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CAPITOLO 2 NEVIERE E GHIACCIAIE

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 2

NEVIERE E GHIACCIAIE

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Le ghiacciaie in Italia hanno ricoperto un ruolo fondamentale nel ciclo produttivo agricolo, nella vita domestica sia cittadina che campestre, in alcune attività commerciali, in campo medico e non da ultimo in campo culinario. Se fino al XIX secolo erano esclusivamente riservate al ceto agiato, con l’avvento della rivoluzione industriale divennero appannaggio anche della classe borghese.

A possedere le ghiacciaie erano principalmente le famiglie benestanti, all’interno dei loro palazzi in adeguati depositi seminterrati, o costruite nei loro giardini nelle residenze di campagna, per un uso esclusivamente privato. Inizialmente le strutture di queste ghiacciaie erano molto semplici e funzionali, poiché la necessità principale era quella di disporre di uno spazio completamente interrato dove conservare il ghiaccio.

Tuttavia ad un certo punto l’utilizzo di queste strutture e la capacità di mantenere il freddo a lungo vennero apparentemente a mancare, tanto da non far più comparire le ghiacciaie tra gli spazi di servizio della casa. Alla seconda metà del Cinquecento ad esempio l’architetto A. Palladio, ottimo conoscitore delle esigenze signorili, nel descrivere accuratamente tutti gli spazi della villa del proprietario, non accenna mai esplicitamente al luogo per la conservazione del ghiaccio. Secondo lui, gli ambienti di servizio sono da realizzare il più possibile lontano dalla vista « .. perché in quelli si riporranno tutte le bruttezze della casa»1 e sono quindi da creare sotto l’abitazione padronale; non potendo escludere che la conservazione del ghiaccio fosse venuta completamente a mancare, si può dedurre che in quest’ultima definizione possano rientrare anche dei luoghi per conservare il ghiaccio, quanto ambienti angusti e sotterranei.

Ma un ritorno dell’uso di queste strutture dovette nuovamente diffondersi nel Sei-Settecento, quando le ghiacciaie, pur mantenendo identica la struttura ipogea, nella parte epigea assunsero forme particolari e ad esse vennero aggiunti ornamenti spesso bizzarri (che ancora oggi colpiscono chi le osserva), nel tentativo di mascherarne la funzione. Un chiaro esempio è la ghiacciaia Settecentesca a forma di piramide conservata presso il Parco delle Cascine a Firenze, voluta dal Granduca di Toscana.

1 Palladio A., Del Compartimento delle Case di Villa, in I Quattro libri dell’Architettura, libro II, cap.

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Nel Seicento, nei trattati di architettura dell’epoca ricompaiono inoltre le indicazioni su come costruire le ghiacciaie, come ad esempio negli scritti dell’architetto vicentino Vincenzo Scamozzi2.

Verso la fine del Settecento invece, negli scritti di F. Milizia, importante poligrafo del primo Neoclassicismo, si trovano consigli su come fare le ghiacciaie. L’autore consiglia di scavare un foro entro terra e «… quanto più profonda e larga sarà una ghiacciaja, meglio vi si conserverà il ghiaccio, e la neve; se il terreno è fragile, convien rivestire la fossa da su in giù con un picciolo muro di pietra grossa 8-10 pollici, ben intonacato di malta …»3

. In queste parole si legge un richiamo alla semplicità ed alla funzionalità più che all’estetica, concetti che sottintendono un’aspra critica alle esuberanze barocche e ancor più alle fantasie settecentesche; Milizia infatti, insieme al Winckelmann e al Mengs, indica il Classicismo come unica forma d’arte degna di essere chiamata tale. Una dettagliata descrizione nel modo di erigere e riempire una ghiacciaia venne tuttavia già fornita dieci anni prima di Milizia nel dizionario di F. Griselini. Quest’ultimo in merito scriveva: « scegliesi un terreno asciutto, che non sia niente, o poco esposto al sole.. Scavasi in esso una fossa rotonda che termina abbasso come un pane di zucchero rovescio. Quando si faceva la ghiacciaia bisognava andare sempre restringendo abbasso … E scavare nel fondo un pozzo, guernito di sopra di una inferriata per ricevere l’acqua che cola dal ghiaccio. Il di sopra della ghiacciaja sarà guarnito con paglia attaccata sopra un coperto di legname in forma di piramide. Il viottolo per cui si entra nella ghiacciaja guarderà la tramontana … »4

. La voce continua poi con l’elenco delle azioni di riempimento della stessa e si conclude parlando di come, anche la neve, si conserva ugualmente bene dentro alle ghiacciaie. Tutti i consigli sin qui elencati, in merito alla costruzione di luoghi adatti a conservare il freddo, altro non sono che descrizioni basate sull’osservazione empirica.

Nel secolo dell’illuminismo, Diderot e d’Alembert5

nel Tomo VII dell’Encyclopédie descrivono alla voce Glacière il modo per realizzare e preservare le ghiacciaie senza purtroppo fornire alcuna notizia circa le varietà tipologiche di tali strutture. Il

2 Scamozzi V., Del far pozzi o cisterne in varie maniere, e ghiacciaie artificiate, o simili cose per comodo

e delizie, in Idea di Architettura Universale, cap. XXIII, Venezia 1615.

3 Milizia, Prinicipij di Architettura Civile, cap. IV, Bassano del Grappa 1785. 4

Griselini F., voce Ghiacciaja. (Arte di costruir la.), in Dizionario delle Arti e de’ Mestieri, vol. VII, Venezia 1770.

5 D. Diderot e J. B. d'Alembert, Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des

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movimento culturale illuminista incoraggia di avvalersi delle conoscenze e delle esperienze pregresse per migliorare il modo di vivere nella società civile, dando definizioni obiettive ai manufatti, che troviamo nella loro enciclopedia. Va tuttavia ricordato che per ogni manufatto non bisogna limitarsi allo studio dell’oggetto in sé, poiché questo deve essere messo in relazione alla società che l’ha prodotto.

Il cambiamento avviato nel XIX secolo nel sistema agricolo-artigianale-commerciale e in quello socio-culturale con l’affermarsi del ceto medio, portò i bisogni secondari a non essere più un privilegio solo delle famiglie più agiate. Sulla scia di questi mutamenti, anche la richiesta di un bene come il ghiaccio aumentò, così come parallelamente crebbe la necessità di depositi atti alla sua conservazione; le ghiacciaie divennero perciò diffuse ed indispensabili. Furono edificate anche neviere o ghiacciaie comunali, amministrate direttamente dalle autorità cittadine o date in gestione tramite il pagamento di un affitto. L’appaltatore, che ne gestiva la raccolta, la manutenzione e la distribuzione, doveva sottostare a rigidi regolamenti che stabilivano sia quali dovevano essere le caratteristiche igienico-sanitarie del ghiaccio, sia il prezzo a cui doveva essere venduto. In questo periodo cominciarono ad essere pubblicati studi specifici per la costruzione di questi edifici, che riportavano talvolta spiegazioni ed accorgimenti sui materiali da usare e sul modo migliore di riempirle.

Le ghiacciaie vengono altresì citate in dizionari di agricoltura6, nei quali si consiglia di piantar alberi attorno ad esse per creare maggior ombra e preservare dal calore dei raggi solari l’edificio, e in trattati di scienze mediche i quali cominciano a stabilire norme per l’igiene del prodotto e come utilizzare queste strutture per la conservazione degli alimenti. Quando si parla di ghiacciaie è importante distinguere queste ultime dalle neviere, strutture con architettura e scopi simili, ma cronologicamente antecedenti. Nei due paragrafi successivi verrà perciò fornita una descrizione di entrambe in modo da chiarire eventuali ambiguità, fermo restando che l’argomento di questa tesi è riferito alle ghiacciaie.

6 AA. VV., Nuovo corso completo di agricoltura teorica e pratica, ossia, dizionario ragionato ed

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2.1 LE NEVIÉRE

Le neviere, in relazione alla conformazione orografica del territorio in cui si trovavano ed alle necessità locali nella zona, assumevano una diversa morfologia e tecnica costruttiva. Queste caratteristiche sono causa oggi della difficile datazione di queste strutture. Importante era inoltre l’aspetto logistico, poiché il luogo doveva essere soggetto a precipitazioni nevose e in prossimità di importanti vie di comunicazione. La casistica delle forme delle neviere spaziava da semplici buche scavate nel terreno fino a strutture più complesse.

Le neviere montane e quelle collinari si presentavano simili per struttura e morfologia. Esse sfruttavano delle cavità già presenti nella roccia o le doline, cioè zone di depressione naturale, spesso a ridosso di pendii o vicino a boschi esposti a Nord. Si trattava di semplici fosse di dimensioni ragguardevoli incavate nel terreno, le cui pareti venivano rivestite in pietra locale. Per garantire un sufficiente isolamento termico si ricopriva l’ultimo strato di neve con un cumulo di foglie e terra o con un tetto in paglia, mentre il fondo della fossa era ricoperto da rami e tronchi. In alcuni casi, quando le condizioni lo rendevano possibile, veniva utilizzato direttamente, tagliato e poi stivato nelle neviere, il ghiaccio depositato all’interno di cavità naturali. Ciò era possibile soprattutto in area alpina dove molte grotte conservano sia la neve caduta nell’inverno che ghiaccio fossile.

Diverse, invece, erano le neviere in zone pianeggianti, strutturalmente molto simili alle ghiacciaie di tipo sotterraneo. Si trattava di appositi edifici ad unico ingresso, aventi pianta circolare e costruiti interamente in muratura, in parte sotto il livello del terreno, con profondità anche di 10-12 metri poiché ad una certa profondità la temperatura si mantiene costante. Come basamento, un vespaio di ciottoli permetteva il drenaggio continuo dell’acqua di scioglimento.

Possiamo suddividere queste neviere in tre differenti tipologie:

a. neviere a forma più semplice, legate per aspetti morfologici alle neviere montane, costituite da una fossa circolare scavata nel terreno, non molto profonda. Caratteristiche proprie di questo tipo di neviere erano l’assenza di scale per raggiungere il fondo pavimentale in battuto roccioso, e la copertura in paglia a forma conica, collegata direttamente al bordo superiore della fossa.

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b. neviere a forma di pozzo, cioè con un diametro alla bocca di eguale misura a quello del fondo (generalmente Ø 6-8 m). Le pareti di contenimento della fossa erano in opera poligonale che si innalzava per qualche metro anche sopra al piano di campagna per fare da tamburo alla cupola di copertura in pietra. L’accesso alla neviera avveniva da una porta al piano di campagna rivolta a tramontana, mentre all’interno una scala elicoidale conduceva al fondo della neviera di profondità variabile. Un folto strato erboso, infine, copriva la copertura a garanzia di un maggior isolamento termico.

c. neviere di forma sub-cilindrica o tronco-conica, la cui forma deriva da ragioni statiche dovute all’angolo di attrito del terreno ove era scavata la neviera. Presentava molti dei caratteri strutturali individuati sino ad ora: il muro di rivestimento in pietra, una sola apertura sulla sommità rivolta a Nord (detta chiave) che permetteva il carico di neve fresca ed il successivo prelievo del ghiaccio, un tetto in legno e paglia o più raramente in pietra e dei gradini ricavati nella muratura per raggiungere il fondo. Prima di iniziare a portare la neve, nella parte inferiore dell’impianto si deponevano delle fascine o paglia per evitare l’inquinamento per contatto diretto tra ghiaccio e terra e per limitare lo scioglimento del ghiaccio. Grazie un canale di scolo l’eliminazione dell’acqua di fusione avveniva in modo costante, facendo defluire all’esterno l’acqua senza compromettere il restante materiale.

La filiera produttiva cominciava a dicembre, se nevoso, e si protraeva per tutto l’inverno fino al mese di giugno, coinvolgendo molta manodopera, tra cui donne e bambini, poiché durante la stagione fredda i lavori agricoli si fermavano.

La produzione del ghiaccio aveva inizio con la raccolta della neve ancora fresca, accumulata in mucchi in avvallamenti naturali nelle adiacenze della neviera (Fig. 2.1); un’operazione che poteva ripetersi più volte in base alla quantità di precipitazioni nevose nella zona.

Un gruppo o più di uomini chiamati insaccaneve, tramite un’azione di battitura, atta ad eliminare il più possibile gli interstizi tra i vari cristalli di ghiaccio, svolgevano il necessario lavoro per rendere il più possibile la neve compatta come il ghiaccio (Fig. 2.2).

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Figura 2.2. Due gruppi di insaccaneve al lavoro in una neviera ormai colma.

Questi uomini, così chiamati per il calzare di sacchi di canapa legati all’altezza delle cosce, ad evitare di sporcare la neve durante il lavoro, erano muniti di un apposito attrezzo di legno molto pesante, simile ad un mazzuolo a forma allungata (50x30x40 cm), utilizzato per la battitura.

Una volta conclusa questa operazione, il prodotto di battitura veniva a mano a mano portato a spalle in cesti, o con carriole, fino alla bocca della neviera e stipata al suo interno. Ogni 20-30 cm circa, lo strato di neve pressata veniva intervallato da un tappeto di frasche e foglie secche (con funzione isolante), collocate anche lungo i lati della fossa o lungo le pareti della struttura: queste ultime erano volte ad evitare la formazione di un unico blocco di ghiaccio. Raggiunto il bordo superiore della neviera, tutto veniva ben coperto con un tetto di paglia, foglie secche e talvolta anche con terra.

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L’escursione termica notturna, unitamente alle rifusioni diurne, permetteva alla neve di trasformarsi in ghiaccio, mentre il sistema di alternanza (neve-foglie) consentiva di mantenere freddo lo strato più profondo, anche quando si estraeva dagli strati più superficiali il blocco di ghiaccio formato; contemporaneamente, favoriva il successivo distacco del blocco di ghiaccio.

Il ghiaccio di neviera ottenuto per compattamento e cristallizzazione della neve stessa era di due tipi: quello bianco scevro da corpi estranei, adatto per uso sia alimentare che medico, ma più costoso; ed il ghiaccio grezzo (o nero) di seconda scelta perché impuro, destinato ad altri usi. Il valore economico del ghiaccio prodotto dalla neve era stabilito, come per il ghiaccio prodotto da acqua solidificata, dalla purezza della materia prima, cioè da quanto questa fosse stata contaminata nell’azione di raccoglimento e di conservazione.

Nei mesi estivi, al momento del bisogno, il ghiaccio formato veniva tagliato in blocchi regolari, pulito (procedimento chiamato rasatura del ghiaccio), ed avvolto in sacchi di canapa pronto alla consegna. Il trasporto verso i depositi delle città più vicine avveniva durante le ore notturne, su carri o a basto sul dorso di animali da soma. Da questi si rifornivano poi le botteghe che a loro volta lo rivendevano al dettaglio ai clienti, svolgendo anche un servizio a domicilio.

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2.2 LE GHIACCIAIE

2.2.1 UNA TIPOLOGIZZAZIONE PROBLEMATICA.

Le ghiacciaie sono considerate la naturale evoluzione delle neviere. Si trattava di strutture complesse che richiedevano un sapiente lavoro di realizzazione, poiché sia le ghiacciaie presenti in montagna ma specialmente quelle cittadine dovevano essere costruite in maniera tale da preservarne il contenuto fino ai mesi più caldi. Rispetto alle neviere precedentemente illustrate, le ghiacciaie necessitavano di un impegno costante e maggiore di manodopera, ma ciò veniva poi compensato dalla miglior qualità del prodotto, e quindi da un maggior profitto per i proprietari.

Presupposti essenziali per la produzione del ghiaccio naturale erano un clima rigido in inverno e fresco d'estate, abbondanza d'acqua e disponibilità di ambienti adatti a custodire i blocchi di ghiaccio già tagliati per evitare la dispersione del prodotto. Il luogo deputato ad accogliere le strutture produttive e quelle per la conservazione non doveva essere molto lontano dalle contrade o dai paesi in cui risiedevano coloro che poi sarebbero stati impegnati nell’attività di produzione: la distanza doveva infatti essere percorsa a piedi nel minor tempo possibile per massimizzare le ore di lavoro. Inoltre il luogo scelto doveva essere anche vicino ad una strada carrozzabile per facilitare il successivo trasporto estivo del ghiaccio verso le città di pianura.

La realizzazione di spazi sotterranei è caratterizzata da numerose criticità rispetto alle tradizionali costruzioni epigee. Particolarmente importante nel progetto di una ghiacciaia ipogea era infatti lo studio degli accessi e dei sistemi di discesa dalla quota del piano di campagna, nonché, data la totale assenza di punti luce e d’aerazione, la realizzazione di un sistema di drenaggio delle acque di fusione ed una copertura il più possibile adatta a proteggere il prodotto interno.

Come per qualsiasi attuale struttura architettonica, anche questi siti necessitavano di manutenzione quotidiana, come ad esempio la pulizia delle briglie poste ai vertici del canaletto (dove cioè veniva prelevata l’acqua e dove la stessa veniva reimmessa nel bacino) oppure la rimozione dalla superficie del ghiaccio di corpi estranei portati dal vento e dalla pioggia. Al tempo stesso erano necessarie anche opere di manutenzione straordinaria da effettuarsi ogni due-tre anni, come ad esempio lo svuotamento completo della vasca per il rifacimento dell’impermeabilizzazione: ciò era indispensabile poiché,

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nonostante lo strato di acqua corrente lasciato alla base, nelle nottate estremamente rigide poteva capitare che ghiacciasse anche questa, rovinando così lo strato compatto di terra argillosa impermeabile. Inoltre ogni anno, quando terminava la riserva di ghiaccio, la ghiacciaia veniva pulita, togliendo le impurità che si erano depositate, pronta per essere nuovamente riempita l’inverno successivo.

Questi siti produttivi di ghiaccio naturale sorti in tutta Italia, e fonte di economia sino ai primi decenni del XX secolo, sono oggi difficilmente riconoscibili: venendo meno il loro uso, sono stati soggetti a crolli e interramenti naturali, con strutture degradate a tal punto da riuscire ad individuare solo le cavità a cielo aperto. Molti complessi sono stati convertiti ad altri fini, altri abbandonati, di alcuni si è persa addirittura ogni memoria. Quest’ultimo punto è stato ulteriormente aggravato dal modo con cui oggi le identifichiamo. Tutte queste strutture vengono infatti genericamente chiamate ghiacciaie, ma in realtà bisogna distinguere le strutture nate solo per conservare durante il periodo estivo il ghiaccio prodotto a partire dalla neve (le neviere) da quelle in cui il ghiaccio, ottenuto dall’acqua raccolta in appositi bacini artificiali, viene poi stivato (le vere ghiacciaie). Poiché neviere e ghiacciaie hanno in comune la stessa funzione pratica nonché spesso una certa somiglianza architettonica, vengono sovente confuse tra loro. La differenza sta nella tecnica di raccolta del prodotto: in entrambi i casi, la trasformazione della materia prima in ghiaccio avveniva esternamente a questi luoghi. Inoltre per quel che riguarda le ghiacciaie bisogna dire che in alcuni casi il termine si riferisce all’impianto completo di produzione, in altri solo alla struttura di conservazione. In questo lavoro di tesi con il termine ghiacciaia, viene inteso l’intero sito produttivo così come appare.

Bisogna inoltre tener presente che la scelta della struttura architettonica dipendeva in larga parte dalle caratteristiche litologiche e meccaniche del sottosuolo, cioè dal suo grado di impermeabilità e drenaggio delle acque, oltre che dalla capacità di trattenere il calore il più possibile in superficie. Dunque, per impedire il contatto del ghiaccio con la terra, la struttura di conservazione del ghiaccio poteva essere rivestita con semplice materiale isolante (legname o paglia) in terreni compatti e particolarmente duri; in terreni incoerenti e molto umidi, si ricorreva invece ad una doppia parete con intercapedine fra la terra ed il muro di rivestimento interno.

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A seguito di quanto finora detto, possiamo vedere come emerge la difficoltà nel cercare di creare una tipologizzazione che includa l’enorme varietà di particolari che caratterizzano un sito di produzione del ghiaccio naturale da un altro.

L’argomento ghiacciaie è stato affrontato estensivamente ed accuratamente da Aterini (2007)7, che nella sua opera ha descritto e confrontato i diversi tipi di ghiacciaie nei principali paesi europei con un’attenzione particolare all’Italia. Il suo lavoro indaga però queste strutture dal punto di vista puramente architettonico, volto a comprendere al meglio la funzione di contenitore di ghiaccio naturale. Tale visione tralascia considerazioni di tipo archeologico, che invece puntano a identificare le ghiacciaie come strutture che preservano una cultura materiale.

Un’unica tipologia classificatoria che possa andar bene per tutte le ghiacciaie risulta essere impossibile. Tuttavia, in questo lavoro viene proposta una classificazione di ghiacciaie in relazione a tre possibili varianti: in base all’ente che ha promosso la costruzione (pubblico o privato), all’altezza del luogo rispetto al livello del mare (alta montagna, zona collinare e zona pianeggiante) e in base alla struttura architettonica ipogea ed epigea che manifesta l’edificio adibito alla conservazione (ghiacciaia con sezione a forma di botte, ghiacciaia a sezione cilindrica, ghiacciaia a sezione tronco-conica). Questa suddivisione, applicata ai siti produttivi presi come esempi tipologici e analizzate nel capitolo successivo, è risultata essere la più adatta per non escludere dalla tipologizzazione alcune ghiacciaie perché incomplete o portatrici di varianti considerate standard per le altre classificazioni. Allo stesso modo però, non pretende di imporsi su altre future proposte di classificazione per tali strutture.

2.2.2 UNA PROPOSTA DI CLASSIFICAZIONE.

Per comprendere la giusta configurazione di questa attività produttiva, è necessario chiarire quali sono le diverse tipologie di queste strutture per la conservazione secondo la nuova proposta di classificazione.

La scelta del luogo nel quale avviare la produzione del ghiaccio dipendeva innanzitutto dalla possibilità di acqua, preferibilmente di sorgente o torrente (in modo da utilizzare acqua limpida e pura) o eventualmente anche acqua piovana. Nell’intento di limitare il

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costo di escavazione del bacino, si cercava di sfruttare il meglio possibile ciò che il paesaggio offriva, come ad esempio avvallamenti naturali o doline.

Al bacino di raccolta delle acque si affiancava, seppur separato da un argine in terra battuta, la struttura adibita allo stoccaggio del ghiaccio. Talvolta la struttura per la conservazione poteva distare anche qualche decina di metri poiché doveva essere dislocata nel punto meno soleggiato, possibilmente a ridosso della montagna e delle vie di comunicazione; inoltre, nei casi di ghiacciaie di pianura, era preferibile che la struttura fosse a ridosso della cinta muraria o immersa in un ampio ombrello di vegetazione che creava una fitta ombra.

Le ghiacciaie di alta montagna (oltre 1000 mt s.l.m) furono le prime ghiacciaie costruite in pietra a sostituzione delle neviere per la conservazione del ghiaccio. Queste strutture sono strettamente legate all’alpeggio, contenevano infatti il ghiaccio utilizzato dai malghesi per conservare più a lungo i prodotti caseari. Sono ad uso privato, poiché colui che produceva e immagazzinava il ghiaccio in inverno è lo stesso che poi lo utilizzava durante l’estate.

Spesso in montagna accadeva che il bacino fosse già preesistente all’attività del ghiaccio poiché legato all’attività di allevamento con funzione di abbeveraggio per gli animali; in tal caso i bacini venivano adattati alla produzione invernale del ghiaccio (Fig. 2.3a). È interessante osservare come queste persone riuscivano a sfruttare al massimo un territorio povero di risorse, utilizzando lo stesso bene per molteplici usi: questi bacini erano infatti delle vere fonti di sopravvivenza per la famiglia montanara. All’attività economica di raccolta del ghiaccio, si associava quella dell’allevamento dei pesci adatti a vivere in fondali bassi e melmosi (generalmente tinche o carpe), che costituivano una fonte di sicuro nutrimento: il pesce veniva pescato con una sorta di pesca a rete posizionata al centro del bacino su quattro pali, e adagiata al fondale quando l’acqua non era ancora ghiacciata, per poi venire alzata e raccolta con il pesce quando l’intera superficie del bacino era stata liberata dallo strato di ghiaccio.

Un lavoro fondamentale da effettuarsi prima di procedere a riempire d’acqua il bacino era l’impermeabilizzazione del fondo di quest’ultimo, che veniva realizzata stendendo uno strato di argilla mescolata a foglie che veniva battuto e pressato con pesanti mazze lignee, in modo da garantire una perfetta tenuta. Se ciò non bastava poteva essere ulteriormente compattata dagli zoccoli degli animali e dalle ruote dei carri appositamente condotti sopra.

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Sono molto piccole, completamente sotterranee (3 o 4 metri di profondità), presentano un corpo a forma di botte che regge un tetto a pseudocupola, ricoperto a sua volta nella parte esterna da uno strato uniforme di terra dove si lasciava crescere l’erba a

Figura 2.3. Malga Lobbia (1250 mt sl.m.), Parco Naturale della Lessinia, Verona. Paesaggio di alta montagna. A) foto della malga con l’intero sito di produzione, laghetto e ghiacciaia (cer-chiata in rosso); B) la ghiacciaia, struttura per la conservazione del ghiaccio.

A

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maggior isolamento termico. Possiedono un’unica apertura rivolta a tramontana usata sia per immagazzinare che per estrarre il ghiaccio (Figg. 2.3b- 2.4).

Il pavimento nei casi più semplici era di minuto pietrame che permetteva così il drenaggio delle

acque di fusione direttamente alla terra, in alcuni casi però il pavimento era costituito da un tavolato ligneo sotto al quale stava un pozzetto di smaltimento dell’acqua.

Le ghiacciaie di collina (1000-350 mt s.l.m.) erano strutture in cui veniva conservato il ghiaccio destinato alla vendita e per questo si trovavano solitamente nei pressi di importanti vie di comunicazione. Solitamente non è difficile individuare nelle vicinanze di queste strutture una cava, dalla quale veniva estratto il materiale necessario alla costruzione. Fu la stessa gente di montagna a provvedere alla costruzione queste strutture quando, all’inizio dell’Ottocento, iniziò a farsi sentire l’incalzante domanda di ghiaccio naturale proveniente dai mercati urbani. Si trattava quindi di ghiacciaie commerciali, private, in cui la vendita del prodotto fruttava risorsa economica al proprietario della ghiacciaia. A tale scopo però era necessario aumentare la capacità produttiva del bacino, poiché il piccolo bacino di raccolta dell’acqua, legato anche a queste altitudini all’attività di pastorizia e allevamento del bestiame, non era sufficiente. Per ovviare questa carenza, i ghiacciaioli, sebbene la cosa più facile sarebbe stata quella di ampliare l’estensione del bacino in superficie e non in profondità, preferivano creare nuovi bacini.

Figura 2.4. Nel disegno 3, modello di ghiac-ciaia di alta montagna. Sotto, sezione di ghiacciaia ricoperta da pseudo cupola e dallo stato di terra.

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Individuata zona del bacino di raccolta, il terreno veniva livellato, scavato e arginato, il materiale asportato veniva poi utilizzato per costruire gli argini di contenimento a valle del bacino. Questi bacini potevano avere forme diverse poiché seguivano la naturale forma del terreno, erano per lo più forma ellittica o pseudo rettangolare, anche se mai circolare: la forma circolare infatti era quella che meno si adattava alla linea naturale del declivio, e per questo aspetto può essere compresa la difficoltà e la fatica che sarebbero sorte per creare l’arginamento al bacino (Fig. 2.5).

La dimensione del bacino poteva raggiungere la capienza di un ettaro, ma in generale la superficie del bacino e il volume della ghiacciaia erano interdipendenti. In una stagione normale dal bacino doveva essere raccolto il ghiaccio col quale potesse essere riempita l’intera ghiacciaia, e questa a sua volta non doveva essere sovradimensionata o sottodimensionata rispetto al ghiaccio che si formava.

Il riempimento avveniva grazie ad un semplice sistema in entrata di canalette e gore poco profonde ma tali da assicurare l’ approvvigionamento di acqua nel bacino di raccolta (Figg. 2.6-2.7- 2.8); se la portata d’acqua del canaletto superava la quantità di acqua necessaria al bacino, un altro canaletto (calla di troppo pieno) posto all’incirca a

Figura 2.5. Valle del Reno, Pistoia, comparto della ghiacciaia della Madonnina. Bacino (lago) di raccolta dell’acqua della ghiacciaia della Madonnina.

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metà del canaletto immissario serviva a far defluire l’acqua in eccesso mantenendo così ottimale il livello d’acqua nel bacino.

Alla parte opposta del canale immissario era presente un condotto in uscita dal bacino, che veniva tenuto sempre parzialmente aperto per permettere all’acqua nel bacino di scorrere costantemente sotto la lastra di ghiaccio che si andava formando (Fig. 2.9). In questo modo, il ghiaccio formatosi poteva galleggiare senza attaccarsi al fondo e senza sporcarsi; il galleggiamento permetteva inoltre di rompere con più facilità la lastra e avvicinarla all’imbocco della ghiacciaia manovrandola come una zattera. Le acque uscenti dal bacino formavano un piccolo emissario e ritornavano nuovamente alla fonte principale del prelievo, oppure confluivano nel primo torrente utile.

Figura 2.5. Valle del Reno, Pistoia, comparto della ghiacciaia della Madonnina. Punto di captazione dell’acqua del fiume Reno nella canaletta in entrata al bacino.

Figura 2.6. Valle del Reno, Pistoia, comparto della ghiacciaia della Madonnina. Canaletta in entrata. At-tualmente scorre parallela al sentiero dell’ “Itinerario del Ghiaccio”.

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La costruzione iniziava con lo scavo della buca, che veniva scavata fino ad una profondità di almeno 8-10 mt; al centro veniva poi posto un palo molto lungo che fungeva da punto di riferimento per ottenere un perimetro di fossa il più possibile circolare e dare una forma all’edificio cilindrica (molto simile alle neviere di tipo b). Questa forma si colloca in una fase transitoria, è stata quasi subito abbandonata in favore di strutture che, seppur meno capienti garantivano una migliore conservazione del prodotto conservato. Sebbene quindi a parità di diametro, le ghiacciaie cilindriche garantissero una maggiore capacità, si preferiva costruire ghiacciaie più piccole che mostrano in sezione una struttura tronco-conica con il diametro inferiore di un terzo rispetto a quello superiore (Fig. 2.9). I motivi di una tale forma derivano da esigenze di tipo statico e tecnologico. La pianta circolare infatti rappresentava una buona soluzione statica per contenere la spinta del terreno, poiché riusciva a scaricare le spinte lungo le direttrici tangenti alla circonferenza delle superfici perimetrali. Tale spinta poteva considerarsi bilanciata nei periodi invernali, in quanto contrastata dalla pressione interna del ghiaccio verso le pareti, mentre nel periodo autunnale, quando la ghiacciaia era

Figura 2.7. Valle del Reno, Pistoia, comparto della ghiacciaia della Madonnina. Punto di immissione del canaletto nel bacino di raccolta dell’acqua.

Figura 2.8. Valle del Reno, Pistoia, comparto della ghiacciaia della Madonnina. Punto di uscita delle ac-que del bacino.

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vuota, la spinta del terreno esterno diveniva considerevole e pericolosa per una parete verticale. In questo modo era possibile limitare le dimensioni delle murature, le quali in genere non superavano lo spessore di 60 centimetri, anche nei casi di ghiacciaie di importanti dimensioni.

Il motivo tecnologico viene invece spiegato dal bene conservato: durante la stagione calda lo scioglimento di una parte del ghiaccio a diretto contatto con il muro e con il fondo era inevitabile, e causava la formazione di cavità d’aria, causa a sua volta, dell’accentuarsi dello scioglimento. Le pareti dritte di una ghiacciaia a sezione cilindrica, causavano maggiori bolle d’aria all’interno, portando ad un acceleramento dello scioglimento del prodotto stivato; all’opposto, la parete inclinata consentiva di mantenere il contatto con il ghiaccio, aiutando la massa a rimanere compatta, ed evitando di avere spazi vuoti dove altra aria, oltre a quella già presente, avrebbe accelerato il processo di liquefazione della massa ghiacciata.

Figura 2.9. In alto, disegno di un modello di ghiac-ciaia a sezione tronco-conica. A sinistra. sezione di ghiacciaia cilindrica.

STRADA

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Per ottimizzare l’isolamento termico, queste strutture avevano una doppia parete in opus quadratum legate con malta derivata dalla cottura di pietra calcarea locale, con intercapedine riempita in terra argillosa o semplicemente in vuoto d’aria. (Fig. 2.10).

Nonostante tutte queste accortezze la temperatura all’interno della ghiacciaia era sempre superiore allo zero termico ed era dunque inevitabile una perdita di ghiaccio, mentre era altresì necessaria la fuoriuscita dell’acqua di fusione, che doveva avvenire in modo continuo per non arrecare ulteriore danno al prodotto. Sul fondo interno della ghiacciaia si deponevano perciò delle semplici grate in legno o strati di foglie per evitare che il ghiaccio venisse a contatto direttamente con la terra e quindi sciogliersi o inquinarsi; al di sotto di questo strato, dei semplici condotti scavati nel terreno allontanavano l’acqua per immetterla nuovamente nel bacino di produzione oppure direttamente alla sorgente.

Fondamentale era quindi che non entrasse aria dall’esterno: tutte le ghiacciaie non possedevano perciò finestre, ma solo due aperture laterali, chiuse con porte di legno, opposte tra loro in modo tale che, quando se ne apriva una, quella precedente era già stata chiusa. Una porta dava verso il bacino di produzione per introdurre i blocchi e l’altra era rivolta verso la strada per facilitare le operazioni di carico del barroccio. Infine, a completare la coibentazione di questo tipo di manufatto era il tetto, suddivisibile in due modelli: una solida struttura in pietra a uno o a due falde oppure coperture coniche leggere in paglia o canna spessa almeno 30 centimetri. A causa dell’alta deperibilità del materiale utilizzato, esempi di ghiacciaie con copertura in canneto tutt’ora conservate e visitabili sono poche, e soltanto grazie a interventi di recupero e restauro dei manufatti è stato possibile perpetuarle. Per avere un’idea di come fossero, un ottimo esempio viene fornito dalla ghiacciaia della Madonnina in località Le Piastre (PT) (Fig.2.11). La copertura in canneto era molto complessa come esecuzione ma economica. Necessitava di una fitta trama di pali di legno disposti secondo le generatrici di un cono retto, ai quali altri pali più piccoli, disposti

Figura 2.10. Sezione di nuro perimetrale della ghiacciaia se-parati con intercapedine (1-muro esterno; 2-intercapedine ;3-muro interno).

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perpendicolarmente a questi, creavano un ordito, al quale potevano appoggiarsi delle future fascine. Il vertice di congiunzione delle punte dei pali veniva poi cerchiato in ferro per collegarli saldamente tra loro, mentre la struttura portante andava ad ancorarsi alla cresta superiore del muro della ghiacciaia. A partire dal basso e procedendo a cerchi concentrici verso l’alto, venivano sovrapposte fascine di canna lunghe 2 mt legate con filo di ferro, fino a raggiungere la sommità a copertura del telaio e formare così un’accentuata inclinazione del tetto per favorire lo scorrimento di neve che ne avrebbe compromesso la stabilità.

Generalmente si preferiva utilizzare per l’intero tetto pietra locala, a doppio o unico spiovente, a for-mare una copertura valida sia da un punto di vista della durata, essendo la pietra molto resistente all’azione erosiva degli agenti atmosferici, sia da un punto di vista dell’isolamento termico (fig. 2.12-2.13). Questo tipo di tetto richiedeva a sostegno delle grandi lastre, un’impalcatura interna lignea formata da robuste travi, ma a differenza della prece-dente copertura non necessitava di una forte inclinazione perché l’eventuale permanenza della neve sul tetto, il cui peso era sostenuto dalla solida struttura portante, avrebbe facilitato la conservazione del ghiaccio stivato all’interno. In-vece il problema della penetrazione di acqua piovana era ovviato dalla larga sovrapposizione tra loro delle lastre in pietra, anche se a ridosso dello spiovente veniva talvolta inserita una sorta di grondaia sempre in pietra.

Figura 2.11. Valle del Reno, ghiacciaia della Madonnina, Le Piastra (PT). Interno, particolare della copertura in canneto dopo la ristrutturazione del 2012.

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Sul finire dell’Ottocento però si dovette abbandonare anche il concetto di ghiacciaia a struttura tronco-conica, privilegiata sino ad ora per le sue caratteristiche statiche e di isolamento termico, a favore di una nuova tipologia in grado di contenere nuovamente una maggior quantità di ghiaccio. Con l’aumento di volume sarebbe infatti stato necessario aumentare non solo il diametro ma anche la profondità e lo spessore delle pareti, annullando così i vantaggi statici della forma tronco-conica; oltretutto un aumento di profondità avrebbe causato non pochi problemi nella fase di estrazione del ghiaccio. Si giunse così a progettare strutture con connotazioni spiccatamente industriali, a pianta rettangolare, lunghe anche 30 metri ma poco profonde, chiamate vaticano (schema 2.1), nome derivato dalla forma a cupola della copertura. La costruzione era in pietra, emergeva di qualche metro da terra e reggeva lo spiovente del tetto in paglia formando un angolo retto con il terreno. Quest’ultima caratteristica era

Figura 2.12. Bosco Chiesanuova (VR), Giassara del Grietz, esempio di ghiacciaia con tetto a unico spio-vente in pietra della Lessinia. (com-plesso attualmente di proprietà del Comune di Bosco).

Figura 2.13. Cerro Veronese (VR),

ghiacciaia dei Carcereri, spiovente

destro del tetto, in pietra della Les-sinia.

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dovuta alla lunghezza della struttura che, formata da uno o più pali lignei centrali che sostenevano una copertura a padiglione che arriva sino a terra, conferivano al vaticano l’aspetto molto familiare di un pagliaio. Nelle pareti emergenti si aprivano due porte: una per il carico, rivolta verso il bacino di raccolta dell’acqua, e l’altra prospicente all’arteria principale destinata al prelievo dei blocchi.

La struttura a vaticano non sviluppò una propria tipicità, tuttavia in essa può essere letto un forte richiamo alle ghiacciaie sorte in America e nel Canada, le quali più che ghiacciaie appaiono come dei veri e propri capannoni adibiti allo stoccaggio del prodotto ivi conservato.

A concludere questa possibile classificazione sono le ghiacciaie di pianura. Per tali strutture dobbiamo però distinguere quelle legate all’organizzazione comunale da quelle private. Nelle prime era il Comune che si faceva carico di costruire una ghiacciaia comunitaria per offrire ai cittadini, dietro compenso, l’opportunità di avere a disposizione il ghiaccio da usare a scopi igienici e alimentari; le seconde invece, che potremmo chiamare ghiacciaie da giardino o di villa, sorgevano nelle cantine di palazzi urbani, nei giardini di ville di campagna, nei casini da caccia o ancora nel giardino di conventi e abbazie, ed erano legate quindi ad uso esclusivo del proprietario o della congregazione.

Le ghiacciaie legate alla gestione comunale non sempre venivano costruite ex novo, ma talvolta venivano sfruttati ambienti già esistenti come cantine o venivano posizionate a fianco di locali di servizio come cucine, legnaie o lavanderie, pozzi per l’acqua, magazzini e ripostigli, oppure parti di fortificazioni cadute in disuso, meglio se esposte a Nord per una maggior protezione dal sole. La gestione di queste strutture veniva data

EVOLUZIONE DI IMPIANTO DELLA GHIACCIAIE ALLA FINE DEL XIX SECOLO

Schema 2.1 Schema rappresentativo dell’evoluzione delle ghiacciaie su finire dell’ottocento. Dalla forma tronco-co-nica a pianta circolare, ad una pianta ellittica, sino a giungere a una pianta di forma rettangolare

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in appalto a privati, e generalmente si distinguevano per essere usate a puro scopo conservativo e per la vendita del ghiaccio, prive cioè di bacini per la formazione del ghiaccio. Si presenta come unicum la ghiacciaia pubblica di Pisa, analizzata nel prossimo capitolo, poiché, pur presentando tutte le caratteristiche delle ghiacciaie nate per il commercio, si caratterizza tuttavia per avere propri bacini di produzione, con l’eccezione di essere non solo in pianura ma a ridosso delle mura cittadine.

Completamente diverse per struttura architettonica erano invece le ghiacciaie che abbiamo definito da giardino o di villa, che riprendono gli espedienti tecnici delle ghiacciaie a pianta circolare a sezione tronco-conica nella parte interna, mentre la parte esterna è caratterizzata per assumere una forma di collinetta artificiale ma talvolta la troviamo in casi eccentrici, come a pianta quadrata ,un esempio è la ghiacciaia nel parco delle Cascine a Firenze, o ottagonale (Fig. 2.14) o nuovamente cilindrica (Fig. 2.15). Queste erano collocate generalmente nel punto più ombroso e fresco del giardino, e permettevano di conservare il ghiaccio acquistato da usare nei mesi estivi per soddisfare ogni esigenza.

Figura 2.14. Ghiacciaia del Castello di Brolio, Siena. Esempio di ghiacciaia a pianta ottagonale.

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A causa della loro maggior esposizione fuori terra, ed erano quindi più soggette al calore solare: per questo motivo richiedevano sempre una doppia parete con intercapedine vuota, spessa anche un metro, per meglio coibentare il manufatto. I muri perimetrali erano in pietra o mattoni con la parete interna del muro spesso intonacata, reggevano una copertura a cupola di mattoni.

Il pavimento generalmente era realizzato anch’esso in mattoni ma inclinato verso il centro, dove si trovava un pozzetto per lo smaltimento delle acque di scioglimento; queste ultime andavano a confluire dentro un altro pozzo o in un canale aperto oppure in un laghetto del giardino della villa.

L’ingresso era rivolto a Nord, ed avveniva attraverso un piccolo atrio aggettante, coperto con una volta a botte, di fronte a al quale poteva trovarsi un’ulteriore porta a protezione del vano di conservazione, per eliminare il più possibile l’entrata di aria all’interno e permettere così al ghiaccio di conservarsi più a lungo.

Proprio perché ad uso privato, queste ghiacciaie da giardino in genere erano piccole, con capienza molto ridotta, venivano infatti concepite come elemento architettonico decorativo del parco, un punto di ritrovo suggestivo: sulla sommità della collinetta infatti trovavano spesso spazio piccole costruzioni come padiglioni ricreativi o tempietti che rispecchiavano il carattere ed il gusto estetico del proprietario della villa.

Figura 2.15. Morimondo, Abbazia cistercense di S. Maria di Morimondo, XIII secolo, Milano. Esempio di ghiacciaia a forma cilindrica.

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