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Analisi del “Caso Luigino” di Lino Schepis

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Academic year: 2022

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Analisi del “Caso Luigino”

di Lino Schepis*

Non capita spesso ed in fondo è bene che sia così che una sentenza civile in tema di responsabilità per danni da circolazione veicolare assurga agli onori della cronaca.

Quanto è accaduto alla decisione della Corte bolognese appare davvero insolito, non solo per la grande evidenza data dai media, ma soprattutto per la singolare, univoca concentrazione di giudizi negativi raccolti.

Per la verità, non ricordo che tra le voci dissenzienti (alcune delle quali di veri e propri opinion leaders) comparisse quella di qualche qualificato addetto ai lavori.

Al contrario, agli occhi di un operatore del diritto assicurativo la sentenza non presentava spunti particolarmente rivoluzionari, né provocatori od inficiati da macroscopici errori di diritto. Sembrava anzi una decisione quasi di routine, l'applicazione di principi alquanto scontati per un tecnico.

Qualcuno ha osservato forse non a torto che una tale risonanza, tra l'altro attribuita ad una notizia non certo di attualità, possa essere conseguenza di un vuoto di notizie tipico del periodo feriale, oltre che della ricerca di uno scoop giornalistico.

Tuttavia, il rilievo dell'episodio, l'autorevolezza di alcune opinioni dissenzienti, suggeriscono un opportuno approfondimento della vicenda.

I punti per così dire, "critici" intorno ai quali si è aperto il dibattito più acceso sono essenzialmente tre:

a) la responsabilità

b) il danno da lucro cessante c) il danno non patrimoniale

a) La responsabilità

Non si può certo tacciare la Corte bolognese di superficialità, o di eccessivo favor nei confronti del convenuto. E' vero anzi il contrario.

Dopo una sentenza assolutoria nel penale, ed una di totale rigetto della domanda nel primo grado del giudizio civile, i giudici bolognesi hanno riconsiderato in toto i profili di responsabilità, avvalendosi per la verità in modo non del tutto convincente della presunzione di responsabilità di cui all'art. 2054 cc, giustificata da un lato dall'assenza di piena prova liberatoria (dunque, non condanna su precisi indizi od elementi di colpa, bensì sull'inesistenza di sicuri elementi a discarico per l'automobilista), dall'altro dai “canonici” ragionamenti da sempre utilizzati in siffatti casi, quali la situazione di particolare pericolo data dalla presenza di bambini in prossimità del margine della carreggiata, l'assenza di dimostrazione di una reazione di soccorso adeguata, ecc.

Se proprio vogliamo, una rigorosa applicazione del concetto tecnicistico del cosiddetto "intervallo psicotecnico" e del conseguente "tempo di reazione medio", unicamente all'oggettiva insufficienza di tempo per percepire ed apprezzare la situazione di particolare pericolo, e mettere in atto accorgimenti di guida idonei ad evitare il sinistro (tra il teorico avvistamento e l'investimento devono essere trascorsi non più di 2 - 2,5 secondi) ed al principio della colpa assorbente della vittima, i giudici di seconde cure ben avrebbero potuto adeguarsi a ragion veduta alle decisioni precedenti.

Una sentenza quindi tutt'altro che benevola verso il convenuto, che anzi induce a qualche considerazione circa la "probatio diabolica" alla quale un automobilista deve sottostare in caso di

*Responsabile Affari Generali Lloyd Adriatico, Trieste

Collana Medico Giuridica DANNO EMERGENTE LUCRO CESSANTE

ed. Acomep, 1998

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investimento di pedoni, specie se minori, per effetto di un ingombrante, ed alibizzante, articolo 2054 cc.

b) Il danno da lucro cessante

Di tale aspetto, che apparentemente più di altri ha fatto gridare allo scandalo, mi limiterei a sottolineare due riflessi peculiari della decisione:

1. L'avere con atto di grande ed inconsueto coraggio affermato semplicemente l'ovvio, ciò che a tutti è noto, ma che non trova spesso esplicito riconoscimento giurisprudenziale: vale a dire che figli, secondo l'id quod plerumque accidit, sono essenzialmente un costo, sicuramente finché dura la convivenza con la famiglia di origine, e spesso anche dopo, e le prospettive di un ritorno di lucro od anche di un semplice ... pareggio appaiono decisamente remote, salvo che non si immagini per il giovane una carriera (sportiva, nello spettacolo, nell'arte, ecc.) così straordinaria da comportare eccezionali ritorni economici. Saremmo però, ovviamente, al di fuori della norma, per cui apparirebbe indispensabile la produzione di idoneo e particolare supporto probatorio.

Troppe volte assistiamo a decisioni che, liquidando ai genitori superstiti una somma per un'improbabile aspettativa di lucro cessante, si preoccupano in realtà unicamente di "appesantire" il quantum risarcitorio, non ritenuto sufficientemente remunerativo per la sola incidenza del danno immateriale.

A mio avviso, su questo punto la Corte d'Appello di Bologna si è dimostrata rispettosa, oltre che del disposto dell'art. 115 cpc (... è lecito fare ricorso a nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza ha assolto ad un rigoroso principio di diritto, richiamato di recente dalla sentenza di Cassazione Civile n. 4242 del 7/5/96, che vieta di procedere a quantificazione dei pregiudizi economici degli aventi diritto solo avendo presenti le aspettative di natura patrimoniale dei superstiti e non anche i corrispondenti obblighi.

2. L'altro riflesso riguarda l'ipotesi formulata dai giudici circa il possibile futuro professionale della vittima.

A prima vista, l'avere recuperato ragionamenti da "caso Gennarino" può apparire poco illuminato e socialmente poco evoluto, addirittura classista.

In realtà, ove si consideri l'effettiva situazione occupazionale del nostro Paese, con le prospettive davvero modeste offerte ai nostri giovani, non mi sembra poi tanto assurdo o svantaggioso ipotizzare che proprio la prosecuzione dell'attività imprenditoriale di famiglia, specie se ben avviata e remunerativa, costituisca la normalità, ovvero l' id quod plerumque accidit.

Anzi, è ugualmente logico ritenere, in assenza di diverse prove o di ragionevoli presunzioni in senso opposto, che proprio la prosecuzione dell'attività familiare avrebbe consentito una redditività più precoce e consistente di quanto non sarebbe accaduto in altri tentativi di sbocco professionale.

Anche qui sul piano del buon senso va riconosciuto che l'avere ipotizzato per il piccolo Luigi un diverso orientamento professionale medio (titolo di studio medio superiore, conseguente impiego nell'industria o nello Stato, o avvio di altra attività professionale autonoma), non avrebbe modificato, se non in senso peggiorativo, i termini monetari del problema.

c) Il danno non patrimoniale

La questione potrebbe essere liquidata con poche battute: in assenza di un fatto reato, l'art. 2059 cc non consente di fare luogo a liquidazione di danni non patrimoniali.

In realtà, il problema appare ben più complesso, con riflessi di diritto positivo, sociali, tecnico- assicurativi, da jure condendo, ecc.

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ed. Acomep, 1998

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Una prima riflessione non può prescindere dal sottolineare come, nel meccanismo risarcitorio vigente in responsabilità aquiliana, e particolarmente in ambito di danni da circolazione stradale, il legame tra fatto reato e valore del danno morale sia sempre stato assai labile, nel senso che quasi mai capita di rilevare come il giudice abbia modulato l'entità dell'importo risarcibile in ragione della maggiore o minore gravità della condotta imputabile al responsabile.

Anzi, a ben vedere, negli ultimi anni si è sviluppato fortemente l'uso di tabellazioni preordinate, emanate ad iniziativa di svariate Corti di merito; tali tabellazioni sono concepite per differenziare unicamente le situazioni, soggettive ed oggettive, dei congiunti della vittima (il grado di parentela, la convivenza, l'ampiezza del nucleo famigliare, ecc.) e mai la gravità della colpa dell'autore del danno.

Si potrà obiettare, è vero, che tali tabelle si sogliono intendere come meramente indicative, di orientamento; ma in effetti vediamo come di fatto le somme liquidate finiscano con il non risentire in alcun modo dell'importanza della colpa attribuibile al responsabile.

Addirittura capita di rilevare che identici criteri vengano applicati anche in caso di colpa concorrente maggioritaria della vittima stessa.

Eppure l'insegnamento della Cassazione sul punto specifico è sempre stato univoco: si veda per tutte la sentenza 14/6/67 n. 1371 (Arch. giur. circol. 1968, 340), che richiama la necessità che la liquidazione dei danni morali, ancorché lasciata al potere discrezionale dei giudici di merito, debba essere proporzionata alla gravità del fatto al dolore dei congiunti alla capacità patrimoniale dell'obbligato ed al bisogno dei danneggiati.

L'interconnessione tra quantum risarcitorio ed intensità della colpa appare rimarcato proprio dalla collocazione di questa al primo posto nella gerarchia delle circostanze che il magistrato dovrebbe valutare per una corretta determinazione di tale posta di danno.

L'intendimento originario del legislatore, di attribuire alla liquidazione del danno morale una funzione di pena privata, appare ribadito anche dalla lettera dell'art. 2046 cc (".... non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità di intendere e di volere al momento in cui lo ha commesso..."), che la giurisprudenza di Cassazione ha interpretato nel senso di non risarcibilità dei danni morali in concorso o non con danni patrimoniali (che invece rimangono risarcibili) ove l'azione sia stata commessa da soggetto minore degli anni 14. (Cass. Civ. 4/4/1959 n. 1006 Giust.

civ. 1959, I, 599.).

E sappiamo in quale considerazione tale principio venga oggi tenuto dai nostri giudici di merito.

Sarebbe interessante soffermarsi poi sulla relazione stabilita dalla Suprema Corte tra danno morale indennizzabile ed aspettative economiche del danneggiato. Altra circostanza assai poco considerata forse giustamente in sede di liquidazione, in quanto tenderebbe a far apprezzare maggiormente la sofferenza morale, il disagio psicologico del danneggiato a fronte di un'aspettativa alimentare invero comunque adeguatamente indennizzata.

Non vanno poi trascurate le difficoltà tecniche e psicologiche che talvolta i giudici incontrano quando come nel caso che stiamo trattando vincoli giuridici e tecnici impediscono di far conseguire ad un evento mortale un'importante, significativa liquidazione ai congiunti superstiti.

Perché, alla fin fine, il comune sentire del nostro Paese porta ad un'aspettativa di rilevante apprezzamento monetario in ogni caso di sinistro mortale, anche in assenza di concreti riscontri probatori di un reale danno e, si potrebbe dire, anche in assenza di un'effettiva responsabilità.

E', questa, una scelta socio-economica che la giurisprudenza italiana di merito sembra avere adottato, essendosi incamminata in un percorso teso ad una costante lievitazione dei parametri liquidativi dei danni non economici (si pensi, ad esempio, alle ultime tabelle prodotte dal Tribunale di Roma).

Altri Paesi, a noi vicini geograficamente ed in un certo senso anche politicamente ed economicamente, come ad esempio Paesi dell'UE di lingua tedesca privilegiano in modo assoluto la liquidazione dei reali danni economici, da lucro cessante e danno emergente, fino a pagarli con precisione quasi maniacale, ma trascurano, o valorizzano assai poco, i danni extrapatrimoniali (mi viene in mente una sentenza che ho avuto occasione di leggere, nella quale veniva capitalizzato per il

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resto della vita del danneggiato macroleso il costo per l'utilizzo dell'energia elettrica necessaria per azionare i dispositivi di supporto di cui l'infortunato era stato dotato).

Il problema nascente dalla necessità, in un futuro non lontano, di armonizzare i vari ed eterogenei sistemi di liquidazione comunitari non è di poco conto, in quanto destinato a produrre importanti effetti anche sotto il profilo dei costi del servizio assicurativo, e quindi della competitività tra imprese nel libero mercato europeo.

Problemi tutt'altro che irrilevanti incombono già oggi sul mercato assicurativo, che fa fatica (anzi, sovente non riesce proprio) a seguire le continue fughe in avanti di alcune Corti di merito nella determinazione dei risarcimenti spettanti ai congiunti delle vittime da sinistro, stradale e non, sia in termini di corretta liquidazione, sia in termini di adeguata appostazione delle riserve sinistri.

Una stima approssimativa degli effetti di un totale recepimento , da parte dei giudici di merito italiani, dei criteri liquidativi dei danni da decesso elaborati dai tribunali di Milano e di Roma, porterebbe ad ipotizzare in circa 2500/3000 miliardi il maggiore costo delle polizze auto: vale a dire, per questo solo aspetto risarcitorio (ma ve ne sono altri, altrettanto critici) un incremento del premio medio pari al 12 - 15%.

Ad ogni modo, se l'orientamento del nostro Paese deve mantenersi nella direzione di far collimare, semplicemente e sempre, danno liquidabile e grado di parentela, potrebbe risultare alla fine più chiara e lineare la scelta di abrogare l'art. 2059 cc, allargando l'indennizzabilità di ogni fattispecie di danno immateriale, indipendentemente dalla configurabilità come reato del fatto dannoso.

In tal senso si era già orientato il legislatore nel 1992 con l'ormai lontano e quasi dimenticato disegno di legge di riforma della responsabilità civile da circolazione stradale rimasto travolto dall'impeto dell'ex Presidente Cossiga quando, all'art. 19, venne prevista la liquidabilità "della sofferenza personale, nonché del turbamento d'animo per la violazione della sfera degli affetti ...

senza che possa essere opposta la carenza del presupposto del reato ai sensi dell'art. 185 cp".

Il legislatore, come è noto, si preoccupò anche saggiamente, tenuto conto della peculiare situazione della nostra giurisprudenza di predisporre una tabella di valori monetari di riferimento per le varie situazioni famigliari.

Tutto sommato, un siffatto mutamento del sistema di liquidazione dei danni risulterebbe più chiaro, e semplificherebbe una serie di problemi che oggi si pongono, e che costringono i nostri giudici, anche ai massimi livelli, a vere e proprie ... acrobazie per giustificare la permanenza dell'attuale impianto, e la sua compatibilità con i principi costituzionali.

Alludo ovviamente alle più recenti decisioni della Corte Costituzionale, in particolare alla sentenza n. 372 del 1994 in tema di danno biologico da uccisione, nella parte in cui riconosce l'esistenza di un autonomo danno psichico o fisico permanente (il danno biologico jure proprio?), differenziato e contrapposto al danno morale (che è invece per definizione uno stato di angoscia transeunte, cioè volatile, non definitivo, ma solo temporaneo), salvo poi riferire comunque entrambi non alla previsione di cui all'art. 2043 cc, bensì a quella dell'art. 2059 cc.

Si tratta allora di un danno biologico vero e proprio, ovvero di un danno morale aggravato?

Resta liquidabile il primo, a differenza del secondo, in assenza di fatto-reato? Non è tuttora chiaro.

L'argomento richiama per completezza ed in conclusione una possibilità che i coniugi Gherri non hanno utilizzato, probabilmente perché i tempi non erano ancora maturi: quella di richiedere proprio il risarcimento del danno biologico da morte jure proprio.

Prodotta come è nel complesso nella quasi totalità dei casi di decesso di un congiunto la prova di una sofferenza psichica non semplicemente momentanea, probabilmente si sarebbe potuto dare luogo ad un risarcimento in termini monetari significativi, tali da non sconvolgere l'opinione pubblica, da evitare l'insorgere di un "caso Luigino".

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