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Enrica Borghi Botto e Bruno Plamen Dejanoff Alberto Di Fabio goldiechiari H.H. Lim

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Academic year: 2022

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© CAPOLAVORO

ANGELO CAPASSO

© CAPOLAVORO

Enrica Borghi Botto e Bruno Plamen Dejanoff Alberto Di Fabio goldiechiari H.H. Lim

Avish Khebrehzadeh Thorsten Kirchhoff Miltos Manetas Eva Marisaldi Paul Morrison Nunzio

Perino & Vele Simon Periton Jaume Plensa Luisa Rabbia Michael Rakowitz Franck Scurti Fiona Tan vedovamazzei Wang Du Sislej Xhafa Yang Jiechang Yan Pei-Ming

©

CAPOL A VORO ANGELO CAP ASSO

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CAPO LAVO RO

CAPOLAVORO a cura di

Angelo Capasso

Enrica Borghi Botto e Bruno Plamen Dejanoff Alberto Di Fabio goldiechiari H.H. Lim

Avish Khebrehzadeh Thorsten Kirchhoff Miltos Manetas Eva Marisaldi Paul Morrison Nunzio

Perino & Vele

Simon Periton

Jaume Plensa

Luisa Rabbia

Michael Rakowitz

Franck Scurti

Fiona Tan

vedovamazzei

Wang Du

Sislej Xhafa

Yang Jiechang

Yan Pei-Ming

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COMUNE DI TERNI

CAPOLAVORO

Palazzo di Primavera, Terni 31 maggio – 4 luglio 2006

Curatore generale Angelo Capasso

Organizzazione Gabriella Tomassini Fulvia Pennetti

Assessorato alla Cultura Comune di Terni

Ufficio Stampa

Marinella De Maffutiis – Anmil Laura Tornambè

Prestatori:

Volume!, Roma Galleria Pack, Milano

Galleria PinkSummer, Genova Galleria VM 21, Roma

Magazzino d’Arte Moderna, Roma Galleria Sales, Roma

Galleria Alberto Peola, Torino Galleria Giorgio Persano, Torino Galleria Franco Noero, Torino Galleria Raffaella Cortese, Milano Galleria Changing Role, Napoli Galleria Ronchini, Terni Galleria Alfonso Artiaco, Napoli Edicola Notte, Roma

La mostra è realizzata in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Terni. E’ inserita nel calendario delle celebrazioni del Centenario della nascita della CGIL (1906 – 2006). E’ realizzata con il patrocinio di INAIL e ANMIL.

Testi: © Angelo Capasso, 2006

nessuna parte di questo catalogo può essere riprodotta senza il consenso dell’autore.

Traduzioni: Igino Schraffl

Ringraziamenti:

Si ringraziano tutti gli artisti che hanno permesso l’organizzazione della mostra. In particolare, Franck Scurti, Yang Jiechang, Wang Du, Yan Pei-Ming, H.H. Lim, Plamen Dejanoff, Uno su Nove, Roma, Elaine Levy Project Bruxelles, Sislej Xhafa.

Si ringraziano inoltre:

Marco Stancati, Marinella De Maffutiis, Elisabetta Facco, Flaminia Allvin, Pio Monti, Giuliana Picarelli, Sheila e Yasmine Nemazee, Maria Stefanelli, Massimo Minini, Franco Noero, Mauro Nicoletti, Micol Veller, Carolina Olcese.

si ringrazia per la collaborazione:

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Presentazioni CAPOLAVORO di Angelo Capasso Enrica Borghi Botto e Bruno Plamen Dejanoff Alberto Di Fabio goldiechiari H.H. Lim

Avish Khebrehzadeh Thorsten Kirchhoff Miltos Manetas Eva Marisaldi Paul Morrison Nunzio

Perino & Vele Simon Periton Jaume Plensa Luisa Rabbia Michael Rakowitz Franck Scurti Fiona Tan vedovamazzei Wang Du Sislej Xhafa Yang Jiechang Yan Pei-Ming English text

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indice

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I

l Comune di Terni considera l’Arte un valore importante per la nostra città perché è un linguaggio che parla trasversalmente a tutte le generazioni e soprattutto è in grado di instaurare un dialogo con le città di tutto il mondo. Questa mostra interna- zionale, dal titolo Capolavoro, aggiunge un aspetto particolare alle mostre d’arte fino ad oggi realizzate in quanto associa il Lavoro, come valore primario della società a quel- lo dell’Arte, anch’esso di primaria importanza.

Il lavoro nell’arte ha caratteristiche sicuramente particolari. Si tratta di un lavoro che nasce dalla creatività di un individuo nella necessità di trovare un dialogo forte con tutta la società, attraverso la ricerca, l’innovazione e l’impegno civile.

La mostra si presenta come una rassegna di tipi diversi di lavoro, che ci consentono di comprendere cosa significa oggi Arte, e il valore culturale che questa parola ha subito nell’ambito delle nuove potenzialità offerte dalla tecnologia e dal pensiero estetico.

L’occasione della celebrazione dei Cento anni dalla nascita della CGIL si propone come un’ottima opportunità per verificare tali legami in modo concreto, su un piano visivo, secondo quanto propone oggi il panorama dell’Arte contemporanea.

Una occasione che trova nella nostra città un terreno fertile sia per la storia economica e sociale di Terni che simbolicamente incarna il mondo del lavoro, sia per le scelte che hanno guidato in questi anni la nostra Amministrazione relativamente agli spazi culturali ed espositivi.

Creatività e sviluppo locale sono per noi due sfide ambiziose da non separare per ren- dere più ricca la nostra città e guardare con fiducia al futuro.

Sonia Berrettini Assessore alla Cultura Comune di Terni

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P

orre al centro dell’attenzione il lavoro e la sicurezza in una occasione che celebra il contributo del maggior sindacato italiano al riconoscimento dei diritti e delle conquiste sociali misura di per sé la rilevanza di una mostra dedicata specificamente a tali temi.

Ed invero dare impulso e significato alla crescita della cultura della sicurezza e della pre- venzione, anche attraverso l’utilizzo di nuove forme espressive e di linguaggi differenti, è da tempo nelle politiche prioritarie dell’INAIL. L’Istituto, infatti, opera per promuovere costantemente azioni di sensibilizzazione della società su questi temi, e ciò ai fini della costruzione di una cultura della sicurezza giustamente considerata presupposto essen- ziale di ogni obiettivo mirato alla progressiva riduzione degli infortuni sul lavoro.

“Capolavoro” rappresenta una opportunità per esaltare la “questione” della sicurezza sul lavoro e per riproporla a nuovi pubblici, ed è per questo motivo che abbiamo accol- to la richiesta di patrocinio. L’INAIL partecipa così ad un evento che rappresenta sicu- ramente un momento importante di riflessione sulle interconnessioni esistenti fra le dif- ferenti fasi del lavoro, secondo una declinazione innovativa come quella del “fare arte”.

Il Lavoro e le sue problematiche, infatti, ci sembrano perfettamente integrati in una mostra e in un catalogo significativi delle forme di rappresentazione del mondo del lavo- ro e delle problematiche ad esso collegate.

Vincenzo Mungari Presidente INAIL

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C

i è sembrato doveroso recare un contributo ad un’iniziativa così importan- te che, oltre a voler accrescere il valore di una celebrazione di cento anni di meritoria attività dedicati a tutelare tutti i lavoratori, rappresenta un ulte- riore impegno nella promozione di nuovi strumenti di comunicazione e sensibilizzazione per avvicinare l’opinione pubblica al mondo del lavoro e alle tragiche conseguenze che questo può avere per alcune persone e sulle loro famiglie.

L’ANMIL – che da oltre sessant’anni tutela le vittime degli infortuni sul lavoro e tiene desta l’attenzione della società civile sulle problematiche della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro - ha identificato nel mondo dell’arte un efficace mezzo per creare, attraverso il poliedrico linguaggio creativo, iniziative che si sviluppano all’insegna del- l’incontro tra culture differenti: quella del lavoro, della prevenzione e della ricerca este- tica, intesa come costante proiezione verso il futuro, come una significativa realizzazio- ne che accompagna il divenire sociale.

In quest’ottica abbiamo deciso di sostenere “Capolavoro”, che raccoglie alcuni tra i più importanti maestri internazionali dell’arte contemporanea e accomuna creazioni che difficilmente sarebbero state riunite se non per un così elevato fine condiviso dagli arti- sti stessi: un percorso dove si confrontano personalità ed esperienze culturali diverse per enfatizzare il valore dell’uomo nel contesto lavorativo dei nostri giorni.

Pietro Mercandelli Presidente ANMIL

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© CAPOLAVORO

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ANGELO CAPASSO > CAPOLAVORO, Opere d’Arte

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Dare una definizione generale e onnicomprensiva di quanto si lega al concetto di lavoro, oggi, davanti all’am- pia gamma di attività laboriose che a questo vi si associano, è particolarmente complicato. Secondo un prin- cipio proprio dell’economia classica, il lavoro è uno dei tre fattori della produzione, assieme al terreno e al capitale. Il lavoro, in tal senso, è la componente umana della produzione. La più recente macroeconomia, all’interno di quel ciclo produttivo, ha sostituito al termine lavoro il concetto di risorsa umana, proprio per meglio comprendere in sé la varietà di potenzialità che il sistema del lavoro esprime in un mondo ormai dila- tato dalle opportunità offerte dalla tecnologia. In ogni caso, il lavoro ha un carattere profondamente colletti- vo e sociale. Per comprendere il lavoro nell’arte, è necessario uscire da questa linea sociale del lavoro, e com- prendere la linea lunga che lega il primate (o quello che comunemente definiamo l’uomo primitivo), raccogli- tore e predatore, al collezionista e al mercante d’arte. Questa lunga linea lega due tipi di economica profon- damente simili, in quanto espressione del lavoro di un singolo che instaura una relazione economica “one to one” col proprio oggetto del desiderio, e la sua attività soprattutto non ha alcuna “ricaduta” sociale diretta1. L’artista opera, per prima cosa, secondo un proprio principio individuale e secondo una sua individuale (e singolare) legge economica che rende ogni lavoro un fattore di eccellenza, tanto da scavalcare il mercato industriale e finire automaticamente in un ambito privato, intimo, individuale, che denominiamo collezione.

Ma l’ “istanza industriale” - se così è possibile definire quel processo di scambi generalizzati che si legano al processo di produzione e consumo proprio del mondo industriale, - non è rimasta una questione a sé stan- te, cui l’arte non ha guardato con interesse. Il secolo scorso ha conosciuto molti tentativi di declinare l’arte secondo una versione più ampia che ipotizzasse una sua distribuzione generalizzata, su ampia scala. Due casi eccellenti hanno meglio sintetizzato le possibilità di interpretare il modello industriale di lavoro nell’arte: il primo si inserisce nel contesto produttivista tedesco del primo dopoguerra, e lo ricordiamo con il nome di Bauhaus; il secondo caso nasce direttamente nel mondo della comunicazione e dei media al loro sorgere, sto parlando della Factory di Andy Warhol.

L’artista è una persona che produce cose di cui le persone non hanno bisogno, ma egli, per qualche motivo, pensa che darle loro sia una bella idea.

Andy Warhol

Suppongo di avere un’interpretazione molto vaga del “lavoro”, perché credo che essere vivi significa già essere al lavoro per qualcosa che non sempre ti va di fare. Nascere è come esse- re rapiti e venduti come schiavi. La gente lavora ogni minuto. La macchina è sempre in moto.

Anche quando dormi.

Andy Warhol

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10 Walter Gropius, nel suo Manifesto per la Bauhaus, chiariva bene quale sarebbe potuto essere la possibi- lità di produrre un’arte sociale: "Tutti noi architetti, scultori, pittori dobbiamo rivolgerci al mestiere. L'arte non è una professione, non c'è alcuna differenza essenziale tra l'artista e l'artigiano... Formiamo una sola comunità di artefici senza la distinzione di classe che alza un'arrogante barriera tra l'artigiano e l'artista.

Insieme concepiamo e creiamo il nuovo edificio del futuro, che abbraccerà architettura, scultura e pittura in una sola unità, e che sarà alzato un giorno verso il cielo dalle mani di milioni di lavoratori, come il simbo- lo di cristallo di una nuova fede"2. Il nome che Gropius proponeva il 20 marzo 1919 per la nuova scuola che nasceva dalla fusione della Grossherzogliche Kunstgewerbschule e della Grossherzogliche Hochschule für bildende Kunst, cioè Staatliches Bauhaus in Weimar, ne costituiva anche il program- ma. Se, in precedenza, il Deutscher Werkbund, richia- mandosi al concetto delle corporazioni medievali, poneva ancora l’accento sull’“opera” (werk), risultato del lavoro che era insieme prodotto e merce, il nome

“Bauhaus” si ispirava piuttosto ai cantieri delle catte- drali del Medioevo, dando più importanza alla comu- nione sociale e spirituale dei produttori che non al pro- dotto in sé. In altre parole, l’opera nata dalle mani arti- giane accresceva la propria portata sulla base di un progetto di rifondazione dell’industria con un interven- to diretto dell’arte. Gropius sotto la spinta del motto

“Arte e tecnica: una nuova unità” fece sì che i proget- ti di interior design della Bauhaus fossero prodotti con un motore del tutto particolare che aveva tra le sue componenti: la mistica della luce di Moholy-Nagy, le

concezioni filosofiche dello spazio di Gropius, l’ideali- smo solenne di Oskar Schlemmer, il romanticismo poetico e giocoso di Klee, lo spiritualismo di Kandinskij. Se la maggioranza dei giovani intellettuali tedeschi della generazione che aveva combattuto in guerra erano nietzchiani kulturkritisch, con una pro- pensione all’individualismo eroico ed un debordamen- to nel puro nichilismo, come nel caso di Ernst Jünger, l’Arte e la tecnica erano la spinta del lavoro verso un nuovo orizzonte produttivo spiritualmente elevato.

Il lavoro collettivo, quindi, si proponeva nella Bauhaus come alternativa al nichilismo imperante.

Erano nichilisti anche alcuni dadaisti come Raoul Hausmann o Kurt Schwitters. Il Merzbau di Schwitters, in qualche modo è il segnale di congiun- zione con il nichilismo negativo vigente dopo la prima guerra mondiale, e il fatalismo super-ottimista del secondo dopoguerra. Merz: parte finale della parola commerz trovata casualmente su un ritaglio di gior- nale inserito in una delle sue opere, è per Schwitters il denotativo per un’opera che sia profondamente legata al flusso autonomo e indiscriminato dell’agire umano e sociale nella società del consumo. Il Merzbau è un’opera automatica che cresce secondo la biologia del consumo, e non quella della produzio- ne. E’ una sorta di animale onnivoro che mangia i rimasugli del tempo. Iniziata nel 1923 e portato avan- ti fino al 1932 (ripresa più volte dall’artista in versioni diverse durante il suo esilio in Norvegia e in Inghilterra), l’opera andò distrutta nel 1944, in seguito ad un bombardamento: come una navicella spaziale che si modifica attraverso il passaggio nelle sfere, il Merzbau è una costruzione, con un progetto mobile e caotico,

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11 che segue il flusso della vita in sintonia con il tempo cronologico, biologico, atmosferico, fisiologico che si irradia attraverso l’artista.

E’ impossibile non pensare che questo sia il prin- cipio sostanziale su cui nei primi anni sessanta, a New York, Andy Warhol ha fondato la sua officina del lavo- ro nell’arte: la Factory. “Facevamo tutto male, ma cer- cavamo di farlo nel migliore dei modi” sostiene Andy Warhol, e questo Manifesto si presenta con un’idea di lavoro lontana da quella della Bauhaus, solo nei pre- cetti e negli intenti, ma non nello spirito. La Factory è per Warhol il motore delle sue diverse attività nell’arte:

è il supporto produttivo per la collaborazione appena stretta con la Galleria di Leo Castelli; è l’ufficio tecnico e lo stage per le sue sperimentazioni nel Cinema, già nel ’63, con i due lungometraggi: Sleep ed Empire (1964); è il luogo d’ispirazione per le esperienze musi- cali, quando Andy tenta di fondare un gruppo musica- le con La Monte Young e Walter De Maria, (due artisti della controtendenza rispetto alla Pop Art, ovvero la Land Art e il Minimalismo) e vi riesce nel 1967 con i Velvet Underground, di cui finanzia il primo disco. La celeberrima copertina del disco – la Banana gialla su fondo bianco - è un lavoro che nasce da Andy Warhol e si presenta come uno dei marchi elaborati nella Factory. La stessa esperienza di graphic designer, Warhol la ripeterà con i Rolling Stones nel 1971, in occasione del loro album Sticky Fingers, per il quale progetto una copertina degna della trasgressività del gruppo. La Factory, in definitiva, è un luogo dove il lavoro nasce sulla base del principio ottimista della meraviglia dove ciascuno porta la propria disponibilità a guardare all’arte con occhi nuovi: è un’azienda “a

conduzione famigliare”, dove le passioni interne al gruppo rappresentano una componente sostanziale del lavoro nell’arte, tanto che Warhol, nel 1968 rischia la morte, per l'attentato di una delle frequentatrici della Factory, Valerie Solanas, unico membro della S.C.U.M. (una società che si propone di eliminare gli uomini), che aveva trovato nel circuito della Factory il suo unico riscontro per le proprie battaglie femministe.

Quindi, più che un progetto tecnico, le qualità del lavoro della Factory si ritrovano nei diari di Warhol, nel suo romanzo conviviale A: a novel e nelle sue riflessio- ni pragmatiche e negli aforismi di La filosofia di Andy Warhol (Dalla A alla B e ritorno). Warhol è l’autorità che da forma ad una creatività collettiva. La sua firma è il marchio di qualità che contraddistingue il lavoro svol- to all’interno della Factory, di cui egli è, a volte, sem- plicemente spettatore. Per proseguire la sua incursio- ne nel mondo dei media, nel 1969 da vita alla rivista Interview, che da strumento di riflessione sul cinema amplia le sue tematiche a moda, arte, cultura e vita mondana; nel 1980 diventa produttore della Andy Warhol's TV. I party degli anni ottanta rappresentano il maggiore sfogo, le collaborazioni realizza opere a più mani con Francesco Clemente e Jean-Michel Basquiat.

Il contesto del lavoro quindi, dal principio evoluti- vo e progressivo della Bauhaus, in perfetta sintonia con lo spirito avanguardistico del primo novecento, con la Factory di Warhol si trasforma nel principio postmoderno del lavoro indiretto, dove l’artista prele- va il lavoro dal suo archivio di riferimento: per Warhol è il mondo dei media, il supermercato, lo Star System, la cultura popolare. Andy Warhol si limita ad “aprire la

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12 porta” della sua Factory (come egli stesso ha più volte dichiarato), un laboratorio per la creazione installato nella zona più feconda di New York, ed amministrare il flusso di energia creatrice che da quel gesto conse- gue, veicolando ogni idea ed entusiasmo verso forme produttive, proponendo una versione dell’artista quale catalizzatore, termoregolatore, isolante e trasformato- re alchemico di un processo che è in atto nella socie- tà, ma che normalmente scompare nel flusso del quo- tidiano. La produzione in serigrafia, cinematografica, editoriale, televisiva, non è altro che la rappresentazio- ne di tutte le forme attuali di creazione che esistono, non attraverso una firma manoscritta, ma attraverso un marchio solido che ne attesta la provenienza, Andy Warhol ha compreso come l’arte, nell’epoca delle comunicazioni multimediali, vive in una sfera interu- mana, come forma di relazione tra persone, comuni- tà, individui, gruppi, reti sociali.

Secondo Nicolas Baurriaud, una differenza sostanziale tra quanto succede oggi e gli anni della Pop Art, è che gli artisti Pop si sono trovati alle origini della produzione di massa e della nascita del marke- ting delle immagini. Quindi alle origini di una nuova estetica e di un nuovo sistema industriale, che oggi ha condotto fino a Personal Marketing, ovvero al marke- ting che regola le relazioni “industriali” tra le persone, intendendole come forma di vendita. L’artista, dopo Warhol, lavora secondo un sistema che Baurriaud definisce di Postproduzione3, ricorrendo al linguaggio del marketing cinematografico, intendendo con postproduzione quanto nel marketing normalmente si definisce il “posizionamento”, ovvero il lavoro di collo-

cazione del marchio all’interno del mercato industria- le. In altre parole, Baurriaud pensa che il lavoro creati- vo dell’artista si riduca oggi al prelievo di immagini e alla loro ricollocazione in un contesto diverso, atte- stando quindi ormai la totale estirpazione della distin- zione che esiste tra “produzione e consumo, creazio- ne e copia, ready-made e lavoro originale.” Potrebbe trattarsi di un aggiornamento del ready-made duchampiano, che a questo punto non vive più in un contesto storico e culturale ben definito, ma ormai si dilata oltre ogni confine, pescando casualmente nel bacino freddo di Internet? I nuovi postprodotti dovreb- bero quindi essere una forma espressiva ibrida che non rivendica una origine, quanto il diritto ad una nuova paternità: una nuova generazione di lavori d’ar- tista libera dalle radici storiche che nasce a filo d’ac- qua senza allacci predefiniti, ma che per questo moti- vo urla il proprio desiderio di essere riconosciuti dal mondo dei media per esistere (?).

La risposta la forniscono gli artisti. La critica nasce sempre in posizione seconda: asseconda l’esi- stente, è un gesto di normalizzazione dello smotta- mento prodotto dalla nascita di ogni nuova opera. Un dato acquisito, in questo panorama orizzontale pro- prio della globalità, è il ritornare sulla scena del vec- chio principio di Capolavoro. Il Capolavoro, che secondo il linguaggio rinascimentale ha identificato la maestria dell’artista e la sintesi del suo pensiero in opere di grande genio che si sono distinte da altre (anche tra quelle prodotte dallo stesso artista), oggi identifica il fenomeno meraviglioso e originale di pro- durre arte nel quotidiano. Ogni opera nasce in un con-

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13 testo autonomo, complesso, distante, disagiato, superiore, e quindi è potenzialmente un Capolavoro del presente. Ogni artista produce secondo uno stan- dard di Alta Definizione, grazie alla tecnologia e al pen- siero di perfezione che questa diffonde, ogni opera quindi può potenzialmente essere annoverata nel- l’ambito della Grandezza dell’arte, senza altro tipo di distinzione di sorta. Questa conclusione però non intende essere l’ennesimo sintomo della “morte del- l’arte”, quanto il segnale di una vitalità nuova che can- cella uno dei tabù propri del canone tradizionale della Storia dell’Arte, secondo il quale, alcune opere sono più significative e in qualche modo “superiori” ad altre.

Il Capolavoro (letteralmente il lavoro “principale”,

“primo”, “basilare”, “essenziale”) è invece sostanzial- mente il n. 1 di una catena significante che si estrinse- ca attraverso un numero indefinito di forme, tutte necessarie a comprendere la portata culturale del lavoro dell’artista, in quanto declinazioni diverse di un pensiero in movimento. Non più Capolavori e species

“minori”, di supporto, ma opere prime (come nel tea- tro: la prima!) che poi si articolano in forme diverse e si raccolgono sotto l’unico sistema di identificazione pos- sibile: il Copyright.

Questa modificazione ovviamente appartiene anche al mondo del lavoro, che è nettamente in con- trotendenza rispetto ad alcune teorie apocalittiche (proprie del cinismo postmoderno) quali la seguente di Jeremy Rifkin che segue: “Entro il prossimo secolo, il lavoro di massa nell'economia di mercato verrà pro- babilmente cancellato in quasi tutte le nazioni indu- strializzate del mondo. Una nuova generazione di sofi-

sticati computer e di tecnologie informatiche viene introdotta in un'ampia gamma di attività lavorative:

macchine intelligenti stanno sostituendo gli esseri umani in infinite mansioni, costringendo milioni di ope- rai e impiegati a fare la coda negli uffici di collocamen- to o, peggio ancora, in quelli della pubblica assisten- za” L’arte ha assimilato l’evoluzione tecnologica come potenzialità che spinge il fare verso nuovi orizzonti.

L’ipotesi romantica per cui la macchina sostituisce l’uo- mo e lo abbandona in un mondo che pullula di robot e di mostri meccanici, vale soltanto in un mondo che non conosce quanto produce, e le sue potenzialità produt- tive. In un mondo in l’Uomo è ancora forza lavoro, ele- mento passivo di produzione, assieme al capitale e al terreno, e non la mente che produce lavoro.

Il campione di artisti prescelto esemplifica ogni forma di lavoro nell’arte, secondo quanto propone la scena corrente. Gli artisti hanno assimilato i generi, gli stili, i media, le forme espressive proprie del passato, e liberano il loro pensiero attraverso il lavoro su più livelli stratificati, che implicano conoscenze, sensibilità, competenze, curiosità diverse. L’unica conclusione che risulta condivisibile nella teoria di Baurriaud sulla

“Postproduzione” è che possiamo considerare deca- duto il principio unico di distinzione dell’arte secondo la scelta del mezzo espressivo. Ogni artista opera con più media. La fotografia, l’installazione, il video, la scul- tura, la pittura, la performance sono media alternativi, spesso complementari, che ogni artista utilizza seguendo la propria strategia culturale. Il Capolavoro quotidiano è nell’esprimere la sintesi di un comporta- mento e di un pensiero radicale, che risulta inamovibi-

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14 le proprio per la sua radicalità. La tecnologia, i nuovi orizzonti digitali e multimediali consentono a questa radicalità di dilatare continuamente i confini del proprio essere in atto.

“Al contrario della gente comune, la spazzatura mi spaventa solo quando è nei cassonetti perché rappresenta il caos. Io le do una forma, la indirizzo ad un uso”, sosteneva Enrica Borghi (1966, Premosello Chiovenda) al margine di una sua mostra a Roma (2000). Il lavoro di Enrica Borghi esordisce da una riconversione degli oggetti dal loro contesto abituale (che somiglia molto al principio del “riposizionamento”

indicato da Baurriaud ), ma negli anni si è trasformato in un processo alchemico che ha trasformato gli oggetti stessi in forme nuove, delicate e raffinate. In breve, Enrica Borghi ha inizia la sua attività espositiva nei primi anni ’90 con delle installazioni realizzate con carte di caramelle e cioccolatini, shopper di plastica da supermercato e altri materiali che presentavano il loro fascino per l’urgenza (ambientalista) di dover essere reintegrati nel flusso della produzione onde evi- tare che si trasformassero in dei cadaveri non biode- gradabili, dei rifiuti nocivi per l’ecosistema. Oggi, Enrica Borghi è divenuta una vera e propria designer della forma: un’artista che costruisce ambienti, arreda spazi attraverso tappezzerie e decorazioni parietali, decora i luoghi e le persone, continuando a scegliere come materiali per le proprie creazioni oggetti e forme prelevate dal mondo industriale. L’originaria relazione tra il lavoro artigianale femminile e il dialogo con la società dei consumi, che aveva portato a particolari rivisitazioni della scultura classica, come le Veneri

(copie di statue classiche realizzate in plastica ricoper- te di unghie finte o di bigodini), oggi non è più soltan- to un exemplum del senso etico che il lavoro dell’arti- sta può avere in ambito sociale, ma è diventato una vera e propria linea di ricerca all’interno della possibi- lità di trovare soluzioni nuove tra quanto solitamente passa sbadatamente davanti ai nostri occhi, senza lasciar traccia. Da un’ecologia ambientale, il lavoro di Enrica Borghi si attesta sempre di più in un ambito di ecologia dello sguardo, tra organizzazione sensoriale, percezione e identità.

Il lavoro di Botto e Bruno (Gianfranco Botto, 1963 e Roberta Bruno, 1966) ha di per sé una certez- za inamovibile: il punto di partenza è il margine. Sede elettiva del loro immaginario è la periferia urbana, ovvero quel luogo che nasce dal nostro essere

“moderni”, e, secondo Baudelaire, figli della città. E’

questo nucleo sociale, economico, culturale ad aver generato la periferia: ovvero la possibilità che esista un anello di confine, dove la “vita moderna” deposita que- gli ideali, quelle speranze e quelle verità troppo calde per potersi raffreddare (secondo il Secondo principio della Termodinamica) nel secolare movimento verso il Centro. La periferia è il luogo delle passioni, ma anche dell’abbandono, della solitudine, e talvolta della dispe- razione che tali passioni possono far nascere. Non c’è malinconia, nelle periferie e nei sobborghi di Botto e Bruno, ma cieli grigi che fanno da coperchio a pento- le in ebollizione, dove la singolarità conosce due line diverse, a volte complementari: la desolazione e la creatività. Botto e Bruno hanno lavorato attraverso il film, le grandi installazioni fotografiche, il video, le

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15 installazioni visivo-sonore, per operare attraverso una durezza che squarcia il fondo del silenzio, così come una chitarra distorta entra nel suono della continua metamorfosi che le metropoli vivono soprattutto nei loro rivoli suburbani.

Oltre alla periferia, altro dato certo del loro lavoro è la musica rock. I titoli delle opere, somigliano spesso ai titoli delle canzoni: An ordinary day, è il titolo di un video che si svolge in un giorno di nebbia, dove qual- cuno, da un balcone coprendosi poco alla volta il capo osserva il paesaggio stradale, a questa scena ne segue una di lavoro: gli operai devono smontare un peso in cemento per agganciarlo ad un cavo d’accia- io. Queste immagini di vita di periferia si dissolvono pian piano davanti al nostro sguardo, immerse nel fumo di una fabbrica. Due uccelli attraversano colon- na di fumo.

Ogni lavoro di Botto e Bruno ha l’immediatezza di un brano musicale: è dotato di introduzione, di un chorus che si ripete, di un riff di chitarra e di un solo finale. La scelta dei titoli delle loro opere ha lo scopo di conte- stualizzare il tenore delle opere stesse: Under my red sky è un chiaro riferimento a Under a blood red sky, un verso centrale di New Year’s Day degli U2 che è anche il titolo di un album dal vivo dei musicisti irlandesi che ha segnato il momento della loro prima popolarità internazionale. Nell’uso della fotografia, Botto e Bruno mostrano delle forti radici italiane, direi torinesi: i giochi di riflessi e di rimandi tra le figure, sono figli di un’aspetto mentale dell’arte, che in Italia ha una lunga tradizione, a partire da Leonardo, ma ha trovato in Giulio Paolini la maggiore declinazione nel contempo- raneo. Inoltre, i due elaborano un processo di costru-

zione delle loro immagini che va al di là dell’ordinario scatto fotografico: figli di una generazione digitale, Botto e Bruno rielaborano a mano (retaggio della loro educazione di restauratori acquisita dopo una lunga esperienza scolastica) le fotografie, che infine entrano nel computer per conoscere la loro fase finale di post- produzione e di stampa. La stampa digitale consente loro di operare su grandi dimensioni, eleggendo la periferia a nuovo mito dello spazio “globale”.

Il lavoro di Plamen Dejanov (Sofia, Bulgaria 1970) nasce all’interno della relazione, da sempre indefinita, che lega l’arte all’economia. Esistono molti elementi di correlazione tra le due discipline, ma non vere corrispondenze se non su un piano puramente generale. Dejanov, col suo lavoro, si è inserito nei meccanismi più minuziosi del mercato, fino a trovare collocazione nel marketing inventando uno suo siste- ma di comunicazione, molto simile a quello classica- mente adottato dalle corporation. Collective Wishdream Of Upperclass Possibilities riassume nel dettaglio una strategia dell’artista che ha molte somo- glianze con le strategie di marketing. Dopo aver lavo- rato a lungo in coppia con Swetlana Heger (con cui ha collaborato dal 1995 al 2000), “Dejanoff attua, in que- sto caso, un'arte del riposizionamento” (come sostie- ne Nicolas Baurriaud), spostando la propria sede di lavoro a Berlino, nel quartiere Mitte, in un edificio pro- gettato dalla giovane coppia di architetti Ernst&Gruntuch finito nel 2001. La costruzione stile high-tech ospita le corporation Adidas, Sisley, Benetton, Viva, Wir design, solo tre appartamenti sono loft privati, di cui uno abitato dall'artista. L'edificio

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16 Hackesher Markt 2 è incluso in diverse guide che lo indicano tra le più interessanti architetture berlinesi.

Dejanoff ha poi contattato il duo di designers parigini M/M richiedendo il logo per la nuova business card e alcuni luxurious announcement che includono imma- gini di esterni ed interni dell'edificio e il logo con l'indi- rizzo. Questo progetto sul cambio di residenza e il cambio di nome, da Dejanov in Dejanoff (suggeritogli dalla Wir Design, compagnia che crea e cura il look delle Pop Stars) trasforma l'esperienza esistenziale in una sorta di joint venture tipica dell'economia reale. Il nuovo ciclo produttivo di Dejanoff, in Italia, tracima nella vita reale attraverso la copertina di Flash Art apri- le maggio 2002, sulla quale appare uno dei luxurious announcement in forma di advertising. All'interno sono pubblicati altri annunci e il testo "L’artista come società a responsabilità limitata" di Nicolas Bourriaud, attuale direttore del Palais de Tokyo.

Collective Wishdream of Upperclass Possibilities è costituita da una piattaforma in plexiglass stratificato bicolore, una sedia di Marc Newson per Cappellini, tre lampade in vetro colorato di Murano Vistosi anni ’50, un cerchione in cristallo artificiale che riproduce quel- lo della BMW Z3, ed è stata ideata come ufficio di lan- cio per Genova 2004 Capitale Europea della Cultura e, presentato a Basilea durante la fiera Liste, nello stand della galleria Pinksummer, nel giugno del 2002.

Tra i suoi New Works, un’aspirapolvere esemplifica l’evoluzione del suo lavoro di “postproduttore” inteso come nuova trasformazione del ready made Duchampiano: l’oggetto industriale non è prelevato direttamente dal suo territorio d’appartenenza, ma dalla rielaborazione all’interno dell’arte; quell’oggetto,

che esiste già nell’archivio dell’arte in una versione rie- laborata da Jeff Koons, oggi trova la sua celebrazione in una versione splendidamente dorata.

In un dialogo tra scienza e arte si inserisce il lavo- ro di Alberto Di Fabio (Avezzano, 1966), pittore di cosmografie vivaci e visionarie. L’arte, di per sé, è sempre una riflessione sull’infinito che si esprime attraverso forme finite; ogni artista ha il suo cosmo personale, fatto di un pensiero informe che si sedi- menta attraverso delle forme. Le opere di Alberto Di Fabio hanno però potenziato quell’aspetto visionario tanto da generare una filosofia visiva senza forme, ovvero attraverso elementi che dobbiamo scrutare a lungo per dargli un nome. L’Universo, e l’universalità delle forme che trovano espressione nel Cosmo, nelle opere bidimensionali di Di Fabio assume le sembian- ze di un iconografia organica fatta di cristalli, minerali, lastre di materiale lavico, rocce e paesaggi lunari che è difficile riconoscere nel nostro ambiente naturale, col quale condividono però delle profonde assonanze.

Sono reperti di un Universo che ci parla della nostra sfera celestiale e ne indica lo stato primigenio, origina- rio. Le sue evoluzioni formali, che sembrano nascere da una lontana eco delle Componetrazioni iridescenti di Giacomo Balla, partono sempre alcuni centri irra- dianti dai quali nasce un movimento che giunge fino al germogliare di colori e forme geometriche simili a fiori leggeri ed impalpabili, al polline, o a quei piccoli boc- cioli fragili che chiamiamo “soffioni”, proprio perché si decompongono con un soffio. In altri casi, lo schermo pittorico è la cartina tornasole di alcune geometrie appercettive che sfidano le leggi euclidee. Si tratta,

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17 complessivamente, di una flora minerale fantastica, nata da forme elementari, che la tela imprime e allo stesso tempo sottrae alla possibilità che possa svani- re nel sogno, o al rinchiudersi nel mistero della mate- ria, ed essere quindi destinata nuovamente ad scruta- ta soltanto attraverso un cannocchiale, un telescopio o un microscopio in grado di entrare nelle divagazioni della mente.

Non si tratta, nel suo caso, di un’astrazione totale, ma di un ‘reimpianto’ della fantasia all’interno del nostro vivere immaginativo. Ovvero di inventare e creare da zero, schivando ogni tentazione del visibile. Il ‘reim- pianto’4di Di Fabio non si esprime solo attraverso la pittura, ma anche attraverso l’azione. In una perfor- mance realizzata a Ponza (Napoli, 2004), Di Fabio si è azionato proponendo un intervento cosmo-naturalisti- co che ricorda le iniziative di un ecologista, reimpian- tando nell’ambiente urbano forme di vita vegetale che originariamente appartenevano al luogo. Ma è un prin- cipio che torna in altra sua opera non pittorica: la sua rivista immaginaria VAGUE, dove l’artista reimpianta la propria fantasia all’interno del sistema economico industriale che regge la comunicazione corrente e ne trae spunto per articolare i temi a lui cari: l’ecologia, l’erotismo, il mondo minerale, neurologico, subatomi- co, che circola in modo sotterraneo alla superficie dei pensieri e dei sogni.

Il lavoro di goldiechiari (Sara Goldschmied, 1975; Eleonora Chiari, 1971, lavorano in coppia dal 1997) si articola tra media e problematiche diverse.

Una chiave che consente di conoscerne la trama è certamente la relazione tra etica ed estetica. Su que-

sta doppia sponda, goldiechiari ha prodotto una serie di opere che le hanno viste direttamente coinvolte nel lavoro ed anche nell’immaginario iconografico.

Goldiechiari, in altri termini, è l’espressione di una declinazione del fare arte che non conosce mezzi ter- mini, o alibi estetici, ma si propone con una sua chia- ra frontalità attraversando problematiche dell’arte e della società con una pari intensità e con la stessa strategia. Se l’etica è la volontà di vivere conforme- mente alla verità, alla legge, alla Suprema Potenza di Dio. Il Dio di goldiechiari è l’Arte, ed in quanto tale, questa divinità fonde in sé etica ed estetica.

Sul primo versante quindi, il duo si confronta con tematiche politiche e sociali: l’ecosistema naturale e ambientale, il potere politico ed economico, la misogi- nia, la questione del femminile nell’arte; sul versante estetico, il loro discorso si accresce nella lunga linea della storia dell’arte (i riferimenti agli impressionisti, al paesaggismo, al feticismo pop) ricercando nell’arte e nel fare arte dei rimandi per poter articolare una loro lingua individuale, attraverso “opere” e “azioni” che le chiamano direttamente in causa: sono loro le protago- niste principali di una serie di circostanze costruite ad arte per produrre degli exempla per il pensiero: sono sul set del Déjeuner sur l’herbe, oppure in un campo di papaveri con lo striscione La Religione è l’oppio dei popoli, in un paesaggio fiorito che porta il marchio Bastarde, con la nonnina mentre imparano a cucire i loro cappucci da no-global, o mentre tessono la maglia per raggomitolare un gomitolo di filo spinato.

Fino a proporre la scultura di grandi dimensioni di un sex-toy, proponendo così l’ingigantimento pletorico del piacere come Capolavoro del presente.

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18 Il lavoro di H.H. Lim (Malesia, dal 1976 vive a Roma), come una pianta proteiforme si è diversificato nel corso del tempo. Le prime opere di Lim hanno segnato i luoghi con oggetti che si conformavano come elementi di una grammatica linguistica: i suoi aerei di gesso, i raccogli-immondizia, le bottiglie da vino, le ampolle e i totem ricavati dagli elenchi del tele- fono, sono stati i segnali di un percorso che ha conci- liato l'oggetto con il pensiero, e quest’ultimo radican- dosi nell'effimero si è esercitato liberamente in quel perfetto vuoto ontologico qual è lo spazio espositivo.

Così anche i suoi “specchi”, negli anni novanta, hanno mostrato che la riflessione, e quindi il pensiero elucu- brativo, non è mai chiaro, ma relegato in una relazio- ne opalescente, pallida e antica che avvicina la con- temporaneità all'arte tradizionale, il lavoro manuale al pensiero. Del resto, i nostri concetti letterari sono deri- vati dalle arti della produzione e dalla costruzione: tali, per esempio, le nozioni di “cultura” (che richiama l'agricoltura), “sapienza” (originariamente “perizia”) e

“ascetismo” (originariamente “lavoro faticoso”). Il titolo delle sue opere è spesso l’indicatore di un lavoro che ha origine nel principio stesso del fare arte: il concet- to. Per l'amor del cielo, ad esempio, è un'espressione che può esprimere amore per il volo, amore divino, o paura o disperazione: poli opposti che conciliano, cosi come nelle opere di Lim capitano accostamen- ti di divinità buddiste o indù con armi o macchine da corsa. Un’ombra di dubbio, 70 chili circa di saggez- za, La via sono titoli applicabili, come teoremi filoso- fici, a più opere. Sotto ogni punto di vista è un’espressione che risolve la totalità del pensiero secondo coordinate spaziali.

Oggi questa grammatica di elementi, fatta di oggetti e di espressioni linguistiche, si è radicata su un elemen- to che è ad un tempo origine e fine del suo discorso artistico: la parola. Giocata tra significato e significan- te, la parola nel lavoro di Lim si slabbra in una duplice accezione grafica e di significato, lasciando all’imma- gine il ruolo di sintetizzarne la divaricazione. Ovvero, le parole e le frasi che scorrono su tutti i suoi lavori pitto- rici – che potremmo distinguere in cicli: il ciclo bianco, il nero e il rosso – sono degli elementi grafici che rimandano ad una tradizione grafica Orientale, ricon- vertita nel mondo Occidentale in segni senza senso:

in contenitori del vuoto, appunto. Nel nuovo ciclo di opere di Lim, il linguaggio dei sordi entra pienamente nel lavoro e si trasforma in oggetto per la rappresen- tazione simbolica. La parola, nel linguaggio dei sordi, è azione, movimento, immagine. Ogni azione per H.H.

Lim, come la parola, si articola nel tempo: nell’attesa, sull’attimo, per la riflessione.

“Ut pictura poiesis” (Orazio)? E’ possibile tradurre le immagini della pittura in poesia? Il termine Poesia (dal greco antico poiesis= comporre, fare in versi) è già di per sé l’indicazione di un tipo di fare, e quindi di un lavoro. Qual è il lavoro del Poeta? In che modo si distingue da quello dell’artista. Avish Khebrehzadeh (Tehran, 1969) affonda le mani in questo ambito che mantiene in sospeso poesia e pittura, e tiene legate entrambe da un canale sotterraneo che si sostanzia nella fragilità, nell’essenzialità, nel frammento, nell’im- mediatezza e nella sensazione. Avish Khebrehzadeh opera con la pittura, ma anche con la tecnologia più recente, individuando per entrambe le espressività la

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19 loro punta più estrema: il segno, mobile o sedimenta- to. La sua pittura si fonda su elementi naturali: grafite, olio d’oliva, resina, carta di riso sono gli elementi attra- verso cui elabora un’iconografia fatta di piccoli perso- naggi esili e misteriosi. I suoi video, spesso proiettati direttamente sui dipinti, sono l’azione esile del raccon- to nella sua versione più elementare. In entrambi i casi, si tratta di un’arte che nasce dal fare, ogni figura sembra scaturire direttamente dalla mano dell’artista che è, ad un tempo, madre e figlia dei suoi personag- gi. Il mio riferimento alle due figure femminili è ovvia- mente un riferimento ad un’interpretazione matrilinea- re delle relazioni famigliari che nel mondo tradizionale islamico, sono le più sacrificate ma anche quelle più vicine al lavoro inteso come creazione. I racconti di Avish Khebrehzadeh si configurano quindi come l’ela- borazione di memorie giovanili dell’artista, ma anche come ipotesi attuali per riproporre la virtù del narrare.

E’ una virtù salvifica, che vale tanto per Sherazade, la schiava che, nelle Mille e una notte, racconta favole al Sultano per evitare l’esecuzione della sua condanna, sia per le donne del presente, che tengono il raccon- to come un’arma per condividere e testimoniare la loro esistenza: se la voce, la parola, è la presa di cono- scenza, l’immagine è la memoria visiva, il ricordo, lo spazio individuale che prende forma.

Il Cinema ha imposto nel mondo dell’arte un sistema di proceduralizzazione che non è proprio dell’Arte. Thorsten Kirchhoff (Copenhagen, 1960, dal 1984 vive a Roma), sotto forme diverse, applica questa proceduralizzazione industriale, sezionando il pensiero per potenziarne ogni singolo aspetto. I suoi

video sono dei minifilm, i suoi dipinti sono immagini tri- dimensionali che entrano in azione, le sue installazioni integrano cultura e natura e fondono la realtà simboli- ca, e la sua rappresentazione, con il quotidiano. Più che una semplice fonte d’ispirazione, il Cinema è il suo sistema di lavoro che Kirchhoff assume fino nella profondità delle sue strutture primarie (la narratività, il mistero, l’ambientazione spaziale, il movimento, il ritmo, la musicalità) proprio scegliendo dei casi cam- pione. Sono i film che l’artista danese ha eletto a cam- pioni personali: Blow up di Michelangelo Antonioni, Lifeboat di Alfred Hitchcock, ma anche il cinema di Jaques Tati nella sua interezza. La scultura, la pittura, l’installazione, per Kirchhoff vivono secondo questo assunto minimo che li lega al loro essere parte di un film, in cui, potenzialmente le scene di film diversi si legano al fondo di una regola primaria e inamovibile che si può riconoscere in una sorta di “affinità elettiva”

che Kirchhoff condivide con i registi prescelti. Il suo Cinema parte dall’Arte (suo terreno d’elezione), che a sua volta parte dal Cinema (suo territorio d’ascensio- ne), ma anche dalla musica Pop e Rock, in cui però ritornino le stesse qualità cinematografiche procedu- rali: poter essere sezionabile attraverso il pensiero luci- do, “freddo e dissimulatore” (Carlo Emilio Gadda).

Dopo la saga dedicata alle aspirine del Doctor Hoffmann, Kirchhoff sta preparando un lungo metrag- gio: Overdrive, il film ancora in fieri, la cui sceneggiatu- ra è scritta da Kirchhoff insieme al torinese Jacopo Chessa. Perturbante e misterioso.

Miltos Manetas (Atene, 1964) è un artista che nasce in un ambito particolarmente avanzato del lavo-

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20 ro nell’arte: la net-art. Nell’ultima edizione della Biennale di Tirana, Manetas è stato il curatore di una sezione dedicata alla Web-Art per la quale ha invitato i migliori computer screen-people (che lui definisce

“Neensters”, dal particolare neologismo tecnologico

“Neen” creato da un software impazzito, che secon- do l’artista definisce un atteggiamento positivo, fanta- sioso ed ironico nei confronti del mondo della tecno- logia) ricercandoli, in modo molto generalizzato, tra gli artisti professionisti, i designer, i compositori di opere audio, i web designer, in altre parole ha aperto l’arte al mondo della produzione industriale corrente, che ormai vive completamente immersa nell’onda digitale.

Manetas ha prodotto vari neologismi nell’ambito delle nuove tecniche del fare arte. Ne sono un esempio i

“vibracolor”, tele fotografiche che emulano il principio della pittura, su cui ha proiettato tutto il mondo dei videogiochi: Super Mario; i loghi della Sony, le imma- gini dei tools tecnologici per i nuovi giochi elettronici quali i cavi di connessione, il mouse, il joystick, i Pokemon. "Quella dei Pokemon è una storia senza riferimenti: non puoi collegarli al resto del paesaggio visuale. Evidentemente è una storia giapponese che noi interpretiamo alla maniera occidentale, senza conoscere molto del Giappone, ma questo non ha importanza, al contrario, è positivo trasformare gli oggetti culturali, soprattutto perché nel caso dei Pokemon, più che la battaglia, è importante la loro evoluzione, è quello che vincono quando vincono su un altro Pokemon, diventano essi stessi un altro Pokemon". Manetas è consapevole che la tecnologia ormai è giunta ad un livello di autoriproducibilità tec- nologica, dove l’artista diviene spettatore di una cre-

scita intralinguistica, in cui gli oggetti creano altri oggetti automaticamente. Gli ultimi lavori (raccolti in una serie dal titolo significativo: Feelings) sintetizzano il suo procedimento lavorativo del tutto singolare:

Manetas stampa i disegni nati dalla sua creatività applicata al computer, li stampa su una carta lucida specifica per stampanti ink-jet, e su questa interviene manualmente, riportando il processo digitale in una biologia “analogica”, ovvero producendo quelle sba- vature che l’Alta Definizione ha praticamente cancella- to. In altre parole, Manetas reintroduce, all’interno del processo produttivo tecnologico, la grazia del gesto, la sua morbida manualità, e soprattutto la sua irrever- sibile fallibilità. A questo punto, l’artista reintroduce la carta geneticamente modificata dalla mano nello scanner e fa uscire dal computer le tele di grande for- mato che poi viaggiano nel solco dell’arte di galleria.

Feelings, senzazioni congelate, rapsodie senz’azioni totalizzanti, che utilizzano la tecnologia per potenziare l’effetto di ogni piccolo movimento dell’animo, e del rumore di fondo del vivere quotidiano (con un compu- ter acceso).

Con Eva Marisaldi (Bologna, 1966) il lavoro nel- l’arte assume la sua forma più emozionale. Eva Marisaldi produce installazioni che ricordano gli

“oggetti d’affezione” di Man Ray e le sculture animate di Meret Oppenheim. La definizione che Man Ray rita- glia dal suo stesso modo di operare è esemplificativa del tono con cui Eva Marisaldi interpreta il proprio lavoro nell’arte: “Tutto quanto capita sottomano o è scelto nell'abbondanza dei materiali che ci circonda- no viene combinato con parole al fine di ottenere una

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21 semplice immagine poetica. Non bisognerà cercare quelle qualità plastiche, quei virtuosismi, o i meriti che si è soliti vedere associati ai prodotti artistici. Questi oggetti dovrebbero dilettare, disturbare, disorientare o far riflettere.” (Man Ray). Il mondo di Eva Marisaldi è quindi popolato di cose animate. Come in un grande archivio della memoria personale, i suoi oggetti assur- gono da un ambito affettivo che portano con sé anche nello spazio pubblico delle installazioni, conti- nuando a proporlo come un involucro protettivo che detiene il senso più profondo dell’opera. E’ il caso dei suoi recenti lavori in ceramica che l’artista ha realizza- to a Faenza, dove, ad esempio, una vasca scura da esterni (una di quelle che si vedono nei cortili condo- miniali) presenta su di sé cristallizzata tutta micro fauna di spore e piccole piante, di muffe verdastre, di muschi e licheni, che nel tempo normalmente colora- no le superfici in esterno, conferendo a tutti i materiali industriali (quali il cemento) un’aura di cosa in vita, di cosa animata. Un altro caso di oggetto animato è la sua Fontana sonora: una scultura circolare mono- croma di grande dimensioni progettata insieme al musicista Enrico Serotti che ha appositamente rea- lizzato un software per attivare il complesso sistema di getti d'acqua da cui scaturisce la melodia della porcellana. Sono opere che scaturiscono meravi- glia; sono oggetti che si allacciano al sentimento e vivono in un atmosfera rarefatta e morbida, sospesi tra la presenza e l’assenza, la copia e il falso, la veri- tà e la realtà, utilizzando la maschera del sentimen- to come forma per presentarle nella loro faccia ani- mata. Ogni oggetto è una presenza, si lega ad un ricordo, ad una persona, o ad un’emozione che una

persona ci ha regalato, di cui diventano la manife- stazione complessa nel lavoro d’arte.

Il lavoro di Paul Morrison (Liverpool, 1966) vive profondamente immerso in due tradizioni culturali molto lontane, in termini temporali, ma con profonde affinità sul piano estetico: il Minimalismo e nelle deco- razioni floreali che legano il tardo Medioevo con l’Art Nouveau. Le opere di Morrison dialogano con i princi- pi di William Morris (il quale sosteneva l'inconciliabilità tra produzione industriale e artistica, proponendo un rilancio della produzione artigianale), e con le forme dei Pre-Raffaeliti, le cui curiosità culturali rivolte verso l’arte medievale, ispirerà l’estetica modernista liberty del primo novecento che, in modo indiscriminato, ha toccato diverse forme decorative: oggetti vari, libri, mobili, manifesti pubblicitari, opere d’arte, poesia, tutto, nell’estetica preraffaellita si popola di steli di fiori, bestiari, giardini opulenti di forme diverse e altre sce- nografie teatrali che diventano il centro della cultura della vita conviviale moderna. Il suo Minimalismo di Paul Morrison si ritrova invece nell’essenzialità di quel- la teatralità, che raramente sprofonda nell’eccesso della decorazione, e spesso si limita a descrivere lo spazio. I temi floreali di Morrison (così come anche quelli antropologici) delimitano il confine di una zona teatrale: non la affollano di immagini, sintetizzano semmai.

Su questo contesto storico, Morrison mette in atto le proprie curiosità intellettuali e visive. Ad esempio, in una recente mostra dal titolo Cambium, egli fa riferi- mento al termine botanico che descrive il processo di accrescimento della circonferenza degli alberi, nella

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22 loro particolare struttura circolare e avvolgente.

Questo spunto scientifico diviene la fonte di un’ico- nografia rigogliosa e dinamica, che moltiplica le pro- prie forme sulla base di una sottintesa meraviglia del creare, di reintepretare le forme esistenti, quasi modificandone la genetica. Paul Morrison è un nuovo paesaggista inglese, che opera al computer:

il suo lavoro consiste nel proiettare le forme su una superficie, di delinearne i confini con una matita e poi colorarne le superfici emerse dal disegno. Un lavoro elegante ed essenziale, che porta con sé l’eleganza del dandy, un’eleganza sottilmente demodè che ricorda il disprezzo di Barbey d'Aurevilly per “il gusto e le idee contemporanee”, e l’amore per l’abbigliamento in grigio (nelle diverse tonalità). Anche Whistler, altro artista dandy, vestiva interamente di bianco e nero, ma con una lieve nota di colore nel fazzoletto da taschino. Lo stesso face- va Baudelaire, tanto da venir chiamato dai critici e dai conoscenti 'monsignor Brummel'; il suo tocco di colore era dato dai guanti: primula, rosa, gialli. E da una sciarpa oltraggiosamente rossa, che metteva solo ai funerali. Paul Morrison, con i suoi wall dra- wings o piccoli disegni miniati, ha trovato la declina- zione dell’essere dandy in una versione che investe i luoghi della vita quotidiana.

La tradizione della scultura, in Nunzio (Cagnano Amiterno, L'Aquila, 1954) segue certamente una linea lunga che congiunge il presente, con una storia lun- ghissima in cui l’Uomo si è misurato con l’espressivi- tà della materia, in un dialogo profondo, alla ricerca della parola che produce il segno. Dalle prime espe-

rienze col gesso, Nunzio è approdato al piombo e al legno combusto ricercando la linea che attraversa lo spazio e rende anch’esso una materia palpabile. La materia, per questo, è un elemento pregiato proprio quando è in grado di farsi da tramite con la Storia.

Nunzio accarezza i materiali più ruvidi per far assurge- re la tessitura che profondamente li distingue: le rughe sottili del legno combusto che si modula come un vel- luto e lascia trasparire le sue fenditure; il mistero del gesso che può tessersi come un velo trasparente; il piombo che s’illumina come un raso. L’espressività dei materiali è la regola del lavoro di Nunzio. Questa nasce dal fondo del lavoro sul tempo, con l’accuratez- za delle scelte e la delicatezza del pensiero che passa attraverso le forme per fornire ad ogni elemento che compone le sue installazione una centralità assolu- ta secondo un sistema di composizione che, per equilibrio formale e per sensibilità all’ambiente, sfio- ra la coerenza di un componimento musicale.

Nell’assunto che appartiene alla scultura di Nunzio, ogni materiale naturale può potenzialmente conte- nere una gamma di sfumature di colori e di armonie che l’artista può liberare. La scultura quindi diviene costruzione architettonica di idee esili, capaci di suonare fortemente, a seconda della capacità della materia di vibrare nello spazio. Lo spazio, in Nunzio è uno spazio rituale, dove la natura distolta dal suo indiscriminato percorso di crescita s’arresta e mette in atto un rito iniziatico di autotrasformazione, che lo scultore movimenta attraverso la propria sensibilità umana, riconvertendosi in origine prima, forma unica, colore essenziale, immagine ancestrale, spa- zio cosmico.

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23 Il lavoro con l’informazione, sulla scena dell’arte cor- rente, assume forme e valori simbolici molto diversi.

Perino & Vele (Emiliano Perino, New York, 1973;

Luca Vele, Rotondi, 1975) utilizzano, per la loro crea- zione di sculture, la cartapesta e il ferro zincato: la prima conferisce una stratificazione simbolica molto complessa all’interno delle loro sculture; il secondo è invece la struttura portante del lavoro, il sistema attra- verso il quale questo può assumere dimensioni monu- mentali. La cartapesta è realizzata con l’impasto dei giornali nazionali maggiormente diffusi, da cui deriva- no le varie sfumature cromatiche (il rosa per la Gazzetta dello Sport, il giallo per Italia Oggi, il beige per Il Sole 24 Ore, il grigio per Il Corriere della Sera o Il Mattino): le informazioni visive che i quotidiani con- tengono, in questo modo vengono ingoiate dal pro- cesso di macerazione della carta e quei dati bruti si trasformano in una materia solida capace di esprime- re una monumentalità molto particolare. Si tratta di un lavoro di scultura in cui la tradizionale operazione di sottrazione – per cui secondo Michelangelo l'artista aveva il compito di liberare dalla pietra le figure che vi sono già imprigionate, per questo egli considerava la vera scultura quella “per via di togliere” cioè di toglie- re dal blocco di pietra le schegge di marmo - si sosti- tuisce un lavoro di addizione, o meglio di composizio- ne, in un cui un magma morbido e vischioso si presta a diventare una materia ruvida e solida. Il lavoro con la cartapesta è normalmente associato ad uno dei gio- chi da bambini, ma è anche una forma creativa che appartiene al teatro, per la sua peculiarità di poter essere dipinto e quindi trasformato nei colori, oltreché nella forma. Perino & Vele hanno invece considerato

questa materia, come un oro puro da modellare per costruire grandi sculture che spesso sono la rappre- sentazione di alcune riflessioni del duo partenopeo su questioni di ampio respiro tratte dalla cronaca o dalla società civile in generale. E’ il caso di Kurbak, la recen- te personale napoletana dei due, dove il tema propo- sto approfondisce la tematica delle torture militari, che i due traspongono su un livello molto particolare:

denunciano le torture inflitte agli animali, privati di ogni diritto e utilizzati nella sperimentazione militare. Una delle opere in mostra si intitola significativamente Porton Down: è il nome del maggiore centro di ricer- ca militare del Regno Unito dove, nel 1949, venne costruita una speciale fattoria per allevare animali destinati ad atroci sperimentazioni.

God save the Queen è il titolo del terzo singolo dei Sex Pistols, scritto in protesta al Giubileo d'Argento della regina Elisabetta II d’Inghilterra. E’ l’inno punk che trasforma l’inno britannico in un rumoroso urlo contro la monarchia. Simon Periton (Kent, 1964) ha congiunto la tradizione vittoriana dell’arte con le atmo- sfere anarchiche punk reinterpretando il lavoro dell’ar- tista come quello di un incisore di logotipi e di marchi pubblicitari per immagini che appartengono spesso alla cultural popolare e giovanile. Come nel caso della copertina della raccolta di Hits dei Pulp, uno dei più noti gruppi della britwave degli anni novanta. Il lavoro di Periton è nella trasformazione delle forme in silho- uette e stencil ritagliate a mano. Ogni oggetto si tra- sforma nella propria immagine riflessa in filigrana attra- verso il lavoro manuale. Le silhouette di Periton ricor- dano i principi “gestaltici” della forma primaria.

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“Gestalt” è una parola tedesca che corrisponde al significato di “struttura unitaria”, “configurazione armonica”. Questo termine è legato alla psicologia della Gestalt che si inserisce tra le scuole strutturaliste della percezione. Nacque a Berlino, nel 1912, quando Wertheimer scrisse un articolo in cui identificava un processo percettivo unitario - da lui chiamato fattore

“phi” - grazie al quale i singoli stimoli verrebbero inte- grati, nel soggetto, in una forma dotata di continuità.

Ciò significava che quello che prima era stato consi- derato un processo passivo - il percepire - veniva ad essere pensato come qualcosa di gran lunga più atti- vo, come un’attività subordinata a certi principi orga- nizzativi generali. Con le sue teorie, Wertheimer sosteneva che non sono gli stimoli elementari ad essere colti dall’organismo che percepisce ma piutto- sto le stesse configurazioni unitarie. In altre parole, per l’organismo che percepisce, l’insieme significativo è lo stimolo. Da qui, la legge gestaltica per cui il “tutto”

viene prima delle singole parti. Le teorie gestaltiche sono diffusamente note tra i graphic designers e i pro- fessionisti dell’immagine, in quanto costituiscono la base per la costruzione di una immagine che trovi rapidamente la sua efficacia nel nostro universo visivo.

Il lavoro di Simon Periton è fatto di elementi grafici che si ripetono e, nel ripetersi ne costruiscono degli altri, come cellule di un organismo, ma la forma comples- siva è sempre dominante su quella delle forme parti- colari. Uno degli elementi grafici ricorrenti di Periton è la A di Anarchia. Si tratta di un marchio che ha forti connotazioni ideologiche, ma anche delle sostanziali qualità grafiche: il simbolo dell’Anarchia è composto da un cerchio all’interno del quale una A si incastona

come un triangolo imperfetto (dalla base alzata), accennando, ad un livello percettivo primario, alle regole primarie della geometria elementare.

Il lavoro nelle opere di Jaume Plensa (Barcellona, 1955) ha una connotazione molto particolare. Nasce dalla considerazione che l’arte è lo specchio della bio- logia umana. Ogni opera quindi è l’articolazione di un pensiero visivo che indaga la vita umana da un punto di vista fisico, biologico, fisiologico. Tutto il lavoro di Plensa può raccogliersi in un corpus di opere, nel senso più stringente dell’etimologia: la sua opera omnia vorrebbe essere la Summa Anthropologica della vita umana, nella sua possibilità di essere inda- gata proprio come forma di vita. L’arte di Plensa è in vita, tanto quanto può esserlo un essere umano.

“Ogni essere umano è un luogo. Ogni donna, ogni uomo, ogni bambino, ogni anziano sono degli spazi viventi che si muovono e si rivelano: luoghi nel senso di tempo, geografia, volume e colore.” Una installa- zione particolarmente complessa, dal titolo Il suono del sangue parla la stessa lingua (2004), si aggancia ad un mistero della nostra vita biologica: siamo perva- si da un flusso di sangue che costituisce l’essenza e il motore della vita. La magia del rito, propria delle civil- tà tradizionali, rivive nella performance di Plensa nel- l’atto ordinario di sottoporsi ad un esame doppler, che consiste nella misurazione, attraverso gli echi prodotti da un fascio di ultrasuoni, della velocità del flusso del sangue all’interno delle vene, delle arterie o del cuore.

Questa verifica ha carattere iconico: si esprime attra- verso una rappresentazione ecografica dei vasi o del cuore, per cui è possibile esaminare contemporanea-

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25 mente la dinamica del flusso sanguigno e la morfolo- gia dei vasi o delle cavità del cuore. A questa perfor- mance ordinaria “prelevata” dal mondo della medici- na, l’artista ha aggiunto una stanza completamente satura del colore rosso, esemplificazione unica del colore-calore origine del nostro linguaggio visivo: Il rosso dell'ocra, utilizzato per decorare la scapola del mammut è in ogni lingua conosciuta il più antico nome di colore, il primo a comparire dopo la distinzio- ne d'oscuro e luminoso; rosso è il primo colore perce- pito dai neonati, la prima tonalità che cogliamo al risveglio, associato al sangue trasmette un segnale d'allarme, ma anche di calore, al colore rosso corri- sponde la lunghezza d'onda maggiore della luce visi- bile, al confine con le radiazioni infrarosse che avver- tiamo, sotto forma di calore;rosso è anche il colore di un corpo fisico riscaldato a una temperatura di 500°.

“Le figure che rappresento sono fondamental- mente parte del mio immaginario. Nascono sul foglio in un modo quasi ipnotico. Come se si creasse un dialogo fra la materia e me, non importa che sia carta o ceramica o una biro blu. I soggetti sono spesso per- sone isolate in un proprio mondo. Quello che mi inte- ressa è proprio l’impenetrabilità dello spazio persona- le. L’incognita che ci si pone di fronte ad un corpo con gli occhi chiusi. La precaria presenza della mente, e che cosa determini essere presenti o no.”5 Luisa Rabbia (Torino, 1970) racconta così il procedimento del suo lavoro nell’arte. Si tratta di un processo che coinvolge sistemi e codici espressivi diversi: la cerami- ca, la penna, il silicone, il video, la performance. Ogni forma espressiva ha una sua ragion d’essere artistica

da intendersi nel proprio specifico contesto culturale.

Lo spazio creativo di Luisa Rabbia è quindi uno spa- zio alchemico: crea pensiero dalla materia, sublima la forma in una immagine. Il principio dello spazio quindi diviene indispensabile per comprendere le valenze del suo lavorare nell’arte. Tutto il suo processo di creazio- ne è teso verso la dilatazione del suo spazio immagi- nativo, una sorta di luogo della fantasia che vive libe- ro e cerca ogni volta approdi diversi. Come può una donna, si chiede Virginia Woolf nel suo A Room of One’s Own (1929), dedicarsi alla letteratura se non possiede “denaro e una stanza tutta per sé”? Luisa Rabbia ha trasformato quello spazio fisico in uno spa- zio dell’immagine. Le sue installazioni si dilatano nei luoghi come scatole sonore, occupando lo spazio ma sprigionando da sé delle eco che vanno oltre i confini delle stanze, rievocando quel buio da cui assurge la creazione dell’arte. Come nel Principio del Piacere di Freud, la pulsione del piacere trova il più grande osta- colo nel “principio di realtà”, ovvero nelle costrizioni sociali, nei limiti convenzionali (è un principio questo che ricorre anche nelle indagini dell’anima proprie della filosofia ellenistica). Lo scarto tra i due principi è determinato dalla possibilità di azione: mentre il “prin- cipio del piacere” cerca la soddisfazione immediata del desiderio in modo completamente irrazionale, il

“principio di realtà” persegue l'appagamento del desi- derio ponendosi obiettivi estesi nel tempo e subliman- do l'impossibile appagamento immediato in rappre- sentazioni sostitutive. Questo processo di sublimazio- ne trova rappresentazione nel lavoro dell’artista, e in questo caso nel lavoro di Luisa Rabbia, la quale nel tempo elabora un linguaggio fatto di icone e figure,

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26 ma soprattutto di procedure del fare artistico che la sottraggono dal dover accettare i vincoli dello spazio fisico. L’uso della biro blu è forse il procedimento più liberatorio, in tal senso: “quel blue a volte è scuro e a volte molto chiaro, come se fosse una sorta di calli- grafia. Secondo dopo secondo riempivo superfici e solo talvolta si snodava un segno che, poi, prendeva la forma di un disegno. Come se un pensiero si fosse registrato sulla carta. Non programmavo prima cosa fare, succedeva e basta. La biro scompare con il pas- sare degli anni, lentamente, proprio come i pensieri si dimenticano. Recentemente il disegno è molto cen- trale nel mio lavoro. Che sia su carta o video o su ceramica mi interessa come la parte razionale del lavoro entra in relazione con quella più fantastica. E come il segno copra la superficie millimetro per milli- metro. Appropriandosene.”6

L’opera di Michael Rakowitz (Great Neck, New York, 1973) mostra un profondo senso politico del lavorare nell’arte. L’artista newyorkese è un erede diretto di una generazione di artisti (tra cui Hans Haacke) che hanno interpretato l’arte come uno specchio sul quale riflettere gli aspetti politici del quo- tidiano. A differenza delle istanze politiche sposate da parte dell’arte concettuale degli anni sessanta e set- tanta, Rakowitz non è coinvolto in polemiche ideolo- giche autoreferenziali contro il mercato e la commer- cializzazione dell’opera d’arte. Esercita invece il pro- prio pensiero all’interno di una strategie di battaglie atte a portare alla luce le aporie, le incongruenze e i paradossi che attraversano il mondo, nel quotidiano, e il mondo dell’arte nelle sue diverse manifestazioni.

Ne è un caso Climate Control, che pone in luce la questione relativa alla climatizzazione centralizzata di gran parte dei musei e luoghi espositivi, con meccani- smi di regolazione della temperatura e dell’umidità, dimostrando come in alcuni spazi espositivi la man- canza di un meccanismo di regolazione dell’umidità in inverno sia un fattore che può potenzialmente oggetti delicati quali la pittura o la stampa fotografica. Un caso interessante invece è Dull Roar, dove gli spetta- tori entrano nella galleria per camminare su una piat- taforma in legno innalzata sul pavimento fino ad un punti di osservazione sopraelevato dal quale possono osservare il movimento ripetitivo di un edificio gonfia- bile che si gonfia e si sgonfia. Si tratta di un riferimen- to allo sfortunato progetto di architettura abitativa degli anni ’50 Pruitt-Igoe di St. Louis, Missouri pro- gettato Minoru Yamasaki in prossimità del quartiere residenziale modernista di Le Corbusier. La demolizio- ne di quell’edificio nel 1972 è stato considerato da Charles Jenks, teorico del postmodernimo in architet- tura, la morte del modernismo. In Dull Roar, Rakowitz collega quell’abbattimento ad una serie di eventi “lut- tuosi” della cultura che hanno segnato la fine di idee, teorie, personaggi. Alla galleria di Alberto Peola, Rakowitz ha realizzato un lavoro dal titolo Endgames, soffermandosi sulle olimpiadi di Montreal, ed in parti- colare sul padiglione USA, una volta geodetica di venti piani costruita da Buckminster Fuller per Expo ’67, che poco prima dell’inizio delle olimpiadi prese fuoco durante le riparazioni all’intelaiatura di metallo sotto- stante la copertura esterna della volta: l’intero involu- cro acrilico se ne andò in meno di mezz’ora, la strut- tura metallica si ridusse a un rudere in più tra i padi-

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