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DANZANDO SULLE MACERIE DEL ROMANZO: FAVOLE NOVECENTESCHE 4

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DANZANDO SULLE MACERIE DEL ROMANZO:

FAVOLE NOVECENTESCHE

Nell’articolato contesto storico della seconda metà del Novecento si inseriscono le produzioni degli autori scelti per fornire un’analisi mirata delle ragioni e degli obiettivi del recupero della favola e della fiaba nel Novecento: Italo Calvino, Giorgio Manganelli e Luigi Malerba. Tale ripresa non è affatto scontata, ma è frutto dell’interesse creato dai lavori strutturalisti, narratologici e semiotici, di Vladimir Propp e Roland Barthes, solo per citarne alcuni, i quali attirano sui propri lavori la curiosità di numerosi scrittori che nella seconda metà del Novecento entrano in contatto con le loro opere e ne rimangono affascinati; la fiaba, per esempio, è concepita come un repertorio di funzioni da combinare e reinventare, dal momento che si mostra come composta da tessere collocabili liberamente per formare racconti sempre nuovi.

Ciò che si tenterà di spiegare sono i diversi gradi di manipolazione con cui gli autori si accostano alle fiabe e alle favole, avendo in comune la presa di distanza dalla tradizione realistica e una certa insofferenza per il genere romanzo.

Il labirinto della realtà

Alla luce della nuova realtà del secondo dopoguerra i letterati italiani si interrogano insistentemente sul ruolo e la responsabilità della letteratura che, nel ventennio precedente aveva taciuto di fronte alle oppressioni e alle ingiustizie e si era rovinosamente allontanata dalla realtà. Tra il 1945 e il 1955 si ha l’esplosione del Neorealismo, che già a metà degli anni Cinquanta, è in fase decisamente calante; di fronte alla complessità del reale e alle lacerazioni storiche sorge e rapidamente si

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irrobustisce una narrativa assai diversa da quella degli anni immediatamente precedenti.

Un anno cruciale è il 1956, in cui si verificano due avvenimenti fondamentali, carichi di conseguenze per tutta la sinistra europea: al XX congresso del partito comunista dell’Unione Sovietica, Kruscev rivela le gravi degenerazioni della dittatura di Stalin e l’invasione dell’Ungheria dove, contro il regime di democrazia popolare instaurato nel 1949, si leva una rivolta, alla quale partecipano operai e intellettuali, stroncata dall’intervento militare dell’Unione Sovietica.

In Italia, molti intellettuali, che avevano militato nel PCI, lasciano il partito e, venuto meno l’impegno legato alla militanza politica, sono costretti a reinventarsi: è il caso di Calvino, il quale percepisce un vuoto di progetto comune, tanto politico (avverte un quadro frammentato, peggiorato dai frequenti episodi terroristici), quanto culturale e letterario, (teme la perdita dell’unità dell’intellettuale umanistico, fino a pensare la politica e la letteratura, come due cose distinte e autonome). Per queste ragioni, di fronte alle contestazioni giovanili del 1968, Calvino non si sente più in dovere di prendere la parola, perché si rende conto di non avere le risposte.

Un’occasione di confronto per la cultura italiana della seconda metà del Novecento è la Neoavanguardia. In campo letterario, constatata l’insufficienza del Neorealismo e dei romanzi di Tomasi di Lampedusa e Bassani, già a partire dal 1956, con l’uscita di Laborintus di Sanguineti, si ha un esempio estremo di sperimentalismo. In questi anni vengono pubblicate delle nuove riviste Il Verri1, diretta da Luciano Anceschi e

Officina2, testimonianze significative di quel clima di insoddisfazioni e di ricerche, che caratterizza la fine degli anni Cinquanta.

Nel 1961 esce l’antologia I Novissimi, poesie per gli anni ’60, curata da Alfredo Giuliani e nel 1963 si costituisce il Gruppo 63, che tra gli esponenti più in vista conta Francesco Leonetti, Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Nanni Balestrini, Angelo Gugliemi, Antonio Porta e Elio Pagliarani.

L’avanguardia ritiene che il compito fondamentale per ogni scrittore è il suo rapporto con la realtà, anche se interpretarla, muovendo da premesse ideologiche, non è più

1 Rivista trimestrale pubblicata a Milano nel 1956 da Luciano Anceschi che ne è sempre stato il

direttore.

2 Un bimestrale stampato dal maggio del 1955 al giugno del 1959 e che fra i suoi redattori conta

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possibile: l’ideologia, centrale nella produzione precedente è soppiantata dal linguaggio, il quale non deve mirare ad altro che alla «comunicazione della negazione della comunicazione esistente».3 Da ciò lo scardinamento di ogni struttura sintattica e di ogni dimensione semantica; il linguaggio, da solo, è in grado di dare una visione caotica di una realtà altrettanto caotica.

La neoavanguardia approda alla rinuncia alla parola, alla sperimentazione del non senso, della caotica colata linguistica, che deve testimoniare il caos contemporaneo, all’impossibilità di comunicazione, che si traducono in un gioco intellettualistico con larghi spazi al divertissement.

Tuttavia la neoavanguardia vive i problemi che la contemporanea industria culturale pone ad ogni autore e, mentre alcuni continuano a ribadire la linea di una rappresentazione a-ideologica, altri cercano di motivare teoricamente il rapporto tra ideologia e linguaggio. L’ala destra o a-ideologica della neoavanguardia conta, tra i suoi esponenti, figure di spicco come Giorgio Manganelli e Luigi Malerba, uniti da una concezione della letteratura differente rispetto alla tradizione. Per Manganelli la letteratura è un’«esperienza radicalmente alternativa alla realtà, artificio cerimoniale, moltiplicazione deformante dei volti negativi del mondo, inesorabile e gratuito sistema combinatorio, carico di veleni e di sottili abiezioni, invece Luigi Malerba, il quale ha fatto parte del Gruppo ’63 ed ha sperimentato varie modalità narrative (dal giallo ai dialoghi popolari, dalle filastrocche ai racconti per l’infanzia) punta soprattutto a rendere il non-senso e l’assurdo, che dominano le cose, attraverso ironiche e impreviste operazioni sul linguaggio, definite da Maria Corti «ludismo verbale».

Per la letteratura degli anni Sessanta si può parlare, inoltre, di “caso Gadda”, ovvero di una scoperta ritardata, di un’attenzione critica e della conquista di un pubblico avvenute dopo parecchi decenni. La caratteristica più lampante nella produzione di Gadda è il linguaggio insolito, originalissimo e addirittura traumatizzante da lui usato, che è risultato di un raffinato sperimentalismo deformante, volto a stravolgere la realtà, mettendone a nudo l’aspetto repellente. Con gli anni Settanta la neoavanguardia entra in crisi e nella società italiana sono sempre più evidenti i segni di un riflusso e di una caduta di tensione. Nella

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produzione letteraria, anche se non mancano testimonianze da ricondurre allo sperimentalismo avanguardistico, la linea dominante è quella di un “ritorno all’ordine”, di recupero della tradizione, specie nel settore narrativo. Il dibattito sulla letteratura di massa e la politica dell’industria editoriale, che mira a conquistare un mercato sempre più ampio, orientano verso il romanzo di successo e di largo consumo, piuttosto che verso la sperimentazione destinata alle élites.

IL TUFFO DI UN NOVELLO PERSEO:

ITALO CALVINO E LE FIABE

Calvino occupa un posto di primo piano non solo nella storia della narrativa italiana, per l’eccezionale varietà dei suoi modelli narrativi, ma anche nel panorama culturale: per la lucidità dei suoi interventi di critico militante e per il peso e l’incidenza che il suo ruolo di collaboratore ha avuto nella politica editoriale della casa editrice Einaudi, dove ha lavorato per circa una trentennio.

In Calvino coesistono atteggiamenti mentali e modalità narrative normalmente considerati inconciliabili e addirittura antitetici: c’è una vocazione scientifica-razionalistica, che gli deriva dall’educazione familiare e dalle teorie scientifiche moderne; c’è il gusto per l’evasione fantastica e il fiabesco e una concezione impegnata del lavoro dell’intellettuale e della letteratura. Queste inclinazioni non si escludono a vicenda e non si devono intendere in una successione cronologica, ma spesso nella produzione calviniana coesistono nello stesso testo. Tuttavia, prima di procedere all’analisi del testo, in cui queste componenti si mescolano in maniera evidente, Le Cosmicomiche, è necessario prendere in considerazione il grande lavoro di catalogazione e sistemazione di tutta la tradizione fiabesca italiana, che ha portato alla pubblicazione delle Fiabe italiane.

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Le Fiabe italiane

Nel 1954 Calvino scrive una lunga lettera a Giuseppe Cocchiara nella quale espone il progetto della casa editrice Einaudi di «porre mano a un piano organico di tutta la favolistica mondiale»; tuttavia, l’operazione non è semplice, dal momento che le fiabe italiane non hanno avuto «il loro Grimm o il loro Afanasiev».4

C’è il problema della raccolta del materiale che per alcune regioni è già edito e per altre quasi inesistente. C’è il problema dei dialetti. C’è il problema, mettendo insieme il materiale dei raccoglitori diversi, di dare un’unità, stilistica e di metodo, al libro… il parere di Einaudi è che la Casa editrice prenda su di sé la responsabilità della cura del volume, valendosi dei consigli e del materiale degli specialisti, e «unifichi» il volume. Insomma su una base di lavoro filologica, lavorare con criteri essenzialmente poetici. Anzi aveva addirittura proposto a me – povero me! – di assumermi questo lavoro di «unificazione», cioè di scegliere tra le varianti, tradurre dove c’è da tradurre, riscrivere il già scritto in italiano. Dalla sommaria indagine che ho potuto compiere finora – completamente digiuno in materia come sono, - mi pare indubbio che è assurdo, per esempio, riscrivere il toscano di Imbriani senza uccidere lo spirito delle fiabe; bisognerebbe quindi adottare un criterio misto sul tipo di quello proposto dal Vidossi, cioè parte del materiale tal quale ce l’hanno tramandato i raccoglitori, e parte tradotto; e anche qui il lavoro dello «scrittore» (chiunque egli sia) va accompagnato dal lavoro del filologo, dello studioso di dialetti.5

La decisione della casa editrice di affidare a Calvino questo compito, per Lavagetto è «un atto di lucida preveggenza editoriale», perché «non c’era allora, né ci sarebbe stato negli anni successivi, nessun altro scrittore così conforme al ruolo».6 Infatti, era evidente che Calvino riservasse una certa attenzione all’universo della:

fu Pavese il primo a parlare di tono fiabesco a mio proposito, e io, che fino ad allora non me n’ero reso conto, da quel momento in poi lo seppi fin troppo, e cercai di confermare la definizione. La mia storia cominciava ad essere segnata, e ora mi pare tutta contenuta in quell’inizio.7

4 CALVINO 2016, Introduzione alle Fiabe italiane. 5 Ibid.

6 LAVAGETTO 2001, p. 36.

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Inoltre, grazie all’operazione straniante del suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di

ragno, si è avvicinato «alle cose con lo sguardo di chi scopre il mondo per la prima

volta e ritrova dietro le apparenze, lo stampo delle favole più remote – ovvero – lo schema insostituibile di tutte le storie umane».8 Nelle fiabe si ritrovano tutti quei valori di cui l’autore si è occupato nelle Lezioni americane e che Manganelli interpreta come «Cinque Lezioni Fantastiche, magari le prime cinque di una Mille e

una notte critica»9; la leggerezza, la rapidità, l’esattezza, la visibilità, la molteplicità e la consistenza sono i criteri seguiti da Calvino nel suo lavoro, dal momento che l’interesse per le fiabe è soprattutto «stilistico e strutturale, per l’economia, il ritmo, la logica essenziale con cui sono raccontate».10

Io mi immergevo in questo universo sottomarino disarmato d’ogni fiocina specialistica, sprovvisto d’occhiali dottrinari, neanche munito di quella bombola d’ossigeno che è l’entusiasmo – che oggi molto si respira – per ogni cosa spontanea e primitiva […]. Insomma, ci sarebbe stato da chiedermi perché avevo accettato d’occuparmene, se non fosse per un fatto che mi legava alle fiabe.11

Il legame con le fiabe è dovuto al «fatto» che queste per l’autore sono «vere», poiché «sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che è appunto il farsi di un destino».12

Per Calvino, dietro il ruolo di scrittore di fiabe, c’è il ricordo delle sue letture infantili, in particolare del «Corrierino dei piccoli»:

Passavo le ore percorrendo i cartoons d’ogni serie da un numero all’altro, mi raccontavo mentalmente le storie interpretando le scene in diversi modi, producevo varianti, fondevo i singoli episodi in una storia più ampia, scoprivo e isolavo e collegavo delle costanti in ogni serie, contaminavo una serie con l’altra, immaginavo nuove serie in cui personaggi secondari diventavano protagonisti… la lettura delle figure senza parole è stata certo per me una scuola di fabulazione, di stilizzazione, di composizione dell’immagine.13

8 LAVAGETTO 2001., p. 37.

9 MANGANELLI, Postfazione alle Lezioni americane, 2017, p. 147. 10 CALVINO 1971, Introduzione alle Fiabe italiane.

11 CALVINO 2016, p. XI. 12 Ibid.

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Nel periodo in cui raccoglie, seleziona, studia, trascrive e riscrive le fiabe, ossia dal 1954 al 1956, non c’è variante che non lo attiri, «sotto i suoi occhi ogni storia poteva diventare un’altra storia, perché quello costituito dall’insieme di testi reperiti «fu il più meraviglioso, il più ricco, il più suggestivo e il più enigmatico mazzo di carte di cui Calvino abbia mai potuto disporre»14

Fin dal principio Calvino, accettando la sfida lanciata dalla casa editrice Einaudi, si trova a dover affrontare dei problemi, il primo dei quali è di tipo stilistico:

scrivere presuppone ogni volta la scelta d’un atteggiamento psicologico d’un rapporto col mondo, d’un’impostazione di voce, d’un insieme omogeneo di mezzi linguistici e di dati dell’esperienza e di fantasmi dell’immaginazione, insomma di uno stile. L’autore è un autore in quanto entra in una parte, come un attore.15

Calvino tenta e riesce a essere un autore discreto e coerente, anche quando si trova costretto ad intervenire. Egli, infatti, imposta una voce che è il prodotto di tutte le voci che hanno raccontato e tramandato queste storie nei secoli e adesso si affollano nei suoi ricordi. Lavagetto ritiene che la voce di Calvino sia al grado zero, «un’invenzione bellissima e difficile [che] richiede un controllo dei registri continuo, minuzioso, in modo da neutralizzare le difformità dei dialetti o le deformazioni dei raccoglitori, ma anche le resistenze culturali di chi scrive».16

Secondo Lavagetto l’operazione di Cavino è perfettamente mimetica e in grado di mantenere il sistema in equilibrio, scegliendo la strada di un recupero tanto sofisticato, da essere quasi impercettibile; egli, infatti, non lascia segni del suo intervento nemmeno quando esso è cospicuo. Calvino si attiene alle regole:

la narrativa orale primitiva, così come la fiaba popolare quale si è tramandata fin quasi ai nostri giorni, si modella su strutture fisse, quasi potremmo dire su elementi prefabbricati, che permettono però un enorme numero di combinazioni.17 14 LAVAGETTO 2001 p. 39. 15 CALVINO 2011, p. 10. 16 LAVAGETTO, 2001, p. 42. 17 CALVINO, 2011, p. 11.

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In base a questo principio i testi vengono conservati pur mantenendo una certa possibilità d’azione: «un particolare viene aggiunto; due versioni vengono contaminate; un dettaglio è ricavato da una fonte colta; si taglia un finale che può apparire posticcio; i versi sono rielaborati o riscritti; un grappolo di versioni costituisce una costellazione sotto cui prende forma il singolo testo».18

Quando un elemento è inventato Calvino si preoccupa che esso sia conforme e presente nel repertorio, e al momento del suo inserimento, segue i principi e le combinazioni fisse che il corpus propone; «c’è fin da allora, a sostegno del lavoro, la convinzione che l’universo antropologico, di cui la fiaba reca testimonianza, sia retto da una razionalità implicita ma rigorosa: razionalità di trama, di costruzione e di linguaggio, e razionalità che si esplica anche nell’esercizio di quell’incantesimo sul tempo che è proprio di ogni arte narrativa. Calvino concilia ampiezza documentaria, rigore filologico ed elaborazione poetica, rimanendo fedele alla popolarità originaria dei testi presentati senza compromettere la popolarità moderna della destinazione a un pubblico ampio e non specialistico».19 Così, dopo due anni di intenso lavoro, nel 1956 escono le Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi

cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino, con duecento testi,

di ciascuno dei quali è indicata una provenienza, che può riguardare una città, una regione, un’area (Monferrato, Mugello, Terra d’Otranto, Madonìe). La scelta include aree italofone, che esulano dai confini politici (Istria, Dalmazia, Corsica), ed esclude territori alloglotti, come la Val d’Aosta e l’Alto Adige. La distribuzione non è omogenea, perché le regioni in cui la ricerca folklorica ottocentesca è stata svolta in maniera capillare, sono più rappresentate delle altre; Cocchiara offre a Calvino un copioso materiale proveniente dalla Toscana del pistoiese Gherardo Nerucci e dalla Sicilia di Giuseppe Pitrè.

Il libro è aperto da un’Introduzione in cui Calvino illustra la genesi e i caratteri dell’opera. Il «viaggio tra le fiabe» è raffigurato come un azzardo, un tuffo in un mare sconosciuto, senza l’ausilio di alcuna delle attrezzature di cui normalmente è dotato chi compie simili imprese: «un’ipotesi storica, teorica o classificatoria, ovvero

18 LAVAGETTO 2001, p. 43. 19 CALVINO 2011, p. 12.

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l’attrazione romantica per il genio popolare e l’universo oscuro e magmatico del folklore».20

Invece io mi immergevo in questo mondo sottomarino disarmato d’ogni fiocina specialistica, sprovvisto d’occhiali dottrinari, neanche munito di quella bombola d’ossigeno – che oggi molto si respira – per ogni cosa spontanea e primitiva.21

Inoltre, le Fiabe italiane sono un’opera leggibile su due piani: una lettura di intrattenimento, adatta anche al pubblico infantile (Calvino, infatti, censura i dettagli scurrili, violenti o troppo sensuali), mentre le note sono rivolte ad un pubblico più colto, in grado di apprezzare sia i ragguagli documentari su varianti, trasformazioni, circolazione dei motivi narrativi, sia i giudizi critici sulle singole fiabe.

L’Introduzione si conclude con un’indicazione sulle caratteristiche della fiaba popolare italiana; alla crudeltà, propria del genere fiabesco, si sostituisce «una continua e sofferta trepidazione d’amore».

Le fiabe calviniane sono avventure svelte, levigate, nitide, del tutto prive di indugi sentimentali, di suggestioni malinconiche o di aloni misticheggianti […]: le magie e gli incantesimi hanno la stessa enigmatica evidenza del «meraviglioso» ariostesco, e tutto concorre all’esatto funzionamento della macchina narrativa. Lo spirito con cui Calvino viaggia nell’universo fiabesco, e insieme i termini del suo mondo morale, sono ben esemplificati dal primo e dall’ultimo brano della raccolta, l’uno tutto slancio e baldanza, l’altro improntato a un riflessivo equilibrio.22

Per Calvino, la semplice e nitida trasparenza della fiaba rappresenta un modello di libertà inventiva, tanto più forte quanto più la scrittura è consapevole dei limiti e delle condizioni che la rendono possibile; «ogni operazione di “rinuncia” stilistica, di riduzione all’essenziale, è un atto di moralità letteraria»23 e secondo Lavagetto,

questa è la lezione più preziosa che Calvino apprende dal suo lavoro sulle Fiabe

italiane. 20 BARENGHI 2009, p. 30. 21 CALVINO 2011, p. 15 22 BARENGHI, 2009, p. 33. 23 Ivi. p.12.

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Il ruolo di scrittore di Calvino gli permette di individuare i meccanismi del racconto che si celano dietro la materia e favorisce un modo di vedere specifico e altrimenti irraggiungibile; tuttavia, è importante anche il ruolo di lettore, dal momento che le fondamenta, di quella che Lavagetto definisce «teoria genialmente avventizia», derivano dalle più svariate letture: cibernetica, linguistica, narratologia, antropologia, le quali hanno prodotto uno sguardo attento e curioso.

La fiaba è concepita ed interpretata come un documento storico, poiché «il racconto di meraviglie magiche, dal “c’era una volta” iniziale, alle varie formule di chiusura, non ammette d’essere situato nel tempo e nello spazio».24 Sebbene sia impossibile rintracciare con esattezza il luogo e il tempo in cui è nata una fiaba, al contrario «ridurre la fiaba al suo scheletro invariante contribuisce a mettere in evidenza quante variabili geografiche e storiche formano il rivestimento di questo scheletro; e lo stabilire in modo rigoroso la funzione narrativa, il posto che vengono a prendere in questo schema le situazioni specifiche del tessuto sociale, gli oggetti dell’esperienza empirica, utensili d’una determinata cultura, piante o animali d’una determinata flora o fauna, può fornirci qualche notizia che altrimenti ci sfuggirebbe, sul valore che quella determinata società attribuisce loro».25 La fiaba, infatti, si muove nello spazio

e nel tempo, da una classe sociale all’altra e al suo passaggio trasforma gli ascoltatori in narratori e viceversa.

Può accadere, inoltre, che le fiabe si contaminino a vicenda, perché il narratore di fiabe, al momento del racconto orale, sfugge a una ripetizione passiva per raccontare ciò che «gli sta più a cuore». Nel suo lavoro di raccolta e selezione delle fiabe, Calvino ha avuto modo di apprezzare alcuni racconti di Agatuzza Messia, la nutrice di Giuseppe Pitrè, alla quale si devono alcune delle narrazioni più perfette e compiute e le si riconosce «precisione, competenza narrativa, perfetto controllo dei meccanismi, sorprendente sapienza descrittiva e nomenclatoria».26

Il testo delle fiabe di questi narratori appare, talvolta, punteggiato di fessure e cicatrici, le quali lasciano intravedere «le ombre di cerimonie magiche e iniziatiche»27 che, lontane nella memoria, hanno la funzione di muovere la superficie

24 Ivi. p.13.

25 LAVAGETTO 2001 p. 45. 26 Ivi. p. 46.

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del racconto. Infine, l’interesse per i narratori non può escludere i fratelli Grimm che, nella raccolta di Calvino, diventano i protagonisti di un racconto, in cui si narra di «due fratelli che, inseparabili fin da bambini, vissero e studiarono e scrissero insieme per tutta la loro vita. Il maggiore, Jacob, era il più ostinato e severo; il secondo, Wilhelm, il più gaio e il più poeta».28 È forse un omaggio che Calvino riserva a coloro che sono stati per lui un modello di stile, metodo e misura; non a caso le

Fiabe italiane contano duecento fiabe, così come la raccolta dei Grimm.

Le Cosmicomiche

Durante gli anni Cinquanta, Calvino alterna racconti di argomento contemporaneo e narrazioni fantastiche ambientate nel passato. Questo duplice atteggiamento è colto da Vittorini che definisce il primo aspetto «realismo a carica fiabesca» e il secondo «fiaba a carica realistica».29 Tra gli anni Sessanta e Settanta, si dedica al racconto, subendo prima l’influenza delle teorie proppiane e poi delle teorie strutturaliste oulipiane. Egli, animato da «una sorta di nostalgia per la favola […] non abbandona mai davvero il mito del racconto [e] la ricerca delle leggi prime della narrazione, che gli fa prediligere le forme brevi».30 Calvino, in questo periodo, tenta di far reagire due immaginari quasi antagonisti: quello scientifico e quello letterario, i quali, secondo l’autore, non sono poi così distanti, ma piuttosto equivalenti, dal momento che la differenza è essenzialmente nel linguaggio.

Ho letto di recente un articolo di Roland Barthes intitolato Letteratura contro

scienza. Barthes tende a considerare la letteratura come la coscienza che il

linguaggio ha di essere linguaggio, d’avere un proprio spessore, una propria realtà autonoma; il linguaggio per la letteratura non è mai trasparente, non è mai puro strumento per significare un «contenuto» o una «realtà» o un «pensiero» o una «verità», cioè non può significare qualcos’altro da se stesso. Mentre l’idea che del linguaggio si fa la scienza sarebbe invece quella di uno strumento neutro, che serve per dire altro, per significare una realtà ad esso estranea, e sarebbe appunto questa diversa concezione del linguaggio che distingue la scienza dalla letteratura. Su questa via Barthes arriva a sostenere che la letteratura è più scientifica della scienza, perché la letteratura sa che il

28 CALVINO 2016. 29 BARENGHI 2009 p. 30. 30 DONNARUMMA 2014, p. 36.

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linguaggio non è mai innocente, sa che scrivendo non si può dire niente di esterno alla scrittura, nessuna verità che non sia una verità riguardante l’atto dello scrivere. La scienza del linguaggio, secondo Barthes, se vuole conservarsi scienza, è destinata a trasformarsi in letteratura, scrittura integrale, e rivendicherà a sé anche il piacere del linguaggio che ora è prerogativa esclusiva della letteratura.31

Calvino è influenzato dalle posizioni di Barthes, che «sembra vedere una scienza molto più compatta e sicura di se stessa di quanto non lo sia in realtà», e di Queneau che parla di scienza in modo completamente diverso: nella sua concezione domina il divertimento, l’acrobazia dell’intelligenza e dell’immaginazione grazie alla «crescente matematizzazione delle scienze umane».

Mi pare che le due posizioni che ho descritto definiscano abbastanza bene la situazione: due poli tra cui ci troviamo a oscillare, o almeno io mi trovo a oscillare, sentendo attrazione e avvertendo i limiti dell’uno e dell’altro. Da una parte Barthes e i suoi, «avversari» della scienza, che pensano e parlano con fredda esattezza scientifica: dall’altra parte Queneau e i suoi, amici della scienza, che pensano e parlano attraverso ghiribizzi e capriole del linguaggio e del pensiero.32

Così, la scienza diventa per Calvino un repertorio d’immagini da cui attingere per creare dei racconti brevi, che in alcuni casi, pur parlando delle vicende contemporanee, lo fanno con la distanza propria della materia scientifica e l’atemporalità tipica della fiaba.

Nel 1965 escono Le Cosmicomiche: una raccolta di dodici racconti, ciascuno dei quali è introdotto dall’esposizione di una teoria scientifica, che non è una didascalia esterna al testo, bensì l’idea che sta all’origine del racconto, l’immagine che scatena la fantasia dell’autore.

Ho cominciato così: avevo preso l’abitudine di segnarmi le immagini che mi venivano in mente leggendo un libro per esempio di cosmogonia, cioè partendo da un discorso lontano dal meccanismo di immaginazione che mi è più consueto. E invece anche di lì ogni tanto vengono fuori delle immagini, delle proposte di racconto.33

31 CALVINO 2017, pp. 225-226. 32 Ivi. p. 227.

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Calvino inventa un genere letterario nuovo, diverso dalla fantascienza, così come l’autore stesso chiarisce:

mi pare che i racconti di fantascienza siano costruiti con un metodo completamente diverso dai miei […] Io vorrei servirmi del dato scientifico come di una carica propulsiva per uscire dalle abitudini dell’immaginazione, e vivere anche il quotidiano nei termini più lontani dalla nostra esperienza; la fantascienza invece mi pare che tenda ad avvicinare ciò che è lontano, ciò che è difficile da immaginare, che tenda a dargli una dimensione realistica o comunque a farlo entrare in un orizzonte d’immaginazione che fa parte già d’un’abitudine accettata.34

Barenghi sottolinea «il calco su ‘tragicomico’, termine di antica tradizione letteraria; l’elemento della ‘comicità’ – che allude anche al linguaggio dei comics, dei fumetti – viene ora temperato, anziché dal “tragico” (nel segno di un’opposizione ilare/luttuoso, vitale/funesto) dal “cosmico”, cioè da una vertiginosa dilatazione degli orizzonti spazio-temporali che crea con il piano della quotidianità inattesi cortocircuiti».35

Quando a Calvino è stato chiesto se le «comiche» da lui intese dovessero essere ricondotte alle antiche classificazioni degli stili, l’autore rispose che la sua fantasia andava, più che altro, alla «comiche» del cinema muto e ai comics o storielle a fumetti in cui un pupazzetto si trova di volta in volta in situazioni diverse, ma riconducibili ad uno schema comune; pensa a degli esempi, da lui definiti ineguagliabili, di stilizzazione e precisione formale:

potrei aggiungere che sono contento che contemporaneamente al mio libro sia uscita in volume in Italia una raccolta dei comics di B.C., il personaggio «preistorico» disegnato da Johnny Hurt. Non mi dispiacerebbe apprendere che i lettori di un libro sono anche lettori dell’altro, e che fanno dei confronti fra i due.36

Alla scienza è affidato un ruolo nuovo e decisivo, grazie ad un cambio di prospettiva: il discorso scientifico parte dalle complicazioni del reale per ridurle alla semplicità di una formula astratta e matematica e l’incedere letterario complica ciò che a prima

34 MILANINI 1995, p. 106. 35 BARENGHI 2009, p. 67. 36 CALVINO 2016, p. VI.

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vista appare semplice e prevedibile. L’obiettivo è produrre un effetto di spaesamento, di straniamento ed anche di divertimento e di critica, perché, come avviene di frequente in Calvino, fantasia e riflessione convergono, alimentandosi a vicenda. Se in precedenza aveva scommesso sull’antitesi realtà-immaginazione, ora gioca sui mutamenti di scala, dall’infinitamente grande (il tempo profondo dell’astronomia e dell’evoluzione, le distanze fra i pianeti e le galassie) all’infinitamente piccolo delle particelle elementari, presenti nella memoria di un eroe, o, come lo definisce Barenghi, «un antieroe mai antropomorfo d’aspetto, ma umanissimo quanto a sensibilità, comportamenti, pensieri».37

Il protagonista di tutti i racconti è il vecchio Qfwfq, che ha la stessa età del cosmo e nel corso di miliardi di anni ha assunto innumerevoli forme: nel risvolto del volume, si dice che di Qfwfq non ci viene mai chiaramente detto chi era e com’era, ma solo che c’era, che era lì. «L’attributo fondamentale del protagonista delle

Cosmicomiche è la sua presenza nel mondo, il suo essere coinvolto: il suo aderire

alle cose, nel momento in cui accadono trasformazioni con le quali occorre, volenti o nolenti, misurarsi».38 Milanini nota il carattere duplice di Qfwfq: vecchio quanto l’universo, ma ingenuo «sbigottito ed acerbo» di fronte agli accadimenti imprevisti che lo coinvolgono. Barenghi giustifica questo aspetto, ritenendo che, malgrado l’assoluta inverosimiglianza delle situazioni, le storie di Qfwfq non facciano che proiettare sulle fantasiose origini dell’universo e della terra i principali fattori dell’esperienza storica di Calvino: «Eventi improvvisi che colgono di sorpresa, mutando d’un tratto le coordinate del reale; conseguente necessità di reagire in qualche maniera, prendendo posizione, sistematica revoca in dubbio o radicale ridefinizione della propria identità; coscienza o almeno intuizione dei guadagni e delle perdite che ciò comporta; sguardo rivolto a un futuro impregiudicabile, enigmatico, aperto».39 Questi fattori, ai quali Barenghi fa riferimento, non sono solamente storici, ma anche, e forse soprattutto, culturali, dal momento che numerosi autori, proprio in questi anni, sono costretti a fare i conti con la neoavanguardia, che, per molti di loro, è «espressione del caos e del fango in cui l’Occidente si stava

37 BARENGHI 2009, p. 67. 38 Ivi. p. 68.

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impantanando».40 La neoavanguardia, però, diceva qualcosa di vero sul presente e così Calvino, in primis, si scontrò e confrontò con le sue posizioni, le sue parole d’ordine e i suoi modi espressivi, disinnescandoli poi, proprio nelle Cosmicomiche, nelle quali «la sua persistente etica dell’utopia assumerà forme sempre più caute, perplesse e rinunciatarie».41

Di fatto, il senso di sconfitta e fallimento prevalgono in numerosi racconti e spesso lasciano spazio alla confusione e alla perplessità, di fronte alle quali l’impronunciabile nome del protagonista, Qfwfq, acquista un senso, perché, oltre ad essere un palindromo, e quindi un esempio di reversibilità, la stessa sequenza delle consonanti «ha un andamento buffo, stravagante e interrogativo (che si veda a riscontro l’impressione di aggressiva e sgradevole ostilità che suscita il nome dell’antagonista di Un segno nello spazio, Kfwfk).»42 Inoltre, si nota la costante caratterizzazione maschile del personaggio di Qfwfq, il quale, qualsiasi sembianza assuma, definisce se stesso in base all’alterità per eccellenza, la figura femminile, in relazione alla quale desiderio erotico e sforzo cognitivo diventano due facce della stessa medaglia. Per questa ragione i personaggi delle Cosmicomiche sono ridotti al minimo: storie con due personaggi, dove uno dei due è femminile o un antagonista maschile, e storie con una figura femminile, contesa fra due o più pretendenti rivali fra loro.

Tutto in un punto

Nelle Cosmicomiche Calvino propone una serie di racconti, che nel loro insieme creano una vera e propria mitologia moderna, la quale unisce passato (mitologia greca e temi), presente (il quotidiano come termine di paragone ironico) e il futuro (le teorie scientifiche).

Calvino stilizza e decanta il repertorio mitologico-narrativo, noto sia a lui sia al suo pubblico; la scienza, per lui, è il luogo dell’immaginazione, la quale, sganciandosi dai pregiudizi mimetici, realistici ed empirici, interagisce con le componenti della

40 DONNARUMMA 2014, p. 41. 41 Ibid.

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quotidianità, dando vita al meccanismo comico. L’immaginario unisce l’estremamente grande all’immensamente piccolo, così come si nota in Tutti in un

punto, in cui lo spazio e il tempo non esistono:

Si capisce che si stava lì, - fece il vecchio Qfwfq, - e dove, altrimenti? Che ci potesse essero lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe? [RR II, p. 118]

Tuttavia, pur stando tutti «pigiati come acciughe» in un unico punto «non era una situazione che favorisse la socievolezza»: Calvino si rifà all’esperienza delle grandi periferie urbane, in cui le persone, pur vivendo a stretto contatto, non si salutano e mostra una certa nostalgia per i tempi in cui la vicinanza significava scambio, «so che per esempio in altre epoche tra vicini ci si frequentava; lì invece, per il fatto che vicini si era tutti, non ci si diceva neppure buongiorno e buonasera». [RR II, pp. 118-119] Fra i tanti personaggi che vivono nel punto c’è anche la famiglia Z’zu, la quale è presentata secondo lo stereotipo della famiglia meridionale: «se non si stava attenti, con la scusa che erano una famiglia numerosa, facevano come se al mondo ci fossero solo loro: pretendevano perfino di appendere delle corde attraverso il punto per stendere la biancheria». [RR II, p. 119]

Anche gli altri però avevano i loro torti verso gli Z’zu, a cominciare da quella definizione di «immigrati», basata sulla pretesa che, mentre gli altri erano lì da prima, loro fossero venuti dopo. [RR II, p. 119]

Calvino affronta anche il delicato, ma attuale tema dell’immigrazione, svuotando questo pregiudizio di ogni senso; l’assenza dello spazio e del tempo, infatti, induce a riconsiderare completamente gli stereotipi culturali e i pregiudizi:

Ma c’era chi sosteneva che il concetto di «immigrato» poteva essere inteso allo stato puro, cioè indipendentemente dallo spazio e dal tempo.

Era una mentalità, diciamolo, ristretta, quella che avevamo allora, meschina. [RR II, pp. 119-120]

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Con il termine «meschino» Calvino non si limita a svuotare i pregiudizi, ma fornisce anche una precisa connotazione morale; infatti, intende agire sulle categorie mentali per far emergere tutta la loro limitatezza e l’inefficacia delle coordinate spazio-temporali. Questi temi cari al Neorealismo, in questa sede ne mostrano l’usura dei codici, infatti, cambiano le modalità del racconto, il quale procede per allusioni e allegorie non perenni, che talvolta diventano metafore. L’autore si spinge ad un grado talmente alto di immaginazione, che la conciliazione esige un enorme sforzo: il salto vertiginoso dalla situazione precedente al Big Bang e la successiva produce un effetto comico, alimentato, inoltre, dalla presenza degli stessi pregiudizi, altrettanto radicati nei personaggi. Calvino, quindi, lavora sul concetto di razzismo per scuotere l’immaginario e far emergere l’inconsistenza di questo pensiero relativo. In questo universo connotato negativamente, emerge una figura positiva: la signora Ph(i)Nko:

Finché non si nomina la signora Ph(i)Nko – tutti i discorsi vanno sempre a finir

lì -, e allora di colpo le meschinità vengono lasciate da parte, e ci si sente sollevati come in una commozione beata e generosa. La signora Ph(i)Nko, la

sola che nessuno di noi ha mai dimenticato e che tutti rimpiangiamo. [RR II, p. 120]

Per alcuni aspetti, ricorda una Venere mitologica, cioè fonte di unità e di un amore che si espande e non crea gelosie, per altri, è una donna molto quotidiana, è una figura felliniana, procace, generosa ed emiliana, dalla generosa sessualità.

Il gran segreto della signora Ph(i)Nko è che non ha mai provocato gelosie tra

noi. E neppure pettegolezzi. Che andasse a letto con il suo amico, il signor De XuaeauX, era noto. Ma in un punto, se c’è un letto, occupa tutto il punto, quindi non si tratta si andare a letto ma di esserci, perché chiunque è nel punto è anche nel letto. Di conseguenza, era inevitabile che lei fosse a letto anche con ognuno di noi. [RR II, p. 121]

Solo al ricordo della signora Ph(i)Nko,i personaggi rimpiangono la perdita della

fratellanza e dell’unità, causata da un «vero slancio d’amore generale» . Il Big Bang, secondo il racconto di Calvino, ha avuto origine dal desiderio di spazio della signora Ph(i)Nko per fare le tagliatelle a tutti:

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E in quel momento tutti pensammo allo spazio che avrebbero occupato le tonde braccia di lei muovendosi avanti e indietro con il mattarello sulla sfoglia di pasta, il petto di lei calando sul gran mucchio di farina e uova impastavano impastavano, bianche e unte d’olio fin sopra al gomito. [RR II, p. 122]

Così l’Universo, lo spazio e il tempo hanno avuto origine, dalla capacità creativa dell’immaginare, prima la signora Ph(i)Nko all’opera con la farina, poi i campi di

grano e l’acqua, i pascoli e le mandrie, poi il Sole con i raggi e i gas, e infine le stelle, le galassie e i pianeti; tuttavia la felicità rimpianta da Qfwfq prende vita da un ragionamento ossimorico:

la felicità che mi veniva da lei era insieme quella di celarmi io puntiforme in lei, e quella di proteggere lei puntiforme in me, era contemplazione viziosa (data la promiscuità del convergere puntiforme di tutti in lei) e insieme casta (data l’impenetrabilità puntiforme di lei). Insomma, cosa potevo chiedere di più? [RR II, p. 122]

La signora Ph(i)Nko viene presentata da Calvino come fonte di unità, così come

Dante presenta la Trinità nella Commedia.

I Dinosauri

Tra i racconti delle Cosmicomiche ce ne sono alcuni, che per certi aspetti, potrebbero essere considerati delle favole moderne. I Dinosauri, per esempio, è una storia in cui l’autore, nel giro di poche pagine, tocca numerose temi tanto letterari (è ambientato in un villaggio arcaico, i cui abitanti si raccontano e producono storie, così come spiegano le teorie proppiane), quanto sociali (tema del diverso e dei pregiudizi).

L’enunciato scientifico da cui ha origine questa cosmicomica tratta le misteriose «cause della rapida estinzione dei Dinosauri, che si erano evoluti e ingranditi per tutto il Triassico e il Giurassico e per 150 milioni d’anni erano stati gli incontrastati dominatori dei continenti. Forse furono incapaci di adattarsi ai grandi cambiamenti di clima e di vegetazione che ebbero luogo nel Cretaceo. Alla fine di quell’epoca erano tutti morti». [RR II, p. 164]

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Il protagonista del racconto è Qfwfq, «perché anch’io, per un certo periodo, sono stato dinosauro: diciamo per una cinquantina di milioni d’anni; e non me ne pento»;

[RR II, p. 164] è l’unico superstite della sua specie e si trova a nascondere la sua identità perché i Nuovi, cioè gli uomini, sono spaventati dai dinosauri, non tanto perché non li conoscono, ma a causa delle storie che si raccontano su questi antichi e terribili esemplari; e allo stesso modo anche il Dinosauro, inizialmente, diffida dei Nuovi, perché crede che da un momento all’altro possano riconoscere la sua vera natura. In realtà, nessuno dei nuovi ha la più pallida idea di come sia un dinosauro, anche di fronte ad un intero scheletro, non si rendono conto dell’incredibile somiglianza con l’unico superstite. Il dinosauro viene accolto nel villaggio, perché, nonostante la sua diversità, è forte e per questo utile:

a nessuno veniva il sospetto di chi potevo essere. Mi fermai. C’era un buon clima, vitto non certo per i nostri gusti, ma discreto, e un lavoro non eccessivamente gravoso data la mia forza. Mi chiamavano con un soprannome: «il Brutto», perché ero diverso da loro, non per altro. [RR II, p. 167]

La diversità, in realtà, non è mai così lampante, poiché anche i nuovi «erano di una specie ancora un po’ informe, dalla quale difatti venne poi fuori tutto il resto della specie», quindi anche il dinosauro dovette convincersi che la sua diversità non era così vistosa; tuttavia non si arrese mai completamente a quell’idea:

mi sentivo sempre un dinosauro in mezzo a nemici, e ogni sera, quando attaccavano a raccontare storie di Dinosauri, tramandate di generazione in generazione, io mi facevo indietro, nell’ombra, a nervi tesi. [RR II, p. 167]

L’idea che gli uomini avevano dei Dinosauri nasceva da queste «storie terrificanti», che rievocavano tanto i dolori subìti dai Nuovi, quanto il dolore subìto dal superstite: «più apprendevo quanto avevamo fatto tremare, più tremavo». [RR II, p. 168]

All’interno del villaggio Qfwfq-dinosauro si lega alla giovane Fior di Felce, con la quale instaura una «specie di confidenza. Nulla di troppo intimo: non avevo mai osato sfiorarla. Ma parlavamo a lungo. […] Fior di Felce mi raccontava i suoi sogni»; ma, proprio quando le cose stavano andando bene, rientra da un periodo di pesca in pianura il fratello della ragazza, Zahn, il quale, a partire dal primo momento

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in cui vede il nuovo membro del villaggio, prende un’aria sospettosa. «Questo Zahn era uno dei tipi più risoluti del villaggio. Aveva girato il mondo e mostrava di sapere molte cose più degli altri» [RR II, p. 169] e quando sentiva parlare dei dinosauri mostrava una certa insofferenza, accusando i pescatori del villaggio di raccontare favole a proposito della loro estinzione; Zahn inizia, così, ad accusare Qfwfq, ma alcuni pescatori prendono le sue difese:

Cominciò una discussione generale. Lo strano era che la possibilità che io fossi un Dinosauro non veniva mai presa in considerazione; la colpa che mi si imputava restava quella d’essere un Diverso, uno Straniero, quindi un Infido; e il punto controverso era quanto la mia presenza aumentasse il pericolo d’un eventuale ritorno dei Dinosauri. [RR II, p. 170]

Per placare il diverbio, il Brutto fu costretto a combattere e vincendo, non solo si era guadagnato il rispetto di Zahn, ma anche dell’intero villaggio. Dopo questo episodio cambiano anche i racconti sui Dinosauri, «come succede quando ci si stanca di giudicare le cose sempre alla stessa maniera e la moda comincia a girare in un altro verso». [RR II, p. 171] Sembrava che i Nuovi nutrissero un’ammirazione postuma e del tutto nuova per i Dinosauri, forse anche a causa dei racconti che il Brutto aveva iniziato a fare, i quali gettavano una luce completamente diversa su questi antichi dominatori; tuttavia, proprie per queste ragioni, Qfwfq iniziò a provare una certa insofferenza nei confronti degli abitanti del villaggio:

E adesso vedevo costoro prendere a modello quel nostro piccolo mondo così retrivo, così – diciamolo – noioso! Dovevo sentirmi imporre proprio da loro una sorta di sacro rispetto per la mia specie, che io non avevo mai provato! Ma in fondo era giusto così: questi Nuovi cos’avevano di tanto diverso dai Dinosauri dei bei tempi? Sicuri nel loro villaggio con le dighe e le peschiere, avevano tirato fuori anche loro una boria, una presunzione… Mi succedeva di provare verso di loro la stessa insofferenza che avevo avuto per il mio ambiente, e più li sentivo ammirare i Dinosauri e più detestavo i Dinosauri e loro insieme. [RR II, p. 172]

Se in un primo momento il Dinosauro definisce la propria identità a causa della differenza che emerge dal confronto con i Nuovi, adesso, la progressiva assimilazione, che rende simili le due specie, gli fa deplorare sia l’una sia l’altra. Si potrebbe dire che tra i due mondi c’è una somiglianza detestabile; infatti, all’allarme

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di un presunto ritorno dei Dinosauri, nel villaggio dei Nuovi si affida il comando al Brutto, il più forte fra loro, ma proprio in questo momento all’interno del protagonista nasce una riflessione profonda, che mostra la distanza da entrambe le specie:

Cosa dovevo fare? Quella notte non potei chiudere occhio. La voce del sangue mi imponeva di disertare e riunirmi ai miei fratelli; la lealtà verso i Nuovi che mi avevano accolto e ospitato e dato fiducia voleva invece che mi considerassi dalla loro parte; in più sapevo bene che né i Dinosauri né i Nuovi meritavano che si muovesse un dito per loro. […] Insomma, non volevo saperne né degli uni né degli altri; che si scannassero a vicenda!; io me ne infischiavo di tutti loro. Dovevo scappare al più presto, lasciarli cuocere nel loro brodo, non aver più a che fare con queste vecchie storie. [RR II, p. 174]

Tuttavia, allontanandosi dal villaggio, il Brutto si accorge che i Dinosauri di cui si paventava il ritorno non erano altro che un goffo branco di rinoceronti; torna indietro, ma l’accoglienza nel villaggio è molto fredda e inoltre è accusato di non essere un eroe, come si era ritenuto. Da questo momento le storie sui Dinosauri diventano delle barzellette, perché i pescatori sono rimasti delusi sia dai Dinosauri, nient’altro che rinoceronti, sia dal Brutto, nient’altro che un finto eroe.

Se io sopravvivevo era solo perché un Dinosauro continuasse a sentirsi tale in mezzo a questa gentucola che mascherava con banali canzonature la paura da cui era ancora dominata. E che altra scelta poteva presentarsi ai Nuovi se non tra derisione e paura? [RR II, p. 175]

Un’altra scelta, in realtà ci poteva essere, infatti, dal racconto dell’ennesimo sogno di Fior di Felce sui Dinosauri non emerge né derisione né paura, ma pietà: «c’era un Dinosauro, buffo, verde verde, e tutti lo prendevano in giro, gli tiravano la coda. Allora io mi feci avanti, lo protessi, lo portai via, lo accarezzai. E mi accorsi che, ridicolo com’era, era la più triste delle creature, e dai suoi occhi gialli e rossi scorreva un fiume di lagrime». [RR II, p. 175] Il Brutto odia l’immagine della sua specie restituita dal sogno e rivolge alla ragazza alcune frasi sprezzanti che la inducono al pianto. Zahn tenta di difendere la sorella, ma il tutto viene risolto in barzelletta da alcuni pescatori che minimizzano il risentimento dei due “rivali”; a quel punto il Brutto, stanco di quel tipo di atteggiamento, rivela agli abitanti del

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villaggio la sua vera natura: «Sì, lo sono, se volete saperlo, - gridai, - un Dinosauro, proprio così! Se non ne avete mai visti, di Dinosauri, ecco, guardatemi!»; [RR II, p. 176] ma, alle sue parole scoppia una sghignazzata generale, fermata dalle parole di un vecchio, il quale dice di aver visto nel ghiaccio un Dinosauro. Questo racconto incuriosisce tutti gli abitanti del villaggio che corrono a vedere l’imponente scheletro, senza riconoscere l’evidente somiglianza con il Brutto, il quale, nella notte, seppellisce le ossa del suo antenato, affinché la vera natura dei Dinosauri rimanga occulta. Ma da quel giorno le storie sui Dinosauri cambiano nuovamente tono: lo sberleffo lascia il posto alla pietà e alla commiserazione, suscitate dalle pene che i Dinosauri hanno sofferto;

Ogni volta che li sentivo fare del sentimentalismo sui poveri Dinosauri mi veniva da prenderli in giro, da raccontare storie inventate e inverosimili. Tanto ormai la verità sui Dinosauri non sarebbe più stata compresa da nessuno, era un segreto che avrei custodito solo per me. [RR II, p. 178]

Così, proprio quando il destino di dinosauri sembra andare in un’unica direzione, arriva nel villaggio una truppa di girovaghi; tra di loro c’è una giovane che «non aveva nelle vene solo il sangue dei Nuovi: era una mulatta, una mulatta dinosaura», ma non ne aveva consapevolezza. Durante una festa al fiume, il Brutto si nasconde in mezzo ai cespugli con la Mulatta:

Forse volevo solo dare a Fior di Felce la prova di chi io veramente ero, smentire le idee sempre sbagliate che si era fatta di me. […] Oppure, più di tutto erano le forme familiari eppure insolite della Mulatta che mi davano la voglia di un rapporto naturale, diretto, senza pensieri segreti, senza ricordi. [RR II, p. 179]

Il giorno seguente la carovana ripartì e nel villaggio non si parlava più dei Dinosauri, anche Fior di Fiaba aveva smesso di sognarli:

Ho sognato che in una caverna c’era l’unico rimasto di una specie di cui nessuno ricordava il nome, e io andavo a chiederglielo, e c’era buio, e sapevo che era là, e non lo vedevo, e sapevo bene chi era e com’era fatto ma non avrei saputo dirlo, e non capivo se era lui che rispondeva alle mie domande o io alle sue… [RR II, p. 180]

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Per il Brutto è il segno che finalmente era iniziata un’intesa amorosa con Fior di Felce; tuttavia, pieno di consapevolezze maturate dall’incontro con la Mulatta se ne va per sempre da quel villaggio, che l’aveva visto arrivare straniero, ma che, adesso, poteva dirlo suo, insieme a Fior di Felce. Durante il suo cammino vede la truppa della Mulatta: «per non essere visto riparai nel bosco e la spiai. La seguiva un figlioletto appena in grado di correre sulle gambe scodinzolando. Da quanto tempo non vedevo un piccolo Dinosauro così perfetto, così pieno della proprie essenza di dinosauro, e così ignaro di ciò che il nome Dinosauro significa?»; [RR II, p. 181]

immediatamente si rende conto che quel piccolo era suo figlio, ma quando il Brutto gli chiese chi fosse il piccolino gli rispose: «sono un Nuovo!»;

Era proprio quello che attendevo di sentirmi dire, lo carezzai sul capo, gli dissi – Bravo, - e me ne andai. Percorsi valli e pianure. Raggiunsi una stazione, presi il treno, mi confusi con la folla. [RR II, p. 181]

La cosmicomica mostra la difficoltà dei Nuovi a distinguere nel presente le tracce dell’antico: non riconoscono il Brutto e il ritorno dell’antico nelle vesti del nuovo è del tutto inconsapevole, come mostra il piccolo dinosauro.

Inoltre, come si è detto all’inizio di questa sezione, questo racconto spiega anche alcuni argomenti di natura letteraria. In più di un luogo si fa riferimento alle favole, ma la rievocazione di questi antichi racconti sembra avvenga nel tempo e nello spazio delle loro ataviche origini; si tratta di un villaggio di pescatori, che la sera, intorno al fuoco, ha l’abitudine di raccontarsi le storie:

Erano storie terrificanti. Gli ascoltatori, pallidi, erompendo ogni tanto con grida di spavento, pendevano dalle labbra di chi raccontava, il quale, a sua volta, tradiva nella voce un’emozione non minore. Presto mi fu chiaro che quelle storie erano già note a tutti (nonostante costituissero un repertorio assai copioso) ma a sentirle lo spavento si rinnovava ogni volta. [RR II, p. 167]

Come Calvino ribadisce in più luoghi della sua produzione, la fiaba per lui è il genere più adatto alla sua idea di letteratura; tuttavia l’attenzione che rivolge al genere non è esclusivamente metodologica, ma si rifà anche ai contenuti, perché le

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fiabe mostrano il catalogo dei destini umani: infatti, leggendole e ascoltandole, troviamo insieme alle altre anche la nostra storia:

le storie che di noi raccontavano i Nuovi erano così lontane dalla mia esperienza che avrebbero dovuto lasciarmi indifferente, come se parlassero di estranei, di sconosciuti. Eppure ascoltandole mi accorgevo che non avevo mai pensato a come noi eravamo apparsi agli altri, e che tra molte fandonie quei racconti, in qualche particolare e dal loro determinato punto di vista, coglievano nel vero. [RR II, pp. 167-168]

L’autore, inoltre, attraverso Qfwfq mostra come queste fiabe siano cambiate nel tempo: da leggende terrificanti, a mitiche idealizzazioni, per arrivare a considerarle ridicole barzellette; ma, alla fine del racconto, il Brutto acquisisce una fondamentale consapevolezza, la quale è ciò che rimane di queste storie:

Prima, avevo creduto che lo scomparire fosse stato per i miei fratelli la magnanima accettazione d’una sconfitta; ora sapevo che i Dinosauri quanto più scompaiono tanto più estendono il loro dominio, e su foreste ben più sterminate di quelle che coprono i continenti: nell’intrico dei pensieri di chi resta. Dalla penombra delle paure e dei dubbi di generazioni ormai ignare, continuavano a protendere i loro colli, a sollevare le loro zampe artigliate, e quando l’ultima ombra della loro immagine s’era cancellata, il loro nome continuava a sovrapporsi a tutti i significati, a perpetuare la loro presenza nei rapporti tra gli esseri viventi. Adesso, cancellato anche il nome, li aspettava il diventare una cosa sola con gli stampi muti e anonimi del pensiero, attraverso i quali prendono forma e sostanza le cose pensate: dai Nuovi, e da coloro che sarebbero venuti dopo i Nuovi, e da quelli che verranno dopo ancora. [RR II, p. 180]

Sebbene in questa fiaba s’incontrino due mondi diversi, le differenze che emergono sono solo apparenti: non c’è alcuna difficoltà di comunicazione, il Dinosauro e i nuovi parlano la stessa lingua. Questo dato è piuttosto spiazzante, non tanto perché il Dinosauro parla, ma piuttosto perché, pur tra molte differenze, la comunicazione diventa terreno di uguaglianza; le diversità, anche fra i Nuovi, sono tali da assimilare qualsiasi diversità e l’avversione nei confronti del Brutto sono giocate su pregiudizi atavici, dei quali Calvino tenta di far emergere tutta l’infondata consistenza e l’insensatezza.

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La fiaba è rievocata anche nelle strutture: la ripetizione ternaria di alcuni elementi, (come i tre incontri del Brutto con i nuovi prima di accorgersi che non lo avrebbero mai riconosciuto); il combattimento che stabilisce la superiorità di un membro del villaggio, definito eroe in un primo momento, ma falsoeroe quando la situazione si complica; l’importanza del sogno, che ogni volta anticipa sia la percezione che il Dinosauro ha di sé e della sua gente, sia il nuovo tono che assumono le favole raccontate intorno al fuoco; la presenza dell’amore, che come spiega Calvino nell’Introduzione alle Fiabe italiane, è elemento distintivo dei racconti meravigliosi italiani; lo scorrere rapido da una situazione all’altra, specialmente verso il finale, che è una delle peculiarità stilistiche della fiaba più apprezzate da Calvino.

Tuttavia ci sono anche elementi che, allontanandosi da questi antichi racconti, li punteggiano di implicazioni moderne. È il caso dell’introspezione psicologica: non si tratta di un profondo scavo interiore del personaggio, ma semplicemente di una lotta interna al Brutto, nel momento in cui deve mostrare di essere un eroe. Bettheleim spiega che l’eroe della fiaba è un personaggio totalmente positivo, sa che cosa deve fare senza pensarci troppo, per favorire l’identificazione del bambino e per guidare le sue scelte morali; ma, nella cosmicomica in questione, il Brutto è fortemente combattuto, ciò che deve fare non gli appare né chiaro né univoco, infatti alla fine, deciderà di fuggire e sarà accusato di essere un falsoeroe.

Scienza, mito e fiaba

Ognuno dei suoi racconti sembra «fare il verso d’un ‘mito delle origini’»: l’intera produzione di Calvino esplora in qualche modo il mito, la sua natura e potenzialità; infatti, durante gli anni Cinquanta, con il lavoro sulle fiabe popolari italiane, l’autore familiarizza con le teorie di Lévi-Strauss, di Propp e con gli esperimenti letterari di Pavese sui miti classici. In alcuni racconti più che in altri, i miti subiscono un rovesciamento bachtiniano, che non deve essere interpretato come rovesciamento ironico, perché riflette l’intrinseca natura del mito: «il mito come

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genere letterario è caratterizzato dal suo inesauribile gioco di combinazioni e contraddizioni».43

Nelle Cosmicomiche sono messi l’uno a fianco all’altro due tipi di mito: il mito greco (in Senza colori e Il cielo di pietra ci sono chiari riferimenti al mito di Orfeo e Euridice) e il mito moderno della scienza; Calvino mette a fuoco quest’idea nel 1963, dopo aver ascoltato una dissertazione di Giorgio de Santillana intitolata Fato

moderno e fato antico:

Ascoltando la conferenza del 1963, ne ebbi come la rivelazione d’un nodo d’idee che forse ronzavano già confusamente nella mia testa ma che mi era difficile esprimere.44

Queste idee che egli aveva in mente potevano essergli venute dall’influenza di Pavese, perché, come ricorda Calvino sul Corriere della sera, nella rubrica Le

osservazioni del signor Palomar, anche il collega si era lasciato affascinare dalle

moltissime potenzialità del mito:

il signor Palomar ricorda un poeta da lui conosciuto in gioventù e poi morto suicida, che gli raccontava come la sua passione per la mitologia fosse nata da quella che l’astronomia, dai nomi delle stelle che aveva imparato a riconoscere da ragazzo. A ogni secolo e a ogni rivoluzione del pensiero sono la scienza e la filosofia che rimodellano la dimensione mitica della immaginazione, cioè il fondamentale rapporto tra gli uomini e le cose.45

L’opera di Santillana prova che i più vecchi miti dell’umanità derivano dalle osservazioni del cielo e Calvino, con le sue Cosmicomiche, non fa altro che sostituire al cielo dei nostri antenati i miti della scienza moderna.

Nonostante le distanze epistemiche, tra teorie cosmologiche moderne e forme del pensare antico c’è uno stretto legame, perché la cosmologia moderna si richiama a concetti che sfuggono alla visualità e per questo aprono uno spazio alla letteratura;

43 HUGEN 2004, p. 152. 44 CALVINO 1995. 45 CALVINO 1991.

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dall’universo inimmaginabile scaturiscono storie che evocano suggestioni elementari come i miti cosmogonici arcaici.

Il narratore della tribù mette insieme frasi, immagini: il figlio minore si perde nel bosco, vede una luce lontana, cammina cammina, la fiaba si snoda di frase in frase, dove tende? Al punto in cui qualcosa di non ancora detto, qualcosa di solo oscuramente presentito si rivela e ci azzanna e sbrana come il morso di una strega antropofaga. Nella foresta delle favole passa come un fremito di vento la vibrazione del mito.46

Per Calvino il mito è la parte nascosta di ogni storia, il quale, oltre che di parole, vive di silenzio. Ogni «vuoto di linguaggio» è traccia di un tabù, di qualcosa che va taciuto, di una proibizione; tuttavia il mito «aspira le parole nel suo vortice» e dà forma alla fiaba, perché la letteratura scavalca le barriere: dice ciò che non si può dire e «inventa e re-inventa parole e storie che erano state rimosse dalla memoria collettiva e individuale». Il mito, infatti, agisce sulle fiabe come una forza ripetitiva.

La letteratura è sì gioco combinatorio che segue le possibilità implicite nel proprio materiale, indipendentemente dalla personalità del poeta, ma è gioco che a un certo punto si trova investito d’un significato inatteso, un significato non oggettivo di quel livello linguistico sul quale ci stavamo muovendo, ma slittato da un altro piano, tale da mettere in gioco qualcosa che su un altro piano sta a cuore all’autore e alla società a cui egli appartiene. […] <ma> mentre finora è stato detto generalmente che la fiaba, il racconto profano, è qualcosa che viene dopo il mito, una sua corruzione o volgarizzazione o laicizzazione, oppure si è detto che fiaba e mito coesistono e si contrappongono come funzioni diverse di una stessa cultura, la logica del mio discorso […] porta alla conclusione che la fabulazione precede la mitopoiesi: il valore mitico è qualcosa che si finisce per incontrare solo continuando ostinatamente a giocare con le funzioni narrative.47

Il linguaggio nelle Cosmicomiche

Il linguaggio impiegato da Calvino mescola il lessico scientifico (a partire dai nomi dei personaggi che sembrano delle formule matematiche) alla comunicazione colloquiale anti-letteraria e il risultato non è difficile e impervio come in Sanguineti,

46 Ivi. p. 214. 47 Ivi. pp. 217-218.

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ma comicamente accessibile, perché impara dalla neoavanguardia, ma la supera; mette in comunicazione realtà che sembrano inconciliabili, pur rimanendo in un orizzonte letterario, che non è più quello della rappresentazione mimetica, ma piuttosto, crede nel primato del linguaggio letterario, che rende immaginabile ciò che non lo era fino a quel momento. Con le Cosmicomiche si intravede il mutamento dei modelli; se in passato Calvino ha guardato soprattutto ad Hamingway, Conrad, Nievo, oppure a Stevenson, Stendhal, Voltaire, ora gli autori di riferimento sono Borges o Queneau e fra gli italiani Galileo, Leopardi e Ariosto:

Chi ama la luna davvero non si contenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più. Il più grande scrittore della letteratura italiana d’ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa a un grado di precisione ed evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiose. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua di Leopardi, gran poeta lunare…48

Ma questo primato attribuito a Galileo suscita le polemiche di Cassola, il quale obietta che il più grande scrittore italiano di tutti i tempi è senz’altro Dante; tuttavia, la questione per Calvino è un’altra, perché ciò che ammira in Galileo va rintracciato nella precisione del linguaggio, «come immaginazione scientifico-poetica, come costruzione di congetture»49. Cassola, però, insiste dicendo che Galileo non è uno scrittore, ma uno scienziato, ma Calvino spiega

Questo argomento mi pare facilmente smontabile: allo stesso modo anche Dante, in un diverso orizzonte culturale, faceva opera enciclopedica e cosmologica, anche Dante cercava attraverso la parola letteraria di costruire un’immagine dell’universo. Questa è una vocazione profonda della letteratura italiana che passa da Dante a Galileo: l’opera letteraria come mappa del mondo e dello scibile, lo scrivere mosso da una spinta conoscitiva che è ora teologica ora speculativa ora stregonesca ora enciclopedica ora di filosofia naturale ora di osservazione trasfigurante e visionaria. […] Questa vena negli ultimi secoli è diventata più sporadica, e da allora certo la letteratura italiana ha visto diminuire la sua importanza: oggi forse è venuto il momento di riprenderla. […] in certi momenti ho la sensazione che la via che sto seguendo mi riporti nel vero alveo dimenticato della tradizione italiana.50

48 Ivi. pp. 223-224. 49 Ivi. p. 228. 50 Ivi. pp. 228-229.

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Leopardi nello Zibaldone ammira la prosa di Galileo, perché unisce precisione ed eleganza; lo scienziato usa il linguaggio non come strumento neutro, ma con coscienza letteraria, «con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica»,51 perché, lo sguardo sul mondo di Galileo scienziato, si nutre di cultura letteraria.

I racconti delle Cosmicomiche non hanno alcun intento mimetico, ma esistono in quanto «creazioni linguistiche».52 La presenza della quotidianità funziona solo da «termine di paragone ironico», perché è un insufficiente «segno di un limite antropomorfo che la scrittura non può ignorare, ma che cerca sempre di valicare»53:

le Cosmicomiche mostrano dimensioni inimmaginabili, la cui esistenza è solo linguistica, infatti sono ispirate dalle recenti teorie di semiotica, perciò le immagini del mondo abbozzate da Calvino rappresentano differenti illustrazioni del linguaggio. Margaret Hagen, analizzando la figura femminile in due cosmicomiche, Senza colori e Il cielo di pietra, ritiene che quest’ultima, dal momento che si nasconde e si ritrae di fronte alla possibilità di unione, può essere interpretata come metafora del linguaggio-segno, poiché, come Ayl e Rdix, anch’esso volta le spalle e sfugge, lasciando solo il significante.

Sono Saussure e dualità del linguaggio come segno l’ispirazione basilare di

Senza colori, mentre Il cielo di pietra, scritto quattro anni dopo, pone l’accento

sul numero infinito di strati semantici del linguaggio, che ostruisce ogni accesso ad un nucleo.54

Nel Cielo di pietra, Qfwfq si sforza di comprendere l’essenza del linguaggio, un linguaggio composto da troppi livelli di significato: «un mondo che porta su di sé una pesante crosta di discorsi», come scrive Calvino in uno dei suoi ultimi saggi intitolato Mondo scritto e mondo non scritto;

51 Ivi. pp. 227-228.

52 DONNARUMMA 2014, p. 36. 53 Ibid.

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Solo raggiunto il centro potevamo dire nostro tutto il pianeta. Eravamo i capostipiti della vita terrestre e per questo dovevamo cominciare a rendere la Terra vivente dal suo nucleo, irradiando via via la nostra condizione a tutto il globo. Alla vita terrestre, tendevamo, cioè della Terra e nella Terra; non a ciò che spunta dalla superficie e voi credete di poter chiamare vita terrestre mentre è solo una muffa che dilata le sue macchie sulla scorza rugosa della mela.55

Qfwfq dice che il nucleo della Terra è una vecchia mela rugosa «ed è sulla superficie di questa disgustosa mela, lungo la linea di confine esterna e inessenziale, che il nostro linguaggio esiste».56

L’antropomorfismo di Qfwfq

Quando a Calvino viene fatto notare che «dai suoi ultimi libri risulta che le simpatie vanno indirizzate più alla cellula che all’uomo, più al calcolo matematico che alle ragioni dei sentimenti, all’impulso mentale che all’idea», l’autore risponde: «Ma sarà proprio così?», perché ritiene che ai suoi racconti cosmicomici si dovrebbero, probabilmente, fare le critiche opposte, «cioè di far parlare cellule come se fossero uomini, di fingere figure e linguaggi umani nel vuoto delle origini, cioè di giocare il vecchio gioco dell’antropomorfismo». 57 Nonostante le critiche

all’antropomorfismo di Robbe-Grillet, Calvino dice di averlo accettato a pieno, in quanto procedimento mitico, prima che letterario, collegato all’animismo, con il quale l’uomo primitivo forniva spiegazioni del mondo.

Non che il discorso di Robbe-Grillet non mi avesse convinto: ma è successo che poi scrivendo mi è venuto da seguire la via opposta, con dei racconti che sono una specie di delirio dell’antropomorfismo, dell’impossibilità di pensare il mondo se non attraverso figure umane, o più particolarmente smorfie umane, borbottii umani. […] Quello che mi interessa è il mosaico in cui l’uomo si trova incastrato, il gioco dei rapporti, la figura da scoprire tra gli arabeschi del tappeto. Tanto so già che dall’uomo non scappo di sicuro, anche se non mi sforzo di trasudare umani da tutti i pori: le storie che scrivo si costruiscono all’interno d’un cervello umano, attraverso una combinazione di segni elaborati dalle culture umane che mi hanno preceduto.58

55 CALVINO 2016. 56 HUGEN 2004, p. 159. 57 CALVINO 2017, p. 229. 58 Ivi. pp. 229-230.

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