• Non ci sono risultati.

Discrimen » Gli “obbedienti” di Natalino Irti: una lettura penalistica

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "Discrimen » Gli “obbedienti” di Natalino Irti: una lettura penalistica"

Copied!
14
0
0

Testo completo

(1)

INIZIO E OBBEDIENZA * Natalino Irti **

1. Incominciamo da lontano. L’uomo, l’uomo storico, non si trova mai in una primitività originaria, in una naturalità assoluta, ma sempre in una situazione finita e determinata, in un punto dello spazio e del tempo, da cui gli giungono possibilità di scelta. La nostra esistenza quotidiana, povera e angusta che sia, umile o superba, tacita o chiassosa di luci, è un cammino di scelte. Vivere è scegliere, e perciò assumere su di sé il rischio e la responsabilità di una decisione. Non occorrono filosofie esistenzialistiche; basta anche una pallida e lieve coscienza di sé. Ogni situazione di vita ci interpella, ci chiama alla risposta, a sciogliere dilemmi e alternative. In tutte, o quasi tutte, le parole, che servono a descrivere la trama dell’esistenza, c’è la radice ‘duo’: due o più sono le soluzioni, dinanzi a cui si trova la nostra volontà. Donde ‘dubbî’, ‘dualismi’, ‘dilemmi’, che lacerano l’animo, e chiedono di essere sciolti nella risolutezza di una decisione.

Ecco un’altra parola fondamentale. Decidere, che ci viene dal latino ‘de- caedere’, e significa troncare, toglier via, e quindi sgombrare il cammino e andare oltre. Gli ‘in-decisi’ sono gli ir-resoluti, coloro che amano la vanità dell’indugio o la morbida pigrizia dell’attesa. Ma la vita autentica, seriamente affrontata e percorsa, rompe gli indugî, interroga il pensiero, e infine prende su di sé il rischio della decisione. Chi elude la decisione ha paura della propria libertà, e consegna il corso del mondo alla volontà altrui.

2. Le norme appartengono alle situazioni di vita, che ci chiamano alla scelta, e sollevano l’alternativa del sì o del no. [Avverto che userò, a modo di fungibili sinonimi, norma, legge, comando, ordine]. Ogni norma, come proposizione imperativa di un fare o non fare, implica un autore e un destinatario: un autore, che

* Da queste pagine è tratta la ‘Lectio magistralis’, tenuta il 19 settembre 2021, nella piazza dei Martiri in Carpi, uno dei tre luoghi, con Modena e Sassuolo, del Festivalfilosofia. Le posizioni dell’Autore sono più largamente svolte in Viaggio tra gli obbedienti, Milano, 2021; libro, qui di seguito commentato da Fausto Giunta, Luciano Eusebi e Vincenzo Maiello.

** Emerito di diritto civile nell’Università di Roma “La Sapienza”, Socio nazionale dell’Accademia dei Lincei

(2)

Natalino Irti

2

prescrive, e un destinatario, a cui si rivolge l’appello dell’osservanza, al quale cioè si schiudono le possibilità dell’obbedire e disobbedire.

Questo non significa due soggetti, poiché noi ben possiamo indirizzare la norma a noi stessi. I progetti di vita, i piani di lavoro, gli orarî di studio o di svago, i programmi di viaggio ecc.: sono tutte norme, che rivolgiamo a noi stessi, e che siamo in grado di obbedire o disobbedire. Prescrive norma Robinson Crusoe a sé stesso, l’ingegnoso naufrago sull’isola deserta, quando annota nel diario, alla data del 4 novembre 1659: “Al mattino ho cominciato a programmare un orario di lavoro: l’ora per andare a caccia, per dormire, per distrarmi, e cioè: ogni mattina in giro col fucile, per un paio d’ore, a meno che piova; poi al lavoro fino alle undici; indi mangiare cibo disponibile; dalle dodici alle due coricarsi a dormire a causa del caldo eccessivo; al pomeriggio, di nuovo al lavoro”; ebbene, quando Robinson scrive queste frasi, si fa legislatore della propria vita. Egli si sdoppia e divide, all’interno del proprio animo, in autore e destinatario di norme. E norme, a ben vedere, munite di sanzioni, poiché l’inosservanza cagionerà conseguenze dannose, e Robinson non soltanto si sentirà scontento, insoddisfatto e deluso di sé, ma cadrà in disordine e pericolo di vita.

Questo è il diritto, che Robinson detta a sé stesso (il Robinsonrecht degli studiosi tedeschi), e di cui ciascuno di noi – giovani e vecchi, scolari e maestri – ha fatto sicura esperienza. Il problema si rivela già nella sua interezza: c’è un autore di norme che parla dentro di noi, è la nostra voce interiore; c’è un destinatario, che ascolta, e si trova dinanzi a due possibilità, di obbedire o disobbedire. La necessaria socialità del diritto – che è anche socialità dell’obbedienza – si risolve in un dialogo interiore, dove ciascuno si fa socius di sé stesso, in un legiferare che vede la perfetta identità tra governante e governato.

Il naufragio sulla terra solitaria e deserta è la situazione determinata, entro la quale si esercita la libertà di Robinson: non una libertà naturale e primitiva, ma la facoltà di scelta tra due possibilità concrete: seguire o non seguire il programma giornaliero. E qui, come sempre, libertà significa assunzione di rischio, prendere su di sé le conseguenze della scelta.

3. Le riflessioni appena svolte mettono in luce la struttura fondamentale dell’obbedienza.

L’autore della norma parla; il destinatario ascolta. Il problema del primo è farsi capire; il problema del secondo, capire. Il ponte, che li unisce, e trasmette il significato dall’uno all’altro, è il linguaggio.

(3)

Inizio e obbedienza

3

Il linguaggio sta al centro di questa esperienza dell’uomo. La norma è consegnata a un testo di parole, scritte o dette (o anche pensate e sussurrate dentro di sé). Essa vuol farsi capire, perché soltanto così è capace di suscitare nel destinatario l’alternativa fra obbedienza e disobbedienza. Per farsi capire, è necessario utilizzare un patrimonio linguistico, comune ai due soggetti del rapporto.

I grandi legislatori (pensiamo al Code Civil francese del 1804, o anche al nostro Codice Civile del 1942) usano linguaggi netti, sicuri, incisivi. La densa sobrietà della parola misura e rivela l’energia del comando. È accaduto invece, proprio nel nostro Paese, che il marzo 2020 – quando l’invisibile nemico devastava l’Europa, e gli Stati (ormai reintegrati nella sovranità su territorio e popolazione) approntavano affannose difese –, è accaduto, dicevo, di leggere un decreto di 123 mila parole:

tredici volte le parole della Costituzione. Oscuro esempio di quelle norme, le quali, non facendosi capire o rendendo arduo il capire, non suscitano l’alternativa dell’obbedienza, e lasciano gravi e fatali materie all’arbitrio dei singoli. Il torbido numero dei comandi getta i destinatarî nell’anomia, in quello smarrimento collettivo in cui ciascuno dà legge a sé stesso e provvede alla propria salvezza. Eccesso di norme equivale a nessuna norma.

Nell’anomia, determinata dal più disfrenato occasionalismo, dalla inesausta e quotidiana produzione di regole, va perduto il sentimento della libertà: non c’è, né può darsi, consapevole scelta tra obbedire e disobbedire, poiché il flusso delle norme precipita sul nostro animo, lo confonde e travolge, e lo sospinge verso la salvezza della nuda corporeità. La situazione esistenziale si restringe nella difesa della fisicità.

4. La nostra libertà ha bisogno di ascoltare e di capire, ossia che il corso della vita si offra nelle due possibilità dell’obbedienza o disobbedienza. Ogni società, ed anche il nostro farci socii di noi stessi, è una comunità di ascoltatori. “Obbedienza – fu avvertito – deriva dal latino ob-audio, cioè ascolto, essere in ascolto, dipendere da un ascolto”.

Qui ascolto non è un puro fenomeno fisico, un’estrinseca percezione di suoni, ma il capire un messaggio altrui. Qualcuno ci parla, ci prescrive un fare o non fare, e noi ascoltiamo, ossia capiamo il contenuto della norma, e dentro ci nasce il ‘duo’, il tormentoso decidere tra il sì e il no. L’ascolto è il presupposto della nostra libertà, che altrimenti non troverebbe dinanzi a sé – anzi, dentro di sé – le due soluzioni.

A ben riflettere, questo ascoltare è già una forma di obbedienza, un avvicinarsi al messaggio, al testo di parole, che chiedono di essere intese, e perciò obbedite.

(4)

Natalino Irti

4

Intenderle nel loro significato è rispondere all’appello giunto dall’altro nel suo dire o scrivere. Questa è l’obbedienza originaria dell’ascolto. Quegli che rivolge la parola, chiama al dovere di capire: nel parlare e nel capire c’è un entrare l’uno nell’altro.

5. Il capire dell’ascoltatore implica tutti i problemi dell’interpretazione, dell’attraversare le parole e trarre il significato dal testo. Sono problemi affascinanti e gravi, estranei alla linea del nostro discorso, il quale si restringe a chiedere la lealtà del messaggio e della lettura. Se il comune patrimonio linguistico è ponte fra autore e destinatario della norma, allora né l’uno né l’altro possono introdurvi significati arbitrarî e sovversivi: fanno affidamento sul senso usuale delle parole. Questo senso giunge e torna integro al di là e al di qua del ponte. Il reciproco intendersi è presupposto del rapporto di obbedienza, e perciò della nostra stessa libertà di scelta.

L’interpretazione reca il contenuto del messaggio normativo dentro di noi:

‘devi fare’, ‘devi non fare’. Esso non ci sta più davanti come un che di estraneo e di lontano, ma ormai è dentro di noi, in interiore homine. Nel comprendere il comando, il destinatario entra nel pensiero dell’autore, e, a sua volta, il messaggio si fa suo, e diventa contenuto della coscienza interpretante. Così si discopre l’interiorità spirituale di questa esperienza, che, nelle sue consonanze e dissonanze, nei suoi accordi e conflitti, ci possiede tutti e segna, o può segnare, il nostro destino.

6. Torniamo ora alle vicende, così esemplari e istruttive, dell’astuto naufrago. Il quale, convinto “che sia giunto il momento di procurarsi un servitore, o forse un compagno o un aiutante”, salva la vita ad un selvaggio, lo ripara in un angolo della grotta, lo ristora con cibi ed acqua. Il selvaggio, nel proposito di mostrare umiltà e gratitudine, “alla fine, come aveva fatto in precedenza posò la fronte contro il suolo e premette un mio piede sopra il suo capo; dopo di che riprese la sua mimica volta a dimostrarmi la sua sottomissione, soggezione e volontà di obbedienza, e per farmi capire che intendeva servirmi fino alla morte”. Robinson gli spiega per prima cosa che il suo nome sarebbe stato Venerdì (giorno in cui fu salva la sua vita); “Parimente gli insegnai a dire ‘Padrone’ e gli spiegai che questo era il nome col quale doveva rivolgermi la parola. Poi gli insegnai a dire ‘sì’ e ‘no’, illustrandogli il significato di queste due parole”.

Il rapporto tra padrone e servo – su cui si andrà esercitando l’analisi di filosofi ed economisti – si determina qui come rapporto di linguaggio. La sottomissione fisica ha bisogno di ascolto, di udire e capire parole, e così si fa propriamente oboedientia.

(5)

Inizio e obbedienza

5

Il selvaggio, ormai provvisto di un nome che lo distingue e identifica (e insieme lo possiede, poiché l’uomo domina il mondo assegnando nomi agli altri uomini ed alle cose); egli entra così nella socialità dell’obbedienza: non è oggetto o cosa, ma soggetto, in cui s’intravvede la tenue scintilla della libertà.

Il rapporto di obbedienza rompe la solitudine di Robinson; il programma giornaliero degli orarî non gli basta più; ha necessità di altri, e perciò, in qualche modo e misura, se ne fa dipendente. Chi comanda, proprio nel prescrivere l’agire o non agire del destinatario, mostra di aver bisogno di obbedienza. Questo ben vide Hegel, al quale si devono pagine memorabili sul rapporto tra padrone e servo, sulla reciprocità della dipendenza, sulla libertà che nasce attraverso la redenzione del lavoro, sul vicendevole riconoscersi l’uno nell’altro.

7. Perché il selvaggio si sottomette e presta obbedienza a Robinson?

Qui il giurista è in grado di rispondere con il vecchio strumento della corrispettività: si sottomette, e si obbliga a obbedire, in cambio della protezione del

‘signore’, della ‘sicurezza’ che egli offre rispetto ad altrui offese. Questa relazione – che nei grandi libri di Thomas Hobbes (il Leviatano, il De cive) viene elevata a fondamento stesso dello Stato – mostra un profilo di alto rilievo teorico. Venerdì riconosce nella volontà di Robinson l’inizio di ogni norma, a cui dovrà obbedienza:

inizio, che di per sé non è un concreto comando di fare o non fare, ma che giustifica e sorregge l’indefinita catena di futuri comandi. Si può ben dire che la derivazione da quell’inizio garantisce la validità di tutti i comandi impartiti da Robinson a Venerdì.

Si scopre così che, nella vicenda romanzesca del naufrago ed in ogni altro caso, l’obbedienza presuppone il riconoscimento di una validità normativa e che questa, a sua volta, dipende dalla scelta di un inizio (Kelsen direbbe di una Grund-norm, di una norma fondativa da cui provengono tutte le altre; e Giovanni Gentile, di una

‘legge di osservare le leggi’). Obbedisco poiché ho scelto l’inizio, poiché ho assunto la volontà di taluno, o di taluni, per cominciamento dei comandi a me rivolti. Codesta scelta è espressione di libertà: ben potevo preferire un altro inizio, e, per dir così, incatenare la mia volontà in una diversa derivazione di norme. Un inizio non presuppone un altro inizio, ma tutte le norme lo presuppongono. A modo d’esempio, Venerdì sceglie per inizio il qualsiasi volere di Robinson; in regimi monarchici, i sudditi attendono la parola del sovrano; e, negli Stati moderni, i cittadini si sentono vincolati dal voto delle camere rappresentative; e potremmo continuare con varietà di ipotesi e di testimonianze storiche.

(6)

Natalino Irti

6

8. La scelta dell’inizio è quella che, in linguaggio o gergo dell’esistenzialismo, potremmo chiamare l’opzione fondamentale: ‘fondamentale’, poiché riguarda il fondamento di ogni altra norma. In essa si esprime, e si consuma in più grave misura, la nostra libertà. La scelta dell’inizio non è un evento del passato, che possiamo o non possiamo richiamare nella memoria, ma sta per sempre dentro di noi, e si apre verso il futuro, cioè verso tutte le norme che ne saranno prodotte e derivate.

L’opzione fondamentale genera e giustifica, ossia fa valide e ‘giuste’, tutte le norme derivanti dall’inizio prescelto. Torniamo agli esempî. Se l’opzione istituisce l’inizio nella volontà di un sovrano, allora mi sentirò obbligato a prestare obbedienza a tutti i comandi del re; se nella volontà parlamentare, allora vincolanti saranno le leggi deliberate dalle Camere rappresentative.

È ben vero che ciascuna norma determina, come tale, l’alternativa tra obbedire e non obbedire, ma la scelta fondamentale condiziona la nostra volontà nei singoli casi, e le offre la stringente motivazione del sì. Quasi che la libertà si sia espressa una volta per sempre. Disobbedire significa rinnegare l’opzione costitutiva della vita individuale, e sospingerci verso un altro inizio. Sarà crisi, svolta, rottura: un cominciare da capo, imprimendo alla volontà una nuova e diversa direzione.

È che l’inizio, nell’àmbito da esso governato, ci vuole tutti per sé: è esclusivo, cioè esclude la simultanea vigenza di un altro inizio. Esclusività e dualità o pluralità sono incompatibili: “Nemo servus potest duobus dominis servire”, leggiamo in Luca (16, 13): o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure preferirà l’uno e disprezzerà l’altro.

Non possiamo, nello stesso tempo, decidere e giudicare le nostre azioni in base a due criterî diversi. Liberi bensì, ma liberi di scegliere un inizio, che poi ci tiene nelle sue catene, fino a quando non le spezzeremo e diverremo servi di un altro padrone.

9. La norma particolare, che ci prescrive di fare o non fare alcunché, giunge dentro di noi, ascoltata nel suo testo e interpretata nel suo contenuto. Sta dentro di noi, e ci rivolge l’appello all’obbedienza.

Qui sono registrabili due atteggiamenti di massima. Il primo è il piatto e opaco conformismo, comportarsi come tutti gli altri, farsi eguali nella condotta, non discostarsi da costumi o abitudini collettivi. Obbediente di certo qui non è l’uomo, che vive e soffre il dubbio, che esercita una consapevole libertà di scelta, ma il conformista, quale fu narrato e descritto da Alberto Moravia nel romanzo del 1951.

Egli obbedisce perché obbedire è la ‘normalità’ del contegno, e da essa non può né vuole discostarsi, ed anzi vi si immerge in una sorta di voluttuoso abbandono.

(7)

Inizio e obbedienza

7

L’appello all’obbedienza suona invece netto e duro negli animi più educati e sottili. E questi si domandano se la norma deriva dall’inizio, da quella autorità generatrice, che è stata assunta per fondamento di vita sociale. E così, stando ancora agli esempî già tolti in discorso, se la legge è posta dal sovrano, o dagli organi rappresentativi, o magari dal capo di una confessione religiosa. Qui viene in giuoco il vincolo all’opzione fondamentale, la fidelitas delle antiche fonti, la continuità del proprio agire, e – diciamo pure la parola più austera – la coerenza con sé stessi.

Questo atteggiamento, al pari del primo, offre una varietà di gradi e sfumature, che, almeno per tratti d’insieme, meritano di essere segnalati. Al grado più radicale si colloca il processo di identificazione, per cui la volontà del destinatario fa tutt’uno con la volontà della norma. Questa non giunge dall’esterno, ma nasce e si svolge dentro la stessa volontà del destinatario, sicché l’obbedienza si configura come adesione a una totalità, che si esprime in forma chiusa e unitaria. E si compie ‘sine cordis murmure’, senza uno scontento sussurro interiore, come dice elegantemente un dottore trecentesco. Di qui sorgono gli Ordini, religiosi e laici, civili e militari, poiché le due volontà – della norma e del destinatario – si iscrivono in un tutto, che insieme le abbraccia e vincola. La logica dell’Ordine sopprime qualsiasi distanza tra le due volontà: quella distanza, che renderebbe possibile il ‘discernimento’, la valutazione critica del comando.

Perciò all’ingresso nell’Ordine si suole accompagnare il giuramento, un atto impegnativo per le decisioni future. La promessa giurata, proiettandosi nel domani, vincola già da ora la volontà, e si carica del futuro e dell’incognito. Si dice ‘cieca’

l’obbedienza, prestata in esecuzione di una promessa giurata: ‘cieca’, poiché la libertà, assumendo il rischio di norme future (non sappiamo ora che cosa sarà comandato), già si vincola a obbedire. Appunto, senza vedere, come scendendo nel buio d’una misteriosa caverna. L’inizio, scelto nella forma d’una promessa giurata o nell’abnegazione di volontà in un Ordine, investe e ingabbia il nostro futuro.

L’individuo si disperde e inabissa nel tutto.

Qui il disobbedire ha la cupa gravità della rottura di giuramento, del rinnegare il solenne e sacro vincolo, che stringeva il presente ed il futuro. L’individuo sceglie un altro inizio, una diversa fonte generatrice di norme. Un’ombra accompagna sempre lo spergiuro e il rinnegato. ‘Peccatum maximum’ leggiamo in teologi e giuristi medioevali.

Di processo di identificazione e di adesione alla totalità, può anche discorrersi, almeno in linea di simiglianza, per i fenomeni di appartenenza agli organismi

(8)

Natalino Irti

8

tecnico-produttivi. Qui si assiste alla spersonalizzazione del comando, al superamento del rapporto tra soggetti, e perciò della dialettica del parlare ed ascoltare, del far capire e capire. In luogo di essi sta la logica oggettiva dell’apparato, che ha proprie regole di funzionamento, trasmesse in segni telematici o in altre modalità tecniche. L’apparato è costruito in vista di un fine produttivo, che detta le regole interne ed esige immediato adeguamento. Non c’è spazio per i dilemmi dell’obbedienza e per le angosce individuali. Chi entra nell’apparato sa, o dovrebbe sapere, ciò che trova: entrare o non entrare è l’unica alternativa lasciata alla libertà del singolo. L’apparato può bensì essere rifiutato, ma non alterato né ‘personalizzato’

nella sua logica di funzionamento. Gli individui, che vi lavorano, non sono sub- ordinati alla volontà di un soggetto, ma ordinati come funzioni di sistema.

10. Fuori da queste totalità (e totalità, a ben vedere, è anche il conformismo, come opaca adesione alla ‘normalità’ dell’agire), si staglia la nobile coerenza dell’uomo con sé stesso, la fedeltà all’inizio vissuta e praticata in pienezza di libertà.

Qui l’individuo, dinanzi al concreto comando, raccoglie in unità il proprio passato e la situazione presente, l’ieri e l’oggi, e vi scorge un legame di continuità, un vincolo di senso che stringe tutte le stagioni della vita. È in gioco la sua stessa identità, quale si è venuta costruendo, in parole e in atti, lungo il cammino degli anni.

Questo rammentano a Socrate le leggi ateniesi nel grande ‘discorso’ del Critone. L’amico trepido e ansioso propone di sottrarsi alla morte, all’ingiusta sentenza di condanna, mediante la fuga. Ma le leggi, nelle quali e per le quali vive la πόλις, ricordano a Socrate che egli, al pari di ogni cittadino, ben poteva ‘andarsene’

in altro paese, ma – proseguono – “chi di voi rimane qui, e vede in che modo noi amministriamo la giustizia e come ci comportiamo nel resto della pubblica amministrazione, allora diciamo che costui si è di fatto obbligato rispetto a noi a fare ciò che noi gli ordiniamo …”. Il disobbediente trasgredisce i patti stipulati con la Città. “Né – incalzano le leggi – questi patti tu avevi concordato con noi perché forzato da necessità o perché fuorviato da inganno; e neanche perché costretto a risolvere, in breve tempo, ma in uno spazio di settanta anni, nei quali saresti stato pur libero di andartene se noi non ti piacevamo e se i patti concordati non ti parevano giusti”. Nulla può l’amico replicare al discorso delle leggi, che riempie e intenerisce l’animo di Socrate, il quale così lo accommiata: “E allora lascia, o Critone;

e andiamo per questa via; ché questa è la via per cui ci conduce Iddio”.

(9)

Inizio e obbedienza

9

Abbiamo riletto con certa larghezza frasi del Critone, dove si offre immortale immagine della coerenza, di libera fedeltà a quella che dicemmo opzione fondamentale, alla scelta dell’autorità generatrice di ogni norma. Socrate ha mostrato, non già con labili parole, ma con la concretezza di scelte di vita, di condividere e accettare gli accordi costitutivi della πόλις, e dunque anche le sentenze, quali che siano (giuste o inique), pronunciate dai magistrati della Città. La fedeltà all’inizio, la continuità e coerenza delle decisioni (non andarsene, prender moglie, allevare i figli, suscitarvi una cerchia di amici e allievi), l’intera sua esistenza è ormai indisgiungibile da Atene: la πόλις non tanto come luogo, ma come fonte di ogni regola di convivenza. Socrate si solleva al riconoscimento del destino. “Bisogna rimanere fedeli al proprio posto”: egli insegna all’allievo devoto: un posto scelto, e confermato in lunghi anni, con lucida e consapevole libertà. Ed ancora, nella difesa giudiziaria recata dall’Apologia di Socrate, questi leva austera la propria voce: “E in verità così deve essere, o cittadini di Atene: che dove uno abbia collocato se stesso, reputando quello essere il suo luogo più onorevole, o vi sia stato collocato da chi comanda; quivi, io credo, deve rimanere, e quivi affrontare i pericoli, e della morte non fare calcolo, né d’altro male veruno, più che della viltà e della vergogna”. Il rifiuto di fuggire, il soggiacere alla sentenza di morte, lo star saldi nella fede civile, questi aspetti concludono – suggellano, si sarebbe detto un tempo in antico linguaggio – un alto cammino di libertà, un austero rispetto di sé stessi.

11. La battaglia, che si combatte nell’animo tra il sì e il no, può assumere una tensione più acuta, e talvolta tragica, se l’individuo è conteso da due inizî: cioè da due fondamenti, dei quali l’uno esclude l’altro. Non è il consueto dubbio, la

‘naturale’ alternativa tra obbedire e disobbedire, come si rinnova in ogni caso dinanzi a una norma, ma un tormento profondo, un aut-aut, che mette in gioco il passato ed il futuro, e fa appello alle nostre convinzioni più intime. La coscienza è scossa e travagliata da un conflitto estremo, dove non si danno vie di mezzo o soluzioni transattive. Non si tratta di disobbedire a una singola norma, lasciando fermo e integro tutto il resto: il conflitto ci vuole da una parte o dall’altra. Mai il carattere di esclusività assume tale rilievo, e così parimenti l’inclusività, poiché ciascun fondamento ci attira senza residui nella propria spirale di norme.

Se vogliamo trarre profitto illustrativo da documenti letterarî e testimonianze storiche, sùbito ci viene incontro la figura dell’Antigone sofoclea. La quale oppone al decreto di Creonte – comando valido entro l’ordine positivo di Tebe – le “leggi non

(10)

Natalino Irti

10

scritte degli dei, leggi immutabili che non sono di ieri né di oggi, ma esistono da sempre, e nessuno sa da quando”. Tra due inizî, due fondamenti costitutivi della vita sociale – l’uno, positivo e storico; l’altro, trascendente ed eterno – Antigone sceglie la parola degli dei. Qui non si tratta di disobbedienza episodica e occasionale, volta a modificare o correggere una norma (come segue, e fra poco vedremo, nei moderni casi di ‘disobbedienza civile’), ma di opzione fondamentale: se scorgere il principio costitutivo, fonte generatrice di qualsiasi legge, nella terrena volontà degli uomini, che governano di tempo in tempo la città di Tebe, o invece nell’immutabile ed eterna volontà degli Dei. È un dissidio originario, un’antitesi radicale, un aut-aut, che può essere sciolto soltanto con un atto decisivo, cioè troncando il dubbio e scegliendo, per dir così, ‘da che parte stare’. Altra è l’Antigone novecentesca di Jean Anouilh, fragile e lieve figura, che non innalza opposta e superiore fonte di norme, ma si abbandona al gesto esistenziale o estetico del no.

12. In quest’ordine di problemi, volendo attingere a testimonianze della nostra storia, possono rammentarsi nomi del cattolicesimo liberale come Alessandro Manzoni, strette fra obbedienza al potere religioso e promozione dell’unità nazionale. O, per venire a tempi più vicini, fra libertà di scelta politica e moniti delle gerarchie ecclesiastiche in favore di un dato partito. Sono dissidî e conflitti di lealtà destinati a rinnovarsi quante volte lo Stato si faccia a dettare regole in àmbiti, che le confessioni religiose riservano a sé stesse (dai rapporti di famiglia a quelli sessuali). E qui, al di là e al di sopra della disputa su singole norme, può anche profilarsi la scelta tra fondamenti costitutivi della vita. Gli individui, che appartengono insieme alla societas civium e alla societas fidelium, sono esposti al rischio di tali conflitti, da cui gli animi vengono sconvolti e lacerati. E non c’è altro modo di uscirne che l’opzione tra le due leggi, la scelta di un dovere reputato superiore, e perciò meritevole dell’obbedienza negata all’altro. Nessuno è in grado di tracciare il confine tra àmbito civile e àmbito religioso: Chiesa e Stato rivendicano, ciascuno, la ‘competentia competentiae’, ossia il potere di definire le due sfere di rapporti. Sicché il conflitto, restando all’interno della coscienza, che se ne tormenta e addolora, è risolto soltanto dalla libera decisione individuale.

Altre testimonianze potrebbero recarsi di questi dissidî interiori, tolti in ispecie dalla storia politico-militare, dove il vincolo del dovere e la fedeltà al giuramento trovano più avvertito rilievo. Ci restringiamo al caso, controverso fra gli storici e divulgato anche in testo cinematografico, del conte Claus von Stauffenberg,

(11)

Inizio e obbedienza

11

l’attentatore a Hitler del 20 luglio 1944. Il quale, ormai presago della sconfitta e della catastrofe imminente sulla Germania, così confida alla vigilia del giorno fatale:

“Colui che osa fare qualcosa, deve essere consapevole che passerà alla storia tedesca come un traditore. Ma se tralascia di compiere quel gesto, si sentirà un traditore verso la propria coscienza”. Ecco i lucidi e dolenti termini del conflitto: da un lato, la fedeltà al giuramento prestato, il legame con il proprio passato; dall’altro, la coscienza del nobile allievo di Stefan George, che avverte la necessità del gesto decisivo. La congiura e l’attentato rompono il vincolo di fedeltà militare e istituiscono altra e diversa legge di vita. La libertà, reintegrata nella sua pienezza, scioglie l’aut-aut.

13. C’è anche l’aut della disobbedienza, al quale, come in un riflesso di specchi mentali, pur bisogna rivolgere la nostra attenzione. La legge, a ben vedere, è già una previsione di disobbedienza: la norma penale non prescrive di non uccidere, ma stabilisce che all’omicida sia irrogata una sanzione afflittiva. Essa non ha forma di un comandamento biblico, dettato sulla tavola rocciosa del monte Sinai, ma di una proposizione ipotetica (se A, allora B), da cui si trae il comando di non uccidere. Il diritto reca dentro di sé la propria negazione, e spinge l’ansiosa coscienza di vulnerabilità fino a considerare e descrivere gli atti di disobbedienza. Se ne vuole impossessare e, per dir così, ‘neutralizzarli’ nella sua stessa struttura.

L’analisi degli atti di disobbedienza non rientra nel discorso, che vado svolgendo; e perciò mi restringo a segnalare un netto divario. Vi è la disobbedienza rivoluzionaria, la quale rifiuta il principio costitutivo di un dato diritto, e ne fa valere un altro, sicché è rotta la continuità di un ordinamento, rovesciato e sostituito con metodi e forme da esso non previsti né considerati leciti. Questa, che abbiamo denominato ‘rivoluzionaria’, non può dirsi a stretto rigore disobbedienza; concetto, che, al pari di obbedienza, prende significato soltanto all’interno di un dato ordinamento, di cui non viene né contestato né rifiutato il principio costitutivo. La rivoluzione, come portatrice di un altro inizio, viene, per dir così, dall’esterno, dal di fuori dei confini di un sistema legislativo di norme. La ‘normale’ disobbedienza presuppone il comando della legge, l’ascolto del messaggio, e l’alternativa tra l’una e l’altra decisione: appunto, se obbedire o disobbedire. Il rivoluzionario non parla e agisce in nome del diritto posto, che si tratti soltanto di abrogare o correggere o applicare in modo più equo, ma in nome di altro diritto, il quale deriva e si irradia da

(12)

Natalino Irti

12

un diverso inizio costitutivo. Egli non sottopone il comando all’alternativa del sì o no, ma lo rifiuta ed esclude da sé.

Il semplice atto di disobbedienza riconosce il diritto, del quale viola una od altra norma. Esso si compie e svolge all’interno di un dato ordinamento. Qui l’analisi può pur descrivere una scala crescente per intensità ed efficacia: se al primo posto, sta la quotidiana e individuale inosservanza, che non lascia traccia storica e si risolve in ordinaria vicenda del processo civile o penale, diverso rilievo hanno altri fenomeni, su cui preme di richiamare lo sguardo. Viene sùbito in discorso – a usare formula proposta da giuristi e filosofi – la ‘lotta per il diritto’ (Kampf um’s Recht) o

‘ribellione per il diritto’: un atto di disobbedienza, o una catena di atti, volti a trovare la ‘giusta’ decisione entro un dato ordinamento. E se ne indica la figura esemplare in Michael Kolhass, il mercante di cavalli del famoso racconto di Heinrich von Kleist, che, per ottenere ‘giustizia’ dai magistrati del proprio paese, raduna bande d’armati, solleva in rivolta intere popolazioni, mette a ferro e fuoco città e villaggi. Questa ribellione (come videro un grande giurista e un eminente filosofo, Rudolf Jhering e Benedetto Croce) nasce dal “dovere morale, che comanda di mantenere saldo l’ordinamento giuridico, condizione di vita sociale e umana”. Simile è la ribelle figura di Karl Moor nei ‘Masnadieri’ di Friedrich Schiller, il quale, per un grave torto subìto (o che egli crede di aver subìto), si fa capo di uno spietato manipolo di rapinatori, taglieggiatori, incendiarî, ma finisce col confessare: “Folle che sono stato a sognare di migliorare il mondo commettendo atrocità, e di dar saldezza alle leggi con l’illegalità”. E perciò si consegna agli organi della pubblica giustizia.

Si giunge così al moderno fenomeno di ‘disobbedienza civile’, cioè agli atti collettivi e pubblici di dissenso, che non mirano a sovvertire l’ordinamento, non innalzano un diverso principio fondamentale, ma servono a promuovere abrogazioni o correzioni di leggi, o a contrastare iniquità di decisioni e violenze di organi pubblici. Manifestazioni, talvolta bizzarre e festose, di dissenso, che non vulnerano il consenso originario e costitutivo di un ordine giuridico, il quale anzi ne viene sollecitato o sospinto verso nuovi contenuti di disciplina. Il dissenso, non trovando spazio nei consueti ‘canali di cambiamento’ (così denominati da Hannah Arendt), cerca e batte altre strade, fra le quali sta la ‘disobbedienza civile’: che è civile, e non criminale, poiché concorre alla vita pubblica della civitas, e implica il consenso nel principio costitutivo del sistema.

(13)

Inizio e obbedienza

13

14. Abbiamo percorso, o provato a percorrere, un lungo cammino. Muovendo dall’astuto e ingegnoso naufrago di Defoe, siamo venuti ai giorni nostri. Il rapporto tra norma e obbedienza ha perduto qualsiasi carattere di costrizione fisica, di violentata corporeità, per configurarsi come rapporto in interiore homine: il quale ha principio nell’ascolto della parola, passa attraverso il dubbio, e si conclude nella decisione del sì. L’atto di obbedienza, prestato a singoli comandi, presuppone il riconoscimento di un inizio. Chiamo ‘inizio’ la Grund-norm kelseniana, il fondamento, che genera e giustifica tutte le norme. Fondamento è, in un regime teocratico, la volontà di Dio; la volontà di un capo, in un regime totalitario; la volontà di organi rappresentativi, in un regime democratico; e così via nella varietà degli assetti politici. Va abbandonata l’idea, spontanea e primitiva, di trovarsi in un certo regime di norme: l’inizio è sempre scelto da ciascuno di noi: potremmo, al pari dei cittadini ateniesi, andarcene (dove l’andarsene non indica un estrinseco mutamento di luoghi, ma l’assunzione di un altro inizio); se restiamo, questa è la scelta del regime normativo, in cui si svolgerà la nostra vita. “Naturalmente si poteva anche andar via”, risponde Carl Schmitt agli intervistatori, che nel 1972 incalzano con la domanda ‘Perché lei ha collaborato con Hitler?’: ma il grande giurista di Plettenberg non andò via; rimase in Germania, e così riconobbe nella volontà del Führer il principio della propria legge. Il rifiuto dell’‘andarsene’ prende significato di volta in volta dalla situazione storica e dalla scelta individuale (e perciò nobile o opportunistico, vile o superbo): anche esso è esercizio di libertà e assunzione di rischio.

Si discopre così che il singolo atto di obbedienza s’inserisce in quello che un filosofo del diritto, Giuseppe Capograssi, denominò ‘sistema di atti di obbedienza’, ossia in una catena di norme risalente su su fino all’inizio da noi trascelto.

Compiendo gli indefiniti atti esecutivi, noi mostriamo di obbedire a noi stessi, e di rinnovare ogni volta la libertà della scelta originaria. L’atto di obbedienza è, per quanto l’asserzione sappia di paradossale, atto di libertà, poiché il destinatario riconosce nella singola norma la provenienza dal prescelto inizio, l’irradiazione dalla fonte costitutiva delle proprie leggi di vita.

Qui il discorso potrebbe slargarsi a profili dell’odierna economia, ma ne verrebbero alterate, e forse confuse, le linee del discorso. Sarebbe da osservare – e già di sopra se ne fece cenno – che gli apparati produttivi, funzionando secondo la logica propria dei singoli settori, sono fonti generatori di comandi, trasmessi per via telematica o con altre modalità tecniche. Dove non c’è il puro rapporto tra far capire

(14)

Natalino Irti

14

e capire, tra parlare ed ascoltare, ma l’automatica diramazione di segnali o simboli, a cui il destinatario presta immediata e funzionale adesione; e dove la libertà si raccoglie ed esaurisce nell’appartenere o non appartenere alla sfera funzionale dell’apparato. Temi, come si vede, che ci condurrebbero lontano, ed esigerebbero altri schiarimenti e spiegazioni.

15. Si torna all’esordio di questa riflessione, ribadendo che la libertà non è uno stato primordiale, una ‘naturale’ condizione dell’uomo, ma sempre facoltà di scelta tra le possibilità offerte dalla situazione storica. Fuori della situazione storica, qui ed ora determinata, l’individuo non può uscire, sicché la sua libertà – ossia la facoltà di decisione e di scelta – appare sempre limitata e condizionata. Condizione e limite, che a torto lascerebbero fantasticare una ‘naturale’ libertà priva di qualsiasi vincolo, giacché essa non sarebbe propriamente libertà. In difetto di concrete possibilità tra le quali decidere la scelta, non c’è libertà, ma piuttosto un vuoto di storia umana.

Donde la profondità del detto ciceroniano: “legum idcirco omnes servi sumus ut liberi esse possimus”. L’uomo – fu scritto da un grande filosofo – “è in quanto non nasce uomo, bensì in quanto si fa uomo”; non si trova nel mondo ma costruisce il proprio mondo. In questa inesausta volontà di costruzione rientra anche la scelta del fondamento normativo: scelta, e dunque assunzione di rischio. Nessuno di noi conosce le conseguenze dei proprî atti, siano di obbedienza o disobbedienza. La volontà che sceglie è volontà di rischio.

Il rischio non è disgiungibile da qualsiasi atto di libertà, poiché la decisione affermativa o negativa, di consenso o di rifiuto, va incontro alle incognite del futuro.

Vive la libertà nella dimensione del tempo: sta, da un lato, la situazione iniziale, da cui provengono le possibilità di decidere e d’agire; sta, dall’altro, l’incognita e il rischio del futuro. La nostra decisione, in cui si fa concreta e attuosa la libertà del volere, conosce il passato, ma ignora l’avvenire, il tempo che le viene incontro e l’avvolge. Ed anche ignora l’eco, per dir così, che la scelta avrà sul corso storico:

quelle ‘misteriose connessioni’, che legano gli eventi, e li modificano e indirizzano, e che danno misura della nostra responsabilità nei confronti del mondo. Questa responsabilità sovrasta il rischio personale e impegna il lato più intimo della coscienza. La libertà di decisione ci getta nella nebbiosa densità del futuro. Questo è il suo destino.

Riferimenti

Documenti correlati

 Negli ultimi due anni anche in Italia la ripresa accelera e il mercato del lavoro recupera, in buona parte, i livelli occupazionali precedenti la crisi: nel primo semestre del

 Negli anni l’incidenza dei rapporti di lavoro agevolati sul totale delle assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato ha avuto un andamento variabile: dal 16%

I dati del Rapporto AIFA 2018 confermano la sostanziale sicurez- za dei vaccini: a fronte di oltre 17 milioni di dosi somministrate non è stato segnalato alcun decesso

Nelle sfaccettature poliedriche di una realtà complessa, ove affiorano e pren- dono forma: l’obbedienza per paura (il paradigma del Leviatano), l’obbedienza per

Sanzionando autonomamente condotte, sì già punite dall’ordinamento, ma ora qualificate dalla posizione soggettiva dell’autore e dal dolo specifico di “impedire,

Un detto siciliano racchiude questa verità: “U fattu è nenti… È comu si cunta” (Il fatto è la sua narrazione). Non diversamente accade nel diritto, che è linguaggio

  La sfida di una innovazione spinta dalla domanda, come evidenziato dal presente rapporto, richiama azioni di sistema indirizzate sia alla facilitazione di una transizione

La gestione dei processi oggetto di audit è conforme con la normativa cogente, con i documenti di riferimento e a fronte delle norme indicate in premessa. I responsabili delle