• Non ci sono risultati.

Capitolo I – Vite d’autore 1. Confessioni di una mente inquieta

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Capitolo I – Vite d’autore 1. Confessioni di una mente inquieta"

Copied!
12
0
0

Testo completo

(1)

Capitolo I – Vite d’autore

1. Confessioni di una mente inquieta

Dans l’abime des maux où je suis submergé, je sens les atteintes des coups qui me sont portés; j’en aperçois l’instrument immédiat; mais je ne puis voir ni la main qui les dirige, ni les moyens

qu’elle met en œuvre.1

Queste parole, scritte da un Rousseau brancolante nelle tenebre dei propri sospetti patologici, si attagliano perfettamente all’immagine del filosofo ginevrino trasmessaci dalla psichiatria ottocentesca. Il suo stile di vita austero, i successi editoriali, le idee da lui professate gli hanno attirato dapprima l’invidia dei suoi amici, poi l’odio dei Gesuiti. Tanto si è estesa infine la macchinazione ai suoi danni, che è diventato impossibile comprendere chi ne muova davvero i fili. I suoi nemici sono dovunque. Ecco il perché di un’opera come le Confessioni. Raccontarsi in prima persona, senza omettere niente, come antidoto agli intrighi di chi si ostina ad infangare il suo nome. Un modo per preservare il proprio ricordo almeno presso i posteri.

Forse nemmeno lui poteva immaginare l’impatto che tale opera era destinata ad avere. Per la prima volta un grande personaggio, noto in tutta Europa, metteva a nudo senza remore le proprie debolezze, rendendo i propri lettori partecipi delle vicende più scabrose della propria esistenza. Per questo non è forse azzardato asserire che trova qui sfogo per la prima volta la curiosità dell’uomo moderno2, il gusto borghese per il retroscena piccante, per i dettagli minuti tratti dalla vita quotidiana dei grandi personaggi. Le narrazioni agiografiche ed edificanti sino ad allora in voga erano destinate a lasciare il posto a racconti biografici di ben altra natura.

Consapevole della radicale novità della propria impresa, Rousseau si impegna a conferire all’incedere del proprio testo un’adeguata cadenza drammatica, quasi fatale. Ed è così sin dall’inizio, con la sua venuta al mondo che costò la vita alla madre. Sui romanzi da lei lasciati il piccolo Jean-Jacques imparerà a leggere, durante interminabili notti di lettura in compagnia del padre Isaac3. Riguardo a quest’ultimo, i biografi del figlio scorgeranno in tale episodio il primo indizio della sua scarsa propensione al ruolo di educatore4. Ad esso si richiama anche

1 J.-J. Rousseau, Les Confessions, Paris, Tallandier, 1922, tome troisième, p. 157. 2

A tal proposito, si veda M. D. Grmek, Historie des recherches sur les relations entre le génie et la

maladie, in <<Revue d’histoire des sciences et de leur applications>>, XV (1962), pp. 51-68.

3 Cfr. J.-J. Rousseau, op. cit., tome premier, pp. 3-5. 4

Di particolare importanza a tale riguardo i seguenti studi: L. Dufour-Vernes, Recherches sur J.-J.

Rousseau et sa parenté, Genève, Georg, 1878 ; E. Ritter, La famille et la jeunesse de J.-J. Rousseau, Paris, Hachette, 1896. Dufour-Vernes ci racconta di un Isaac Rousseau che, dopo la

morte della moglie, palesò un animo egoista, squilibrato e del tutto inadatto all’educazione dei figli. Oltre alle lunghe veglie notturne dedicate a letture ritenute poco adatte per un bambino di quell’età, l’autore ricorda come, trasferitosi di lì a poco a Nyon, Isaac non esitò a lasciare il figlio Jean-Jacques in custodia al cognato. Questo modo di scaricarsi in modo repentino dalle proprie

(2)

Ferdinand Brunetière5, che sulla <<Revue des deux mondes>> sottolinea come l’esasperata sensibilità di Rousseau, temprata da tali letture precoci, sarà al contempo il segreto del suo genio sublime e la causa della sua follia.

Il preponderare dell’immaginazione nella sua psiche, del resto, non poteva che annullarne la volontà, azzerandone la capacità di dominare i propri istinti. Questo ci rimanda anzitutto ad un altro dei più celebri episodi delle Confessioni, quello del nastro rubato. Poco più che fanciullo, Jean-Jacques non solo si rese colpevole di tale furto, ma fece ricadere la colpa sulla povera Marion, giovane servitrice che lavorava in cucina6. Emmanuel Regis7 vedrà in tale evento un chiaro esempio della cleptomania cui Rousseau andò soggetto in tenera età.

L’ambito in cui però meglio si palesa il suo vivere in balia delle proprie impulsioni è la dromomania. All’irresistibile esigenza di viaggiare di questo inquieto pellegrino lo psichiatra francese dedicherà un’interessante analisi. L’impulsività migratoria, spiega Regis, può essere ereditaria, e in Rousseau lo era al massimo grado. La si può riscontrare difatti nel padre e nel fratello maggiore, nonché nei rami collaterali della famiglia. Se le continue fughe di Jean-Jacques sono in larga parte riconducibili a questa impulsione morbosa, altre traggono origine dalla natura delirante assunta nel tempo dai suoi processi ideativi. Non si tratta, secondo Regis, di un vero e proprio delirio di persecuzione. Siamo piuttosto dinanzi ad un “mélancolique persécuté”. Alla cospirazione di cui si crede vittima

responsabilità paterne sarà del resto imitato sin troppo bene dal figlio in futuro. Ritter, rifacendosi a documenti rinvenuti negli archivi ginevrini, racconta di un paio di risse in cui il padre di Rousseau fu coinvolto, rivelando un carattere propenso all’ira. I documenti raccolti da questi studiosi erano ben noti agli psichiatri dell’epoca, che non mancarono di sottolineare la rilevanza di tali carenze educative per lo sviluppo della personalità di Jean-Jacques.

5

Cfr. Ferdinand Brunetière, La folie de Jean-Jacques Rousseau, in <<Revue des deux mondes>>, LXII (1890), pp. 682-699. Recensione del saggio di Paul Julius Möbius dedicato al filosofo ginevrino, contiene nella parte finale un esplicito richiamo alle tesi lombrosiane. In Rousseau, argomenta il celebre critico francese, la peculiare natura del suo genio era solidale con quell’esaltazione interiore che doveva un giorno condurlo alla follia. Questo però non avalla a suo dire le tesi dell’alienista veronese, poiché non sempre il genio coincide coi parossismi dell’eccitazione morbosa.

6

Cfr. J.-J. Rousseau, op. cit., tome premier, pp. 84-87.

7 Cfr. E. Regis, Etude médicale sur J.-J. Rousseau, in <<La Chronique médicale>>, VII (1900), pp. 65-76, 173-177, 194-206, 353-371, 391-399. Cfr. inoltre E. Regis, La dromomanie de Jean-Jacques

Rousseau, Paris, Société française d’imprimerie et de librairie, Paris, 1910. La diagnosi

complessiva cui Regis perviene nel primo articolo è quella di nevrastenia arteriosclerotica. Gli atti impulsivi di Rousseau, nonché il suo stesso delirio, rimandano allo stato di congenita debolezza del suo sistema nervoso. All’iperemotività nevrastenica rimandano del resto anche l’onanismo, l’impotenza e l’eiaculazione precoce del filosofo ginevrino. Da notare come la sensibilità superiore alla media, segno di distinzione per Rousseau e per gli innumerevoli poeti ed artisti che a lui si richiameranno, diverrà per gli psichiatri uno dei sintomi più spesso citati nel porre in relazione genio e follia. Il fatto stesso che già Brunetière (che psichiatra non era) avesse fatto di tale esasperata sensibilità causa precipua delle vette e degli abissi cui il filosofo ginevrino pervenne, dimostra quanto tale stereotipo culturale fosse penetrato a fondo nella cultura del tempo. Vengono in mente a tal proposito le parole di Roy Porter: << I Romantici volevano far sapere al mondo che erano pazzi, ma non sapevano come il mondo si sarebbe vendicato >> ( Cfr. R. Porter, Storia sociale della follia, Milano, Garzanti, 1991).

(3)

Rousseau non reagisce difatti con propositi vendicativi. E’ l’elemento melanconico, fatto di mesta rassegnazione, a predominare. La fuga è l’unico mezzo che ritiene di avere per sottrarsi ai colpi dei suoi nemici. Se tale diagnosi non trovava tutti concordi, l’opinione di tutti gli psichiatri dell’epoca convergeva nel rilevare il preservarsi sia pur parziale delle capacità raziocinanti di Rousseau. Egli, come sottolinea anche Regis, non sarebbe del tutto succube della propria follia. Era innegabile che in diverse occasioni fu realmente oggetto di veri e propri atti di persecuzione (rimane celebre ad esempio la fuga da Motiers dell’8 settembre 1765, dopo un attacco notturno della popolazione contro il suo domicilio). Per di più, egli palesò a più riprese la capacità di assumere un approccio critico nei confronti dei propri sospetti, di cui diverse volte ammise a posteriori l’infondatezza.

La diagnosi di Regis sarà ripresa da Augustin Cabanès8, che non mancherà però di accentuare i lati più scabrosi della vicenda9. Medico capace di mescolare ad una profonda erudizione storica e letteraria un marcato gusto per l’aneddotica, egli fu una figura davvero emblematica. Espressione quanto mai vivida di un altro tempo e di un’altra cultura, il suo lavoro sull’autore della Nouvelle Héloise rappresenta, relativamente a tale vicenda, il pieno giungere a maturazione del gusto di un’epoca (destinata del resto di lì a poco a tramontare). Il suo saggio esaspera i lati oscuri della figura di Rousseau. Non a caso, sin dall’inizio critica il modo in cui si era soliti sin lì dare più importanza alla mancanza di educazione primaria quale fattore determinante per lo sviluppo della follia di Jean-Jacques. A tal proposito, l’adozione di un registro più “scientifico” coincide in lui con l’incentrare maggiormente l’attenzione sull’origine congenita delle aberrazioni psichiche e comportamentali analizzate. La deformazione della vescica da cui a suo dire Rousseau era affetto viene descritta quale causa sia della sua sensibilità eccessiva che del precoce manifestarsi delle sue perversioni sessuali. Il rimando qui è ad alcuni degli episodi più piccanti delle Confessioni. Le percosse di Mademoiselle de Lambercier dischiusero per Jean-Jacques la scoperta in età puerile del voluttuoso piacere frammisto al dolore10. Si palesò qui l’indole masochistica di Rousseau, alla quale già Regis aveva ricollegato l’esibizionismo a cui di lì a pochi anni il filosofo ginevrino disse di essersi abbandonato a più riprese11.

Nel seguito della sua trattazione (sempre più incline ai toni della letteratura scandalistica dell’epoca) Cabanès prende in esame la tesi secondo cui l’abbandono dei figli confessato da Rousseau non era altro che una farsa. Si

8

Il fatto in sé non può di certo stupire, visto che Cabanès era fondatore e direttore della rivista che aveva pubblicato il primo dei due lavori di Regis su Rousseau.

9 Cfr. A. Cabanès, Le cas pathologique de J.-J. Rousseau, in Le cabinet secret de l’histoire.

Troisième série, Paris, Michel, 1905, pp. 41-158.

10 Cfr. J.-J. Rousseau, op. cit., tome premier, p. 11. 11

(4)

andava difatti vociferando da tempo che si trattasse di una montatura, una messinscena annualmente ripetuta per celare al mondo la propria impotenza. Del resto, si domanda lo stesso Cabanès, perché le gravidanze di Thérèse vengono citate solo nei libri del marito? Com’è che non se ne trova menzione nelle lettere e negli scritti di altri contemporanei, in cui si dà conto spesso di ben più irrilevanti minuzie? Posto poi che tali gravidanze avessero avuto luogo, si poteva esser certi che Jean-Jacques fosse il padre delle creature venute al mondo? Le molteplici e non troppo dissimulate relazioni extraconiugali di Thérèse erano del resto ben note, ci ricorda il medico francese.

E non era forse un’ipotesiperegrina rinvenire proprio in una di esse la cagione del presunto suicidio di Rousseau. Questa almeno la tesi di Alfred Bougeault, che narra l’episodio nel suo studio dedicato all’autore delle Confessioni12. Invitato dal signor de Girardin nella sua residenza campestre ad Ermenonville, Rousseau vi si recò con la moglie per trascorrervi la bella stagione. Qui Thérèse incontrerà un valletto di scuderia cui infine si concederà. Fu la scoperta di tale tradimento ad indurre il marito al suicidio, a quanto pare attuato ingerendo della cicuta. La diceria aveva una lunga tradizione13, a cui Bougeault si richiama, sostenendone la veridicità. In ambito psichiatrico si ha modo di riscontrare per contro un rifiuto pressoché unanime dell’opinione sostenuta da questo celebre storico della letteratura.14.

Il percorso che ho descritto consente di rilevare come intorno alla figura di Rousseau si siano intrecciate in Francia le tesi di importanti esponenti del mondo medico e di quello letterario. Nei saggi e negli articoli passati in rassegna, si assiste ad un reciproco scambio di spunti e metodi esplicativi che mi sembrava giusto mettere in risalto. In un dibattito volto a scivolare sempre più lungo la china del pettegolezzo scandalistico, è interessante poi osservare come la psichiatria da un lato tragga spunto da tale temperie culturale, e dall’altro contribuisca ad accentuare i toni morbosi della vicenda, tanto cari al pubblico.

2. Vittorio Alfieri e la natura epilettica del genio

Tra gli emuli di Rousseau è senz’altro possibile annoverare Vittorio Alfieri. Le sue memorie15, alle quali per molto tempo resterà legata la fama letteraria del loro

12 Cfr. A. Bougeault, Etude sur l’état mental de Jean-Jacques Rousseau et sa mort à Ermenonville,

Paris, Plon, 1883. 13

Stando alla ricostruzione di Bougeault, Corancez all’epoca difese la tesi del suicidio contro Thérèse e de Girardin. Per tale ipotesi si rivelò incline a propendere anche Madame de Stael.

14 Ad esempio, Möbius aveva ipotizzato un arresto cardiaco quale causa della morte di Rousseau.

Regis propenderà invece per un ictus cerebrale, perfettamente in linea con la sua diagnosi di arteriosclerosi.

15

(5)

autore, si richiamano difatti in maniera palese alle Confessioni16. Per questo, recensendo sulla Revue des deux mondes lo studio patografico di Antonini e Cognetti de Martiis17 dedicato allo scrittore astigiano, de Wyzewa si domanda che senso abbia attribuire rilievo scientifico ad un’opera la cui sincerità è palesemente dubbia18. Nella prima parte del saggio, difatti, Antonini indaga la psiche di Alfieri passando in rassegna quanto da lui raccontato nelle sue memorie. Quale dunque la legittimità di una simile operazione? Questo è solo uno dei quesiti suscitato da questa patografia scritta a quattro mani.

Ma, procedendo con ordine, è forse il caso di domandarsi anzitutto: come matura questo progetto editoriale? Mentre il secolo volge alla fine, in Italia imperversa più rovente che mai la polemica scientifica e culturale intorno alla teoria lombrosiana sull’uomo di genio. In tale contesto, centrale è la rilevanza data dall’alienista veronese alle patografie. Questi studi biografici erano volti a rinvenire nella vita e nelle opere degli autori studiati la prova lampante della natura morbosa del loro genio. Dietro questi studi (che avrò modo di illustrare a fondo) si cela sempre la più o meno occulta regia di Lombroso. Essa, nel caso qui in esame, è più palese che mai. Egli venne difatti a sapere che due studiosi gravitanti intorno alla sua scuola (Giuseppe Antonini e Leonardo Cognetti de Martiis per l’appunto) stavano conducendo all’insaputa l’uno dell’altro ricerche sullo stesso autore. A questo punto, provvide lui a coordinare i loro sforzi, facendoli confluire in un unico saggio19. La riuscita di questa iniziativa editoriale lascia alquanto a desiderare, essendo palese la frequente ridondanza delle due parti, in cui inevitabilmente i due autori finiscono per richiamare l’attenzione sui medesimi sintomi.

16 Riguardo a Rousseau, Alfieri narra che un conoscente italiano, durante il suo secondo

soggiorno a Parigi, gli propose di incontrare il celebre Jean-Jacques. L’astigiano, che asserisce di stimare Rousseau più per la purezza e l’integrità del suo carattere che per i suoi libri, si rifiutò. Temeva infatti di non poter tollerare la rinomata scortesia del ginevrino, del quale non si reputava meno integro e puro (Cfr. V. Alfieri, op. cit., pp. 181-182).

17

Cfr. G. Antonini, L. Cognetti de Martiis, Vittorio Alfieri. Studi psicopatologici, Torino, Bocca, 1898.

18

Cfr. T. de Wyzewa, Une biographie psycho-pathologique de Victor Alfieri, in <<Revue des deux mondes>>, LXX (1898), pp. 457-468. Nell’incipit del suo articolo, de Wyzewa fa un simpatico parallelo tra un suo amico poeta e Lombroso. Come il primo non mancava mai di celebrare con una sua ode l’anniversario di qualsivoglia artista o celebrità, così Lombroso aveva un modo tutto suo di rendere omaggio ai grandi uomini. Egli non mancava mai, in occasione di qualsivoglia celebrazione in loro onore, di pubblicare un saggio in cui asseriva esser stato costui un folle. E proseguendo nel parallelo, dice de Wyzewa che come l’amico poeta trovava nei dizionari biografici notizie bastevoli per comporre la sua ode, così lo scienziato italiano rinveniva sempre in essi almeno un paio di aneddoti funzionali alla sua tesi.

19

(6)

Tra quelli indicativi di un significativo squilibrio mentale, Antonini indica l’iperestesia di Alfieri. La sua eccessività sensibilità si manifestò del resto in modo alquanto precoce. Lui stesso racconta che a sette anni, quando l’amata sorella fu spedita in convento, versò fiumi di lacrime. Reazione certo eccessiva, considerando la vicinanza dell’edificio in questione, presso il quale Alfieri si recava quotidianamente a renderle visita. Tenendo conto però del fatto che all’epoca era bambino, conferire un significato patologico all’evento è forse eccessivo. Un altro sintomo su cui Antonini incentra la propria attenzione è il grande amore per i viaggi dimostrato dall’astigiano. Già a dieci anni, quando venne mandato a Torino per frequentare le scuole inferiori dell’Accademia, provò lungo il tragitto in carrozza una grande euforia, che accompagnerà anche il suo giovanile peregrinare in lungo e in largo per l’Europa, e non lo abbandonerà per tutta la vita20. Tornando a quanto giustamente rilevato da de Wyzewa, risulta palese che Alfieri infarcisca la propria

autobiografia di episodi volti a

testimoniare la natura “sensibile” del suo animo. Anche l’enfasi posta sul racconto dei propri viaggi, del resto, altro non è che il tentativo di conformare quanto più possibile il racconto della propria vita al modello rousseauiano. Perché allora Antonini gli attribuisce tanto rilievo? Perché gli consente di fare la stessa operazione sul piano psichiatrico. Il bimbo capriccioso dedito in gioventù a lunghi viaggi per distrarsi dagli ozi della sua vita nobiliare diviene un nuovo Rousseau. Egli finisce per aderire a quella che è, per quel che riguarda il rapporto tra genio e follia, una vera e propria figura archetipica. Prima di passare ai sintomi di squilibrio evidenziati nella seconda parte dell’opera, è interessante osservare come in appendice al proprio studio Antonini inserisca un esame fisiognomico condotto sul celebre ritratto di Alfieri realizzato da Fabre ed esposto agli Uffizi (vedi figura 1)21. La testa di Alfieri viene descritta come destante nel complesso una gradevole impressione. In essa la rilevanza anatomica della fronte non va accentuata, apparendo più grande a causa della caduta dei capelli. Le bozze frontali molto pronunciate le conferiscono in compenso una conformazione leggermente idrocefalica. L’occhio si avvicinerebbe per grandezza alla perfezione ideale, se non vi fosse l’esagerata

20 A tal proposito ha ragione de Wyzewa a sottolineare il modo in cui il “tour d’Europe”, allora già

in voga tra i giovani di ricca famiglia, viene arbitrariamente tramutato da Antonini in un chiaro sintomo di “mania ambulatoria”.

21

Cfr. G. Antonini, op. cit., pp. 81-86.

(7)

sporgenza del bulbo. L’ossatura della parte inferiore del volto è invece troppo robusta: il mascellare accenna ad essere troppo sviluppato, facendo assumere alla fisionomia un aspetto passionalmente eccessivo. La bocca, contratta in una smorfia che ricorda l’atteggiamento sprezzante tipico dei paranoici, suscita l’impressione di una sorta di ostinazione collerica. Più in generale, risalta la mancanza in Alfieri del tipo regionale: i suoi lineamenti non rimandano né al tipo piemontese né più in generale a quello italiano, quanto piuttosto a quello anglosassone. Non a caso, quest’ultima è una delle anomalie più di frequente associate al genio nelle opere lombrosiane. La disamina di Antonini conferma una volta di più il rapporto privilegiato di Lombroso e della sua scuola con il disegno e la pittura. Esse, come giustamente sottolineato da Villa22, vengono preferite alla fotografia quali fonti di “prove” per le tesi di volta in volta discusse. Oltre a ripetere in parte sintomi e disturbi già rilevati da Antonini, Cognetti de Martiis aggiunge, nell’esame psichiatrico di Alfieri da lui condotto, alcuni nuovi dettagli patologici. Dall’elenco delle malattie dello scrittore astigiano emerge una diagnosi generica di artritismo. Manifestazioni principali di tale diatesi furono il rachitismo in età giovanile e la gotta in età matura23. Si aggiungono a tali disturbi la senescenza precoce ed il nervosismo. E tanto per non far mancare anche qui il richiamo ad una altro dei principali topoi lombrosiani, si sottolinea l’estrema sensibilità meteorica di Alfieri, la cui creatività veniva stimolata dal clima caldo. La sua aura di eccentricità è poi accresciuta dai diversi aneddoti riportati, vive testimonianze delle idee deliranti che imperversavano nella sua psiche. Celebre quello secondo il quale egli era solito sottomettere il proprio umore a quello del suo cavallo preferito, che si faceva venire incontro ogni mattino e che pasceva di propria mano: se l’animale nitriva o corrispondeva alle sue carezze con un qualche segno di gioia il padrone si irradiava di felicità, ma nel caso in cui il cavallo fosse rimasto insensibile alle sue attenzioni egli finiva per abbattersi e trascorreva una triste giornata. Da ultimo, è interessante rilevare il riferimento alla presunta sessualità morbosa di Alfieri. Amante tempestoso, fu alquanto precoce nelle cose d’amore. Inoltre, la sua infatuazione infantile per alcuni fraticelli novizi di un convento prossimo alla dimora natia, suscita in Cognetti dei sospetti. L’ipotetica natura deviata dei suoi istinti sembrerebbe del resto trovare

22

Cfr. R. Villa, Un album riservato, in S. Turzio, R. Villa, A. Violi, Locus solus. Lombroso e la

fotografia, Milano, Mondadori, 2005. Secondo Lombroso i pittori, essendo la loro arte sintetica,

hanno la capacità di far coincidere nel volto raffigurato tutte le stimmate che gli conferiscono un valore esemplare. Nell’ottica lombrosiana, del resto, arte e scienza sono situate in un rapporto continuativo che rinforza la preferenza dall’alienista veronese accordata alla pittura. Quest’ultima, difatti, si sarebbe trovata spesso ad anticipare le scoperte cui poi l’antropologia criminale avrebbe conferito dignità scientifica (a tal proposito cfr. E. Ferri, I delinquenti nell’arte, Genova, Libreria Moderna, 1901).

23 Al riguardo, hanno ragione Porter e Rousseau a sottolineare la scarsa attenzione solitamente

prestata dagli storici alle malattie croniche. Esse invece, proprio in virtù della loro compatibilità con la vita, hanno un rilievo biografico maggiore rispetto alle patologie mortali. Cfr. R. Porter, G. S. Rousseau, Gout : the Patrician Malady, New Haven, Yale University Press, 1998.

(8)

conferma nella preferenza costantemente accordata a domestici e segretari celibi e di giovane età.

I rilievi sintomatici sin qui richiamati non sono però che il corredo di quella che, in ambo le parti del saggio, è la diagnosi fondamentale: l’epilessia. Questo il tema centrale intorno a cui gravitano le osservazioni e le analisi dei due autori. Nell’ottica di Lombroso, del resto, lo stesso estro geniale è giunto in quegli anni ad essere considerato un sintomo epilettoide, una manifestazione “larvata” (priva cioè di una componente coreica) del male comiziale. Non a caso a ciò si richiama esplicitamente Antonini. Rifacendosi a quanto narrato dallo stesso Alfieri nelle sue memorie, descrive lo stato di trasporto, quasi di incoscienza, in cui era solito comporre le proprie tragedie. Il riferimento è in particolare ad una di esse, Cleopatra24. Altrettanto importante è il richiamo all’estrema impulsività dell’astigiano. La celebre aggressione al servo Elia, reo di aver tirato troppo una ciocca mentre ravviava i capelli del suo signore, è da Antonini descritto come un vero e proprio “equivalente epilettico”. Episodi di analoga natura sono ovviamente riportati anche da Cognetti de Martiis25.

A questo punto sono necessarie alcune considerazioni generali. Alla luce anche della patografia su Alfieri, quali sono nell’ottica lombrosiana i rapporti tra genio ed epilessia, e più in generale tra genio e pazzia? Nella prefazione all’opera, l’alienista veronese assume una presa di posizione alquanto netta. Per quanto non sia appurato che la malattia rappresenti una condizione necessaria per il manifestarsi del genio, quest’ultimo può da essa trarre notevole giovamento. Come avrà poi modo di precisare anche in Genio e degenerazione26, Lombroso sostiene qui la tesi secondo cui la pazzia favorirebbe il manifestarsi del genio, pur non rappresentandone una vera e propria causa. In tale ottica, a detta di Antonini, lo stesso Alfieri trasse vantaggio dall’accesso epilettico cui a quanto pare andò soggetto nel 1773. Esso causò difatti una nuova polarizzazione delle cellule corticali, dando all’astigiano la possibilità di esaurire l’alta tensione nervosa in modo regolare con lo studio e il lavoro psichico27. Come si concilia quest’immagine del lavoro intellettuale con l’estro geniale concepito come

24

Scriverà Rodolfo Renier (non senza ragione) che bisogna esser preda di un vero e proprio “ipnotismo del sistema” per ravvisare un’impulsione geniale nella rapida stesura alfieriana della

Cleopatra. Si tratta infatti di un componimento alquanto mediocre, sconfessato poi in seguito dal

suo stesso autore (Cfr. R. Renier Rassegna Bibliografica, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», XXXIV (1899), pp. 390-402).

25 Narra Cognetti che a Firenze Alfieri gettò a terra con uno spintone un fanciullo, che mentre conduceva il proprio asino l’aveva urtato passando. Lo scrittore infierì poi sul poveretto mentre era a terra, sputandogli addosso gridando <<Fango! Fango! Fango!>>.

26

Cfr. C. Lombroso, Genio e degenerazione: nuovi studi e nuove battaglie. Seconda edizione con

molte aggiunte, Milano, Sandron, 1907, pp. 297-299.

27 Cfr. G. Antonini, op. cit., p. 49. Interessante come nel lavoro di Antonini le tesi lombrosiane riecheggino in tutta la loro controversa complessità. I medesimi rilievi critici che ci accingiamo a muovere a Lombroso potrebbero essere mossi nei confronti della disamina della figura di Alfieri compiuta dal suo allievo.

(9)

fenomeno epilettoide? E più in generale come armonizzare in Lombroso la compresenza di due tesi ben distinte? Come si può asserire che la pazzia favorisce il genio, ed equiparare al contempo l’estrinsecarsi della creatività geniale ad una vera e propria crisi epilettica? Un conto è dire che tra genio e pazzia vi è un rapporto causale “debole”, un altro è asserire che esse coincidono. Questa però è la natura delle teorie lombrosiane intorno all’uomo di genio. Sviluppatesi nel tempo su loro stesse, recano all’interno la traccia evidente delle successive stratificazioni che hanno scandito il loro evolversi. Ciò le rende multiformi ed estremamente complesse da ricostruire, specie quando ci si trova di fronte a simili incongruenze. Eppure è anche a simili aspetti che esse devono il loro fascino. Sono difatti la viva testimonianza dello sforzo di cogliere un fenomeno come il genio in tutte le sue sfaccettature. Il problema è che, come vediamo, armonizzarle tutte in una visione scientifica d’insieme era destinato a rivelarsi molto più difficile del previsto.

A questo proposito, Lombroso stesso si dimostra consapevole delle critiche cui le idee da lui difese lo esponevano. Ad esempio, perché fare del ruolo giocato dalla pazzia un tratto distintivo dell’uomo di genio, quando i medesimi sintomi si riscontravano anche in molti degli ospiti per nulla geniali che affollavano allora i manicomi? Nella prefazione alla patografia alfieriana l’alienista veronese sostiene che simili considerazioni non rappresentano un’obiezione alle sue teorie28. La pazzia difatti può fare di un uomo mediocre un genio per un breve lasso di tempo, ma non elevarlo al rango di genio vero e proprio. A tal fine era difatti necessaria a suo dire un’abbondante quantità di cellule cerebrali, in particolare nei lobi anteriori del cervello.

L’aspetto che più di ogni altro attirava però le critiche dei suoi avversari era la rilevanza data da Lombroso all’epilessia. Nei Nuovi studii sul genio egli arriverà ad affermare che l’elemento epilettoide rappresenta il fulcro principale del genio, anche in quei casi in cui la diagnosi porta in primo piano altre patologie mentali29. Ma come è possibile, si era già domandato Enrico Morselli30, ricondurre all’epilessia un’ampia e variegata gamma di malattie mentali?

Questo punto clinico è per me di prima importanza. Se è vero che vi furono uomini di genio allucinati, paranoici, monomaniaci, melanconici, nevrastenici, coreici, paralitici, dementi in vecchiaia, onanisti in gioventù e magari durante tutta la vita; se altri vi furono alcolisti, oppiofagi, pazzi morali, delinquenti, pazzi per gelosia o per vanità; se alcuni furono precoci, o se divennero geniali per traumi sulla testa; se ve ne furono di balbuzienti, di rachitici, di scrofolosi, di gobbi, di

28

Sul tema della pazzia nell’uomo di genio contrapposta alla pazzia nell’uomo medio cfr. anche C. Lombroso, op. cit., pp. 261-278.

29 Cfr. C. Lombroso, Nuovi studii sul genio. II – Origine e natura dei genii, Milano, Sandron, 1902,

pp. 131-132. 30

Cfr. Enrico Morselli e “le varietà personali del genio e la teoria esclusiva della neurosi epilettoide

degenerativa”, in A. G. Bianchi (a cura di), La patologia del genio e gli scienziati italiani. Inchiesta a proposito del caso di Guy de Maupassant, Milano, Max Kantorowicz Editore , 1892, pp. 37-49.

(10)

zoppi, noi dovremo dire come e perché tutto questo po’ po’ di roba sia da ascriversi ad una

neurosi degenerativa epilettoide31.

Questo, prosegue Morselli significherebbe rivoluzionare la classificazione nosografica tanto della psichiatria quanto della medicina. Più in generale, verrebbe a modificarsi il modo stesso che abbiamo di concepire l’agire umano, ricondotto in toto all’epilessia. L’uomo diverrebbe in simile prospettiva un vero e proprio “animal epilepticum”! Ed è proprio questa la radice del problema. L’epilessia assume in Lombroso un significato talmente vasto da perdere ogni specificità, e quindi a ben vedere ogni reale rilevanza. Rifacendosi al concetto allora da poco emerso di “epilessia larvata” egli prende ad individuare in una gamma sempre più vasta di comportamenti altrettanti “equivalenti epilettici”32. Il proliferare di questi presunti atteggiamenti patologici gravitava intorno a quella che era la suggestione centrale cui la visione lombrosiana del genio finì per soggiacere: la già citata equiparazione dell’estro geniale ad una sorta di accesso epilettico. La palese origine romantica di questo mito scientifico era ben chiara già all’epoca, ed era stata rilevata tra gli altri da Tanzi33. Morselli aveva dal canto suo ragione a sottolineare come tra la distrazione dell’uomo di genio intento al proprio atto creativo e l’“assenza” epilettoide (cioè lo stato di incoscienza che accompagna gli attacchi epilettici, di cui spesso il malato non serba memoria) non vi è nient’altro che un’apparente e superficiale analogia. Nel caso dell’ideazione geniale avrebbe del resto più senso parlare di “ipercoscienza” piuttosto che di assenza di coscienza34. Essa è con maggior frequenza il frutto di un lavoro lungo e minuzioso piuttosto che di un momento di ispirazione sublime.

31 A. G. Bianchi, op. cit., p. 43. 32

Cfr. B. M. Assael, G. Avanzini, Il male dell’anima. L’epilessia fra ‘800 e ‘900 Roma, Laterza, 1997. Rileva giustamente Assael come nel corso dell’800 l’epilessia si trasformi in una malattia del comportamento legata alla disorganizzazione del cervello, accompagnata da possibili manifestazioni convulsive. Ciò rappresenta un rovesciamento della concezione tradizionale sin lì rimasta in uso per secoli. Secondo essa l’epilessia era una malattia a carattere convulsivo, nella quale il ripetersi delle crisi coreiche poteva alla lunga avere risvolti anche a livello mentale. In Lombroso (e soprattutto in Tonnini) l’epilettico diventerà il campione dell’asimmetria umana, un coacervo di contraddizioni ed eccessi che ne esaspererà il carattere teratologico. Lombroso arriverà ad asserire che l’epilettico sembra costituito da due persone distinte incollate assieme. 33

Cfr. Lo stato attuale degli studi sulla geniologia secondo il dott. Eugenio Tanzi, in A. G. Bianchi,

op. cit., pp. 63-73. Riguardo all’origine romantica delle teorie lombrosiane sull’uomo di genio

Tanzi (che per le tesi di Lombroso non sviluppò in generale una grande simpatia) fu abbastanza esplicito: <<Anche i pochi concetti popolari fin qui dominanti, di cui quelle teorie sono l’eco, rampollano dall’abuso ereditario del romanticismo. Gli ardori epilettici della genialità in azione e i languori post-epilettici della genialità in riposo risentono d’una tradizione letteraria, che vedeva qualcosa di grande, di sacro, di fatale, in ogni pianista concertatore di nome polacco, dall’anima sensativa e dai capelli in disordine>> (p. 65).

34

Riguardo a ciò, simile l’obiezione mossa da Bovio alla strana equazione lombrosiana tra genio ed assenza epilettica. Egli argomentò che mentre il rapporto causale tra le idee è alla base dell’astrazione, la relazione casuale tra di esse è ciò in cui consiste la distrazione. Il genio è veramente tale se si astrae, non se si distrae: l’astrazione lo rende assente dagli altri, la distrazione da se stesso (Cfr. G. Bovio, Il genio. Un capitolo di psicologia, Milano, Treves, 1899, in part. pp. 194-198).

(11)

Dalla polemica intorno alla natura epilettica del genio emerge la centralità del pensiero analogico nel modo lombrosiano di fare scienza. Molte delle critiche a lui mosse si incentravano su questo aspetto. Egli spesso procedeva per libere associazioni. Suo intento non era persuadere ma suggestionare. Ed è in ciò secondo me, più che nei suoi debiti concettuali verso la cultura romantica, che emerge prepotente l’importanza della formazione giovanile di Lombroso, di natura prettamente letteraria35. Il proposito di farsi poeta, che risale a quegli anni, trova dunque nella sua attività scientifica una sia pur parziale realizzazione. Come sottolineato anche dalla figlia Gina nella biografia del padre, egli mantenne sempre viva in sé tale vocazione. Ciò ne influenzò secondo lei lo stile, oltre a guidare le sue ricerche verso i grandi temi universali36. In effetti, la natura “poetica” delle indagini lombrosiane è difficile da negare. Dietro la facciata di un asettico induttivismo basato solo sui fatti, si cela un procedimento scientifico in cui la creatività gioca un ruolo decisivo. Le “due culture” palesano ancora una volta punti di contatto insospettabili ad una ricognizione superficiale.

La patografia su Alfieri, però, non suscitò delle perplessità solo in relazione al legame tra genio ed epilessia. Più a monte, molti si ponevano ben altro quesito: l’astigiano era davvero un genio? L’ostinazione lombrosiana a non definire preliminarmente l’oggetto delle indagini è stato spesso oggetto di polemica in quel periodo. Ancor di più, lo è stata la maniera caotica con cui nelle opere lombrosiane si accostano gli esempi più disparati di genialità. Siamo dunque qui dinanzi ad un’indagine patografica che, anziché dissipare simili dubbi, finisce per alimentarli ancor di più. Lombroso stesso ne pare consapevole, e sin dalla prefazione tenta di prevenire ogni attacco in merito. Egli afferma infatti che se non in letteratura, Alfieri fu di certo un genio in politica. Questo perché fu il primo della sua epoca a invitare a ribellarsi contro l’invasione straniera, da molti vista per contro come portatrice di libertà37. Renier sarà al riguardo alquanto categorico, sostenendo che voler fare di Alfieri un genio politico rappresentava una vera e propria falsificazione storica38. L’astigiano si limiterebbe infatti, a detta del celebre critico letterario, a inveire contro abusi di vecchia data, senza

35 Cfr. D. Frigessi, Cesare Lombroso, Torino, Einaudi, 2003 (in part. pp. 41-44). Considerazioni simili sono state sviluppate da Levine e Beer in merito alle indagini darwiniane. Nei loro saggi, viene indagato il ruolo del pensiero analogico nell’opera di Darwin, ed i suoi rapporti con la cultura letteraria. (Cfr. G. Beer, Darwin’s Plots: Evolutionary Narrative in Darwin, George Eliot and

the Nineteenth Century Fiction, London, Routledge & Kegan Paul, 1983 e G. Levine, Darwin and the Novelists: Patterns of Science in Victorian Fiction, Cambridge (Mass.), Harvard University

Press, 1998).

36 Cfr. Gina Lombroso Ferrero, Cesare Lombroso. Storia della vita e delle opere, Bologna, Zanichelli, 1921, pp. 433-435.

37

Cognetti de Martiis trova invece nell’originalità delle sue opere un possibile indizio della genialità di Alfieri. Oltre a ciò, ne ribadisce a sua volta l’esplicitarsi sul piano politico (Cfr. G. Antonini, op. cit., pp. 151-154).

38

Cfr. R. Renier, op. cit. Pur ritenendo la parte scritta da Antonini migliore dell’altra, individuandovi alcuni spunti interessanti, egli opera una sostanziale stroncatura della patografia qui in esame.

(12)

avere ben chiara in mente un’idea distinta di un futuro regime rigeneratore. Da ultimo, si ha l’impressione che Alfieri sia geniale perché epilettico. Tutto si risolveva dunque per Renier in una vera e propria petizione di principio39.

Si può dunque asserire che il contributo della patografia di Antonini e Cognetti de Martiis alla causa lombrosiana è stato alquanto misero. Se la dubbia genialità dell’autore esaminato ne inficia sin dal principio la credibilità, il suo risolversi in una sostanziale circolarità autoreferenziale completa degnamente il quadro. In questo studio trova voce, come visto, il tentativo lombrosiano di ricondurre la multiforme fenomenologia geniale alla comune matrice epilettica. Rappresenta questo l’esito più maturo del percorso dell’alienista veronese sul tema. Ma a ben vedere, in controluce, evidenti si palesano i segni di una teoria molto più articolata di quanto Lombroso stesso non volesse da ultimo ammettere. L’intento del mio viaggio attraverso le prossime vite d’autore che andrò ad indagare, sarà rendere conto di tali molteplici sfaccettature.

39

Analogamente, Caterina Beri aveva accusato la teoria lombrosiana del genio di scivolare in quell’apriorismo che la scienza dovrebbe invece bandire. Il riferimento va qui al fatto che Lombroso aveva negato la genialità di Verdi, tipico esempio della possibile convivenza del genio con una perfetta salute mentale. In poche parole, il grande compositore non poteva essere un genio in quanto non dava segni di evidente squilibrio psichico. (Cfr. C. Beri, Gli inconvenienti del

Figura

Figura 1- F. X. Fabre, Ritratto di Vittorio Alfieri

Riferimenti

Documenti correlati

caverne irregolari e le cascate ineguali, adorne di tutte le grazie della selvatichezza, m’appaiono tanto più affascinanti, perché rappresentano più. schiettamente la natura, e

I libri di testo in versione digitale interattiva e i contenuti digitali integrativi online sono usufruibili, oltre che con limiti indicati dalla normativa sul diritto d’autore,

L’adesione all’estetica naturalista spesso va di pari passo con l’idealizzazione della poesia popolare come frutto del sillogi- smo natura / perfezione poetica-popolo / natura=popolo

“Sulla gestione morale del Comune possiamo con soddisfazione constatare come nello scorso esercizio, nonostante la deficienza di mezzi, la Città di Urbino ha saputo ridestare in

Gli elementi per muratura portante devono essere conformi alla pertinente norma europea ar- monizzata della serie UNI EN 771 e, recare la Marcatura CE, secondo il sistema di

Nel prezzo è inoltre compreso per ogni prelievo, oltre alla stesura del Verbale di Prelevamento numerato progressivamente, l’esecuzione della prova di

Io non credo che non si studi quasi più matematica all’Università perché i. futuri matematici non vogliono finire a fare gli insegnanti, ma

0155701 COMUNE DI AGRIGENTO - DECRETO DI SOSPENSIONE DEI LAVORI A CARICO DELLA DITTA SPATARO ALFONSO RESIDENTE IN VIA SERRAFERLICCHIO N.16 AD AGRIGENTO NELLA QUALITA'