezione del bambino prima della nascita.

Il documento è retto da quattro principi fondamentali: il principio di non discriminazione sancito dall' art.2, in base al quale gli Stati parti si impegnano ad assicurare i diritti sanciti a tutti i minori, senza distinzioni di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione del bambino e dei genitori.

Il secondo principio cardine è quello dell'interesse superiore del bambino sancito dall'art.3, ai sensi del quale in ogni decisione, azione legislativa, provvedimento giuridico, iniziativa pubblica o privata di assistenza sociale, l'interesse superiore del bambino deve essere una considerazione preminente.

Molto importante è l'art.6 che prevede il riconoscimento da parte degli Stati membri del diritto alla vita del bambino e l'impegno ad assicurarne, con tutte le misure possibili, la sopravvivenza e lo sviluppo.

Infine l'ascolto delle opinioni del bambino sancito dall'art.12: ”Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento, il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità”.

A tal fine si deve dare in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente sia

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