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I Miserabili e il trionfo delle opposizioni. Il mostro inaspettato

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Academic year: 2022

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Caterina Tortoli

I Miserabili e il trionfo delle opposizioni.

Il mostro inaspettato

Abstract

In this essay, the author wants to put in evidence the figure of the monster into the novel Les Miserables by Victor Hugo. First of all, it is shown how the Gro- tesque’s category is utilized by Hugo to describe his characters. In this part, it’s clear the link between Victor Hugo’s Aesthetics and Karl Rosenkranz’s idea of Ug- ly. Then, it is underlined how the Ugly is one of the main themes of this book. This paper wants to show how the monster is more present here than in other works by the French author.

Keywords

Monster, Ugliness, Light and dark, Grotesque Received: 02/03/2021

Approved: 26/06/2021 Editing by: Germana Alberti

© 2021 The Author. Open Access published under the terms of the CC-BY-4.0.

caterina.tortoli@alice.it

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1. Premessa

Il mostro, grande protagonista della letteratura nel 1800, trova nell’opera di Victor Hugo una delle sue massime rappresentazioni, il che è dovuto al ruolo che lo scrittore francese attribuisce all’arte, capace più della scienza di cogliere la realtà del cosmo. Ed è proprio grazie alle sue convinzioni cosmologiche che Hugo riesce a elaborare i concetti del mo- stro e del grottesco. Quest’ultima categoria è da sempre difficile da de- limitare, tanto che il dibattito contemporaneo riflette sulla complessità di conferire una definizione a un concetto tanto articolato, che in Hugo è uno strumento che permette di comprendere un mondo generato dai contrari1. È proprio l’opposizione di tali contrari, prima fra tutti quella tra grottesco e sublime, a permettere la conoscenza dell’essere. Viene così gettato un ponte fra estetica ed epistemologia, di cui l’arte si fa por- tavoce attraverso la creazione di veri e propri esempi di mostruosità.

Nell’opera di Hugo compaiono infatti mostri anatomici, di cui si fa em- blema Quasimodo protagonista di Notre-Dame de Paris (Hugo 1831), amati, come Gwynplaine de L’uomo che ride (Hugo 1869), o resi tali da visioni oniriche o allucinazioni, di cui L’ultimo giorno di un condannato a morte (Hugo 1828) offre un ampio ventaglio.

Spesso, parlando del brutto in Victor Hugo, ci si ferma ad analizzarlo nelle opere in cui è forte il riferimento al concetto di deformità, mentre I miserabili non stupisce per l’insistenza sul grottesco. In queste pagine, cercheremo di far notare come anche e soprattutto in quest’opera ci sia una vera e propria anatomia del mostro, tentando di sviscerare il motivo per cui il brutto dovrebbe saltare agli occhi più qui che altrove. Trattan- dosi di un’opera complessa, in cui sono contenute molte storie e digres- sioni, sembra quasi impossibile fare un discorso unitario, che non pro- ceda per paragrafi o argomenti, sia nel metodo che nel merito. Nel me- todo, poiché risulta difficile fare un unico discorso, dal momento che i numerosi esempi richiedono ciascuno una singola trattazione, e nel me- rito perché si pensa che sia proprio nell’intento di Hugo non delineare una sola bruttezza poiché ciascuna ha in sé diverse caratteristiche. Per questo motivo, si cercherà di riprendere lo scandaglio del brutto, facen- do un parallelo con quanto affermato da Karl Rosenkranz in Estetica del Brutto (1853). Rosenkranz distingue fra un brutto naturale, spirituale e

1 F. Connelly (1998) nota quanto ogni tentativo di definire il grottesco sia una con- traddizione in termini, in quanto tale concetto è caratterizzato da una mancanza di confini, da precarietà e instabilità.

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artistico, e possiamo ritrovare una simile distinzione anche in Hugo: par- tendo dall’idea di una disarmonia presente in natura, Rosenkranz parla di tale bruttezza come derivata da malattia, intesa sia come precedente sia come successiva alla nascita dell’individuo.

Spesso tale bruttezza è introdotta da una mancanza di libertà, la qua- le viene ulteriormente analizzata poiché essa può dipendere da diversi fattori: o da condizioni sociali, quali la prigionia, la povertà, le ristrettez- ze che portano a un legame fra questo tipo di illibertà e la malattia, op- pure dalla crudeltà dell’uomo che attua soprusi sull’altro da lui. L’uomo solo è capace di esercitare questo tipo di cattiveria, che non è compati- bile con quella dell’animale proprio perché quest’ultimo è “incapace di pietà” (Connelly 1998), mentre l’essere umano dovrebbe riuscire a sot- tomettere l’istinto malvagio. Questa sorta di denuncia va di pari passo con la riabilitazione del mostro, che subisce un “processus d’identification” con l’autore stesso come indicato da Girard (1965), il quale sostiene che Hugo si identifica con i suoi mostri per vendicarsi di una società da cui non si sente apprezzato.

2. Fantine: il primo mostro

La bruttezza come frutto dell’indigenza è esemplificata nel personaggio di Fantine, che si trasforma nello spettro di se stessa proprio a causa di una società malata, che non accetta una ragazza madre come parte in- tegrante e la rilega ai margini, in modo che lei, per sopravvivere, debba vendere i suoi denti e i suoi capelli: “usciva di casa con la cuffia sudicia [...] a mano a mano che il calcagno delle calze si logorava, le tirava sem- pre più dentro le scarpe, come si poteva scorgere da certe pieghe per- pendicolari […]. Aveva gli occhi lucidi per la febbre, una spalla le doleva, la tosse la tormentava” (Hugo 1978: 177). Queste poche righe indicano tutto ciò che resta di Fantine prima che decida di vendere tutta se stessa e divenire una prostituta. Nel frattempo, si copre il capo per non far ve- dere i capelli corti e non sorride, così da nascondere i denti, rispetto alla cui mancanza si era anticipatamente definita un orrore. Quando le pro- pongono di vendere i denti per avere i soldi che le sarebbero utili al fine di mantenere la piccola Cosette, Fantine reagisce dicendo: “capite? Non è un uomo abominevole? […] Strapparmi i due denti davanti, ma sarei orribile! I capelli rinascono… ma i denti!” (Hugo 1978: 177). Qui il lettore non ha difficoltà a immaginare il mutamento avvenuto in Fantine a cau- sa della mancanza di denti e capelli. Il cambiamento della forma, che

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porta a una disarmonia, si verifica a causa della povertà cui Fantine è soggetta poiché è rifiutata. Questo riprende l’idea rosenkranziana di as- senza di forma, che si verifica quando manca qualcosa che avrebbe do- vuto essere presente. Qui l’idea di mostro è ancora più forte che in ope- re come Notre Dame de Paris (Hugo 1831), dove il brutto è espresso nel- la deformità di Quasimodo, il quale rappresenta la disarmonia rispetto ad un prototipo ideale, ovvero lo standard per cui ciascuno deve avere un certo rapporto fra le membra che, a loro volta, devono essere di una certa grandezza.

Ne I miserabili il mostro emerge in tutta la sua tragicità perché non è confrontato a uno stampo comune, ma a qualcosa che già avevamo pre- sente, che era nota: la bellezza di Fantine. Questo viene rilevato dallo stesso Hugo che, in precedenza, aveva insistito sulla graziosità della gio- vane, non esimendosi dal parlare proprio dei denti e dei capelli, di ciò che le viene tolto: “era bella e rimase pura più a lungo che poté. Grazio- sa, bionda, aveva per dote oro e perle, ma l’oro era sul suo capo e le perle nella sua bocca” (Hugo 1978: 122). L’autore vuole esprimere quanto sia prezioso quello che Fantine decide di perdere e paragona i suoi denti e i suoi capelli a materiali di pregio. Inoltre, mette in luce la sua purezza, che la ragazza decide di lasciare divenendo una prostituta:

ciò si riferisce sempre alla brutalità, poiché l’uomo specula sul dolore altrui trasformandolo nel proprio piacere.

Fantine, vivendo il suo dramma e la sua angoscia, si è totalmente trasformata; è ormai irriconoscibile. Diventata fango, è diventata anche marmo: chi la tocca sente freddo. Passa, subisce e vi ignora, figura disonorata e severa: la vita, l’ordine sociale le hanno detto l’ultima parola; tutto quanto le potrà ancora ac- cadere, già lo conosce per esperienza; ella ha sopportato, sofferto, pianto, ed ha tutto perduto. La sua rassegnazione è simile all’indifferenza, come la morte è simile al sonno. Non si difende più, non teme nulla e nessuno. [...] È come una spugna imbibita. (Hugo 1978: 178)

Si assiste allo spettacolo del ripugnante, poiché Fantine diviene oggetto, alienandosi dall’essere donna, esponendosi allo scherno dei passanti e di chi le grida: “quanto sei brutta! Vatti a nascondere! Non hai i denti!”

(Hugo 1978: 180), cosa di cui la donna si lamenterà con l’ispettore Ja- vert. Il ribellarsi di Fantine, che riconosce la sua dignità ferita, assume connotati sublimi che la fanno assomigliare al martire. È quel tipo di giu- stizia poetica che Rosenkranz rimprovera a Hugo, ovvero il fatto che l’atto di contrastare un’azione brutale, pur non riuscendovi, rende su- blime lo spettacolo grottesco. La vittoria della donna sarà parziale, poi-

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ché, pur riuscendo a evitare la galera, tutto quello che l’ha trasformata nello “spettro agghindato” (Hugo 1978: 180) la porterà alla morte. La discesa di Fantine nell’altro mondo viene descritta fra l’alternarsi dei momenti peggiori e quelli in cui invece pare riprendersi, fino al troncarsi di tutte le forze. L’imbruttimento dura fino a quando in ella c’è vita, poi- ché proprio la vita implica una serie di trasformazioni a volte dovute alla malattia che, a sua volta, può essere causata dal dolore, da quel “raggio divino che trasfigura anche i miserabili”, che la rende una “cagna impau- rita” (Hugo 1978: 182). Non è tuttavia da trascurare il fatto che il corpo brutto racchiude un’anima sublime e forte che mai viene smentita, nep- pure quando si sottolinea la trasfigurazione. L’annullamento dei sensi fa ritrovare alla donna un po’ della bellezza originale, infatti, dopo la scena tragica in cui Fantine stramazza sul letto, si ha l’arrivo della pace:

Batté i denti e stese le braccia con angoscia, aprendo convulsamente le mani e annaspando intorno, come uno che anneghi, poi si abbatté d’un subito sul guanciale. La testa urtò il capezzale del letto e le ricadde sul seno, con la bocca spalancata e gli occhi aperti e spenti. Era morta. […] Il volto di Fantine, in quel momento, sembrava stranamente illuminato: la morte non è forse l’ingresso nella gran luce? (Hugo 1978: 265)

Rosenkranz parla infatti della morte come qualcosa che, se da un lato può comunque incutere angoscia, dall’altro è indice di un rilassamento dei tratti, per cui il morto può apparire più bello di come sia stato in vita o, comunque, nei giorni precedenti il momento estremo.

3. L’insistenza sul caratteristico

L’idea di un mostro dall’anima sublime non può essere applicata ai Thé- nardier, i quali sono vittime della società, in quanto disgraziati, ma sono anche carnefici e agenti della sfortuna di Fantine giacché sono i suoi maggiori creditori. In questo caso, il brutto naturale va a coincidere con quello spirituale, come si evince da Rosenkranz il quale sostiene che

“particolari perversioni e vizi acquistano una precisa espressione fisio- gnomica” (Rosenkranz 1994: 63). Nel caso dei Théanardier, la loro illi- bertà crea la bruttezza, ma il loro voler opprimere la libertà altrui fa in modo che i vizi si imprimano nel loro aspetto, facendo trapelare l’interiorità. Questo riprende l’idea hughiana della maschera nel dram- ma, infatti sono questi i personaggi che esprimono maggiormente il ca-

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ratteristico: si ricerca il tipo del locandiere dissoluto e della moglie. Così Hugo completa il ritratto della donna:

Forse i lettori, fin dalla prima apparizione, hanno conservato qualche ricordo di quella Thénardier grande, bionda, rossa, grassa e grossa, tarchiata, enorme e agile che aveva qualcosa che ricordava quelle colossali selvagge che si esibisco- no nelle fiere colle loro contorsioni […] La sua ampia faccia, tutta picchiettata di lentiggini, aveva l’aspetto di una schiumarola; aveva un po’ di barba e aveva l’ideale di un facchino del mercato vestito da donna. (Hugo 1978: 346)

La locandiera ha tutti i tratti del grottesco ed è la negazione dell’ideale della bellezza femminile. La forza fisica della Thénardier è vista come l’ennesimo accordo dissonante di un’orchestra di strumenti stonati. In un contesto in cui la fragilità della donna dà un ulteriore tocco di grazia, l’idea di rompere una noce con un pugno, caratteristica attribuitale in seguito, è oltremodo grottesca e viene associata all’abitudine di bestemmiare, come se il livello di maleducazione, fosse, se non lo stesso, per lo meno simile.

Hugo farà uso di una delle sue metafore animali più forti, definendola

“una scrofa con la faccia da tigre”, il che rende evidente il suo essere an- corata a un contesto in cui tutto è dettato dalla natura.

Si passa poi alla descrizione del marito: “Thénardier era un ometto magro e smilzo, angoloso, ossuto e striminzito, che aveva l’aspetto ma- laticcio e stava benone: di qui incominciava la furberia. [...] Aveva lo sguardo da faina e la faccia da letterato” (Hugo 1978: 346). La contrad- dizione fra l’aspetto da malato e lo stato di ottima salute di Thénardier sembra essere la chiave per comprendere l’intero personaggio. La ma- lattia può introdurre la bruttezza, fermandosi però a un brutto naturale:

il fatto che egli avesse l’aspetto malandato ma fosse sano al contempo sembra voler dire che il brutto di Thénardier è soprattutto spirituale.

Questa coincidenza è la forza del mostruoso. La contraddizione, che spesso si ha fra corpo deforme e anima sublime, è qui capovolta: il cor- po “brutto” che, però, avrebbe l’attenuante di tale bruttezza, non ha più scusanti. L’aspetto è tradito dalla buona salute: sembra che sia un truc- co dello stesso Thénardier, come pure un contrasto rivelatore di un’anima marcia.

4. Luci e ombre

Ci sono però dei mostri che, a primo acchito, non rientrano né nella ca- tegoria del corpo deformato che racchiude l’anima sublime, né nei mo-

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stri dall’anima turpe. In questa categoria intermedia rientrano le figlie di Thénardier, definite anche “streghe”, in particolare Éponine, che sembra debba continuamente scegliere fra una natura deforme e una sublime, come se fosse posta in mezzo ai due poli, riprendendo l’argomentazione di Hugo per cui l’uomo duplex è sottoposto a una scelta che, nel caso di Éponine, è sottoposta al rinnovamento, finché non viene chiesto, anche a lei, di dare tutto. Sembra quasi che il suo aspetto oscilli e muti al cam- biare della sua interiorità, facendola passare da una natura diabolica a una angelica, come dice lei stessa rispondendo al vecchio che la chiama

“angelo”: Éponine dice “no, io sono il diavolo, ma non importa” (Hugo 1978: 794). Inizialmente, Hugo insiste sulla bruttezza provocata in Épo- nine dalla miseria.

Le spalle aguzze che uscivan dalla camicia, un pallore biondo e linfatico, le clavi- cole terree, le mani rosse, la bocca semiaperta e storta, qualche dente guasto, lo sguardo losco, sfrontato e volto in basso, le forme d’una giovinetta non svi- luppata e lo sguardo d’una vecchia corrotta; cinquant’anni e quindici; uno di quegli esseri deboli e orribili, che fanno fremere coloro che non fanno piangere.

[...] Si capiva che in altre condizioni d’ambiente e di fortuna, l’andatura gaia e libera di quella ragazza avrebbe potuto essere qualcosa di dolce e di ingannevo- le. (Hugo 1978: 670)

Éponine è come la massa amorfa di Rosenkranz: né bella né brutta, poi- ché la ragazza viene sì definita orribile, ma sembra che abbia la possibili- tà di cambiare lei stessa questo giudizio, come se le sue proprietà esteti- che cambiassero d’un tratto e la bellezza non necessariamente seguisse l’indigenza. È “una rosa nella miseria”: Hugo dirà, infatti, che il fiore può nascere dal letame. È quindi il personaggio che tiene in sé una forte resa del grottesco, sulla cui definizione verte il dibattito estetico contempo- raneo. Gli studi evidenziano il fatto che il grottesco non sia una trasgres- sione fine a se stessa, ma un concetto che stimola la nostra immagina- zione, portandoci a percepire unite sfere che siamo abituati a vedere contrapposte, il che è evidente nel personaggio sopra indicato: “In the grotesque, the simultaneity expressed by the conjunction ‘and’ (et et) replaces the ‘exclusive or’ (aut aut) that forces us to choose between two opposites” (Mazzocut-Mis, Rozzoni 2018).

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5.Jean Valjean

Il rapporto fra natura angelica e demoniaca è un tema caro a Hugo: si dispiega infatti in tutto il romanzo, trova maggiore insistenza nel perso- naggio di Éponine, ma in ciascuno acquista importanza, in particolar modo in Jean Valjean, che viene presentato come un forzato dai tratti rozzi, per poi diventare l’emblema dell’eleganza morale. La figura del protagonista, nonostante all’inizio sembri cedere all’anima che Hugo chiama deforme, non ha mai la categoria estetica del ripugnante, nep- pure quando è rifiutato a causa del suo passato torbido. La rozzezza evi- dente nell’ex forzato, per Rosenkranz, dovrebbe rientrare nell’ambito del volgare, che costituisce l’opposizione al sublime. Tuttavia, Hugo sembra far trasparire subito il sublime da Valjean, pur non parlandone espressamente: l’assenza di una descrizione densa di aggettivi, che spesso mettono in luce o il grottesco o il sublime dei personaggi, sembra qui fare intendere proprio la possibile trasformazione di questo volgare nel suo opposto.

Il protagonista si trova frequentemente davanti a delle scelte: è im- portante rilevare che, quasi sempre, queste si presentano come un ce- dere a una delle due forze della propria interiorità, che sembra palesarsi a un livello di concretezza, senza mai abbandonare la propria valenza spirituale: “per la prima volta, gli apparivano distinte e differenti: l’una coraggiosa e nobile, mentre l’altra poteva risolversi in una colpa; la pri- ma, s’identificava con l’abnegazione, l’altra con l’egoismo; l’una mirava al prossimo, l’altra difendeva l’io, la prima scaturiva dalla luce, la secon- da dalle tenebre” (Hugo 1978: 206). Hugo vuole evidenziare quanto l’angelo debba emergere, ed è per questo che il protagonista subisce una serie di purificazioni per sconfiggere le tentazioni della sua natura demoniaca. La catarsi, e quindi la liberazione della vera anima, si ottiene in molti casi, come era stato per Quasimodo (Hugo 1831), con la morte.

È la morte o addirittura la perdita, anche in vita, di ogni legame con il materiale, che permette di conoscere la verità. Riprendendo il perso- naggio di Fantine, è quando quest’ultima perde ogni forza e ogni dignità che si accorge che i due uomini vicino a lei, Jean Valjean e Javert, hanno ceduto l’uno alla natura angelica e l’altro a quella tenebrosa: “Aveva as- sistito alla contesa, se così può dirsi, della sua persona da parte di due opposte autorità, di due uomini diversi […]; da una parte le tenebre, dall’altra la luce; uomini ingigantiti dal suo stesso terrore, di cui uno aveva la voce del demonio, l’altro quella dell’angelo. L’angelo aveva trionfato” (Hugo 1978: 186). Hugo ha a cuore le figure che ricordino la

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dimensione demoniaca che è dentro l’individuo, che talvolta trapela all’esterno, come già sottolineato in Fantine che si sente un fantasma.

Lo stato quasi vampiresco si ritrova nello stesso Valjean che, reietto da tutti, si considera un defunto che cammina.

Il famoso episodio in cui Valjean da vivo viene rinchiuso in una bara rientra sempre nella categoria dello spettrale, ma con un’altra accezione poiché, per uscire dal convento senza essere visto, egli deve entrare in una bara che invece era destinata a una suora defunta. Qui non è “un morto che vive”: è un uomo troppo attaccato alla vita che propone di mettersi al posto della morta. Anche in questo caso, però, l’autore sot- tolinea quanto contraddittoria sia l’idea che un arredo funebre sia desti- nato a un vivo, e ciò è sufficiente per parlare di ripugnante e spettrale, poiché questo gli permette di avere una parvenza di quell’atto di cui, di- rebbe Heidegger, l’uomo mai può avere esperienza e che, come tale, lo rende un essere incompleto. Si afferma: “dal fondo di quella bara, aveva potuto seguire e seguiva tutti quegli atti che formano la tragedia della morte” (Hugo 1978: 186). L’unico spettatore di questo sconcertante spettacolo, pur essendo suo complice, ha paura nel vederlo uscire, pro- prio perché “vedere la morte è forse meno spaventoso che vedere la resurrezione” (Hugo 1978: 510).

6. Il brutto sociale

La denuncia sociale di Hugo è forte quando dipinge la condizione delle donne che hanno fatto i voti come una prigionia, che però non è stata causata da un crimine ma dalla purezza dell’anima. Questo gli è utile per fare una denuncia a uno stile di devozione poco critico, che ha molto in comune con le pratiche superstiziose. Le monache sono brutte e l’idea della loro negligenza nel curarsi − tanto che “hanno tutte i denti gialli”

(Hugo 1978: 442) − le avvicina alle immagini delle streghe. Dice poi che molte diventano pazze; a questo ritratto si aggiunge quindi un ulteriore elemento: la malattia mentale, che Rosenkranz indica come una causa della deformità del corpo.

La follia è un tema rilevante nella letteratura ottocentesca: anche Hoffman, dice Pietrantonio (2018), nota più volte che i suoi personaggi hanno l’aria di essere usciti dal manicomio. Pietrantonio commenta di- cendo che in questi anni si crea un rapporto osmotico che lega la rap- presentazione della follia con il grottesco. Il manicomio, come pure l’ospedale della Salpêtrière, rispetto al quale, per Hugo, il passante non

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può non pensare alle tribolazioni che accadono al suo interno, è un luo- go dove si osservano i pazienti e anche la “spettacolarizzazione dei loro corpi” (Pietrantonio 2018). Poiché si stabilisce, dal punto di vista scienti- fico, una corrispondenza fra parte fisica e morale, si fonda un’estetica della follia, in quanto ci si concentra sui segni che quest’ultima lascia sui corpi che così sconfinano nel mostruoso.

La stessa idea di costrizione che porta alla bruttezza estrema o alla pazzia è riservata alla figura del forzato, “cioè, l’essere che nella scala sociale non ha neppure un posto, essendo al di sotto dell’ultimo gradi- no” (Hugo 1978: 1282), personaggio cardine che sostiene il romanzo:

Ventiquattro su ciascun carro, dodici per parte, addossati gli uni gli altri, con la faccia rivolta ai passanti e le gambe nel vuoto. Così viaggiavano quegli uomini che avevano dietro alla schiena qualche cosa che tintinnava, ed era una catena, e al collo qualche cosa che brillava ed era una gogna. Ciascuno aveva il proprio collare, ma la catena serviva per tutti; di modo che quei ventiquattro uomini, quando dovevano scendere dal carro e camminare, erano afferrati da una spe- cie d’unità inesorabile che li obbligava a serpeggiare, sul terreno con la catena a guisa di spina dorsale pressappoco come un millepiedi. (Hugo 1978: 827) La catena è l’elemento che qui produce l’aspetto zoomorfo dei prigio- nieri: rende l’intero agglomerato una serpe e un millepiedi, animali che strisciano e che mai possono cambiare movimento, poiché è la natura che li vincola al terreno. Qui le dinamiche della società diventano sino- nimo di leggi naturali.

7. Brutto nel reale

Il brutto è un principio che si incarna nella realtà, che dà vita a cose e a intere categorie di persone. È quasi un principio soggiacente, da cui prendono vita gli enti, come la crisalide che permette alla farfalla di na- scere. È nel capitolo sulle fogne che il brutto viene presentato come alla base di tutti gli elementi. L’idea che le fogne siano le budella del Levia- tano contribuisce a rafforzare la convinzione che sugli scarti si fondi lo Stato, che quindi il brutto possa essere l’origine dell’ordine costituito.

Le fogne di Parigi si presentano come ciò che raccoglie la materia morta, in cui il brutto, il morto e l’inorganico prevalgono senza fare di- stinzioni di ceto. Parigi è la città-mostro per eccellenza, anche per Balzac e Berlioz, poiché “a Parigi ‘gli estremi si toccano’ e nella fusione degli opposti è insita la totalità conflittuale della metropoli del XIX secolo, do-

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ve ogni elemento è in equilibrio dinamico e si fonde con il suo contrario in un’unità mobile dove un estremo non può sussistere senza l’altro”

(Orabona 2002: 5). Orabona ribadisce l’idea hughiana per cui c’è una coabitazione di elementi grotteschi e sublimi. Nel proseguimento del saggio, si mette in evidenza il fatto che una città-mostro “cumulo di elementi disordinati […] che si polarizzano intorno a due gruppi opposi- zionali principali: movimento e immobilità, luce e tenebre” (Orabona 2002: 5) produca effetti sui suoi abitanti, che sono deformi fisicamente e spiritualmente.

La città è stata oggetto di studi in virtù del suo essere assimilata, fin dalla filosofia platonica, a un corpo il cui funzionamento deve dipendere da quello di tutti gli organi. Dunque, anche la parte dell’apparato escreto- re è fondamentale. È proprio grazie al suo essere accomunabile al corpo che la città assume una propria identità e autonomia. Tale metafora, co- me sostenuto da Jean-Jacques Wunenburger (2020), permette di trattare il contesto urbano anche attraverso le relazioni periferiche che costitui- scono la sua pelle, attraverso le reti di circolazione, i suoi alimenti, i suoi rifiuti e anche con una sessualità fallica che si evince dalle torri.

Il legame fra la città emergente e quella dei bassifondi è ricercato in ambito artistico ancora oggi, infatti si vuole sottolineare che sia l’ambiente sia le persone che lo abitano sono vestiti dal ripugnante. Il film Parasite, di Bong Joon-ho, è famoso per la contrapposizione fra un ambiente dei poveri, dove mancanza di comunicazione, fango e insetti accompagnano la vita di chi lo abita, e un ambiente per ricchi, esemplifi- cato dalla lussuosa casa dei Park, dove la famiglia Kim non potrà mai in- tegrarsi proprio per il suo puzzare di povertà, che è proprio il residuo che la città dei bassifondi lascia in tutti i suoi figli. Ciò che stupisce è l’elemento di un livello sotterraneo alla villa dei Park, un bunker in cui vivono, come topi, altre vittime della società che etichetta chi conta e chi no. È proprio l’inconsapevolezza del tunnel sotterraneo da parte dei personaggi che aggiunge un ulteriore tocco che collega la concezione della città di Bong Joon-ho a quella di Hugo, il quale sostiene anche esplicitamente che le fognature, sebbene invisibili, determinano la loro influenza in quello che si vede.

Pietrantonio (2018) riprende l’idea che la città si rifletta in chi la abita parlando dell’argot, ovvero del gergo di cui parla Hugo proprio ne I mi- serabili: è un modo di parlare presente nei bassifondi, che “porta inciso nelle parole il marchio di una sofferenza secolare, ha le sue radici nel de- litto, abita le tenebre, scandaglia gli abissi, incomprensibile al resto della collettività, se non nella forma di un ‘orrido mormorio che ha quasi il

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suono dell’accento umano’” (Pietrantonio 2018). L’argot è una “lingua bestiale”, composta di parole grottesche, che “rivela il caos informe dell’abiezione configurandosi come la lingua del corpo grottesco” (Pie- trantonio 2018). Come afferma Rosa: “L’argot en effet n’est pas pour Hugo la langue du crime mais, il dit et le répète, […] la ‘langue de la mi- sère’. […] Car entre la misère et le crime existe une relation probléma- tique – celle – là même qui fonde le double sens du mot ‘misérable’ et toute la tâche des Misérables sera de la penser – provisoirement définie comme une simple continuité” (Rosa 2007: 4). È una lingua in cui la sin- tassi viene invertita, un parlato che si fa gesto, indice delle tenebre pre- senti nell’individuo e, per questo “il personaggio-narratore [...] si trova di fronte ad una coralità che, nel mettersi a nudo, si serve di un improv- viso megafono per celebrare l’orrore, facendone, addirittura, l’apoteosi”

(Pietrantonio 2018).

8. Trionfo del mostruoso

I miserabili viene spesso presentato come un romanzo sociale, ragion per cui, visto il suo attaccamento con il realismo, sembra si presti meno alle figure mostruose tanto amate da Hugo. È invece questa contraddizione che lo rende un trionfo delle opposizioni e, di conseguenza, della coabita- zione fra grottesco e sublime. Nella società contemporanea a Hugo, figlia della Rivoluzione francese e dei moti degli anni ’30, sembra non debba esserci un grosso spazio per la drammaticità del brutto, ed è questo il mo- tivo per cui quel brutto emergente viene fuori con tutta la sua ripugnanza.

Come già accennato, l’episodio di Fantine rende la donna uno spettacolo più tremendo dello stesso Quasimodo (Hugo 1831) o anche di Gwynplaine (Hugo 1869), poiché il lettore già conosceva la bellezza della giovane che possedeva una forma dotata di rapporto fra le parti e correttezza. Da mo- vimenti come quelli rivoluzionari, che volevano il rispetto dei diritti civili e politici, la Francia di Hugo non eredita una maggiore giustizia, che avrebbe permesso il diminuire del crimine e dunque del brutto nella società. Seb- bene sembri venir meno il grottesco dell’amministrazione ottocentesca che Foucault vedeva rappresentato nelle mani di un essere ridicolo, esso emerge in forza maggiore quando è detenuto da persone dall’apparenza non così incisiva, poiché personaggi come Javert devono la squalificazione della loro maiestas al modo in cui Hugo dipinge la loro anima. Se per Fou- cault, l’ingranaggio del potere grottesco “è un procedimento che assicura la massimizzazione degli effetti di potere a partire dalla squalificazione di

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colui che li produce” (Foucault 2003: 12), qui tale squalifica avviene pro- prio in virtù del fatto che chi è parte del potere, ad esempio Javert, non viene ridicolizzato esteriormente, ma è svuotato all’interno in quanto de- ve la sua identità all’interiorizzazione di un sistema burocratico che poi vedrà delegittimato2.

Ogni elemento di questa società “rinnovata” ha carattere mostruoso, per cui i molteplici esempi di grottesco che si possono trovare assumono una maggiore risonanza, dal momento che si trovano in questo conte- sto. Anche il famoso topos del rapporto padre-figlio o figlia, dove per padre si considera sia il genitore biologico sia il semplice tutore, è un esempio rilevante3. Il cliché si ritrova ne Il re si diverte (Hugo 1832), L’uomo che ride (Hugo 1869) e ne I miserabili (Hugo 1862)4. In tutti i ca- si, si tratti di Triboulet, di Ursus o di Jean Valjean, compare il momento in cui il padre o colui che ne ha fatto le veci non vuole che il figlio o la figlia esca di casa, sia per ragioni di protezione dai possibili pericoli, sia per un istinto di gelosia verso ciò che ha di più caro. Si nota un diverso grado di questa gelosia, che è più forte ed esasperante in Triboulet e in Ursus di quanto non lo sia in Jean Valjean. Paradossalmente, però, è proprio in Valjean che questa stona con quanto il lettore aveva visto in precedenza e quindi provoca uno stordimento: ciò che sembra normale per un Triboulet non lo è per l’eroe de I miserabili, che diventa quasi un personaggio pressoché brutale nella sua ossessione di tenere la figlia so- lo per sé, atteggiamento che poi muterà radicalmente per dare adito alla propria anima sublime.

Questo ci dimostra quanto quello che ne I miserabili sembra atte- nuato è in realtà ancora più in rilievo, poiché il brutto si presenta come il cambiamento di qualcosa che, invece, doveva essere presente poiché c’era effettivamente stato. Quindi, i denti e i capelli di Fantine sono un prototipo di tutto il brutto di tale romanzo, poiché esso si presenta co- me uno scandaglio del grottesco in una società in cui le tracce di tale ca- tegoria avrebbero dovuto essere minime, a causa sia degli intenti eguali-

2 Si potrebbe obiettare che la squalifica foucaultiana avviene per quanto riguarda i Thénardier, ma, poiché prima di essere carnefici sono loro stessi le vittime, si ritiene di dover eludere tale considerazione.

3 Anche questo elemento trascende un po’ il tema principale, ma è funzionale per capire il brutto originato dalla contraddizione in questo testo.

4Questo tema si ritrova anche ne I lavoratori del mare (Hugo 1866) e In Notre Dame de Paris (Hugo 1831), in questo caso con riferimento al rapporto tra Quasimodo e Frollo, ma ovviamente non riprende lo stesso cliché.

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tari sia dell’attenzione alla realtà da parte dell’autore, che cerca, almeno apparentemente, di evitare l’eccesso, cosa che poi, di fatto, non fa.

Il brutto di mille tipi emerge in una forza nuova, quella che deriva dal contrasto: il grottesco dove non ce lo si sarebbe aspettato, che genera un maggiore senso di repulsione. L’elemento, dunque, che rende I mise- rabili esempio del grottesco è la sorpresa che l’emergere del brutto im- prevedibile provoca nel fruitore dell’opera. Connelly (1998) aveva indi- viduato come una delle funzioni del grottesco il generare uno sconcerto fra norme previste e manifestazioni inaspettate: è dunque un principio che irrompe nel quotidiano, trasformandolo. Il dibattito odierno sembra concorde nel riconoscere tale funzione, infatti Carroll (2003: 291-311) sostiene che la capacità del grottesco sia il voler eludere le nostre aspet- tative. Tuttavia, l’elemento di stupore non è sufficiente a qualificare tale categoria: per questo Bloom parla di uno stupore tinto di disgusto (Bloom 2009) e Harpham (1976) insiste sul suo dover essere perturban- te. Se, dunque, fra le caratteristiche fondamentali del principio hughiano rientrano la sua capacità di sconcertare e, al contempo, il suo incutere disgusto, possiamo affermare che I miserabili sia l’opera che più si pre- sta a rendere questa concezione estetica.

Bibliografia

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