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1.1 EMATOPOIESI E GERARCHIA EMATOPOIETICA 1. INTRODUZIONE

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1. INTRODUZIONE

1.1 EMATOPOIESI E GERARCHIA EMATOPOIETICA

Il sangue è una forma di tessuto connettivo formato da elementi cellulari (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine) che sono sospesi in un liquido, il plasma. Le sue componenti cellulari, dette anche elementi figurati, svolgono funzioni molto diverse che vanno dal trasporto dell’ossigeno alla produzione di anticorpi e, mentre alcune di esse esauriscono il loro compito per intero all’interno del sistema vascolare, altre lo utilizzano solo come mezzo di trasporto per spostarsi fra i vari tessuti. Le cellule del sangue condividono, tuttavia, una serie di caratteristiche comuni. Prima di tutto esse sono incapaci di auto-rinnovarsi e possiedono, fatta eccezione per i linfociti, una durata di vita piuttosto limitata, basti pensare che in un individuo di 70 Kg, ogni giorno vengono normalmente sostituite circa 1012 cellule ematiche tra cui 200 miliardi di globuli rossi e 70 miliardi di granulociti (Dancey et al., 1976, Erslev, 1983). Infatti, in seguito a traumi, malattie, condizioni di stress, oppure semplicemente in relazione al fisiologico turn-over, queste cellule vanno incontro a morte, devono essere pertanto continuamente rinnovate e la loro produzione regolata in modo tale da mantenere il numero di cellule differenziate nel sangue relativamente costante. Inoltre osservazioni cliniche e sperimentali hanno rivelato che le cellule mature del sangue sono tutte generate, in ultima analisi, da cellule staminali che risiedono nel midollo osseo; il processo responsabile della loro produzione e garante della loro omeostasi, prende il nome di ematopoiesi. All’apice di tale processo risiedono le cellule staminali ematopoietiche (Hematopoietic Stem Cells, HSCs), provviste di ampia capacità di proliferare, di dare origine a nuove cellule

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staminali (self-renewal), e di generare progenitori primitivi programmati a differenziare (commitment) in cellule mature di tutte le filiere, sia linfoidi (linfociti B e T), che mieloidi (eritrociti, granulociti, macrofagi, megacariociti, neutrofili, eosinofili e basofili). L’intero e complesso programma di maturazione che dalle cellule staminali dà origine alle cellule mature del sangue avviene attraverso divisioni successive durante le quali le HSCs perdono progressivamente le loro proprietà e danno vita ad una progenie di precursori sempre più limitati nel loro potenziale differenziativo. Dalle cellule staminali originano il precursore clonogenico comune di tipo linfoide (Common Lymphoid

Progenitor, CLP), in grado di generare esclusivamente cellule B, T e NK (Natural

Killer), e il precursore clonogenico comune di tipo mieloide (Common Myeloid

Progenitor, CMP), progenitore dei lineages mielo-eritroidi (trattati in

Weissmann, 2000). E’ stato proposto che l’intero potenziale linfo-mieloide delle

long-term HSCs (LT-HSCs) si realizzi tramite le short-term HSCs (ST-HSCs) e i

progenitori multipotenti (MPPs), sebbene essi siano dotati di ridotte capacità di autorinnovamento (Reya et al., 2001). Virtualmente l’attività delle LT-HSCs, ST-HSCs e dei MPPs risiede nella piccola frazione Lin-Sca-1+c-kithi (LSK), che rappresenta lo 0,1% di tutte le cellule del midollo adulto (Ikuta e Weissman,1992; Li e Johnson, 1995; Weissman et al.,2001). E’ stato dimostrato che all’interno di questo compartimento le LT-HSCs non esprimono CD34, né la tirosina chinasi recettoriale Flt3 (Adolfsson et al., 2001; Christensen e Weissman, 2001), mentre le ST-HSCs risultano LSKCD34+Flt3-(Osawa et al., 1996; Yang et al., 2005). Quest’ultima popolazione origina a sua volta una terza categoria di HSCs, le quali coesprimono tutte sia CD34 che Flt3 e quando trapiantate provvedono all’immediata e robusta ricostituzione delle filiere linfoidi, tuttavia mancano della

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capacità di formare in vivo Colony-Forming Unit Spleen (CFU-S) al giorno 8, attività ritenuta indispensabile per permettere la ricostituzione dei lineages mielo-eritroidi in topi letalmente irradiati. Sulla base di tali osservazioni Adolfsson et al. hanno fornito prove a sostegno di un modello alternativo nel quale la prima fase di committment consiste nella produzione di un progenitore eritro-mieloide, CMP, derivante con tutta probabilità dalle LSK Flt3-, in concomitanza con quella di un progenitore mielo-linfoide (Limphoid-primed multipotemt progenitor, LMPP), in grado di partecipare fortemente alla linfopoiesi, e in modo limitato alla mielopoiesi, dando origine sia a CLP che ai precursori di granulociti e macrofagi (Figura 1.1) (Adolfsson et al., 2005). Questo modello è in accordo con osservazioni precedenti che suggerivano un’organizzazione gerarchica simile (Singh, 1996; Takano et al., 2004), e riesce a riconciliare l’ordine e il tipo di progenitori che emergono nello sviluppo con la gerarchia dell’adulto. In quest’ottica infatti, la sequenza di eventi osservata durante l’ontogenesi non fa altro che riflettere lo stabilirsi di una gerarchia definitiva, dove una HSC primordiale, che gradualmente acquisisce le piene potenzialità di una staminale adulta, genera una progenie eritro-mieloide prima di quella linfoide. Mentre gli stadi differenziativi del precursore CLP non sono stati ancora del tutto chiariti, molti studi hanno concentrato l’attenzione sul precursore CMP rivelando molti aspetti della sua differenziazione nella mielopoiesi. Grazie a saggi di colonie spleniche già a partire dal 1961 Till e McCulloch identificarono una classe precoce di questi precursori pluripotenti, le CFU-S (Colony Forming

Unit-Spleen). Iniettando in topi letalmente irradiati midollo osseo da un donatore

singenico, nell’arco di 7-14 giorni dal trapianto si osservano, a livello della milza, colonie macroscopiche contenenti sia cellule differenziate dei diversi lineages

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mieloidi, che CFU-S capaci di dare a loro volta colonie secondarie (Till e McCulloch 1961). Per queste loro capacità di proliferare autorinnovarsi e differenziare le CFU-S sono state considerate a lungo cellule staminali, in realtà rappresentano una popolazione eterogenea come documentato da vari ricercatori. Infatti al giorno 7-8 dal trapianto sulla milza del topo ospite si formano dei noduli contenenti cellule di un unico lineage predominante (prevalentemente eritroide), generate da precursori unipotenti, che scompaiono nell’arco di 72 ore, mentre al 14° giorno la maggior parte delle colonie spleniche sono composte da cellule di diverse filiere e sono capaci di formare colonie secondarie, esse pertanto derivano da precursori pluripotenti (Magli et al., 1982). Un notevole contributo allo studio dei precursori ematopoietici proviene dallo sviluppo di saggi clonali in vitro su terreni semisolidi, i quali, hanno permesso di stimare non solo qualitativamente, ma anche quantitativamente i numerosi progenitori che occupano diverse posizioni nell’ambito della gerarchia ematopoietica (Pluznik e Sachs, 1965; Stephenson et al., 1971; Metcalf et al., 1975).

Una popolazione molto simile a quella delle CFU-S,capace di crescere in vitro è quella delle CFU-Mix (Colony Forming Unit-Mix), dotate anch’esse di un elevato potenziale proliferativo e differenziativo ma con capacità di autoreplicarsi più limitate (Iscove, 1978; Johnson e Barker, 1980). Operando scelte che ne riducono ulteriormente le caratteristiche di partenza i progenitori multipotenti danno vita a precursori bipotenti (CFU-GM, Colony Forming Unit-Granulocyte-Macrophage), che dopo 7-14 giorni di coltura, possono dare origine solo a granulociti e macrofagi. Infine, questi precursori bipotenti intraprendono uno specifico destino differenziativo, generando precursori unipotenti CFU-G e CFU-M capaci di formare colonie composte da un unico tipo cellulare G o M. All’interno del

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lineage eritroide si distinguono due tipi di progenitori unipotenti le BFU-E (Burst Forming Unit-Erythroid) e le CFU-E (Colony Forming Unit-Erythroid),

rispettivamente precoci e tardivi. Le BFU-E formano colonie dall’aspetto aranciato, emoglobinizzate, costituite da 200 fino a milioni di cellule, identificabili a partire dal 7° giorno di coltura (Iscove e Sieber, 1975). Le CFU-E invece danno origine a piccole colonie dalla forma a “morula” costituite da 8-64 cellule. Si trovano ad uno stadio differenziativo più avanzato e per questo vengono identificate già a partire dal 2° giorno di coltura. Tali aggregati sono qualitativamente identici a quelli presenti nelle BFU-E, e sono formati da cellule che stanno subendo le ultime divisioni prima della completa maturazione (Iscove e Sieber, 1974). Esistono altri precursori unipotenti (Mk, Eo e CFU-Ba), responsabili delle rimanenti filiere del compartimento mieloide (megacariociti, granulociti eosinofili e granulociti basofili). Alla base della gerarchia ematopoietica vi sono infine le cellule mature del sangue, dalla morfologia definita e dalle funzioni specifiche seppur dotate di vita limitata (Pluznik e Sachs, 1965; Metcalf et al., 1975).

1.2 LE CELLULE STAMINALI

EMATOPOIETICHE

1.2.1 Sistemi di isolamento e caratterizzazione

In uno studio ormai divenuto classico, risalente ai primi anni sessanta, Till e McCulloch definirono una popolazione di cellule ematopoietiche dotate di capacità clonogeniche e in grado di ripopolare la milza di topi irradiati in risposta al microambiente; non solo, queste cellule in alcuni casi producevano cloni che se trasferiti in ospiti secondari provvedevano alla ricostituzione di tutti i lineages (Siminovitch et al., 1963). Ad oggi le HSCs costituiscono la popolazione

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staminale meglio caratterizzata; le strategie sperimentali e i paradigmi concettuali applicabili alle staminali in genere vengono in primo luogo definiti in questo sistema, tuttavia contrariamente alle neurali o alle embrionali, individuate successivamente, non è tuttora possibile mantenere le HSCs ex vivo, se non per tempi molto brevi, nè espanderle su vasta scala. Le difficoltà riscontrate nel loro studio sono inoltre riconducibili al fatto che si tratta di cellule estremamente rare (la stima della loro frequenza nel midollo osseo di topo è di una su 105 cellule), e dotate di un fenotipo indifferenziato che impedisce la loro purificazione come popolazione omogenea. Dal momento che non possono ancora essere studiate in

vitro, per valutare la presenza di HSCs all’interno di una popolazione cellulare

eterogenea e per analizzarne le caratteristiche funzionali si ricorre a saggi di ripopolazione a lungo termine, che sfruttano la capacità di queste cellule di ricostituire il sistema ematopoietico di topi letalmente irradiati o geneticamente difettivi (Ogawa, 1993). L’esposizione a un’opportuna dose di radiazioni o la somministrazione di sostanze citotossiche provoca la morte delle cellule ematopoietiche, pur mantendo inalterata la funzionalità del microambiente midollare (Till e McCulloch, 1961). Gli animali sottoposti a tale trattamento vanno incontro a morte nel giro di una o due settimane a meno che non vengano trapiantati con cellule di midollo osseo proveniente da donatori compatibili. Le cellule trapiantate costituiscono in realtà una popolazione eterogenea, comprendente oltre alle HSCs anche precursori a diversi stadi differenziativi che garantiscono la ricostituzione delle diverse filiere nel periodo immediatamente successivo il trattamento. Tuttavia si tratta di un’azione temporanea, dal momento che i progenitori presentano una capacità di rinnovarsi tanto più ridotta quanto più sono differenziati. Il contributo di queste cellule alla ricostituzione si esaurisce

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infatti dopo circa tre mesi, ed è solo a partire da allora che gli elementi staminali presenti nel pool di cellule trapiantate iniziano a ripopolare il compartimento ematopoietico e lo fanno in maniera definitiva recuperando completamente la funzionalità ematopoietica (Harrison, 1980). Un altro sistema per studiare il fenotipo e la funzione delle HSCs consiste nell’impiegare come riceventi animali geneticamente modificati, quali ad esempio portatori di una mutazione in un determinato locus che codifica per un prodotto indispensabile allo sviluppo di un normale sistema ematopoietico. Le cellule ematopoietiche di questi topi hanno uno svantaggio di crescita rispetto a quelle dei wild-type, pertanto il trapianto di midollo osseo in questi animali consente di testare la capacità di ripopolazione competitiva di una certa popolazione cellulare (Szilvassy et al., 1990). Un modello largamente impiegato anche per lo studio delle HSCs umane (dal momento che non è possibile effettuare dei saggi di ripopolazione in vivo) è il topo NOD/SCID (non-obese diabetic/severe combined immunodeficient), che avendo un sistema immunitario fortemente carente consente l’attecchimento di cellule umane (Dick, 1996).

Una strategia di grande utilità e ormai largo impiego per isolare popolazioni fortemente arricchite in cellule staminali ematopoietiche o precursori molto precoci sfrutta l’espressione di antigeni di membrana rivelata tramite FACS (Fluorescence Activated Cell Sorter). Al momento nessuno dei marcatori noti è risultato esclusivo delle HSCs, pertanto combinazioni di diversi antigeni vengono in genere utilizzate per ottenere la loro univoca caratterizzazione immuno-fenotipica. Il primo screening può essere realizzato tenendo conto del fatto che le HSCs non esprimono marcatori di lineage caratteristici di cellule ematopoietiche differenziate terminalmente, quali CD3, CD4, CD8, B220, Gr-1, Mac-1, TER119,

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sono quindi Lin- (Spangrude et al., 1988). Alla fine degli anni Novanta si era fatta strada l’ipotesi che la sialomucina CD34 (Cluster of Differentiation), espressa solo in piccole frazioni di cellule midollari che comprendono precursori ed HSCs, fosse un marcatore di cellule staminali. I primi esperimenti, condotti utilizzando cellule donatrici CD34+ per il trapianto di topi letalmente irradiati o immunocompromessi, mostravano la capacità di queste cellule di ripopolare a lungo termine l’intero sistema ematopoietico dell’animale recipiente (trattati in Goodell, 1999). Inoltre l’utilizzo di popolazioni di midollo osseo umano arricchito in cellule CD34+ migliorava notevolmente l’efficienza dei trapianti di midollo e ne diminuiva le complicazioni (Civin et al., 1996; Link et al., 1996; Yabe et al., 1996) Tuttavia analisi più approfondite hanno rivelato che anche cellule CD34- sono in grado di realizzare una completa ricostituzione del sistema ematopoietico. L’ipotesi corrente è invece che la presenza di questo marcatore sulla membrana cellulare sia indicativa dello stato di attivazione della cellula staminale (Sato et al., 1999). Infatti nel midollo osseo la maggior parte delle HSCs si trova in uno stato di quiescenza e non esprime CD34 o lo fa ad un livello molto basso, mentre in seguito ad attivazione comincia ad esprimerlo ad alti livelli. La sovraespressione di questo antigene sembra un fenomeno reversibile, cosicché cellule attivate possono dividersi e differenziare oppure tornare in stato di quiescenza e non esprimere più questo marcatore. Nel topo l’espressione di CD34 in cellule ematopoietiche primitive decresce col procedere dello sviluppo, e questo è in accordo con il fatto che le cellule staminali adulte quiescenti sono maggiormente presenti nella frazione CD34- (Matsuoka et al., 2001). Anche l’espressione di un'altra glicoproteina, CD38, è stata oggetto di simili controversie: in un primo tempo sembrava che le HSCs e i progenitori primitivi

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umani fossero CD38- (Novelli et al., 1998), mentre studi successivi hanno evidenziato che nel topo sia le HSCs fetali che quelle adulte sono CD38+ (Dagher et al., 1998). In realtà pare che anche l’espressione di questo marcatore sia influenzata dallo stato di attivazione delle cellule staminali, pertanto le cellule in divisione sarebbero CD34+CD38-, quelle in G0 invece CD34-CD38+

(Tajima.,2001). Il recettore endoteliale della proteina C (Endothelial Protein C

receptor, EPCR), conosciuto anche come CD201, è un interessante marcatore

identificato attraverso lo studio del profilo genico di cellule ematopoietiche primitive altamente purificate (Ivanova et al., 2002; Akashi et al., 2003). CD201 è un recettore transmembrana di tipo I, espresso durante l’embriogenesi dalle cellule giganti del trofoblasto coinvolte nello sviluppo della placenta, e presente nell’adulto a livello della superficie luminale delle cellule endoteliali, dove, durante la coagulazione, aumenta l’attivazione della proteina C tramite il complesso trombina-trombomodulina (Fukudome e Esmon, 1994; Esmon, 2000; Crawley et al., 2002). Esso è strutturalmente correlato alla famiglia di molecole che costituiscono il complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) di classe I, coinvolte negli stati infiammatori. E’ un dato recente che cellule di midollo isolate sulla base della sola espressione di EPCR, se trapiantate in topi riceventi mieloablati, presentano un’elevata capacità di ricostituire il loro sistema emopoietico, al pari di staminali purificate utilizzando i metodi tradizionali. L’analisi fenotipica di questa popolazione ha evidenziato che la frazione di cellule che esprime maggiormnte EPCR è uniformemente positiva per Sca-1 e c-Kit e negativa per CD34 e marcatori terminali (Balazs et al., 2006).

Di recente interesse sono anche l’endoglina CD105, componente del recettore del fattore di crescita trasformante TGF-β (Chen et al., 2002), e una glicoproteina di

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120 Kd detta AC133. L’espressione dell’antigene AC 133 è ristretta alle HSCs e ai progenitori ematopoietici provenienti dal fegato fetale, dal midollo osseo e dal sangue periferico umano. La popolazione AC133+ umana, in trapianti effettuati su modelli animali tra cui i feti di pecora, ha presentato elevate capacità di attecchimento e le cellule umane provenienti dal midollo osseo di queste chimere sono state capaci di ripopolare il sistema emopoietico di animali riceventi in seguito a trapianto secondario (Yin et al., 1997).

Molte evidenze sperimentali suggeriscono che il gene Flt3 codificante per il recettore della tirosina-chinasi 3 nel fegato fetale (Fetal Liver Tyrosine kinase-3), abbia un’espressione correlabile alla perdita della capacità di autorinnovamento delle HSCs e di conseguenza ne possa identificare esclusivamente la scelta differenziativa (Adolfsson et al., 2001; Christensen e Weissman, 2001). Nei tessuti ematopoietici umani postnatali, dallo 0.1 fino allo 0.5% delle cellule CD34+ esprimono VEGFR2 (Vascular Endothelial Growth Factor Receptor 2), conosciuto anche come KDR. La maggioranza delle HSCs pluripotenti sono così inglobate nella frazione CD34+KDR+, viceversa i progenitori lineage-committed sembrano trovarsi in quella CD34+KDR- (Ziegler et al., 1999).

Di particolare interesse è risultata anche la tirosina chinasi endoteliale ed ematopoietica Tie2 in grado di arricchire la popolazione KSLA (Kit+ Sca-1+,

linlow/-, and AA4.1+), presente nel fegato fetale al giorno 14, di progenitori che

danno una ricostituzione multilineage. Le cellule positive a Tie-2 KSLA (T+KSLA) rappresentano infatti lo 0.01%-0.02% di tutte quelle presenti nel FL. Saggi clonogogenici in vitro hanno mostrato che in presenza di SCF, IL-3, EPO l’80% delle cellule T+KSLA formano colonie contro il 40% delleT-KSLA. Analisi per diluizione limite e trapianti primari e secondari hanno indicato che le

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LT-HSCs sono presenti solo nella frazione positiva con una frequenza di 1 su 8 cellule T+KSLA (Hsu et al., 2000).

In aggiunta ai nuovi marcatori già citati, restano quelli classici: Kit, il recettore dello Stem Cell Factor; Sca-1, condiviso dalle cellule staminali di altri tessuti; CD45, specifico per le cellule ematopoietiche.

Il problema della purificazione di una popolazione staminale omogenea tende oggi ad essere affrontato combinando alle usuali tecniche di caratterizzazione immuno-fenotipica nuove procedure basate sulla capacità di tali cellule di espellere alcuni coloranti fluorescenti come Rodamina 123 (Rho) e Hoechst 33342 (Ho). E’ grazie ad un trasportatore di membrana, detto ABCG2 (o BCRP1), che le HSCs dei tessuti murini adulti sono in grado di mantenere bassa la concentrazione di tali coloranti al loro interno (Zhou et al., 2001). Esperimenti di colorazione di cellule di midollo con l’Hoechst 33342 hanno portato all’isolamento al FACS di una frazione di cellule in grado di espellere in breve tempo il colorante e di realizzare in vivo la completa ricostituzione del sistema ematopoietico di topi letalmente irradiati; a questa popolazione è stato dato il nome di Side Population (Goodell et al., 1996). Questa stessa procedura è servita ad isolare con successo popolazioni staminali anche da altri tessuti non ematopoietici come il muscolo, il cervello, il fegato, il polmone e l’intestino tenue (Gussoni et al., 1999; Asakura e Rudnicki, 2002), suggerendo che il fenotipo SP non sia ristretto alle cellule del sangue più mature (Jackson et al., 2001). Dati piuttosto recenti indicano che all’interno della SP è individuabile una sottopopolazione detta “TIP”-SP, costituita da cellule che oltre ad avere il fenotipo CD34-kit+Sca-1+Lin- detengono la massima attività di esclusione del colorante. Queste cellule sono dotate di una forte capacità proliferativa e quando

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vengono utilizzate singolarmente in esperimenti di trapianto, nel 96% dei topi riceventi letalmente irradiati, realizzano una ricostituzione completa a lungo termine. L’insieme di questi risultati supporta l’ipotesi che le cellule “TIP”-SP CD34- KSL rappresentino le staminali ematopoietiche più primitive, in grado di migrare nei siti primari, attecchire alla loro nicchia, proliferare e differenziare efficientemente (Matsuzaki et al, 2004), anche se tale ipotesi è stata recentemente contestata. Un altro gruppo di ricercatori ha infatti trapiantato HSCs isolate attraverso profilo immunofenotipico e la capacità di espellere l’Hoechst 33342, riscontrando tuttavia che tali cellule non sono in grado di ricostituire il sistema ematopoietico dei topi riceventi con efficienza assoluta, e in una percentuale intorno al 35% (Camargo et al., 2006).

1.2.2 Nicchia ematopoietica

La capacità di autoreplicazione e di differenziazione delle HSCs e dei progenitori sembra essere regolata da eventi casuali, mentre l’interazione delle HSCs con lo specifico microambiente è critica per il mantenimento di proprietà quali l’adesione cellulare, la sopravvivenza e la quiescenza/proliferazione delle cellule staminali stesse. Poco si sa dei meccanismi molecolari responsabili ad esempio dell’attecchimento delle HSCs in seguito a trapianto e dell’avvio della loro proliferazione e differenziazione per produrre cellule ematopoietiche mature e funzionali all’interno del midollo. L’attecchimento delle HSCs sembra rappresentare il culmine di una serie di eventi grazie ai quali cellule temporaneamente circolanti vengono convertite in cellule residenti ed efficacemente integrate nel midollo. La prima fase di tale processo (HSC ‘‘homing’’), prevede il reclutamento delle HSCs circolanti da parte della

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microvascolatura midollare, cui fa seguito la loro migrazione transendoteliale fino ai cordoni emopoietici. I dati suggeriscono che l’homing è un evento specifico che richiede l’interazione di molecole di adesione cellulare (CAMs), citochine e fattori chemiotattici, inoltre sembra che esso avvenga in maniera simile al passaggio dei leucociti nei tessuti (Carlos e Harlan, 1994; Frenette et al., 1998). Un ruolo chiave per la sua realizzazione è stato attribuito a diverse molecole, tra cui la sialomucina recettore della P-selettina (P-Selectin Glycoprotein Ligand 1, PSGL-1), l’antigene dell’integrina β1 (Very Late Antigen, VLA), con il suo corecettore (Vascular Cell Adhesion Molecole-1, VCAM-1). il recettore per il fattore 1 derivato dallo stroma (Stromal Derived Factor1, SDF1), e quello delle chemochine CXCR4 (trattati in

Nilsson et al., 2006). Uno studio recente di Katayama et al., ha dimostrato che anche la E-selettina è critica in questo processo, in quanto svolgerebbe un’azione sinergica con VLA-4 (Katayama et al., 2003). E’ stato confermato che P-selettina, E-selettina e VCAM-1 sono espresse costitutivamente sulle cellule endoteliali del midollo (Schweitzer et al.,1996) dove sembrano essere coinvolte nel passaggio delle HSCs attraverso la microvascolatura (Mazo et al.,1998). In aggiunta anche la citochina FL, ligando di flt-3, medierebbe l’adesione dei progenitori all’endotelio vascolare (Solanilla et al., 2003). Studi in vitro hanno infine identificato SDF-1 quale molecola in grado di attrarre efficacemente cellule di midollo primitive CD34+ CD38-,fra le quali HSCs che già presentano il recettore CXCR4 (Jo et al.,

2000). Terminata questa prima fase le HSCs compiono una migrazione specifica all’interno del tessuto emopoietico (HSC ‘‘lodgment’’) per raggiungere le sedi anatomiche che rappresentano la loro posizione della nicchia. Sembra infatti che i progenitori committed si distribuiscano soprattutto nella regione centrale del midollo, nei pressi della vena longitudinale, mentre quelli primitivi nella regione

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adiacente all’osso, l’endostio (Mason et al., 1989; Lord, 1990). Queste osservazioni hanno fortemente avvalorato l’ipotesi che la distinta distribuzione spaziale esibita dalle varie popolazioni cellulari nel midollo sia il frutto delle interazioni adesive specifiche che si realizzano con il tessuto stromale. Una volta

in situ, le HSCs sviluppano prima un’intima associazione con la popolazione

eterogenea delle cellule stromali quindi avviano il programma di proliferazione e differenziazione in dipendenza da una complessa rete di interazioni con altre cellule, fattori dei crescita, molecole di adesione e proteine della matrice extracellulare. Come inizialmente dimostrato da Croizat et al., la scelta di una cellula staminale se rimanere nel suo stato di quiescenza o andare incontro a divisione è guidata dal microambiente. Studi recenti hanno suggerito che la nicchia comprenda verosimilmente una sottopopolazione di osteoblasti, di cui risulta particolarmente ricca la regione trabecolare del midollo. Tali studi hanno anche permesso di chiarire alcuni dei meccanismi molecolari responsabili della regolazione della proliferazione delle staminali ematopoietiche all’interno della nicchia, puntando l’attenzione in particolare sull’importanza del contatto diretto e dell’interazione tra HSCs e osteoblasti alla superficie dell’endostio (Arai et al., 2004; Calvi et al., 2003; Zhang et al., 2003). E’ stato dimostrato ad esempio che l’interazione di Ang-1 (Angiopoietin-1), un fattore secreto dagli osteoblasti, e Tie2, recettore presente sulla membrana delle HSCs, induce la stretta adesione delle HSCs alle cellule stromali e, mantenendole in uno stato di quiescenza, ne preserva la massima capacità di ripopolazione a lungo termine (Arai et al., 2004). La mancanza di osteoblasti è associata a difetti del midollo (Visnjic et al.,2004), viceversa topi mutanti che presentano regioni espanse di osso trabecolare e in cui si assiste ad un incremento del numero degli osteoblasti, presentano anche un

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parallelo aumento delle HSCs (Calvi et al., 2003; Zhang et al., 2003). Zhang et al. sono partiti dall’analisi della via di segnalazione di BMP (Bone Morphogenetic

Protein), essenziale nell’indurre il tessuto ematopoietico durante l’embriogenesi,

per indagare il ruolo di questa proteina nel regolare lo sviluppo delle HSCs in vivo. In particolare sono stati generati topi mutanti in cui è possibile ottenere l’inattivazione condizionale del recettore IA per il BMP. Questo studio ha condotto all’identificazione di una specifica sottopopolazione di osteoblasti che esprimono la N-caderina e formano un complesso N-caderina/beta-catenina con le HSCs, verosimilmente mediando l’adesione di queste cellule alla loro nicchia (Zhang et al., 2003). Diversi fattori prodotti dagli osteoblasti possono regolare il numero delle HSCs. Ne è un esempio l’osteopontina (Opn), una proteina fosforilata multidominio della matrice, sintetizzata dagli osteoblasti e coinvolta nell’adesione cellulare, nelle risposte infiammatorie, nell’angiogenesi e nelle metastasi tumorali. Nilsson e collaboratori hanno dimostrato che questa proteina riveste un ruolo critico nella regolazione della localizzazione fisica e della proliferazione delle HSCs. La sua espressione è ristretta alla superficie dell’endostio e contribuisce alla migrazione transmidollare delle HSCs, come dimostrato dalla distribuzione aberrante delle stesse in topi Opn-/- in seguito a trapianto. Inoltre la somministrazione esogena di Opn sembra sopprimere in vitro la proliferazione dei progenitori primitivi. Questa molecola quindi è considerata a tutti gli effetti parte della nicchia ematopoietica dove partecipa alla localizzazione delle HSCs e funziona da regolatore negativo della loro proliferazione (Nilsson et al., 2005; Stier et al., 2005). Il contributo di altre componenti, quali cellule stromali o perivascolari resta ancora da definire, tuttavia recentemente è stata postulata la presenza di un secondo tipo di microambiente per le HSCs a livello

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dell’endotelio fenestrato dei sinusoidi del midollo (Kiel et al., 2005). La stretta associazione fra le HSCs e le cellule endoteliali non giunge peraltro inattesa dal momento che entrambi questi lineages derivano dallo stesso precursore embrionale, l’emangioblasto (Huber et al., 2004). In aggiunta a questo linee cellulari o cellule endoteliali purificate dal sacco vitellino o dall’AGM promuovono il mantenimento e perfino l’espansione clonale delle HSCs in vitro (Li et al., 2003; Ohneda et al., 1998). D’altra parte cellule dell’endotelio vascolare isolate da diversi organi non-ematopoietici adulti non riescono a sostenere le HSCs in vitro (Li et al., 2004), pertanto sembra che le cellule endoteliali del midollo siano funzionalmente e fenotipicamente diverse da quelle della microvascolatura di altri organi (Kopp et al.,2005). Infatti queste cellule esprimono costitutivamente citochine quali CXCL12 (CXC-chemokine ligand 12) e molecole di adesione quali la E-selettina e VCAM-1 (Vascular Cell-Adhesion

Molecole 1), importanti per la mobilizzazione, l’homing e l’attecchimento delle

HSCs (Avecilla et al., 2004). L’esistenza di una “nicchia vascolare” è stata postulata sulla base degli effetti osservati nel midollo in seguito a mieloablazione: le HSCs quiescenti si distaccano dall’endostio e migrano al centro del midollo in prossimità della zona vascolare, dalla quale ristabiliscono l’ematopoiesi. Sembra che la nicchia localizzata a livello dell’endostio serva da luogo di immagazzinamento delle HSCs quiescenti, ed in certi siti possa contenere anche cellule in fase di autorinnovamento, mentre la nicchia vascolare sia costituita per lo più da cellule in attiva replicazione. Tra l’altro, l’eliminazione degli osteoblasti determina la comparsa di un’ematopoiesi extramidollare e questo suggerisce che la nicchia vascolare da sola non è sufficiente a sostenere l’ematopoiesi a lungo termine; è invece verosimile che la nicchia vascolare e quella dell’endostio

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collaborino strettamente nel mantenere l’omeostasi del sistema ematopoietico o il suo ripristino in seguito a danno (trattato in Wilson e Trumpp 2006).

1.2.3 Plasticità

La pluripotenza e la plasticità sono due caratteristiche classicamente attribuite alle cellule staminali embrionali, mentre le staminali adulte per definizione sono limitate nel loro potenziale differenziativo alla progenie del tessuto nel quale risiedono. Tuttavia studi sempre più accurati sembrano sfidare questo dogma, suggerendo che la capacità delle cellule staminali di generare una progenie matura può essere sorprendentemente più estesa di quanto si creda. La premessa iniziale di tali studi è sempre la stessa: l’esposizione di una cellula staminale ad un ambiente che essa normalmente non incontrerebbe mai, in maniera tale che essa non esegua solamente un programma di differenziazione intrinseco ma risponda ai segnali provenienti dal microambiente esterno, abbandonando il cammino differenziativo già intrapreso e essendo in qualche modo “riprogrammata” a differenziare verso un altro lineage cellulare. In quest’ottica, la ragione per cui una cellula staminale di un certo tessuto generi soltanto progenie di quel tessuto è da attribuirsi al fatto che le cellule circostanti la istruiscono in tal senso o alternativamente possono esserci nei tessuti dei segnali che impediscono ad una cellula di acquisire un fenotipo indesiderato (Clarke e Frisén, 2001). Le prime evidenze a favore della plasticità delle cellule staminali adulte sono emerse da studi sul sistema ematopoietico. Attraverso saggi funzionali in vivo è stato osservato che cellule di midollo, genotipicamente o fenotipicamente distinguibili, quando trapiantate in animali mutanti difettivi o mieloablati, sono in grado di rigenerare, anche se ad una frequenza piuttosto bassa, altri tessuti. Una delle prime

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dimostrazioni delle capacità plastiche delle HSCs è stata ottenuta trapiantando in animali wild type cellule di midollo osseo di topi transgenici contenenti il gene

reporter LacZ sotto il controllo di un promotore muscolo-specifico; in seguito ad

una lesione muscolare indotta, è stato osservato che un significativo numero di cellule LacZ+ avevano contribuito alla rigenerazione del tessuto muscolare scheletrico (Ferrari et al., 1998). Questo risultato è stato ulteriormente consolidato da esperimenti di trapianto di midollo in topi (distrofina-/-) affetti da distrofia

muscolare di Duchenne. I nuclei delle cellule midollari sono stati ritrovati a livello dei miotubi, del muscolo scheletrico e del miocardio, indicando che le cellule trapiantate sono in grado di recuperare parzialmente il fenotipo wild type (Bittner et al.,1999;Gussoni et al., 1999). Un’altra indicazione del potenziale miogenico delle cellule di midollo proviene dagli esperimenti condotti da Orlic e collaboratori, nei quali cellule di midollo adulto c-Kit+Lin- hanno rigenerato i vasi sanguigni e i cardiomiociti di topi infartuati (Orlic et al., 2001). L’implicazione di questi studi è che se l’efficienza di attecchimento delle cellule ematopoietiche è sufficientemente alta, il trapianto di midollo può essere usato per trattare una vasta gamma di malattie; questo è vero soprattutto riguardo a quelle patologie che colpiscono tessuti disseminati all’interno dell’organismo, quale la distrofia muscolare (Camargo et al., 2004). Il concetto emergente di plasticità delle staminali adulte è stato ulteriormente confermato dall’osservazione che staminali neurali (NSC) possono differenziare in tessuto ematopoietico: NSCs derivate clonalmente da topi esprimenti il gene LacZ sono state inoculate in topi irradiati subletalmente e attraverso saggi in vitro e in vivo sono state ritrovate cellule ematopoietiche derivanti dai donatori, indicando che le staminali neurali hanno transdifferenziato in cellule ematopoietiche (Bjornson et al., 1999). Inoltre,

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esperimenti di chimerismo hanno dimostrato che NSCs possono generare diversi tessuti embrionali di origine ectodermica, mesodermica e endotermica (Clarke et al., 2000). Così come le NSCs anche una popolazione cellulare residente nel tessuto scheletrico ha dimostrato di possedere un certo potenziale ematopoietico (Gussoni et al., 1999; Jackson et al., 1999). A queste prime osservazioni, si sono aggiunti dati sperimentali che sembrano attribuire alle HSCs capacità differenziative sempre più ampie. Sembra ad esempio che le cellule del midollo possano genereare cellule mature del fegato in risposta a danni tissutali e perfino prendere parte al fisiologico turn-over cellulare che avviene in quest’organo (Petersen et al., 1999; Lagasse et al., 2000). Saggi funzionali in vivo ed in vitro suggeriscono che le cellule di midollo osseo adulto siano in grado di dare origine a cellule di molteplici altri tessuti non ematopoietici, quali pancreas (Ianus et al., 2003), reni (Gupta et al., 2002), pelle (Krause et al., 2001), tratto gastro-intestinale (Okamoto et al., 2002), sistema nervoso (Castro et al., 2002). Tuttavia il tema della plasticità delle cellule staminali continua ad essere argomento di acceso dibattito. Molte perplessità nascono dal fatto che le tecniche fino ad oggi adottate non sono in grado di fornire una prova certa delle loro effettive potenzialità differenziative, inoltre, molto spesso, i dati ottenuti non sono riproducibili. Camargo et al. hanno evidenziato inoltre che questi studi tendono ad approdare a conclusioni descrittive, senza indicare chiaramente un possibile meccanismo biologico alla base di tale fenomeno e senza identificare con precisione il fenotipo delle cellule direttamente coinvolte in esso (Camargo et al., 2004).

Alcuni apparenti eventi di plasticità possono essere riconducibili ad altri fenomeni, quali la contaminazione o la fusione cellulare. In particolare, dal

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momento che le cellule staminali ematopoietiche sono in grado di migrare, attraverso la circolazione, in tutto l’organismo (Wright et al., 2001), è possibile che l’osservata transdifferenziazione verso il destino ematopoietico di cellule di un diverso tessuto non sia determinata dalla loro plasticità ma dalla presenza, nel tessuto stesso, di HSCs che ivi transitano (trattati in Camargo et al., 2004).

D’altra parte, la bassa frequenza con la quale si verificano gli eventi di transdifferenziazione ha sollevato la possibilità che si tratti di eventi stocastici non-fisiologici (Wagers et al., 2002; Camargo et al., 2003). La fusione cellulare può essere un spiegazione alternativa per alcuni casi di osservata plasticità. Quest’ipotesi è difficile da saggiare in tessuti come il muscolo dove questa rappresenta un naturale processo biologico che contribuisce alla formazione dei miotubi, tuttavia è stato confermato che nel fegato, nel cervello e nel cuore le cellule ematopoietiche possono fondersi con quelle tessuto specifiche (Alvarez-Dolado et al., 2003; Vassilopoulos et al., 2003; Wang et al., 2003). Diverse osservazioni lasciano intendere inoltre che le cellule responsabili degli eventi di fusione non siano le HSCs, ma piuttosto la loro progenie: infatti affinché le cellule ematopoietiche contribuiscano ai tessuti non ematopoietici è necessario che ricostituiscano prima il sistema ematopoietico dei topi riceventi, inoltre quando le HSCs sono trapiantate direttamente nel muscolo e nel fegato non attecchiscono (Wang et al., 2002); infine i modelli sperimentali della plasticità in genere richiedono danni a diversi tessuti ed un esteso reclutamento dei leucociti infiammatori (Camargo et al., 2004). I macrofagi sono i migliori candidati per questa funzione, in quanto sono particolarmente adatti a rispondere ad attacchi infiammatori, passano dal circolo ai tessuti non ematopoietici dove possono risiedere e possono fondersi tra di loro e con altre cellule (Vignery, 2000).

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Camargo et al. utilizzando una strategia di marcatura di lineage per seguire la progenie dei macrofagi in vivo hanno provato che le cellule di midollo capaci di generare tessuto muscolare ed epatico sono macrofagi e granulociti (Camargo et al., 2003).

Il fenomeno della plasticità è tuttora molto dibattuto e diverse ipotesi sono state avanzate per spiegarne i meccanismi di base. Concettualmente sono stati proposti diversi modelli attraverso i quali si possono esplicare le capacità plastiche delle cellule staminali (Frisén, 2002): il modello gerarchico, la transdifferenziazione, la transdeterminazione e la dedifferenziazione.

Il modello gerarchico prevede l’esistenza, nei vari tessuti, di cellule staminali pluripotenti non ancora indirizzate verso un determinato destino differenziativo e capaci, quindi, di dare origine a più tipi cellulari. A questo proposito, è stata isolata dal midollo osseo umano e murino, dal muscolo e dal cervello una popolazione molto primitiva di cellule (MAPCs, Multipotent Adult Progenitor

Cells) che sono in grado di dare origine, in vitro, a tutti i tipi cellulari somatici

(Jiang et al., 2002).

La transdifferenziazione definisce la condizione in cui una cellula matura acquisisce un altro fenotipo, spesso senza subire divisioni cellulari. Ne è un esempio la transdifferenziazione di cellule del muscolo liscio in miociti nell’esofago durante il normale sviluppo dei mammiferi (Frisén, 2002).

La transdeterminazione descrive invece la condizione in cui una cellula staminale o un precursore primitivo già indirizzati verso uno specifico cammino differenziativo generano una progenie appartenente ad un altro lineage cellulare. Infine, il quarto modello è quello della dedifferenziazione, secondo il quale una cellula lineage-specifica riacquisisce dapprima le proprietà di cellula staminale o

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di precursore primitivo e, in seguito, intraprende un altro cammino differenziativo. Questo fenomeno è ampiamente documentato negli anfibi urodeli che lo utilizzano ad esempio per rigenerare arti amputati, ma è ancora poco studiato nei mammiferi. Da tutte queste considerazioni emerge chiaramente che per poter parlare con assoluta certezza di plasticità è necessario un rigore assoluto nelle procedure sperimentali adottate. La prima questione da affrontare quando ci si appresta ad uno studio di questo tipo è la definizione delle cellule che si stanno studiando. Non sono pochi infatti i casi in cui sono state utilizzate popolazioni cellulari eterogenee che hanno precluso qualsiasi conclusione al riguardo. Un altro

caveat può essere la presenza di cellule staminali eterologhe in certi tessuti: ad

esempio la presenza di cellule dal potenziale ematopoietico nel muscolo è stata originariamente interpretata alla luce del fenomeno della plasticità, tuttavia una caratterizzazione più approfondita di tali cellule ha rivelato che il potenziale ematopoietico risiede esclusivamente in una popolazione di cellule che esprime tutti i marker delle HSCs (McKinney-Freeman, 2002). Un’altra fonte di equivoci interpretativi è il fatto che cellule trasformate possono generare lineages cellulari non correlati, pertanto le cellule utilizzate per il trapianto devono essere periodicamente ben controllate. Infine è importante caratterizzare le cellule generate dalle staminali di interesse dal punto di vista funzionale. L’identità di una cellula in genere viene definita dalla sua morfologia e dall’espressione di certi marcatori; si dovrebbe dimostrare anche la sua attività, anche se in alcuni casi questo è molto difficile. Infine, come già detto, non bisogna confondere eventi di fusione con la plasticità: un cariotipo anomalo è facile da rivelare sebbene cellule tetraploidi tendano ad espellere i cromosomi soprannumerari.

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1.3 ONTOGENESI DEL SISTEMA EMATOPOIETICO

E’ molto difficile riuscire a definire con la dovuta chiarezza i fondamenti della gerarchia ematopoietica sotto un profilo di sviluppo a causa di molte questioni, peraltro ancora ampiamente dibattute, che hanno a che vedere con l’origine embrionale, l’espansione e la migrazione delle HSCs e la loro conservazione durante l’evoluzione dei Vertebrati.

La sede anatomica predominante dell’ematopoiesi cambia diverse volte durante l’ontogenesi di un organismo e nel complesso lo sviluppo del sistema ematopoietico adulto si attua in due fasi: quella primitiva avviene nel sacco vitellino, e quella definitiva ha luogo, in sequenza, nella regione splancnopleura para-aortica/aorta-gonadi-mesonefro (PAS/AGM), nel fegato fetale, ed infine nella milza, nel timo e nel midollo osseo adulto (Marshall e Thrasher, 2001). Nell’embrione di topo la gastrulazione inizia al giorno 6.5 quando cellule del mesoderma extraembrionale (derivato dall’epiblasto) attraversano la stria primitiva e si localizzano fra i foglietti dell’ectoderma primitivo e dell’endoderma viscerale. Alcune di queste cellule, migrando dalla porzione anteriore della stria primitiva, penetrano nell’embrione, dove contribuiscono ai derivati della piastra laterale inclusa la futura regione AGM (Kinder et al., 1999), mentre altre dalla porzione posteriore della stria primitiva si stabiliscono in sua prossimità dove vanno a costituire il corion, l’amnios, l’allantoide e il sacco vitellino (Lawson et al., 1991). Il sacco vitellino (Yolk Sac, YS) è la prima sede ematopoietica dell’embrione. Esso possiede una struttura a doppio strato con cellule che derivano dal foglietto endodermico e cellule di origine mesodermica. E’ proprio in seguito all’aggregazione di queste ultime nella regione centrale del cilindro dell’uovo che si formano le isole sanguigne (Blood Islands), costituite da uno

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strato endodermico che ne supporta la crescita, un core centrale di eritroblasti primitivi e uno strato endoteliale che le circonda e riveste. La stretta associazione spaziale e temporale di questi derivati mesodermici ha condotto all’ipotesi di un precursore comune detto emangioblasto per endotelio ed eritrociti. Numerose evidenze per anni ne hanno supportato l’esistenza: precursori endoteliali ed ematopoietici condividono l’espressione di alcuni geni come flk-1, CD34, Scl; esperimenti di gene targeting dimostrano che nei topi dove entrambe le copie del gene flk-1, che codifica una tirosina chinasi recettoriale, vengono distrutte tramite ricombinazione omologa si ha morte prematura in utero tra il giorno 8.5 e 9.5, come risultato di anomalie che si manifestano molto precocemente nello sviluppo dei precursori endoteliali ed ematopoietici (Shalaby et al., 1995; Shalaby et al, 1997); infine cellule staminali embrionali coltivate come embryoid bodies mostrano la comparsa di precursori “Blast-CFC” con potenzialità sia ematopoietiche che endoteliali in risposta al VEGF (Vascular Endothelial Growth

Factor) e a SCF (Stem Cell Factor), (Choi et al., 1998). Recentemente precursori

di questo tipo sono stati identificati in vivo (Huber et al., 2004). Essi compaiono durante la gastrulazione in una ristretta finestra temporale, sovrapponibile con quella di comparsa dei progenitori eritroidi primitivi nell’embrione allo stadio presomitico (E7-E7.5), e sono localizzati prevalentemente nella regione posteriore della stria primitiva. Se isolate da embrioni le cellule Blast-CFC sono in grado di produrre progenitori eritroidi primitivi e definitivi oltre a vari altri progenitori mieloidi, indicando che entrambe le fasi ematopoietiche che si verificano nel sacco vitellino originano da esse. E’ riconosciuto fin dagli inizi del Novecento che le prime cellule ematopoietiche visibili sono gli eritrociti delle isole sanguigne. Maximov per primo mise in evidenza le profonde differenze esistenti fra queste

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cellule primitive, di grosse dimensioni e nucleate, rispetto agli eritrociti presenti nel circolo sanguigno dell’adulto, minuscoli e sprovvisti di nucleo. Le caratteristiche che hanno indotto ad operare una distinzione fra un’eritropoiesi primitiva e una definitiva sono molteplici: gli eritrociti primitivi sono sei volte più grandi di quelli definitivi e possiedono sei volte più emoglobina una volta maturati completamente, esprimono diverse combinazioni dei geni delle globine, mostrano una differente dipendenza dai fattori di crescita e possiedono un unico progenitore eritroide, definito EryP-CFC che genera in vitro colonie emoglobinizzate nell’arco di 5 giorni, a differenza delle BFU-E e delle CFU-E dalle quali si originano colonie rispettivamente in 7-10 giorni e 2-3 giorni (trattato in McGrath e Palis, 2005). Con il progredire dello sviluppo, non appena il sacco vitellino diviene più estesamente vascolarizzato, intorno al giorno 8.5, la circolazione extraembrionale si connette all’aorta dorsale attraverso l’arteria onfalomesenterica. In conseguenza di ciò gli eritroblasti primitivi cominciano a circolare intravascolarmente fra i siti embrionali e quelli extraembrionali e simultaneamente vanno incontro ad un processo di maturazione simile a quello che interessa le cellule eritroidi definitive del fegato fetale e del midollo dell’adulto, che comporta variazione della loro morfologia, perdita di filamenti intermedi, accumulo di emoglobina con conseguente diminuzione della basofilia citoplasmatica e progressiva condensazione nucleare (De la Chapelle et al., 1969; Sasaki e Kendall, 1985). Recentemente è stato dimostrato che l’eritropoiesi primitiva e quella definitiva condividono un’altra caratteristica, quella di maturare eritrociti privi di nucleo. Utilizzando anticorpi diretti contro un peptide unico della globina βH1 (embrionale) è stato possibile identificare gli eritrociti primitivi indipendentemente dallo stato del loro nucleo (Kingsley et al., 2004). L’analisi del

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sangue periferico di diversi feti ha rivelato che nella maggioranza dei casi questi eritroblasti primitivi perdono il loro nucleo fra il giorno 12.5 e 16.5 e questo non si accompagna ad un significativo cambiamento del numero di cellule in circolo. La seconda fase dell’ematopoiesi del sacco vitellino è quella che dà l’avvio all’eritropoiesi definitiva; la comparsa di progenitori eritroidi definitivi (BFU-E) inizia nelle prime fasi della somitogenesi, al giorno 8.25. (Palis et al., 1999; Wong et al., 1986). Queste prime BFU-E sono già presenti nel sacco vitellino prima dell’avvio della circolazione e aumentano di numero in questo tessuto per le successive 48 ore, tuttavia la vera e propria espansione esponenziale si ha all’interno del fegato, non appena esso si configura come organo ematopoietico allo stadio E10. A differenza del sacco vitellino dove sono state identificate poche CFU-E e solo in seguito alla maturazione delle BFU-E iniziali, nel fegato fetale ne sono state trovate parecchie in concomitanza con la maturazione degli eritroblasti definitivi e questo ha indicato che il fegato e non il sacco vitellino è la sede della maturazione degli eritrociti definitivi nel feto. Gli eritrociti definitivi entrano in circolo al giorno 11.5-12.5. Questi dati sono compatibili con l’ipotesi che il sacco vitellino crei un’ondata iniziale di progenitori eritroidi definitivi che colonizzano il fegato fetale non appena questo inizia a formarsi e una volta al suo interno generano rapidamente eritrociti per supportare il feto in crescita. Saggi di coltura

in vitro del sacco vitellino hanno mostrato che esso contiene progenitori eritroidi e

mielo-monocitari dal giorno 7 (Moore e Metcalf, 1970), progenitori per i lineages B e T e progenitori multipotenti con potenzialità eritro/mieloidi e linfoidi dal giorno 8.5 (Godin et al., 1995; Cumano et al., 1996), mentre non sono stati trovati progenitori capaci di ripopolazione in vivo fino alla comparsa delle Colony

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che fin dall’inizio della somitogenesi il YS esprima precursori unipotenti per le

mast cells e bipotenti per granulociti e macrofagi, inoltre precursori macrofagici e

megacariocitari sembrano persistere perfino dopo che i progenitori eritroidi precoci sono scomparsi (Palis et al., 1999; Keller et al., 1999). Un’ulteriore evidenza del fatto che dal sacco vitellino emergono vari lineages ematopoietici definitivi deriva dallo studio di embrioni privi della VE caderina. La distruzione mirata della VE caderina infatti provoca mancanza di integrazione vascolare e di circolazione sanguigna (Gory-Faure et al., 1999), pertanto gli embrioni muoiono al giorno 9.5, tuttavia il sacco vitellino permane per diversi giorni e contiene eritrociti definitivi, macrofagi, megacariociti, neutrofili e progenitori emopoietici multipotenti (Rampon e Huber, 2003). La regione PAS/AGM solo da alcuni anni è stata identificata e riconosciuta come sede ematopoietica, si tratta infatti di un tessuto anatomicamente complesso da cui derivano organi di diversi sistemi. E’ localizzata nella zona del tronco e dell’addome dell’embrione ed include il mesoderma splancnico, l’aorta dorsale, le creste genitali/gonadi e il promesonefro, il mesenchima accessorio e il mesoderma intermedio. In genere si fa riferimento a questa regione come PAS soprattutto durante le prime fasi dello sviluppo mentre con il procedere dell’organogenesi le componenti del sistema urogenitale si distinguono dall’adiacente aorta dorsale, portando alla sua designazione come AGM. Il primo tessuto distinguibile è il sistema vascolare delle due aorte dorsali: esse vengono prima collegate ai vasi del sacco vitellino attraverso l’arteria vitellina e al giorno 9 si fondono a dare un unico vaso mediano (Garcia –Porrero et al., 1995) mentre l’arteria ombelicale crea una connessione tra l’aorta dorsale e la placenta. Studi in vitro sono stati condotti per identificare anche in questa regione la sequenza temporale di comparsa dei diversi progenitori. Qui la

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presenza di precursori ematopoietici è stata evidenziata a partire dal giorno 7.5 e si protrae fino al giorno 11-12 quando questo tessuto inizia a degenerare mentre il fegato incrementa la sua attività emopoietica. Anche nella regione PAS così come nel sacco vitellino i progenitori dei linfociti B sono presenti dal giorno 8.5, come rivelato da espianti in vivo di questo tessuto sotto la capsula renale di topi SCID adulti (Godin et al., 1993). L’insieme di numerose analisi di tipo cinetico accompagnate da colture organotipiche di espianti da sacco vitellino o da PAS/AGM ha infine rivelato che le prime HSCs capaci di ricostituire a lungo termine tutte le filiere di topi adulti letalmente irradiati compaiono in maniera autonoma ed esclusiva al giorno 10 proprio nella regione AGM dalla quale sono poi disseminate negli altri organi emopoietici dell’embrione, il sacco vitellino e il fegato fetale (Muller et al., 1994; Medvinsky e Dzierzak, 1996). In questo modo l’ematopoiesi nel fegato fetale origina da due fonti esogene: la prima deriva dalle cellule del mesoderma extraembrionale che migrano attraverso la parte posteriore della stria primitiva andando a formare il sacco vitellino e generando ondate transienti di progenitori ematopoietici; in successione si attiva la seconda fonte di cellule mesodermiche che migrano all’interno dell’embrione dove generano l’aorta e le staminali della regione AGM (Bertrand et al., 2005). Per meglio definire la zona di origine delle HSCs all’interno dell’AGM questa è stata prelevata da embrioni allo stadio E11-E12, suddivisa longitudinalmente nei vari pimordi dell’aorta, delle gonadi e del mesonefro e le sospensioni cellulari ricavate dai rispettivi tessuti sono state saggiate funzionalmente per la presenza al loro interno di HSCs, attraverso trapianto in riceventi adulti preliminarmente irradiati. Le HSCs risiedono solo nella regione dell’aorta al giorno 11, mentre al giorno 12 anche le creste uro-genitali sono capaci di dare ripopolazione midollare a lungo

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termine e qui le HSCs sono alloggiate soprattutto a livello del mesonefro. Inoltre le arterie ombelicali e vitelline contengono HSCs dal giorno 10.5 (De Bruijn et al., 2000). La presenza di clusters di cellule ematopoietiche adese allo strato endoteliale dell’aorta dorsale e delle arterie ombelicali e vitelline, ha sollevato un’ulteriore questione circa la possibilità che cellule ematopoietiche definitive e HSCs siano generate attraverso un intermedio endoteliale indicato come endotelio emogenico. Per fare chiarezza sono stati allestiti esperimenti di marcatura delle cellule endoteliali di embrioni di uccelli. Il sistema vascolare di tali embrioni è stato marcato con DiI-AcLDL (un marcatore fluorescente lipofilico complessato ad una lipoproteina a bassa densità acetilata), un giorno prima della comparsa di tali clusters emopoietici. Due ore dopo l’inoculazione l’aorta risulta completamente ricoperta da celule endoteliali DiI+, mentre non sono presenti cellule ematopoietiche CD45+ né a livello dell’aorta né in circolo. Quando i

clusters ematopoietici compaiono, il giorno successivo, contengono cellule DiI+

CD45+ e sono adesi alla porzione ventrale dell’aorta dorsale tramite giunzioni

strette (Jaffredo et al., 1998). Esperimenti simili condotti nel topo hanno svelato che realmente progenitori eritroidi definitivi si originano da cellule endoteliali (Sugiyama et al., 2003), inoltre cellule DiI+CD45+ si ritrovano anche nel mesenchima ventrale all’aorta e questo suggerisce la possibilità che un gruppo di cellule dalla parete vascolare penetri in questa regione. Resta tuttavia ancora da stabilire se queste cellule mesenchimali rappresentino l’emangioblasto definitivo e se siano i precursori dell’endotelio emogenico e/o di cellule ematopoietiche definitive (trattato in Jaffredo et al., 2005). Il fegato fetale (Fetal Liver, FL) è considerato il principale tessuto ematopoietico della vita fetale; i suoi rudimenti appaiono come un’evaginazione dell’endoderma intestinale a partire dal tardo E9.

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Numerose evidenze indicano che l’ematopoiesi non si origina nel FL, ma che esso venga colonizzato a sua volta e sia utilizzato come riserva di cellule ematopoietiche. Eritrociti e progenitori precoci vi entrano per primi allo stadio E9, mentre progenitori definitivi e HSCs in seguito ad una successiva ondata di colonizzazione intorno al giorno 10.5-11. Saggi clonogenici hanno infatti evidenziato che a questo stadio il fegato fetale è capace di produrre tutte le cellule mature del sangue e saggi di ripopolazione in vivo hanno confermato la crescente presenza di HSCs fino al giorno 16 quando comincia ad essere progressivamente sostituito dal midollo osseo. Nell’embrione di topo il timo e la milza si sviluppano relativamente tardi nella gestazione (E15) e sono coinvolti nella produzione di cellule ematopoietiche mature altamente differenziate da progenitori ematopoietici che hanno colonizzato questi organi (Dzierzak et al., 1998).

Un aspetto da chiarire è se la successione delle sedi ematopoietiche rifletta una parallela migrazione delle HSCs da un sito all’altro, oppure se si originino ogni volta nuove HSCs nelle diverse sedi. Ormai più di trent’anni fa Moore e Owen ipotizzarono, sulla base dei risultati di esperimenti di trapianto di cellule di YS in embrioni di pollo irradiati, che questa comparsa sequenziale di organi ematopoietici durante l’ontogenesi richiedesse un apporto di HSCs circolanti prodotte, in origine, nel sacco vitellino. Sulla base di questo modello cellule staminali provenienti dal sacco vitellino migrerebbero dapprima in una sede ematopoietica fetale, come il fegato, dove esprimerebbero un programma fetale di differenziazione. Da questo sito le HSCs migrerebbero quindi nel midollo, dove attiverebbero un pattern adulto, grazie anche al contributo di segnali provenienti dal microambiente. Studi successivi, condotti in topo, hanno confermato che la presenza del sacco vitellino è critica per l’avvio dell’ematopoiesi epatica. Tessuto

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epatico fetale intatto, prelevato da embrioni di topo allo stadio di 28 somiti (pre-ematopoietico), fu impiantato sotto la capsula renale di topi adulti singenici preliminarmente irradiati. In tutti i casi il tessuto trapiantato permaneva nell’ospite, ma solo quando veniva somministrata, insieme, anche una dose di cellule di midollo osseo singenico, esso risultava in grado di produrre, dopo alcuni giorni dal trattamento, colonie ematopoietiche multilineages (Johnson e Moore 1975; Houssaint, 1981). A questi dati si sono aggiunti quelli provenienti dalla coltura in vitro di embrioni E7 privati delle membrane del sacco vitellino: essi infatti si sviluppano normalmente per due giorni, ma sono del tutto privi della capacità di produrre cellule sanguigne (Moore e Metcalf, 1970). Queste osservazioni hanno contribuito ad avvalorare l’idea secondo la quale l’ematopoiesi non viene innescata da precursori endogeni del fegato fetale, ma questo tessuto è indispensabile a promuovere la crescita e la differenziazione dei precursori circolanti che da esso sono richiamati. Quale sia la provenienza delle HSCs che colonizzano il fegato fetale è una questione ancora molto dibattuta; osservazioni condotte su altre classi di Vertebrati forniscono informazioni importanti in tal senso. In particolar modo studi condotti da Dieterlen-Lievre e collaboratori hanno mostrato che l’ematopoiesi definitiva si stabilisce nell’adulto a partire precursori intraembrionali e che il sacco vitellino riveste un ruolo di primaria importanza solo nell’instaurare un’eritropoiesi primitiva transiente (Dieterlen-Lièvre e Martin, 1981). Nei mammiferi le prime fasi dello sviluppo sono meno accessibili che negli uccelli, ed è pertanto più difficile operare in vivo senza compromettere la sopravvivenza dell’embrione. Tuttavia è stato possibile studiare se le HSCs fossero presenti nel sacco vitellino murino, attraverso esperimenti di trapianto. I risultati ottenuti sembravano di volta in volta supportare

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o smentire la teoria di Moore-Owen in funzione dell’età del ricevente. Weissman e collaboratori riportarono che trapiantando in utero cellule di YS allo stadio E8 nel sacco vitellino di topi riceventi singenici non ablati, si aveva il loro contributo alla linfomielopoiesi dei topi sopravvissuti, trapiantando invece cellule di sacco vitellino allo stadio E9 nella placenta di feti singenici, deficienti di staminali, si aveva la ricostituzione a lungo termine (più di 5 mesi) del lineage eritroide. Da questi dati è risultato che le HSCs che attecchiscono in embrioni o feti ed in grado di contribuire all’ematopoiesi dell’adulto, sono presenti nel sacco vitellino a partire dallo stadio E8-9. In contrasto con queste osservazioni altri studi hanno dimostrato che le prime HSCs che attecchiscono direttamente in topi riceventi adulti letalmente irradiati sono presenti nell’embrione allo stadio E10 a livello della regione AGM (Muller et al., 1994). Inoltre HSCs capaci di ricostituire un’adulto non sono presenti nel sacco vitellino fino allo stadio E11, nel quale stadio le HSCs sono già presenti in altre sedi, quali la regione AGM, il fegato e le arterie vitelline e ombelicali. Per identificare con maggiore accuratezza le HSCs definitive è stato studiato in diversi tessuti il pattern di espressione dei loro marcatori noti. Uno di questi è il fattore di trascrizione CBFα2, importante per lo

sviluppo di cellule ematopoietiche definitive. L’inattivazione di entrambe le copie di questo gene determina una insufficienza di tutti i lineages ematopoietici definitivi nell’embrione in sviluppo, anemia del fegato fetale e morte a giorno E12 (Okuda et al., 1996; Wang et al., 1996); in questi embrioni mancano del tutto le HSCs nell’AGM, e questo suggerisce che proprio questa regione sia la sede interessata al difetto primario. Studi recenti sulla distribuzione delle HSCs durante le fasi intermedie della gestazione hanno dimostrato che la placenta e il sacco vitellino sarebbero in grado di supportare la loro espansione fra il giorno 11 e 13

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(Kumaravelu et al., 2002; Gekas et al., 2005; Ottersbach e Dzierzak., 2005). L’insieme di queste osservazioni sembra confermare l’ipotesi di un’origine non vitellina delle HSCs che popolano il fegato fetale e ricostituiscono il midollo adulto. Resta quindi da definire quale sia la relazione fra le HSCs del sacco vitellino che si innestano nei tessuti embrionali fetali e neonatali dove garantiscono una ripopolazione di tutte le filiere emopoietiche e le HSCs definitive della regione AGM, del fegato, delle arterie vitelline e ombelicali capaci di reintegrare direttamente tutti i lineages di topi adulti letalmente irradiati. Dall’analisi fenotipica è emerso che le HSCs dell’AGM sono c-kit+, CD34+ (alcune anche Sca-1+) e negative per marcatori di lineage terminali come CD4,

CD8, B220 e Gr-1 (Sanchez et al., 1996). Di queste cellule staminali la metà esprime il marcatore Mac-1, che si ritrova anche su tutte le HSCs del fegato fetale dal giorno 11 al 13 (Sanchez et al., 1996; Morrison et al., 1995). Questa somiglianza fenotipica, in stretto accordo con la distribuzione temporale sia nell’AGM che nel fegato fetale di HSCs funzionali, capaci di ripopolare l’adulto, ha indotto a pensare che le HSCs positive a Mac-1 presenti nel fegato fetale provengano dall’AGM. CD34 e Flk-1 sono stati ritrovati anche sulla superficie di cellule del sacco vitellino o della regione PAS al giorno 9, in grado di avviare una ripopolazione neonatale (Yoder et al., 1997), mentre progenitori multipotenti del sacco vitellino e della PAS al giorno 8-9 sono risultati positivi al marcatore delle HSCs del fegato fetale AA4.1.(Iordan et al., 1990). In conclusione, sia a livello funzionale che fenotipico la regione AGM sembra rivestire un ruolo centrale nello sviluppo di quella coorte di HSCs che si ritrovano a livello del fegato fetale e dell’adulto, mentre la funzione delle cellule ematopoietiche del sacco vitellino pare essere limitata agli immediati bisogni dell’embrione in sviluppo.

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1.4 I FATTORI DI CRESCITA

I sistemi di coltura in vitro forniscono un sistema adatto a chiarire il processo di formazione delle cellule del sangue e nello stesso tempo utile a comprendere i meccanismi e la regolazione della differenziazione ematopoietica. Negli anni Sessanta è risultato chiaro che le cellule ematopoietiche non sono in grado di sopravvivere in coltura in assenza di stimoli che possono essere prodotti da cellule di supporto o che sono presenti nel terreno di coltura (Ginsburg e Sachs, 1963). Lo sviluppo di metodiche di coltura in mezzo semisolido (agar o metilcellulosa) (Pluznik e Sachs, 1965) ha consentito in seguito l’identificazione degli induttori richiesti per la proliferazione e differenziazione di precursori ematopoietici capaci di formare colonie, cioè cloni di cellule differenziate (Pluznik e Sachs, 1966). La caratterizzazione di tali molecole è avvenuta infatti in base al tipo di colonie che si sviluppano in vitro sotto la loro azione: per questo motivo, originariamente, sono state denominate CSFs (Colony Stimulating

Factors). Ad oggi sono note più di venti molecole solubili in grado di supportare

la sopravvivenza e la proliferazione dei precursori ematopoietici in maniera endocrina, paracrina, o autocrina (Garland, 1997; Whiteside, 1998). Le citochine o fattori di crescita (Growth Factors, GF), sono glicoproteine a basso peso molecolare secrete da diversi tipi di cellule (fibroblasti, cellule endoteliali, linfociti, monociti e macrofagi) in risposta a una grande varietà di stimoli. L’idea che le citochine siano in grado di garantire la sopravvivenza e la proliferazione, ma non la diretta differenziazione dei precursori delle cellule del sangue, si adatta perfettamente al modello stocastico della scelta, da parte delle HSCs e dei progenitori, del loro programma differenziativo. Infatti, l’apparente induzione alla differenziazione da parte di queste molecole può essere interpretata come la

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proliferazione e la maturazione di una specifica popolazione di precursori responsivi a una specifica citochina e la contemporanea morte di quelli che, invece, non risentono della sua azione (Ogawa, 1993).

Questi fattori presentano una significativa ridondanza funzionale ed esibiscono un’azione pleiotropica, svolgendo diverse funzioni biologiche su vari tessuti e cellule (Reddy et al., 2000).

La ridondanza funzionale dei fattori di crescita è indice del fatto che il sistema ematopoietico possiede una certa flessibilità, indispensabile in situazioni di emergenza. In questi casi infatti una famiglia multigenica di citochine cooperanti e capaci di estendere la loro azione a vari livelli permette al sistema di mantenere una corretta funzionalità anche in condizioni non ottimali, sopperendo alla mancanza di un determinato fattore con la presenza di un’altra molecola regolatrice. Si è osservato, infatti, che singole cellule possono coesprimere recettori di membrana per citochine che hanno un ruolo analogo, oltre che recettori per fattori di crescita che hanno effetti molto differenti fra loro (Lotem e Sachs, 1999). Tale ridondanza sembra inoltre sia dovuta anche al fatto che questi fattori di crescita condividono subunità recettoriali: ad esempio IL-3, GM-CSF e IL-5, che presentano diverse funzioni in comune, possiedono recettori etero/oligomerici con distinte subunità α di legame allo specifico ligando e una subunità β comune, necessaria all’avvio del processo di trasduzione del segnale (Miyajima et al., 1992, Miyajima et al., 1993; Metcalf, 1993; Kishimoto et al., 1994; Kishimoto et al., 1995). Nel corso degli anni sono state formulate diverse ipotesi nel tentativo di spiegare l’apparente ridondanza dei fattori di crescita. Una di queste presuppone che le popolazioni cellulari di una determinata filiera siano eterogenee, in modo tale che vari regolatori agiscano sulle differenti

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sottopopolazioni con il risultato che ciascuna di esse entri in azione in differenti situazioni specifiche. In realtà, grazie all’uso di citochine radiomarcate, è stato dimostrato che sia le cellule progenitrici sia la loro progenie in via di maturazione coesprimono recettori per più di un fattore di crescita (Nicola e Metcalf, 1985). Un approccio sperimentale che si è dimostrato utile al chiarimento di questa problematica è stato quello di sopprimere l’azione di una specifica citochina attraverso l’uso di anticorpi in grado di bloccarne l’azione o mediante la generazione di animali portatori di delezione o inattivazione del gene corrispondente. I risultati di alcuni di questi esperimenti indicano, per esempio, che l’iniezione di anticorpi anti-Epo sopprime l’eritropoiesi, suggerendo che l’azione di tale molecola non sia ridondante (Schooley e Garcia., 1962).

Sulla base di tali studi le citochine sono state suddivise in tre categorie: 1) quelle che agiscono su precursori unipotenti, come l’eritropoietina (Epo) che è un regolatore fisiologico dell’eritropoiesi, l’M-CSF (Macrophage-Colony

Stimulating Factor) e l’interleuchina 5 (IL-5) che sono specifiche rispettivamente

per i macrofagi/monociti e per gli eosinofili (Sanderson, 1992); 2) le citochine che hanno effetto su precursori pluripotenti, quali l’interleuchina 3 (IL-3), il GM-CSF (Granulocyte-Macrophage-Colony Stimulating Factor) e l’interleuchina 4 (IL-4) che sostengono la proliferazione di progenitori multipotenti dopo la loro uscita dalla fase di quiescenza; 3) le citochine che intervengono sulla cinetica del ciclo cellulare delle cellule in fase G0, come l’interleuchina 1 (IL-1) che agisce

sinergicamente assieme a IL-3 nel supportare la proliferazione delle HSCs murine (Jubinsky e Stanley, 1985; Mochizuki et al., 1987) o l’IL-6 (Ikebuchi et al., 1987), il G-CSF (Ikebuchi et al., 1988), l’IL-11 e l’IL-12 (Tsuji et al., 1991;Hirayama et al., 1993;Musashi et al., 1991) che, unitamente all’IL-3, sostengono la formazione

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di colonie a partire da progenitori ematopoietici murini in quiescenza.

Le citochine si legano o a recettori presenti sulla superficie cellulare per avviare la cascata di trasduzione del segnale e promuovere così la modulazione dell’espressione genica della cellula bersaglio oppure a recettori presenti in forma solubile nel siero che servono a inibire o limitare l’attività biologica del fattore di crescita stesso quando ad esempio questo è in eccesso.

I membri della superfamiglia dei recettori delle citochine sono definiti sulla base di criteri strutturali. Si tratta di glicoproteine transmembrana appartenenti a due famiglie: la prima comprende i recettori dotati di un dominio intracellulare tirosin-chinasico, fra i quali quelli per FL, M-CSF e SCF; la seconda include quelli che non contengono domini tirosin-chinasici (Yarden et al., 1987, Sherr 1990), come il recettore per Epo (Eritropoietina), per Tpo (Trombopoietina) GM-CSF, G-CSF o di varie interleuchine come IL-2, IL-3, IL-4, IL-5, IL-6 e IL-7, tuttavia condividono una certa omologia a livello del loro dominio extracellulare e trasmettono il segnale intracellularmente reclutando delle tirosine-chinasi citoplasmatiche, quali src e JAK (Bazan, 1990). Molti membri di quest’ultima famiglia sono in grado di formare eterodimeri composti da varie combinazioni di catene α e β. In particolare, a seguito del legame con lo specifico ligando, le catene α si associano con almeno una catena β. Il dato interessante è che le catene β sono promiscue. Per esempio, le catene α del GM-CSF e dell’IL-5 sono associate alla stessa catena β (Miyajima, 1992). Dal momento che è la catena β ad avere un ruolo centrale nel dare inizio al segnale intracellulare, questo arrangiamento dei recettori può fornire una possibile spiegazione strutturale del fatto che, per esempio, il GM-CSF e l’IL-5 abbiano entrambi la capacità di stimolare la proliferazione degli eosinofili (Metcalf, 1993).

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