Consiglio Superiore della Magistratura
Incontro di studio “La magistratura di sorveglianza”
Roma, 14-16 Febbraio 2011
La giurisdizione di sorveglianza e i rapporti con l’amministrazione penitenziaria
Riflessioni sulla tutelabilità delle posizioni soggettive dei detenuti di Sebastiano Ardita
La reclamabilità innanzi alla magistratura di sorveglianza dei singoli atti in cui si concretizza la organizzazione della vita dei reclusi costituisce un ineludibile banco di prova per la comprensione del nodo centrale attorno al quale ruota la c.d. “questione penitenziaria”. Si tratta di una complessa problematica alla quale si è cercato di dare in passato dottissime e teoriche spiegazioni di natura processuale, ma che poco o nulla hanno prodotto sul piano della comprensione del carcere in sé; di ciò che costituisce la materia della libertà residua; di cosa sia in effetti il trattamento penitenziario, al di là di talune, pure importanti, affermazioni di principio. E’ come se il legislatore prima, e l’interprete poi, avessero iniziato a ruotare attorno ad un problema – quello del contenuto della vita penitenziaria – senza mai approdare ad una certezza: quale sia il limite di libertà che può essere sottratto all’individuo con il carcere.
E così battendo il sentiero dell’affermazione dei principi la sentenza
n.26/1999 della Corte Costituzionale ha individuato “negli artt. 35 e 69,
che disciplinano le funzioni e i provvedimenti del magistrato di
sorveglianza, un'incostituzionale carenza di mezzi di tutela giurisdizionale dei diritti di coloro che si trovano ristretti nella loro libertà personale”.
L’analisi effettuata dalla Corte – prevalentemente incentrata sull’analisi degli strumenti di reclamo – è analitica e completa e rappresenta una valida corsia di partenza per un ragionamento sulla materia.
Lo strumento dell’art. 35 o.p.
Come è noto l’art 35 dell’ord. Pen. prevede il c.d. procedimento per reclamo, che prende origine dalla facoltà, riconosciuta a tutti i detenuti e gli internati di rivolgere istanze orali o scritte, anche in busta chiusa al direttore dell'istituto, nonché agli ispettori, al direttore generale per gli istituti di prevenzione e di pena e al Ministro per la grazia e giustizia, al magistrato di sorveglianza, alle autorità giudiziarie e sanitarie in visita all'istituto, al presidente della giunta regionale,al capo dello stato.
Sulla base di quanto affermato nelle pronunce della Corte Costituzionale “il procedimento che si instaura attraverso l'esercizio del generico diritto di "reclamo", delineato nell'art. 35 dell'ordinamento penitenziario, nonchè nell'art. 70 del regolamento di esecuzione (d.P.R.
29 aprile 1976, n. 431) é, all'evidenza, privo dei requisiti minimi
necessari perchè lo si possa ritenere sufficiente a fornire un mezzo di
tutela qualificabile come giurisdizionale. Quale semplice veicolo di
doglianza, il reclamo é indirizzato a eterogenee autorità amministrative
o politiche (il direttore dell'istituto, gli ispettori del Ministero, il direttore generale per gli istituti di prevenzione e pena, il Ministro di grazia e giustizia, il presidente della giunta regionale, il Capo dello Stato: nn. 1, 4 e 5 dell'art. 35), o soggetti estranei all'organizzazione penitenziaria ma interessati all'esecuzione delle pene, sotto il profilo della legalità e della tutela della salute (le autorità giudiziarie e sanitarie in visita all'istituto: n. 3), o, infine, al magistrato di sorveglianza (n. 2).
Nulla é previsto circa le modalità di svolgimento della procedura o
l'efficacia delle decisioni conseguenti. Solo per il reclamo a coloro i
quali, rispetto all'esecuzione delle pene, sono investiti di una specifica
responsabilità - l'amministrazione penitenziaria e il magistrato di
sorveglianza - é previsto un obbligo di informazione, verso il detenuto
che ha presentato il reclamo, "nel più breve tempo possibile … dei
provvedimenti adottati e dei motivi che ne hanno determinato il
mancato accoglimento" (art. 70, quarto comma, del d.P.R. n. 431 del
1976), un obbligo generico cui non corrisponde alcun rimedio in caso di
violazione e che, comunque, é fine a se stesso, non essendo preordinato
all'esercizio conseguente di un diritto di impugnativa da parte
dell'interessato. E in effetti é consolidata giurisprudenza (a) che la
decisione del magistrato é presa "de plano", al di fuori cioé di ogni
formalità processuale e di ogni contraddittorio; (b) che la decisione che
accoglie il reclamo si risolve in una segnalazione o in una sollecitazione
all'amministrazione penitenziaria, senza forza giuridica cogente e senza
alcuna specifica stabilità, e (c) che avverso la decisione del magistrato
di sorveglianza non sono ammessi nè ulteriori reclami al tribunale di sorveglianza nè, soprattutto, il ricorso per cassazione.
b) I diritti dei detenuti per cui vi è tipizzazione e correlativa tutela giurisdizionale
Le posizioni giuridiche già provviste di tutela
Prima di affrontare la materia della mancata tutela dei diritti occorre verificare quali siano le aree già raggiunte da tutela giurisdizionale.
Nell’ordinamento infatti sono previste delle specifiche situazioni nelle quali il giudice procede adottando provvedimenti di natura giurisdizionale, muniti dunque di tutti i requisiti di cogenza che consentono di dare effettività alla tutela richiesta. La Consulta nel delineare in modo completo la questione ha inteso richiamare quelle situazioni nelle quali, il legislatore ha ritenuto, caso per caso, in relazione a esigenze singolarmente considerate apprestare una specifica tutela a situazioni soggettive “secondo gradi diversi di articolazione e completezza degli schemi processuali di volta in volta utilizzabili”.
a) Lo strumento rappresentato dall’ art. 14-ter dell'ordinamento
penitenziario - di cui il giudice rimettente aveva auspicato una
applicazione generalizzata - apprestato sia per la decisione del
magistrato di sorveglianza sui reclami dei detenuti in materia di lavoro
e in quella disciplinare, in base all'impugnato art. 69 della legge n. 354 del 1975, sia per le controversie dinanzi al tribunale di sorveglianza ai fini del controllo dei provvedimenti che impongono il regime di sorveglianza particolare a norma dell'art. 14-bis della legge citata. Tale rimedio – fino all’entrata in vigore della l. n. 273/2002 – era pure impiegato per il controllo giurisdizionale del tribunale sui provvedimenti del Ministro di grazia e giustizia che disponevano il regime detentivo speciale previsto dall'art. 41-bis, comma 2, della stessa legge, in presenza di gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica. A detta disciplina è poi subentrato il procedimento disciplin ato dai commi 2quinquies e 2sexies del testo novellato dell’art. 41bis.
b) Il rimedio esperibile dinanzi al collegio (tribunale di sorveglianza o
corte d'appello), previsto negli artt. 30-bis e 30-ter della legge di
ordinamento penitenziario, in tema di mancata concessione di permessi
e permessi-premio cui, con la sentenza n. 227 del 1995 della Corte
Costituzionale, é stato riconosciuto carattere giurisdizionale;
c) Lo strumento giudiziario per il riconoscimento, ancora dinanzi a un giudice collegiale, del mancato computo nel periodo di detenzione del tempo trascorso in permesso-premio o licenza (art. 53-bis, comma 2, della legge n. 354), riconfigurato, a seguito della sentenza n. 53 del 1993 della Corte, attraverso la sostituzione del modulo semplificato dell'art. 14-ter con quello disciplinato dal nuovo codice di rito negli artt.
678 e 666;
d) La disciplina, che ha rinnovato il procedimento di sorveglianza contenuto nel capo II-bis del titolo II della legge n. 354 del 1975, artt.
70 e segg. O.p., ma - per disposto dell'art. 236 disp. coord. cod. proc.
pen. e per interpretazione giurisprudenziale - limitatamente alle procedure affidate al tribunale di sorveglianza, rimanendo dunque in opera il precedente procedimento per le materie assegnate al giudice monocratico.
e) Le previsioni, contenute nell'art. 69, comma 6, in collegamento con l'art. 14-ter, che, in casi particolari - quali i reclami concernenti l'osservanza delle norme riguardanti il lavoro e l'esercizio del potere disciplinare sui detenuti e sugli internati, - delineano un procedimento davanti al magistrato di sorveglianza contrassegnato da elementi giurisdizionali.
I diritti meritevoli di tutela senza tipizzazione
Il problema della tutela dei diritti dei detenuti non comprende dunque i casi sopra elencati, per i quali è già prevista una tutela specifica. Del pari non riguarda – come la Consulta ha precisato - la difesa giudiziaria dell'insieme dei diritti di cui il soggetto sottoposto a restrizione della libertà personale sia titolare, ed in particolare “i diritti che sorgono nell'ambito di rapporti estranei all'esecuzione penale, i quali trovano protezione secondo le regole generali che l'ordinamento detta per l'azione in giudizio”.
La questione della mancata protezione riguarda dunque la tutela giurisdizionale dei diritti la cui violazione sia potenziale conseguenza del regime di sottoposizione a restrizione della libertà personale e dipenda da atti dell'amministrazione a esso preposta.
Per scendere più nel dettaglio, si tratterebbe della tutela di diritti suscettibili di essere lesi:
(a) per effetto del potere dell'amministrazione di disporre, in presenza di particolari presupposti indicati dalla legge, misure speciali che modificano le modalità concrete del "trattamento" di ciascun detenuto;
(b) ovvero sulla base di determinazioni amministrative prese
nell'ambito della gestione ordinaria della vita del carcere (come sarebbe
avvenuto, ad avviso del giudice rimettente, nel giudizio che ha dato
luogo alla questione di costituzionalità affrontata nella sentenza C.Cost.
n. 26/99, avente ad oggetto il diniego all’introduzione in carcere di stampa periodica avente contenuto osceno). La questione prospettata, ad avviso della Corte, invita a procedere oltre nell'opera, intrapresa da tempo dal legislatore e dalla giurisprudenza, di diffusione delle garanzie giurisdizionali entro le istituzioni preposte all'esecuzione delle misure restrittive della libertà personale, innanzitutto gli istituti carcerari, e a perseguire in tal modo, come obiettivo, la sottoposizione della vita in tali istituti ai principi e alle regole generali dello stato di diritto.
In contrasto con l'impostazione data alla questione dal giudice rimettente il Giudice delle leggi ha ritenuto che essa riguardasse tutti i diritti rientranti in questo àmbito, non essendo possibile, considerando la portata generale degli artt. 24 e 113 della Costituzione, distinguere tra diritti aventi e diritti non aventi fondamento costituzionale, per assicurare la garanzia giurisdizionale solo ai primi.
La distinzione tra modalità e quantità/qualità della pena
La giurisprudenza costituzionale nell’ultimo ventennio ha recepito la
distinzione, elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, tra
provvedimenti relativi alle modalità dell'esecuzione della pena negli
istituti a ciò destinati - attratti nell'area della amministrazione e dei soli
rimedi di indole amministrativa - e provvedimenti riguardanti la misura
e la qualità della pena, e spesso attinenti a momenti di vita extracarceraria, attratti invece nell'area della giurisdizione, alla stregua della riserva costituzionale di giurisdizione (oltre che di legge) vigente in materia (in proposito, sentenze nn. 349 e 410 del 1993; 227 del 1995)
1.
La Corte, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del potere amministrativo di sospensione, per ragioni particolari di ordine e sicurezza, dell'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati (art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario), con le sentenze nn. 349 e 410 del 1993, 351 del 1996 e 376 del 1997, ha tuttavia negato rilievo alla suddetta distinzione tra i diversi provvedimenti, sulla base del riconoscimento che anche in situazioni di restrizione della libertà personale, sussistono diritti che l'ordinamento giuridico protegge indipendentemente dai caratteri della ipotizzabile lesione. Con la sentenza n. 212 del 1997, l'esigenza costituzionale del riconoscimento di un diritto d'azione in un procedimento avente caratteri giurisdizionali si é infatti affermata indipendentemente dalla natura dell'atto produttivo della lesione, individuandosi la sede della tutela nella magistratura di sorveglianza, magistratura alla quale spetta, secondo l'ordinamento penitenziario vigente, una tendenzialmente piena funzione di garanzia dei diritti dei detenuti e degli internati. Una
1
La “Corte ha da tempo abbandonato l'originario indirizzo che, facendo leva sul carattere esecutivo
delle misure prese nell'ambito del "trattamento" penale - secondo le matrici storiche dell'ordinamento
penitenziario in cui é stata collocata la magistratura di sorveglianza -, insisteva sulla natura
amministrativa tanto delle misure stesse quanto delle eventuali garanzie che l'ordinamento
penitenziario avesse previsto (fase che dalla ordinanza Corte Cost. n. 87 del 1978, attraverso la
sentenza n. 103 del 1984 e l’ordinanza n. 166 del 1984, giunge fino alla ordinanza n. 77 del 1986)
garanzia - é stato altresì precisato - che comporta il vaglio di legittimità pieno non solo del rispetto dei presupposti legislativi dettati all'amministrazione per l'adozione delle misure, ma anche dei loro contenuti, con particolare riferimento all'incidenza su non comprimibili diritti dei detenuti e degli internati, la cui garanzia rientra perciò, nel sistema attuale, nella giurisdizione del giudice ordinario
2”. In realtà appare a tutti evidente come tutte le volte che si faccia questione circa un determinato utilizzo di un potere dell’amministrazione, distinguere tra vizio di presupposti e visto di modalità può essere già una materia da dovere affrontare all’interno di un giudizio. Semmai dunque l’eventuale distinzione relativa alla esperibilità di un rimedio – conseguente ad una posizione soggettiva differenziata e tutelabile – dovrà discendere dalla natura ( organizzativa e generale, ovvero specifica e particolare) della disposizione amministrativa esaminata.
Limiti della sentenza n. 26/1999
Il giudice remittente, nel sollevare la questione, con riferimento alla previsione rappresentata dall’art. 69 comma 6 dell’ord. pen. aveva chiesto, attraverso una pronuncia costituzionale additiva, un'estensione del campo applicativo di tale norma . Sul punto la stessa Corte pur
2
Sentenza Corte Cost. n. 26 del 8-21 febbraio 1999, punto n. 3.2
riconoscendo come “tali previsioni ( dell’art. 69 o.p.), nella sostanza della prospettazione della questione costituzionale, rappresenterebbero, oltre che il tertium comparationis argomentativo dell’irrazionalità denunciata, anche il dato normativo che, attraverso la sua estensione alle ipotesi carenti di tutela giurisdizionale, dovrebbe consentire di chiudere la questione”, tuttavia non ha inteso operare in senso conforme alla auspicata interpretazione estensiva.
Dopo avere dunque rilevato una incostituzionalità “per omissione” , nella disciplina dei rimedi giurisdizionali contro le violazioni dei diritti dei detenuti e degli internati, ha ritenuto che la scelta di tali rimedi spetti comunque e sempre al Legislatore. Sarà dunque quest’ultimo a dovere operare tra “una gamma di possibilità, relative all'individuazione sia del giudice competente sia delle procedure idonee nella specie a tenere conto dei diritti in discussione e a proteggere la funzionalità dell'esecuzione delle misure restrittive della libertà personale”.
La Consulta pertanto nella pronuncia n. 26/1999, conclude affermando
che “la questione proposta deve essere accolta per la parte in cui con
essa viene denunciata nella disciplina dell'ordinamento penitenziario, e
in particolare negli artt. 35 e 69, che disciplinano le funzioni e i
provvedimenti del magistrato di sorveglianza, un'incostituzionale
carenza di mezzi di tutela giurisdizionale dei diritti di coloro che si
trovano ristretti nella loro libertà personale; ma allo stesso tempo, che
non può essere accolta l'indicazione rivolta a estendere, a tale scopo, lo
specifico procedimento che il medesimo art. 69, in riferimento all'art.
14-ter, prevede”.
Il Giudice delle leggi, dopo avere affermato il principio della tutela di tutti i diritti anche quelli non aventi carattere costituzionale, ha rimandato così al Legislatore, perché effettui una selezione dei casi, con ciò aprendo la strada ad una necessaria distinzione tra situazioni soggettive. Non ha però fornito neanche i possibili criteri discrezionali per distinguere le singole posizioni soggettive. In particolare non ha effettuato distinzioni con riferimento alle posizioni giuridiche di partenza: quelle per cui è ammissibile il ricorso ad un procedimento con le caratteristiche della piena giurisdizione; e quelle aventi eventualmente ad oggetto situazioni rispetto a cui la compressione dello spazio di libertà è inevitabilmente connesso allo stato di detenzione ovvero dipende da aspetti connessi alla potestà organizzativa dell’amministrazione penitenziaria.
Sembrerebbe dunque di dover concludere sulla base di quanto stabilito
dalla Consulta che un conto è la scelta concreta e relativa al singolo
caso operata con discrezionalità in una materia involgente diritti
individuali ( limiti alla corrispondenza, anche telefonica, permessi); un
altro conto sono le disposizioni di carattere generale ed organizzativo,
la cui singola applicazione, se scorretta, potrebbe ledere diritti
individuali. Per questa ultima categoria, fermo restando il diritto di far
valere nella sede idonea la lesione del diritto, la Consulta non ha
ritenuto di dover individuare in via additiva uno strumento di tutela
carattere generale e preventivo, con le forme del procedimento
giurisdizionale, cosciente del pericolo di giungere alla paralisi dell’organizzazione penitenziaria, e dunque per salvaguardare la
“funzionalità dell’esecuzione penale”.
A tale bipartizione occorrerebbe dunque far corrispondere una distinzione tra scelte operate dall’Amm,ne in relazione alla sua dimensione organizzativa generale sulla sicurezza, e comunque nell’ambito delle disposizioni espressamente previste dalla legge, e scelte di natura individuale, variabili caso per caso, sulla base di determinazioni afferenti al c.d. trattamento individualizzato. Per queste ultime scelte potrebbero essere individuati dal Legislatore strumenti di tutela relativi al caso concreto.
La giurisprudenza successiva. Sentenza Sezioni Unite del 23 febbraio 2003, Gianni.
La prima giurisprudenza successiva alla Corte Cost. n. 26/1999, si divise assumendo posizioni diverse, se non addirittura opposte.
Secondo alcune decisioni “La intervenuta dichiarazione di illegittimità
costituzionale degli artt. 35 e 69 della legge n. 354 del 1975, nella parte
in cui non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti
dell'amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti dei detenuti, sarebbe
valsa soltanto a richiamare il legislatore alla funzione che gli compete al
fine di colmare il vuoto normativo apertosi in conseguenza della
dichiarazione di illegittimità, come risulterebbe comprovato dalla
possibilità, affermata dal giudice delle leggi, di intervenire pare di intendere, seguendo un percorso costituzionalmente,obbligato) sul sistema normativo vigente
3.
In contrapposizione alla richiamata giurisprudenza se ne formava un’
altra, sempre nell’ambito della Cassazione, volta ad affermare, - a seguito della sentenza costituzionale n. 26 del 1999, definita
“sostanzialmente additiva anche se in modo incompleto", - la correttezza dell'adozione, da parte del magistrato di sorveglianza, (adito quale organo cui 1'art. 69 dell'ordinamento penitenziario demanda il controllo di conformità alla legge dell'attività penitenziaria), del procedimento previsto dagli artt. 666 e 678 c.p.p.
per decidere il reclamo in materia di colloqui e di corrispondenza telefonica
4.
3
L'assenza, quindi, di un mezzo di tutela dei diritti soggettivi che si assumano lesi dall'amministrazione comporta l'inammissibilità del ricorso per cassazione, evocandosi peraltro quale unica situazione protettiva, il diritto di adire la giurisdizione civile ordinaria, ai sensi dell'art.
24 della Costituzione” (Sez. I, 16 febbraio 2000, Camerino).
Con specifico riferimento alla materia dei colloqui e della corrispondenza telefonica, oltre a riprodursi le argomentazioni addotte dalla pronuncia sopra ricordata, si è, poi, precisato che avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza in tema dì colloqui e di corrispondenza telefonica non è consentito il ricorso ex art. 111, 7° comma, della Costituzione, in quanto ci si trova di fronte ad un provvedimento non riferibile alla libertà personale (Sez. I, 7 marzo 2002, Parla; Sez. I, 3 dicembre 2002, Emanuello).
Si è infine qualificato come abnorme - perché espressione di un arbitrario esercizio del potere giurisdizionale - il provvedimento del magistrato di sorveglianza che abbia deciso il reclamo sempre nella materia dei colloqui visivi e telefonici, non utilizzando la procedura prevista dall'art.
35 dell'ordinamento penitenziario, ma il procedimento di cui agli artt. 666 e 678 c.p.p., considerato che un provvedimento di tal genere non riveste natura giurisdizionale; non è soggetto ad ulteriore reclamo al tribunale di sorveglianza né a ricorso per cassazione; è sprovvisto di qualsiasi stabilità e forza giuridica cogente; è limitato a proporre suggerimenti all'amministrazione penitenziaria e non può disapplicare 1'atto amministrativo contro cui é proposto reclamo. SI è pertanto stigmatizzato che una tale impostazione – volta a generare uno strumento di tutela così ampio ed orizzontale - legittimasse 1'accesso in cassazione di un provvedimenti altrimenti non assoggettabili ad alcuna forma di gravame. (Sez. I, 14 aprile 2002, Balsamo).
4
Tale giurisprudenza conseguentemente riteneva ammissibile il ricorso per cassazione avverso
tale decisione (Sez. I, 19 febbraio 2002, Castellano).
Per dirimere l’evidente conflitto venutosi a determinare tra le opposte pronunce rese da sezioni diverse della medesima corte, è intervenuta la sentenza a sezioni unite del 23 febbraio 2003, con la quale la Cassazione nel tentativo dichiarato di dare attuazione al principio sancito nella pronuncia n. 26/1999, - ed a fronte della elusione del problema da parte del Legislatore - ha finito per spingersi molto oltre i confini tracciati dal Giudice della legittimità delle Leggi.
Movendo dalla considerazione che risulti “incontestabile che la tutela delle posizioni soggettive dei detenuti non può essere affidata ad un rimed io de plano solo in forza della scelta (per giunta “obbligata”) dell'interessato, occorrendo, invece, disporre di una procedura in contraddittorio da cui possa scaturire una decisione avente forza vincolante”, con riferimento alla materia dei colloqui e della corrispondenza telefonica, le ss.uu. hanno riconosciuto la necessità di consentire l’esperimento di un rimedio giurisdizionale per le questioni vertenti in subiecta materia.
La Cassazione ha dunque tracciato, come punto di partenza per pervenire alla conclusione sopra richiamata, il principio che la restrizione della libertà personale non determina il disconoscimento
In modo più completo, sempre richiamando la sentenza n. 26 del 1999, si é esclusa l'
"appartenenza al settore amministrativo del reclamo contro i provvedimenti dell'amministrazione penitenziaria che incidano sui diritti dei detenuti, come quelli relativi ai colloqui ed alla conversazioni telefoniche", così da riconoscere la necessità dell'utilizzazione, fino all'intervento del legislatore - intervento comunque ritenuto indispensabile dalla Corte - anche qui, dell'ordinario modello procedimentale delineato dall'art. 678 c.p.p. che, richiamando 1'art. 666, comma 6, dello stesso codice, rende ricorribile per cassazione il provvedimento del magistrato di sorveglianza pronunciato contro gli atti dell'amministrazione lesivi di diritti (Sez. I, 15 maggio 2002, Valenti;
nonché Sez. I, 6 giugno 2002; Sez. I, 8 ottobre 2002, Pappalardo).
.
delle posizioni soggettive attraverso un generalizzato assoggettamento all’organizzazione penitenziaria. Donde l'individuazione di limiti ai diritti fondamentali per coloro che siano sottoposti a una restrizione della libertà personale, senza che tale restrizione comporti una capitis deminutio di fronte alla discrezionalità dell’autorità preposta alla esecuzione.
La Corte, nella sentenza del 23.2.2003, ha poi affermato:
a) che “al riconoscimento della titolarità di diritti deve necessariamente accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi a un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale, stigmatizzando 1'inadeguatezza di modelli che si esauriscano nella mera possibilità di proporre istanze o sollecitazioni, foss'anche ad autorità appartenenti all'ordine giudiziario, destinate a una trattazione fuori delle garanzie procedimentali minime costituzionalmente dovute, quali la possibilità del contraddittorio, la stabilità della decisione e l'impugnabilità con ricorso per cassazione.
b) che alla giurisdizione della magistratura di sorveglianza vada
riferita la tutela pure degli interessi legittimi scaturenti da un atto
dell’autorità amministrativa (sempre che tali posizioni soggettive
possano trovare accesso nel regime del trattamento); secondo una
cognizione che non può ridursi agli usuali canoni di demarcazione tra
giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa, attesa la riserva
di giurisdizione connaturata alla necessità del rispetto dello art. 27, 3
°comma, della Costituzione”.
c) che nella specifica materia dei colloqui ci si trova in presenza sicuramente di diritti soggettivi, parte integrante del trattamento. Un rilievo cui sembra non potersi sottrarre, nonostante la diversa conformazione lessicale dell’art. 18, comma 5, della legge n. 354 del 1975, la materia della corrispondenza telefonica; il tutto - è necessario sottolinearlo - talora utilizzando un modello semiologico assai ambiguo ed impreciso;
d) che alla conclusione di un'indiscriminata protezione nella materia dei colloqui è agevole pervenire anche considerando che 1'immanente collegamento con l'esecuzione penale e con il regime della pericolosità intramuraria, intesa anche quale limite alla fruizione di strumenti di trattamento, lasciano difficilmente intravedere l'esistenza di un paradigma di provvedimento che sia espressione di discrezionalità amministrativa. Malgrado il lessico talora utilizzato sia dalla legge sia dal regolamento, l'esercizio del potere amministrativo espresso nel provvedimento appare riferibile ad una sorta di discrezionalità tecnica, vincolata nei presupposti e nei fini; delineando così una possibilità di scelta che spetta all'amministrazione allorché sia chiamata a qualificare fatti suscettibili di varia valutazione, riducendosi ad un'attività di giudizio a contenuto lato sensu scientifico.
Lo strumento processuale idoneo.
Risolta affermativamente la questione circa la ammissibilità di un procedimento avente caratteristica e natura giurisdizionali su questioni aventi ad oggetto i diritti dei detenuti ( nella materia dei colloqui e della corrispondenza telefonica) un ulteriore problema affrontato dalla S.C.
era quello relativo alla individuazione dello strumento di tutela da scegliere per fare fronte a questa esigenza di adeguamento alla posizione contenuta nella sentenza n. 26/1999 della Consulta.
A questo proposito va rilevato come sia stata pressoché assente l’attività di adeguamento normativo da parte del Legislatore, la cui unica e incompiuta iniziativa è rappresentata dal disegno di legge 13 luglio 1999, n. 4163, predisposto in attuazione della sentenza costituzionale n. 26 del 1999 ma neppure esaminato in commissione.
Tale d.d.l. conteneva un precetto stando al quale "il comma 6 dell’art.
69 della legge 26 luglio 1975, n. 354 è sostituito dal seguente: "decide con ordinanza impugnabile soltanto per cassazione, secondo la procedura di cui all’art. 14-ter, sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti atti dell'amministrazione penitenziaria lesivi dei loro diritti".
Conformemente a quanto previsto nel d.d.l. le sez. un. hanno ritenuto
preferibile lo strumento dell’art. 14ter o.p. considerando come “il
ricorso all’art. 666 c.p.p. - che prevede il termine di dieci giorni per
l’avviso alle parti e ai difensori, la partecipazione necessaria
all’udienza del difensore e del pubblico ministero, la possibilità di
depositare memorie fino a cinque giorni prima dello udienza, il diritto
dello interessato che ne fa richiesta di essere sentito personalmente,
l'applicazione per il ricorso per cassazione dei termini di cui all’art.
585 c.p.p., - appare subito un modello esorbitante la necessaria semplificazione della procedura, da attuarsi attraverso il pronto intervento del magistrato di sorveglianza così da omettere, almeno in parte, gli indugi della seriazione generale prevista dal codice di procedura penale”. Per questa ragione si è ritenuto più confacente alle esigenze di praticità e di speditezza il procedimento previsto dagli artt.
14-ter, 69, 71 e seguenti dell'ordinamento penitenziario che prevedono il termine di cinque giorni per 1'avviso al pubblico ministero, all’interessato e al difensore, la partecipazione non necessaria del difensore e del pubblico ministero; la facoltà dell'interessato di presentare memorie; il termine di dieci giorni per proporre reclamo; la possibilità di proporre ricorso per cassazione entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento.
La questione dei criteri per lla individuazione delle posizioni giuridiche meritevoli di tutela
Gran parte della affermazioni contenute nella giurisprudenza che ha allargato l’orizzonte delle posizioni soggettive tutelabili, per la verità vengono ad assumere le sembianze di veri e propri postulati, più che di conseguenze stringenti sul piano logico e giuridico.
Va infatti osservato come nelle pronunce non vi sia in concreto alcuna
approfondita analisi della natura e delle caratteristiche degli atti
dell’amministrazione rispetto ai quali si ritiene di poter denunciare la
lesione di una posizione soggettiva, né tampoco una concreta verifica della effettiva natura delle posizioni che si assumono essere oggetto di lesione.
Tale impostazione oltre che risultare opportuna sul piano del rigore logico che deve sempre accompagnare la sequenza diritto sostanziale- rimedio processuale, appare imprescindibile se è vero che la pronuncia n. 26/1999 aveva inteso estendere la denunciata incostituzionalità per assenza di un rimedio giurisdizionale rispetto ai diritti che si assumevano violati, e non già rispetto alla generalità delle posizioni soggettive, che possono essere rappresentate da mere aspettative non meritevoli di alcuna tutela.
Del resto la scelta consapevole del Legislatore di prevedere uno strumento di tutela de plano e non giurisdizionale quale il ricorso dell’art. 35, aveva proprio una funzione residuale rispetto alle situazioni soggettive diverse dai diritti e rispetto ai quali venissero in gioco posizioni soggettive di grado inferiore, spesso collidenti con le prerogative generali di organizzazione dell’amministrazione penitenziaria.
Avere configurato dunque uno strumento processuale e generalizzato anche a tutela di posizioni diverse senza neanche tracciare criteri certi per la loro riconoscibilità costituisce senza dubbio una scelta esorbitante dall’area tracciata dalla sentenza n. 26/1999.
La decisione delle sezioni unite, che partiva dalla affermazione del principio espresso dalla corte costituzionale ed appariva spingersi sino ad una operazione di riconoscimento “creativo” del diritto ad un procedimento assistito da garanzie di effettiva giurisdizionalità nella materia dei colloqui e della corrispondenza telefonica, in realtà non ha prodotto alcun effetto concreto, né era in grado di produrne.
A ben vedere infatti la materia dei colloqui e della corrispondenza negli istituti penitenziari è rigorosamente ancorata a ciò che la legge ed il regolamento – le cui disposizioni erano oggetto dell’impugnazione – prevedono.
Dunque una volta affermata in modo solenne nella parte motiva la legittimità delle disposizioni relative ai colloqui contenute nel DPR n.
230/2000, regolamento penitenziario - ogni limite che appaia
ragionevolmente strumentale al perseguimento della funzione
rieducativa e che venga commisurato alla tipologia di reato commesso
- sempre e comunque rientrante nell'area dei c.d. delitti di criminalità
organizzata (v. ora la nuova formulazione dell'art. 4-bis, quale
risultante dalle modifiche apportate dall'art. 1 della legge 23
dicembre 2002, n. 279) - non solo non viola il precetto di cui all'art. 1,
comma 2, dell'ordinamento penitenziario, ma si conforma, anzi -
secondo un modello che assicura uniformità di disciplina, in
attuazione della esigenze proprie del trattamento - alla norma adesso
ricordata. Tanto più che l' ”autolimitazione” operata dalla
disposizione regolamentare relativamente ai poteri conferiti
all'amministrazione nella materia si risolve anche in un regime di
garanzia per i destinatari dall'impiego di ogni discriminazione e dì ogni "privilegio" rispetto ai condannati di reati di tale gravità”. – quanto meno con riferimento ai colloqui, la questione va considerata sostanzialmente chiusa per ogni eventuale futura controversia che abbia ad oggetto determinazioni dell’amministrazione penitenziaria attuative del regolamento.
Il limite dell’impostazione logico-giuridica della sentenza della corte
sta proprio in ciò, nella sostanziale non ricorrenza di una ipotesi di
lesione di diritti sulla base della applicazione di un testo normativo, di
normazione generale, meramente attuativo delle disposizioni
contenute nella legge di ordinamento penitenziario. Ciò che manca in
tutta la pronuncia è proprio il discrimine tra le situazioni sostanziali la
cui lesione possa essere oggetto di lamentela da parte del detenuto, e
l’eventuale conseguente riconoscimento di un idoneo strumento di
tutela processuale. E neanche vi è una effettiva valutazione della
situazione soggettiva che si assumeva lesa nel caso oggetto della
questione. Viene sommariamente riconosciuta una giurisdizione piena
ed esclusiva – su diritti ed interessi – alla magistratura di sorveglianza,
ma non vi è alcuna analisi sulle conseguenze delle possibili pronunce
in relazione alle posizioni soggettive che si assumono lese. Anzi
laddove tale analisi è accennata si fa riferimento a conseguenze che
disorientano l’interprete (le sez. un. parlano di giurisdizione sugli
interessi ed ipotizzano la disapplicazione dell’atto amministrativo)
La Corte Costituzionale – nella pronuncia n.26/1999 - aveva infatti chiaramente esteso l’area della doverosità di un possibile intervento con lo strumento giurisdizionale a tutta la problematica relativa ai diritti violati – non solamente ai diritti fondamentali come era richiesto dal giudice remittente – ma si era ben guardata dallo generalizzare il ricorso ad un tale strumento per qualsiasi doglianza relativa a posizioni soggettive diversamente qualificabili. Aveva voluto che tale scelta fosse rimessa al Legisla tore, unico soggetto destinato ad operare una valutazione delle situazioni soggettive meritevoli di questa tutela, per evitare possibili eccessi nell’uso dello strumento che provocassero una paralisi dell’operato dell’amministrazione penitenziaria. La Consulta avrebbe potuto operare con una sentenza creativa di diritto.
Ne avrebbe avuto la legittimazione, e non sarebbe stato difficile neanche rinvenire sul punto i precedenti specifici.
5Essa non ha voluto individuare neppure un criterio discretivo generale delle situazioni sostanziali per le quali era possibile procedere alla celebrazione di un giudizio con i crismi della giurisdizionalità, e tanto meno aveva individuato le regole e le forme di tale giudizio.
Se non lo ha fatto una ragione dunque ci sarà stata.
5
La Consulta aveva ritenuto applicabile analogicamente la procedura di reclamo prevista dall’art.
13-quater o.p., - per l’impugnabilità innanzi al Tribunale di Sorveglianza dei provvedimenti ministeriali applicativi del regiem detentivo speciale, Corte Cost. 28 luglio 1993 n. 349, in Giur.
Cost., p.2750. Va rilevato sul punto come una disciplina compiuta dello strumento di impugnazione