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La giurisdizione di sorveglianza e i rapporti con l’amministrazione penitenziaria. Riflessioni sulla tutelabilità delle posizioni soggettive dei detenuti

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Consiglio Superiore della Magistratura

Incontro di studio “La magistratura di sorveglianza”

Roma, 14-16 Febbraio 2011

La giurisdizione di sorveglianza e i rapporti con l’amministrazione penitenziaria

Riflessioni sulla tutelabilità delle posizioni soggettive dei detenuti di Sebastiano Ardita

La reclamabilità innanzi alla magistratura di sorveglianza dei singoli atti in cui si concretizza la organizzazione della vita dei reclusi costituisce un ineludibile banco di prova per la comprensione del nodo centrale attorno al quale ruota la c.d. “questione penitenziaria”. Si tratta di una complessa problematica alla quale si è cercato di dare in passato dottissime e teoriche spiegazioni di natura processuale, ma che poco o nulla hanno prodotto sul piano della comprensione del carcere in sé; di ciò che costituisce la materia della libertà residua; di cosa sia in effetti il trattamento penitenziario, al di là di talune, pure importanti, affermazioni di principio. E’ come se il legislatore prima, e l’interprete poi, avessero iniziato a ruotare attorno ad un problema – quello del contenuto della vita penitenziaria – senza mai approdare ad una certezza: quale sia il limite di libertà che può essere sottratto all’individuo con il carcere.

E così battendo il sentiero dell’affermazione dei principi la sentenza

n.26/1999 della Corte Costituzionale ha individuato “negli artt. 35 e 69,

che disciplinano le funzioni e i provvedimenti del magistrato di

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sorveglianza, un'incostituzionale carenza di mezzi di tutela giurisdizionale dei diritti di coloro che si trovano ristretti nella loro libertà personale”.

L’analisi effettuata dalla Corte – prevalentemente incentrata sull’analisi degli strumenti di reclamo – è analitica e completa e rappresenta una valida corsia di partenza per un ragionamento sulla materia.

Lo strumento dell’art. 35 o.p.

Come è noto l’art 35 dell’ord. Pen. prevede il c.d. procedimento per reclamo, che prende origine dalla facoltà, riconosciuta a tutti i detenuti e gli internati di rivolgere istanze orali o scritte, anche in busta chiusa al direttore dell'istituto, nonché agli ispettori, al direttore generale per gli istituti di prevenzione e di pena e al Ministro per la grazia e giustizia, al magistrato di sorveglianza, alle autorità giudiziarie e sanitarie in visita all'istituto, al presidente della giunta regionale,al capo dello stato.

Sulla base di quanto affermato nelle pronunce della Corte Costituzionale “il procedimento che si instaura attraverso l'esercizio del generico diritto di "reclamo", delineato nell'art. 35 dell'ordinamento penitenziario, nonchè nell'art. 70 del regolamento di esecuzione (d.P.R.

29 aprile 1976, n. 431) é, all'evidenza, privo dei requisiti minimi

necessari perchè lo si possa ritenere sufficiente a fornire un mezzo di

tutela qualificabile come giurisdizionale. Quale semplice veicolo di

doglianza, il reclamo é indirizzato a eterogenee autorità amministrative

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o politiche (il direttore dell'istituto, gli ispettori del Ministero, il direttore generale per gli istituti di prevenzione e pena, il Ministro di grazia e giustizia, il presidente della giunta regionale, il Capo dello Stato: nn. 1, 4 e 5 dell'art. 35), o soggetti estranei all'organizzazione penitenziaria ma interessati all'esecuzione delle pene, sotto il profilo della legalità e della tutela della salute (le autorità giudiziarie e sanitarie in visita all'istituto: n. 3), o, infine, al magistrato di sorveglianza (n. 2).

Nulla é previsto circa le modalità di svolgimento della procedura o

l'efficacia delle decisioni conseguenti. Solo per il reclamo a coloro i

quali, rispetto all'esecuzione delle pene, sono investiti di una specifica

responsabilità - l'amministrazione penitenziaria e il magistrato di

sorveglianza - é previsto un obbligo di informazione, verso il detenuto

che ha presentato il reclamo, "nel più breve tempo possibile … dei

provvedimenti adottati e dei motivi che ne hanno determinato il

mancato accoglimento" (art. 70, quarto comma, del d.P.R. n. 431 del

1976), un obbligo generico cui non corrisponde alcun rimedio in caso di

violazione e che, comunque, é fine a se stesso, non essendo preordinato

all'esercizio conseguente di un diritto di impugnativa da parte

dell'interessato. E in effetti é consolidata giurisprudenza (a) che la

decisione del magistrato é presa "de plano", al di fuori cioé di ogni

formalità processuale e di ogni contraddittorio; (b) che la decisione che

accoglie il reclamo si risolve in una segnalazione o in una sollecitazione

all'amministrazione penitenziaria, senza forza giuridica cogente e senza

alcuna specifica stabilità, e (c) che avverso la decisione del magistrato

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di sorveglianza non sono ammessi nè ulteriori reclami al tribunale di sorveglianza nè, soprattutto, il ricorso per cassazione.

b) I diritti dei detenuti per cui vi è tipizzazione e correlativa tutela giurisdizionale

Le posizioni giuridiche già provviste di tutela

Prima di affrontare la materia della mancata tutela dei diritti occorre verificare quali siano le aree già raggiunte da tutela giurisdizionale.

Nell’ordinamento infatti sono previste delle specifiche situazioni nelle quali il giudice procede adottando provvedimenti di natura giurisdizionale, muniti dunque di tutti i requisiti di cogenza che consentono di dare effettività alla tutela richiesta. La Consulta nel delineare in modo completo la questione ha inteso richiamare quelle situazioni nelle quali, il legislatore ha ritenuto, caso per caso, in relazione a esigenze singolarmente considerate apprestare una specifica tutela a situazioni soggettive “secondo gradi diversi di articolazione e completezza degli schemi processuali di volta in volta utilizzabili”.

a) Lo strumento rappresentato dall’ art. 14-ter dell'ordinamento

penitenziario - di cui il giudice rimettente aveva auspicato una

applicazione generalizzata - apprestato sia per la decisione del

magistrato di sorveglianza sui reclami dei detenuti in materia di lavoro

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e in quella disciplinare, in base all'impugnato art. 69 della legge n. 354 del 1975, sia per le controversie dinanzi al tribunale di sorveglianza ai fini del controllo dei provvedimenti che impongono il regime di sorveglianza particolare a norma dell'art. 14-bis della legge citata. Tale rimedio – fino all’entrata in vigore della l. n. 273/2002 – era pure impiegato per il controllo giurisdizionale del tribunale sui provvedimenti del Ministro di grazia e giustizia che disponevano il regime detentivo speciale previsto dall'art. 41-bis, comma 2, della stessa legge, in presenza di gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica. A detta disciplina è poi subentrato il procedimento disciplin ato dai commi 2quinquies e 2sexies del testo novellato dell’art. 41bis.

b) Il rimedio esperibile dinanzi al collegio (tribunale di sorveglianza o

corte d'appello), previsto negli artt. 30-bis e 30-ter della legge di

ordinamento penitenziario, in tema di mancata concessione di permessi

e permessi-premio cui, con la sentenza n. 227 del 1995 della Corte

Costituzionale, é stato riconosciuto carattere giurisdizionale;

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c) Lo strumento giudiziario per il riconoscimento, ancora dinanzi a un giudice collegiale, del mancato computo nel periodo di detenzione del tempo trascorso in permesso-premio o licenza (art. 53-bis, comma 2, della legge n. 354), riconfigurato, a seguito della sentenza n. 53 del 1993 della Corte, attraverso la sostituzione del modulo semplificato dell'art. 14-ter con quello disciplinato dal nuovo codice di rito negli artt.

678 e 666;

d) La disciplina, che ha rinnovato il procedimento di sorveglianza contenuto nel capo II-bis del titolo II della legge n. 354 del 1975, artt.

70 e segg. O.p., ma - per disposto dell'art. 236 disp. coord. cod. proc.

pen. e per interpretazione giurisprudenziale - limitatamente alle procedure affidate al tribunale di sorveglianza, rimanendo dunque in opera il precedente procedimento per le materie assegnate al giudice monocratico.

e) Le previsioni, contenute nell'art. 69, comma 6, in collegamento con l'art. 14-ter, che, in casi particolari - quali i reclami concernenti l'osservanza delle norme riguardanti il lavoro e l'esercizio del potere disciplinare sui detenuti e sugli internati, - delineano un procedimento davanti al magistrato di sorveglianza contrassegnato da elementi giurisdizionali.

I diritti meritevoli di tutela senza tipizzazione

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Il problema della tutela dei diritti dei detenuti non comprende dunque i casi sopra elencati, per i quali è già prevista una tutela specifica. Del pari non riguarda – come la Consulta ha precisato - la difesa giudiziaria dell'insieme dei diritti di cui il soggetto sottoposto a restrizione della libertà personale sia titolare, ed in particolare “i diritti che sorgono nell'ambito di rapporti estranei all'esecuzione penale, i quali trovano protezione secondo le regole generali che l'ordinamento detta per l'azione in giudizio”.

La questione della mancata protezione riguarda dunque la tutela giurisdizionale dei diritti la cui violazione sia potenziale conseguenza del regime di sottoposizione a restrizione della libertà personale e dipenda da atti dell'amministrazione a esso preposta.

Per scendere più nel dettaglio, si tratterebbe della tutela di diritti suscettibili di essere lesi:

(a) per effetto del potere dell'amministrazione di disporre, in presenza di particolari presupposti indicati dalla legge, misure speciali che modificano le modalità concrete del "trattamento" di ciascun detenuto;

(b) ovvero sulla base di determinazioni amministrative prese

nell'ambito della gestione ordinaria della vita del carcere (come sarebbe

avvenuto, ad avviso del giudice rimettente, nel giudizio che ha dato

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luogo alla questione di costituzionalità affrontata nella sentenza C.Cost.

n. 26/99, avente ad oggetto il diniego all’introduzione in carcere di stampa periodica avente contenuto osceno). La questione prospettata, ad avviso della Corte, invita a procedere oltre nell'opera, intrapresa da tempo dal legislatore e dalla giurisprudenza, di diffusione delle garanzie giurisdizionali entro le istituzioni preposte all'esecuzione delle misure restrittive della libertà personale, innanzitutto gli istituti carcerari, e a perseguire in tal modo, come obiettivo, la sottoposizione della vita in tali istituti ai principi e alle regole generali dello stato di diritto.

In contrasto con l'impostazione data alla questione dal giudice rimettente il Giudice delle leggi ha ritenuto che essa riguardasse tutti i diritti rientranti in questo àmbito, non essendo possibile, considerando la portata generale degli artt. 24 e 113 della Costituzione, distinguere tra diritti aventi e diritti non aventi fondamento costituzionale, per assicurare la garanzia giurisdizionale solo ai primi.

La distinzione tra modalità e quantità/qualità della pena

La giurisprudenza costituzionale nell’ultimo ventennio ha recepito la

distinzione, elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, tra

provvedimenti relativi alle modalità dell'esecuzione della pena negli

istituti a ciò destinati - attratti nell'area della amministrazione e dei soli

rimedi di indole amministrativa - e provvedimenti riguardanti la misura

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e la qualità della pena, e spesso attinenti a momenti di vita extracarceraria, attratti invece nell'area della giurisdizione, alla stregua della riserva costituzionale di giurisdizione (oltre che di legge) vigente in materia (in proposito, sentenze nn. 349 e 410 del 1993; 227 del 1995)

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.

La Corte, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del potere amministrativo di sospensione, per ragioni particolari di ordine e sicurezza, dell'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati (art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario), con le sentenze nn. 349 e 410 del 1993, 351 del 1996 e 376 del 1997, ha tuttavia negato rilievo alla suddetta distinzione tra i diversi provvedimenti, sulla base del riconoscimento che anche in situazioni di restrizione della libertà personale, sussistono diritti che l'ordinamento giuridico protegge indipendentemente dai caratteri della ipotizzabile lesione. Con la sentenza n. 212 del 1997, l'esigenza costituzionale del riconoscimento di un diritto d'azione in un procedimento avente caratteri giurisdizionali si é infatti affermata indipendentemente dalla natura dell'atto produttivo della lesione, individuandosi la sede della tutela nella magistratura di sorveglianza, magistratura alla quale spetta, secondo l'ordinamento penitenziario vigente, una tendenzialmente piena funzione di garanzia dei diritti dei detenuti e degli internati. Una

1

La “Corte ha da tempo abbandonato l'originario indirizzo che, facendo leva sul carattere esecutivo

delle misure prese nell'ambito del "trattamento" penale - secondo le matrici storiche dell'ordinamento

penitenziario in cui é stata collocata la magistratura di sorveglianza -, insisteva sulla natura

amministrativa tanto delle misure stesse quanto delle eventuali garanzie che l'ordinamento

penitenziario avesse previsto (fase che dalla ordinanza Corte Cost. n. 87 del 1978, attraverso la

sentenza n. 103 del 1984 e l’ordinanza n. 166 del 1984, giunge fino alla ordinanza n. 77 del 1986)

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garanzia - é stato altresì precisato - che comporta il vaglio di legittimità pieno non solo del rispetto dei presupposti legislativi dettati all'amministrazione per l'adozione delle misure, ma anche dei loro contenuti, con particolare riferimento all'incidenza su non comprimibili diritti dei detenuti e degli internati, la cui garanzia rientra perciò, nel sistema attuale, nella giurisdizione del giudice ordinario

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”. In realtà appare a tutti evidente come tutte le volte che si faccia questione circa un determinato utilizzo di un potere dell’amministrazione, distinguere tra vizio di presupposti e visto di modalità può essere già una materia da dovere affrontare all’interno di un giudizio. Semmai dunque l’eventuale distinzione relativa alla esperibilità di un rimedio – conseguente ad una posizione soggettiva differenziata e tutelabile – dovrà discendere dalla natura ( organizzativa e generale, ovvero specifica e particolare) della disposizione amministrativa esaminata.

Limiti della sentenza n. 26/1999

Il giudice remittente, nel sollevare la questione, con riferimento alla previsione rappresentata dall’art. 69 comma 6 dell’ord. pen. aveva chiesto, attraverso una pronuncia costituzionale additiva, un'estensione del campo applicativo di tale norma . Sul punto la stessa Corte pur

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Sentenza Corte Cost. n. 26 del 8-21 febbraio 1999, punto n. 3.2

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riconoscendo come “tali previsioni ( dell’art. 69 o.p.), nella sostanza della prospettazione della questione costituzionale, rappresenterebbero, oltre che il tertium comparationis argomentativo dell’irrazionalità denunciata, anche il dato normativo che, attraverso la sua estensione alle ipotesi carenti di tutela giurisdizionale, dovrebbe consentire di chiudere la questione”, tuttavia non ha inteso operare in senso conforme alla auspicata interpretazione estensiva.

Dopo avere dunque rilevato una incostituzionalità “per omissione” , nella disciplina dei rimedi giurisdizionali contro le violazioni dei diritti dei detenuti e degli internati, ha ritenuto che la scelta di tali rimedi spetti comunque e sempre al Legislatore. Sarà dunque quest’ultimo a dovere operare tra “una gamma di possibilità, relative all'individuazione sia del giudice competente sia delle procedure idonee nella specie a tenere conto dei diritti in discussione e a proteggere la funzionalità dell'esecuzione delle misure restrittive della libertà personale”.

La Consulta pertanto nella pronuncia n. 26/1999, conclude affermando

che “la questione proposta deve essere accolta per la parte in cui con

essa viene denunciata nella disciplina dell'ordinamento penitenziario, e

in particolare negli artt. 35 e 69, che disciplinano le funzioni e i

provvedimenti del magistrato di sorveglianza, un'incostituzionale

carenza di mezzi di tutela giurisdizionale dei diritti di coloro che si

trovano ristretti nella loro libertà personale; ma allo stesso tempo, che

non può essere accolta l'indicazione rivolta a estendere, a tale scopo, lo

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specifico procedimento che il medesimo art. 69, in riferimento all'art.

14-ter, prevede”.

Il Giudice delle leggi, dopo avere affermato il principio della tutela di tutti i diritti anche quelli non aventi carattere costituzionale, ha rimandato così al Legislatore, perché effettui una selezione dei casi, con ciò aprendo la strada ad una necessaria distinzione tra situazioni soggettive. Non ha però fornito neanche i possibili criteri discrezionali per distinguere le singole posizioni soggettive. In particolare non ha effettuato distinzioni con riferimento alle posizioni giuridiche di partenza: quelle per cui è ammissibile il ricorso ad un procedimento con le caratteristiche della piena giurisdizione; e quelle aventi eventualmente ad oggetto situazioni rispetto a cui la compressione dello spazio di libertà è inevitabilmente connesso allo stato di detenzione ovvero dipende da aspetti connessi alla potestà organizzativa dell’amministrazione penitenziaria.

Sembrerebbe dunque di dover concludere sulla base di quanto stabilito

dalla Consulta che un conto è la scelta concreta e relativa al singolo

caso operata con discrezionalità in una materia involgente diritti

individuali ( limiti alla corrispondenza, anche telefonica, permessi); un

altro conto sono le disposizioni di carattere generale ed organizzativo,

la cui singola applicazione, se scorretta, potrebbe ledere diritti

individuali. Per questa ultima categoria, fermo restando il diritto di far

valere nella sede idonea la lesione del diritto, la Consulta non ha

ritenuto di dover individuare in via additiva uno strumento di tutela

carattere generale e preventivo, con le forme del procedimento

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giurisdizionale, cosciente del pericolo di giungere alla paralisi dell’organizzazione penitenziaria, e dunque per salvaguardare la

“funzionalità dell’esecuzione penale”.

A tale bipartizione occorrerebbe dunque far corrispondere una distinzione tra scelte operate dall’Amm,ne in relazione alla sua dimensione organizzativa generale sulla sicurezza, e comunque nell’ambito delle disposizioni espressamente previste dalla legge, e scelte di natura individuale, variabili caso per caso, sulla base di determinazioni afferenti al c.d. trattamento individualizzato. Per queste ultime scelte potrebbero essere individuati dal Legislatore strumenti di tutela relativi al caso concreto.

La giurisprudenza successiva. Sentenza Sezioni Unite del 23 febbraio 2003, Gianni.

La prima giurisprudenza successiva alla Corte Cost. n. 26/1999, si divise assumendo posizioni diverse, se non addirittura opposte.

Secondo alcune decisioni “La intervenuta dichiarazione di illegittimità

costituzionale degli artt. 35 e 69 della legge n. 354 del 1975, nella parte

in cui non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti

dell'amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti dei detenuti, sarebbe

valsa soltanto a richiamare il legislatore alla funzione che gli compete al

fine di colmare il vuoto normativo apertosi in conseguenza della

dichiarazione di illegittimità, come risulterebbe comprovato dalla

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possibilità, affermata dal giudice delle leggi, di intervenire pare di intendere, seguendo un percorso costituzionalmente,obbligato) sul sistema normativo vigente

3

.

In contrapposizione alla richiamata giurisprudenza se ne formava un’

altra, sempre nell’ambito della Cassazione, volta ad affermare, - a seguito della sentenza costituzionale n. 26 del 1999, definita

“sostanzialmente additiva anche se in modo incompleto", - la correttezza dell'adozione, da parte del magistrato di sorveglianza, (adito quale organo cui 1'art. 69 dell'ordinamento penitenziario demanda il controllo di conformità alla legge dell'attività penitenziaria), del procedimento previsto dagli artt. 666 e 678 c.p.p.

per decidere il reclamo in materia di colloqui e di corrispondenza telefonica

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.

3

L'assenza, quindi, di un mezzo di tutela dei diritti soggettivi che si assumano lesi dall'amministrazione comporta l'inammissibilità del ricorso per cassazione, evocandosi peraltro quale unica situazione protettiva, il diritto di adire la giurisdizione civile ordinaria, ai sensi dell'art.

24 della Costituzione” (Sez. I, 16 febbraio 2000, Camerino).

Con specifico riferimento alla materia dei colloqui e della corrispondenza telefonica, oltre a riprodursi le argomentazioni addotte dalla pronuncia sopra ricordata, si è, poi, precisato che avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza in tema dì colloqui e di corrispondenza telefonica non è consentito il ricorso ex art. 111, 7° comma, della Costituzione, in quanto ci si trova di fronte ad un provvedimento non riferibile alla libertà personale (Sez. I, 7 marzo 2002, Parla; Sez. I, 3 dicembre 2002, Emanuello).

Si è infine qualificato come abnorme - perché espressione di un arbitrario esercizio del potere giurisdizionale - il provvedimento del magistrato di sorveglianza che abbia deciso il reclamo sempre nella materia dei colloqui visivi e telefonici, non utilizzando la procedura prevista dall'art.

35 dell'ordinamento penitenziario, ma il procedimento di cui agli artt. 666 e 678 c.p.p., considerato che un provvedimento di tal genere non riveste natura giurisdizionale; non è soggetto ad ulteriore reclamo al tribunale di sorveglianza né a ricorso per cassazione; è sprovvisto di qualsiasi stabilità e forza giuridica cogente; è limitato a proporre suggerimenti all'amministrazione penitenziaria e non può disapplicare 1'atto amministrativo contro cui é proposto reclamo. SI è pertanto stigmatizzato che una tale impostazione – volta a generare uno strumento di tutela così ampio ed orizzontale - legittimasse 1'accesso in cassazione di un provvedimenti altrimenti non assoggettabili ad alcuna forma di gravame. (Sez. I, 14 aprile 2002, Balsamo).

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Tale giurisprudenza conseguentemente riteneva ammissibile il ricorso per cassazione avverso

tale decisione (Sez. I, 19 febbraio 2002, Castellano).

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Per dirimere l’evidente conflitto venutosi a determinare tra le opposte pronunce rese da sezioni diverse della medesima corte, è intervenuta la sentenza a sezioni unite del 23 febbraio 2003, con la quale la Cassazione nel tentativo dichiarato di dare attuazione al principio sancito nella pronuncia n. 26/1999, - ed a fronte della elusione del problema da parte del Legislatore - ha finito per spingersi molto oltre i confini tracciati dal Giudice della legittimità delle Leggi.

Movendo dalla considerazione che risulti “incontestabile che la tutela delle posizioni soggettive dei detenuti non può essere affidata ad un rimed io de plano solo in forza della scelta (per giunta “obbligata”) dell'interessato, occorrendo, invece, disporre di una procedura in contraddittorio da cui possa scaturire una decisione avente forza vincolante”, con riferimento alla materia dei colloqui e della corrispondenza telefonica, le ss.uu. hanno riconosciuto la necessità di consentire l’esperimento di un rimedio giurisdizionale per le questioni vertenti in subiecta materia.

La Cassazione ha dunque tracciato, come punto di partenza per pervenire alla conclusione sopra richiamata, il principio che la restrizione della libertà personale non determina il disconoscimento

In modo più completo, sempre richiamando la sentenza n. 26 del 1999, si é esclusa l'

"appartenenza al settore amministrativo del reclamo contro i provvedimenti dell'amministrazione penitenziaria che incidano sui diritti dei detenuti, come quelli relativi ai colloqui ed alla conversazioni telefoniche", così da riconoscere la necessità dell'utilizzazione, fino all'intervento del legislatore - intervento comunque ritenuto indispensabile dalla Corte - anche qui, dell'ordinario modello procedimentale delineato dall'art. 678 c.p.p. che, richiamando 1'art. 666, comma 6, dello stesso codice, rende ricorribile per cassazione il provvedimento del magistrato di sorveglianza pronunciato contro gli atti dell'amministrazione lesivi di diritti (Sez. I, 15 maggio 2002, Valenti;

nonché Sez. I, 6 giugno 2002; Sez. I, 8 ottobre 2002, Pappalardo).

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delle posizioni soggettive attraverso un generalizzato assoggettamento all’organizzazione penitenziaria. Donde l'individuazione di limiti ai diritti fondamentali per coloro che siano sottoposti a una restrizione della libertà personale, senza che tale restrizione comporti una capitis deminutio di fronte alla discrezionalità dell’autorità preposta alla esecuzione.

La Corte, nella sentenza del 23.2.2003, ha poi affermato:

a) che “al riconoscimento della titolarità di diritti deve necessariamente accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi a un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale, stigmatizzando 1'inadeguatezza di modelli che si esauriscano nella mera possibilità di proporre istanze o sollecitazioni, foss'anche ad autorità appartenenti all'ordine giudiziario, destinate a una trattazione fuori delle garanzie procedimentali minime costituzionalmente dovute, quali la possibilità del contraddittorio, la stabilità della decisione e l'impugnabilità con ricorso per cassazione.

b) che alla giurisdizione della magistratura di sorveglianza vada

riferita la tutela pure degli interessi legittimi scaturenti da un atto

dell’autorità amministrativa (sempre che tali posizioni soggettive

possano trovare accesso nel regime del trattamento); secondo una

cognizione che non può ridursi agli usuali canoni di demarcazione tra

giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa, attesa la riserva

di giurisdizione connaturata alla necessità del rispetto dello art. 27, 3

°

comma, della Costituzione”.

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c) che nella specifica materia dei colloqui ci si trova in presenza sicuramente di diritti soggettivi, parte integrante del trattamento. Un rilievo cui sembra non potersi sottrarre, nonostante la diversa conformazione lessicale dell’art. 18, comma 5, della legge n. 354 del 1975, la materia della corrispondenza telefonica; il tutto - è necessario sottolinearlo - talora utilizzando un modello semiologico assai ambiguo ed impreciso;

d) che alla conclusione di un'indiscriminata protezione nella materia dei colloqui è agevole pervenire anche considerando che 1'immanente collegamento con l'esecuzione penale e con il regime della pericolosità intramuraria, intesa anche quale limite alla fruizione di strumenti di trattamento, lasciano difficilmente intravedere l'esistenza di un paradigma di provvedimento che sia espressione di discrezionalità amministrativa. Malgrado il lessico talora utilizzato sia dalla legge sia dal regolamento, l'esercizio del potere amministrativo espresso nel provvedimento appare riferibile ad una sorta di discrezionalità tecnica, vincolata nei presupposti e nei fini; delineando così una possibilità di scelta che spetta all'amministrazione allorché sia chiamata a qualificare fatti suscettibili di varia valutazione, riducendosi ad un'attività di giudizio a contenuto lato sensu scientifico.

Lo strumento processuale idoneo.

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Risolta affermativamente la questione circa la ammissibilità di un procedimento avente caratteristica e natura giurisdizionali su questioni aventi ad oggetto i diritti dei detenuti ( nella materia dei colloqui e della corrispondenza telefonica) un ulteriore problema affrontato dalla S.C.

era quello relativo alla individuazione dello strumento di tutela da scegliere per fare fronte a questa esigenza di adeguamento alla posizione contenuta nella sentenza n. 26/1999 della Consulta.

A questo proposito va rilevato come sia stata pressoché assente l’attività di adeguamento normativo da parte del Legislatore, la cui unica e incompiuta iniziativa è rappresentata dal disegno di legge 13 luglio 1999, n. 4163, predisposto in attuazione della sentenza costituzionale n. 26 del 1999 ma neppure esaminato in commissione.

Tale d.d.l. conteneva un precetto stando al quale "il comma 6 dell’art.

69 della legge 26 luglio 1975, n. 354 è sostituito dal seguente: "decide con ordinanza impugnabile soltanto per cassazione, secondo la procedura di cui all’art. 14-ter, sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti atti dell'amministrazione penitenziaria lesivi dei loro diritti".

Conformemente a quanto previsto nel d.d.l. le sez. un. hanno ritenuto

preferibile lo strumento dell’art. 14ter o.p. considerando come “il

ricorso all’art. 666 c.p.p. - che prevede il termine di dieci giorni per

l’avviso alle parti e ai difensori, la partecipazione necessaria

all’udienza del difensore e del pubblico ministero, la possibilità di

depositare memorie fino a cinque giorni prima dello udienza, il diritto

dello interessato che ne fa richiesta di essere sentito personalmente,

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l'applicazione per il ricorso per cassazione dei termini di cui all’art.

585 c.p.p., - appare subito un modello esorbitante la necessaria semplificazione della procedura, da attuarsi attraverso il pronto intervento del magistrato di sorveglianza così da omettere, almeno in parte, gli indugi della seriazione generale prevista dal codice di procedura penale”. Per questa ragione si è ritenuto più confacente alle esigenze di praticità e di speditezza il procedimento previsto dagli artt.

14-ter, 69, 71 e seguenti dell'ordinamento penitenziario che prevedono il termine di cinque giorni per 1'avviso al pubblico ministero, all’interessato e al difensore, la partecipazione non necessaria del difensore e del pubblico ministero; la facoltà dell'interessato di presentare memorie; il termine di dieci giorni per proporre reclamo; la possibilità di proporre ricorso per cassazione entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento.

La questione dei criteri per lla individuazione delle posizioni giuridiche meritevoli di tutela

Gran parte della affermazioni contenute nella giurisprudenza che ha allargato l’orizzonte delle posizioni soggettive tutelabili, per la verità vengono ad assumere le sembianze di veri e propri postulati, più che di conseguenze stringenti sul piano logico e giuridico.

Va infatti osservato come nelle pronunce non vi sia in concreto alcuna

approfondita analisi della natura e delle caratteristiche degli atti

dell’amministrazione rispetto ai quali si ritiene di poter denunciare la

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lesione di una posizione soggettiva, né tampoco una concreta verifica della effettiva natura delle posizioni che si assumono essere oggetto di lesione.

Tale impostazione oltre che risultare opportuna sul piano del rigore logico che deve sempre accompagnare la sequenza diritto sostanziale- rimedio processuale, appare imprescindibile se è vero che la pronuncia n. 26/1999 aveva inteso estendere la denunciata incostituzionalità per assenza di un rimedio giurisdizionale rispetto ai diritti che si assumevano violati, e non già rispetto alla generalità delle posizioni soggettive, che possono essere rappresentate da mere aspettative non meritevoli di alcuna tutela.

Del resto la scelta consapevole del Legislatore di prevedere uno strumento di tutela de plano e non giurisdizionale quale il ricorso dell’art. 35, aveva proprio una funzione residuale rispetto alle situazioni soggettive diverse dai diritti e rispetto ai quali venissero in gioco posizioni soggettive di grado inferiore, spesso collidenti con le prerogative generali di organizzazione dell’amministrazione penitenziaria.

Avere configurato dunque uno strumento processuale e generalizzato anche a tutela di posizioni diverse senza neanche tracciare criteri certi per la loro riconoscibilità costituisce senza dubbio una scelta esorbitante dall’area tracciata dalla sentenza n. 26/1999.

(21)

La decisione delle sezioni unite, che partiva dalla affermazione del principio espresso dalla corte costituzionale ed appariva spingersi sino ad una operazione di riconoscimento “creativo” del diritto ad un procedimento assistito da garanzie di effettiva giurisdizionalità nella materia dei colloqui e della corrispondenza telefonica, in realtà non ha prodotto alcun effetto concreto, né era in grado di produrne.

A ben vedere infatti la materia dei colloqui e della corrispondenza negli istituti penitenziari è rigorosamente ancorata a ciò che la legge ed il regolamento – le cui disposizioni erano oggetto dell’impugnazione – prevedono.

Dunque una volta affermata in modo solenne nella parte motiva la legittimità delle disposizioni relative ai colloqui contenute nel DPR n.

230/2000, regolamento penitenziario - ogni limite che appaia

ragionevolmente strumentale al perseguimento della funzione

rieducativa e che venga commisurato alla tipologia di reato commesso

- sempre e comunque rientrante nell'area dei c.d. delitti di criminalità

organizzata (v. ora la nuova formulazione dell'art. 4-bis, quale

risultante dalle modifiche apportate dall'art. 1 della legge 23

dicembre 2002, n. 279) - non solo non viola il precetto di cui all'art. 1,

comma 2, dell'ordinamento penitenziario, ma si conforma, anzi -

secondo un modello che assicura uniformità di disciplina, in

attuazione della esigenze proprie del trattamento - alla norma adesso

ricordata. Tanto più che l' ”autolimitazione” operata dalla

disposizione regolamentare relativamente ai poteri conferiti

all'amministrazione nella materia si risolve anche in un regime di

(22)

garanzia per i destinatari dall'impiego di ogni discriminazione e dì ogni "privilegio" rispetto ai condannati di reati di tale gravità”. – quanto meno con riferimento ai colloqui, la questione va considerata sostanzialmente chiusa per ogni eventuale futura controversia che abbia ad oggetto determinazioni dell’amministrazione penitenziaria attuative del regolamento.

Il limite dell’impostazione logico-giuridica della sentenza della corte

sta proprio in ciò, nella sostanziale non ricorrenza di una ipotesi di

lesione di diritti sulla base della applicazione di un testo normativo, di

normazione generale, meramente attuativo delle disposizioni

contenute nella legge di ordinamento penitenziario. Ciò che manca in

tutta la pronuncia è proprio il discrimine tra le situazioni sostanziali la

cui lesione possa essere oggetto di lamentela da parte del detenuto, e

l’eventuale conseguente riconoscimento di un idoneo strumento di

tutela processuale. E neanche vi è una effettiva valutazione della

situazione soggettiva che si assumeva lesa nel caso oggetto della

questione. Viene sommariamente riconosciuta una giurisdizione piena

ed esclusiva – su diritti ed interessi – alla magistratura di sorveglianza,

ma non vi è alcuna analisi sulle conseguenze delle possibili pronunce

in relazione alle posizioni soggettive che si assumono lese. Anzi

laddove tale analisi è accennata si fa riferimento a conseguenze che

disorientano l’interprete (le sez. un. parlano di giurisdizione sugli

interessi ed ipotizzano la disapplicazione dell’atto amministrativo)

(23)

La Corte Costituzionale – nella pronuncia n.26/1999 - aveva infatti chiaramente esteso l’area della doverosità di un possibile intervento con lo strumento giurisdizionale a tutta la problematica relativa ai diritti violati – non solamente ai diritti fondamentali come era richiesto dal giudice remittente – ma si era ben guardata dallo generalizzare il ricorso ad un tale strumento per qualsiasi doglianza relativa a posizioni soggettive diversamente qualificabili. Aveva voluto che tale scelta fosse rimessa al Legisla tore, unico soggetto destinato ad operare una valutazione delle situazioni soggettive meritevoli di questa tutela, per evitare possibili eccessi nell’uso dello strumento che provocassero una paralisi dell’operato dell’amministrazione penitenziaria. La Consulta avrebbe potuto operare con una sentenza creativa di diritto.

Ne avrebbe avuto la legittimazione, e non sarebbe stato difficile neanche rinvenire sul punto i precedenti specifici.

5

Essa non ha voluto individuare neppure un criterio discretivo generale delle situazioni sostanziali per le quali era possibile procedere alla celebrazione di un giudizio con i crismi della giurisdizionalità, e tanto meno aveva individuato le regole e le forme di tale giudizio.

Se non lo ha fatto una ragione dunque ci sarà stata.

5

La Consulta aveva ritenuto applicabile analogicamente la procedura di reclamo prevista dall’art.

13-quater o.p., - per l’impugnabilità innanzi al Tribunale di Sorveglianza dei provvedimenti ministeriali applicativi del regiem detentivo speciale, Corte Cost. 28 luglio 1993 n. 349, in Giur.

Cost., p.2750. Va rilevato sul punto come una disciplina compiuta dello strumento di impugnazione

e la esatta delimitazioni dei poteri conoscitivi del giudice competente non erano state previste dal

Legislatore nemmeno a seguito dell’intervento della legge 7 Gennaio 1998 n. 11, che aveva aggiunto

il comma 2bis all’art. 41bis. Soltanto la riforma della disciplina del regime speciale, intervenuta con

l. n. 279/2002, ha preveduto una compiuta disciplina del mezzo di gravame avverso il

provvedimento ministeriale.

(24)

La ragione è forse da rinvenire su di un molteplice piano argomentativo.

1 Giova ricordare che l’ordinamento penitenziario è un sistema generalmente derogatorio della libertà personale. Tale diritto risulta per se comprimibile, giammai sopprimibile. La valutazione sulla entità degli spazi residui di tale bene, compresso dalla detenzione, pone sempre una questione relativa al diritto della persona, giacchè incide sulla quantità e natura della pena. Per converso quegli aspetti che attengono alle modalità di espiazione della pena, generalmente collegati ad una potestà organizzativa dell’amministrazione e destinati a garantire una applicazione erga omnes a tutela della sicurezza e della prevenzione penitenziaria, non appaiono tali da incidere su posizioni soggettive tutelabili al di fuori della dimensione amministrativa.

Risulta evidente che le questioni afferenti alla quantità della pena

siano individuate dal Legislatore, che parimenti provvede a fornire

adeguati strumenti di tutela giurisdizionale. Laddove sia il Legislatore

a prevedere che i contenuti di una attività di trattamento siano sanciti

attraverso una determinazione amministrativa emanata in via generale,

risulta evidente come manchi la possibilità di intravedere posizioni di

diritto soggettivo. Questo delicato compito di discernimento e

codificazione delle posizioni soggettive la Corte ha voluto fosse

rimesso proprio al Legislatore, al quale solo può spettare il potere di

disciplinare un rapporto giuridico, conferendo al suo contenuto la

qualificazione di diritto.

(25)

2 La conseguenza di questo ragionamento sta nel deficit di tassatività rispetto al grado di determinazione degli spazi di trattamento contenuti nella legge (si pensi ad esempio alla durata minima dei colloqui, e più in generale alle determinazioni sulla vita detentiva contenute nel regolamento interno. Si pensi ancora alle prescrizioni generali sulla sicurezza penitenziaria adottate con circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.) Risulta evidente come, rispetto allo spazio determinato con tassatività dalla legge, inteso a determinare la sussistenza di un diritto, vi sia un indispensabile momento di indeterminatezza, rimesso all’amministrazione penitenziaria, sulla scorta del quale sarà possibile consentire in ambito generale – di istituto ovvero di tutti gli istituti – concrete modalità per la fruizione di quel diritto nel rispetto delle esigenze di prevenzione di sicurezza e di organizzazione. Anche tale scelta tra tassatività ed indeterminatezza la Consulta ha volu to rimettere al Legislatore.

3 Per altro verso una possibilità di ricorso al rimedio giurisdizionale

avverso decisioni dell’Amministrazione Penitenziaria toglierebbe

significato al sistema descritto nell’ambito dell’ordinamento

penitenziario, nel quale la possibilità di un reclamo generico ex art. 35

ha una funzione evidentemente residuale perché serve proprio a

contemplare quelle situazioni che il Legislatore non ha voluto fossero

affrontate in un contesto di giurisdizione. La Consulta aveva pertanto

inteso mantenere in capo al magistrato di sorveglianza la sua funzione

(26)

di vigilanza sul piano amministrativo rispetto a quelle posizioni soggettive non assistite da interesse qualificato.

Conformemente a ciò che la corte ebbe ad esprimere nella pronuncia n.

349/1993 può dunque ritenersi che anche la denunciata illegittimità di un atto amministrativo ricadente su posizioni soggettive di singoli, finisca per travolgere diritti, quando l’oggetto del provvedimento particolare è un aspetto che travolga a titolo individuale lo spazio residuo di libertà che caratterizza la vita di un recluso all’interno della realtà penitenziaria.

L’ambito rispetto al quale dovrebbe invece aversi una sostanziale

esclusione di intervento giurisdizionale è quello relativo alle

determinazioni di carattere generale rimesse alle scelte

dell’Amministrazione Penitenziaria, con riguardo agli spazi di

competenza gestionale ad essa attribuiti dalla legge. Questa è la ragione

per la quale la Consulta ha omesso ogni intervento, ed è il motivo per il

quale le sezioni unite, pur avendo affermato il principio generale e

legittimato il ricorso al procedimento giurisdizionale hanno sentito il

dovere di precisare che lo stesso dovesse essere circoscritto alla

materia dei colloqui,…Precisazione questa davvero indispensabile al

fine di dissipare ogni equivoco circa la prospettabilità di una

indiscriminata attività sostitutiva da parte del giudice nella normale

gestione della vita d’istituto… che comporterebbe il rischio di

immobilizzare la vita d’istituto….(v. punto n. 8 della pronuncia). A

questo ambito mi sentirei di affermare appartenesse la disposizione del

nuovo regolamento penitenziario che distingueva il numero dei colloqui

(27)

tra detenuti comuni ed A.S., oggetto della questione affrontata dalle sezioni unite.

La sentenza n. 266/2009

La questione della effettività degli strumenti di tutela a disposizione del detenuto, è tornata alla ribalta a seguito della sentenza corte cost. n.

266/2009. Una pronuncia che ha negato tutti i profili di incostituzionalità sollevati con riferimento alla problematica dell’assegnazione di un detenuto al circuito alta sicurezza 1, ma che su una delle questioni, relative alla asserita mancanza di vincolatività delle decisioni rese nell’ambito del procedimento ex art. 14ter ha voluto così chiosare: «quanto al presunto carattere non vincolante per l'amministrazione dei provvedimenti del magistrato di sorveglianza, il rimettente, pur non ignorando l'art. 69 dell'ordinamento penitenziario (peraltro non oggetto di censure), rit iene tuttavia che l'ordinanza del magistrato di sorveglianza, che dovesse dichiarare non legittima l'assegnazione del detenuto al circuito E. I. V., avrebbe efficacia analoga a quella di una segnalazione ai sensi del citato art. 69, primo e quarto comma. Ma questa lettura non considera che la norma dispone, nel quinto comma (ultimo periodo), che il magistrato di sorveglianza

“impartisce, inoltre, nel corso del trattamento, disposizioni dirette ad

eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli

internati”. La parola "disposizioni", nel contesto in cui è inserita, non

(28)

significa segnalazioni (tanto più che questa modalità d'intervento forma oggetto di apposita previsione nel primo comma dell'art. 69), ma prescrizioni od ordini, il cui carattere vincolante per l'Amministrazione penitenziaria è intrinseco alle finalità di tutela che la norma stessa persegue».

Una espressione incidentale alla pronuncia alla quale si è voluta attribuire un valore additivo rispetto al passato, ma che non intervenendo dopo una disamina delle questioni sottostanti, e del riparto di attribuzioni sussistente tra giurisdizione ed amministrazione, finisce per lasciare pressoché immutato l’assetto interpretativo sin qui consolidatosi.

Le libertà individuali e il trattamento penitenziario

Una grossa questione si pone con riguardo alla problematica del diritto al trattamento. Esso è notoriamente la risultante di singole opportunità offerte, nel quadro di un progetto individuale, messo a punto nell’ambito dell’istituto.

Si tratta dunque di un diritto avente valenza costituzionale e contenuto

fortemente programmatico. Di contenuto e valore analogo a quello che

potrebbe riconoscersi al diritto al lavoro, sancito dall’art. 4 Cost. Per

sua definizione le singole componenti del trattamento vanno costruite e

proposte tutte insieme. Non sono estrapolabili in forma individuale; non

(29)

possono essere rimesse a mere opzioni da parte del recluso; perché presuppongono la partecipazione ed un progetto; ma soprattutto presuppongono un impegno ed un investimento di energie da parte del detenuto. Il trattamento trae origine dalla definizione Costituzionale della pena, ed è dunque una cosa molto seria. Non è coercibile in una sua parte, sulla base di una scelta unilaterale del detenuto, altrimenti si andrebbe verso l’autogestione.

Esso va distinto a sua volta dalle libertà individuali non comprimibili in stato di detenzione. Il diritto allo studio, alla cultura, all’approfondimento, realizzabile con gli strumenti che l’istituzione penitenziaria riconosce a tutti i detenuti, rappresenta una libertà individuale, se frutto della libera scelta del detenuto. La misura della fruizione di questa libertà incontra naturalmente i limiti dell’organizzazione del carcere. Un detenuto non potrà pretendere di tenere in cella una biblioteca con tremila volumi. Ma nessuno potrà negargli di leggere i libri che desidera: quelli che gli appartengono, quelli che intenderà acquistare o che potrà trovare presso la biblioteca del carcere.

Un provvedimento individuale che censurasse la lettura di un libro, solo

per ragioni culturali o meramente ideologiche, verrebbe ad incidere

sulla posizione di un soggetto, imponendo una restrizione ulteriore

della sua residua libertà. Cosa diversa è il divieto di lettura di una

pubblicazione con un contenuto che inciti a condotte oggettivamente

illegali o marcatamente dissociali, si pensi agli scritti inneggianti

all’odio razziale. In ogni caso si tratterebbe comunque di una cosa

(30)

diversa dall’attività di studio, quale elemento del trattamento rieducativo, che – solo se varata nel programma di trattamento individuale – può comportare l’impegno dell’amministrazione ad assumere specifiche iniziative di propria competenza.

Il problema della scelta del rito, tra decisione de plano e procedimento ex art. 14ter.

Una questione rilevante, che deve tener conto della ricostruzione che precede, è quella relativa al criterio da utilizzare ai fini della scelta del rito. Questa scelta appare di fondamentale importanza rispetto alla definizione dei reciproci ambiti di attribuzione tra giurisdizione e amministrazione, ed in definitiva anche per il buon governo del carcere.

Va in primo luogo ribadito che la magistratura di sorveglianza è l’organo che ha giurisdizione esclusiva sulle questioni relative alla vita penitenziaria. Su tale principio non incide la problematica affrontata nella sentenza della Corte costituzionale 341/2006. La stessa Corte ha chiarito infatti come in quella circostanza furono fatte salve le questioni di lavoro, solo in virtù della maggiore specificità della materia e degli strumenti di tutela apprestati dal giudice del lavoro.

E’ altrettanto evidente che la questione della scelta del rito - ma sarebbe meglio dire della scelta di procedere con rito, quello previsto dall’art.

14 ter o.p. – dipende dalla valutazione della questione sollevata. E tale

valutazione spetta al magistrato di sorveglianza, che è l’unico giudice

(31)

dinanzi al quale possono essere sollevate le problematiche attinenti alla vita penitenziaria.

Orbene la affermazione di principio, che ha informato tutta la giurisprudenza costituzionale e di legittimità a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n. 26/1999, è quella secondo cui la tutela delle questioni di diritto relative alla detenzione meritano l’adozione di un procedimento giurisdizionale, che si concluda con un provvedimento avente cogenza ed effettività. La Corte ha dunque evidenziato una importante questione processuale e di effettività di tutela, ma non ha abolito il procedimento per reclamo ex art. 35 e 69. Anzi ha da un lato invitato il magistrato di sorveglianza a riconoscere le questioni “di diritto” che vengono alla sua attenzione, secondo questo vaglio;

dall’altro stimolato il potere legislativo a definire normativamente questo ambito – o meglio ad ulteriormente precisare ed ampliare il novero delle singole situazioni. Va da sé che la pronuncia della Corte e le successive che ne hanno ribadito il principio non hanno operato una traslazione di tutte le questioni poste dal detenuto all’interno del procedimento dell’art. 14 ter, ma unicamente precisato la necessità di prevedere quella forma di giudizio per le questioni che riguardano diritti. Se detta traslazione fosse stata prevista, ne sarebbe conseguita l’abolizione implicita del procedimento de plano ex art. 35 e 69 o.p.

Ed allora deve ritenersi che la questione della scelta del rito deve

necessariamente precedere la definizione della questione di merito,

giacchè se così non fosse, di per sé ogni questione potrebbe essere

(32)

affrontata nell’ambito dell’art. 14 ter e lì risolta a prescindere da ogni valutazione preliminare circa la causa petendi.

Tale valutazione, ancorché rimessa al medesimo giudice che sarebbe competente per entrambi i giudizi – decisione de plano ovvero ex art.

14 ter – deve non di meno essere correttamente effettuata in via preliminare, tenendo conto del contenuto del reclamo proposto dal detenuto, indipendentemente dalla forma dello stesso.

I contenuti delle pronunce della Corte inducono dunque ad una necessaria valutazione che preceda il giudizio e che abbia ad oggetto la causa petendi, così come desumibile dal reclamo.

E’ altresì evidente che le posizioni soggettive qualificabili come diritto, quantunque non restringibili al novero di quelle previste espressamente dalla legge e richiamate nella sentenza 26/1999, nondimeno debbano riguardare situazioni nelle quali vi siano specifiche ed individuali applicazioni delle norme generali, capaci di incidere soggettivamente sulla qualità e quantità della pena. Mai potrebbero essere considerate appartenenti a questo novero le situazioni generali che rientrano nell’ambito delle scelte organizzative generali dell’amministrazione penitenziaria. E dunque alla stregua di questa valutazione preliminare la questione non dovrebbe essere affrontata con lo strumento dell’art.

14 ter, perché essa è di per sé risolvibile, e deve essere risolta, con una pronuncia de plano del magistrato di sorveglianza.

D’altra parte il ricorso allo strumento predetto, oltre che determinare

inevitabili aspettative nella popolazione detenuta, finisce per sottoporre

gli atti dell’amministrazione penitenziaria ad un vaglio con modalità e

(33)

conseguenze non previste dall’ordinamento. Giova infatti sul punto ricordare il principio di tassatività espresso nelle pronunce della Consulta con riguardo alla tutela delle posizioni soggettive nello stato di detenzione. Ad esse andrebbero aggiunte al più le questioni che, ictu oculi, appaiano essere adottate in pregiudizio di situazioni individuali di diritto; anche se, per la verità, questa operazione ermeneutica la stessa Corte avrebbe voluto sottrarre al giudizio dei tribunali di merito, tanto da stimolare l’attività del legislatore affinché ne traesse le dovute iniziative di competenza.

In definitiva, quand’anche si volesse optare per una scelta interpretativa

volta a riconoscere in via diretta al magistrato di sorveglianza il

potere/dovere di ampliare la sfera delle posizioni soggettive tutelabili

nell’ambito dei giudizi ex art. 14 ter, tale opzione ermeneutica non

potrebbe estendersi sino a ricomprendervi situazioni soggettive

consistenti in aspirazioni del detenuto alla modifica di scelte generali

dell’amministrazione per nulla incidenti sulla sua posizione individuale,

ma all’evidenza dettate da scelte organizzative generali. Il contenuto di

tale giudizio finirebbe per sovrapporsi con il potere/dovere

dell’amministrazione di autoregolare in autonomia, e nella separazione

delle competenze dalla diretta ingerenza del potere giudiziario, le

proprie scelte gestionali. Scelte che, giova ricordarlo, rimarrebbero

comunque sotto il controllo del magistrato di sorveglianza circa la loro

idoneità a conseguire le finalità che la legge riconosce alla pena. Tale

controllo, operato attraverso il giudizio de plano, implicherebbe un

dovere dell’amministrazione di tenere conto di quanto espresso dal

(34)

magistrato di sorveglianza, ed una esposizione a responsabilità politica dell’esecutivo rispetto alla non ottemperanza, ma all’interno di un sistema di controlli connotato dalla separazione dei poteri.

Viceversa il prioritario riconoscimento come “diritto soggettivo” di

qualunque lagnanza rappresentata dal detenuto, effettuata dal

generalizzato ricorso al procedimento 14 ter (sia pur salva la possibilità

di verificare all’esito la non sussistenza del diritto) oltre che obliterare

lo strumento del giudizio de plano, comporterebbe un travisamento del

principio esternato dalla Consulta.

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