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IL RISARCIMENTO DELLE MACROLESIONI. COMPARAZIONE FRA I CRITERI VALUTATIVI E DI LIQUIDAZIONE NELL'AMBITO EUROPEO di Lino Schepis

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IL RISARCIMENTO DELLE MACROLESIONI.

COMPARAZIONE FRA I CRITERI VALUTATIVI E DI LIQUIDAZIONE NELL'AMBITO EUROPEO

di Lino Schepis*

L'Assicuratore italiano ha sempre attribuito particolare attenzione al tema dei danni fisici nell'ambito dei quali spicca, per ovvia rilevanza economica, ma anche per importanti riflessi sociali il cosiddetto macro-danno, ovvero il danno che colpisce la persona in modo così grave da annullarne, o ridurne gravemente, la capacità di avere una vita normale sia nel mondo del lavoro sia nel campo degli affetti e della vita di relazione.

Questi danni consistono usualmente in stati di tetraplegia o paraplegia provocati da lesioni vertebrali, ovvero in condizioni di decerebrazione o di coma vegetativo irreversibile causati da lesioni neurologiche di particolare gravità, ovvero ancora in importanti amputazioni. Si suole individuare nella pratica la soglia del macro-danno intorno al 50-60% di invalidità permanente.

La materia è venuta sviluppandosi in modo significativo soprattutto in questi ultimi anni, per il concomitante sopravvento di tre fattori:

- una giurisprudenza sempre più attenta e sensibile alle gravi applicazioni di queste fattispecie dannose;

- uno specifico interessamento del legislatore, manifestatosi nella "quasi legge" di riforma della R.C.A.;

- un progressivo aumento dei massimali di polizza.

Non si può dire tuttavia che l'operatore italiano abbia oggi idee del tutto chiare sulle corrette modalità di valutazione e di risarcimento dei danni più gravi, in quanto anche in questo versante, come d'altra parte in altre tematiche risarcitorie dei danni da lesioni, si registra una casistica giurisprudenziale quanto mai eterogenea e per taluni versi sconcertante.

A dire il vero lo sconcerto per l'assicuratore italiano inizia da più lontano dalla singolare disomogeneità riscontrabile tra i limiti di massimale fissati anno dopo anno in sede governativa ed i criteri valutativi seguiti da qualche giudice di merito.

E' noto che il massimale di legge è rimasto attestato fino allo scorso giugno sui 700 milioni per ogni soggetto leso e solo di recente è stato elevato a 1,5 miliardi per persona e per sinistro.

Se per un verso le indicazioni fornite in sede ministeriale nella determinazione di massimali di legge dovrebbero essere rappresentative della valenza economica limite di un macro-danno (non avrebbe senso prevedere un obbligo di assicurarsi per i danni più lievi, alle cose o alle persone, e lasciare scoperti proprio quei casi più gravi che, comportando esborsi ingenti, non sarebbero di regola sostenibili con il patrimonio personale di un automobilista medio); per altro verso alcuni magistrati hanno, anche di recente, mostrato di attribuire ben poca attenzione a tali indicatori, procedendo tal volta a liquidazioni pari a multipli del massimale di legge.

Qui non si vuole assolutamente dire che sia più corretta la valutazione espressa dal legislatore rispetto a quella emergente in sede di giustizia di merito (per quanto, particolare non di poco conto, il limite di rischio fissato in sede legislativa influisce direttamente sulla determinazione del premio assicurativo). Certo è che una siffatta disuguaglianza ha creato e crea problemi notevoli di buon governo per le imprese assicurative, le quali devono essere poste in condizione di formulare una ragionevole previsione dei costi del servizio assicurativo, di accedere a soluzioni transattive reciprocamente eque nel maggior numero possibile dei casi, di esprimere una riserva sinistri di esercizio non suscettibile di continui stravolgimenti come sta avvenendo anche nel presente.

* Direttore Ramo Sinistri Lloyd Adriatico Trieste

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Il discorso ci porterebbe oltre, ad interrogarci sul concetto di equità utilizzato dai magistrati, ma anche dagli operatori del diritto assicurativo; l'equità deve essere intesa in modo totalmente libero e soggettivo, vale a dire ai massimi livelli di discrezionalità, ovvero occorre stabilire una relazione tra tutti coloro che tale equità amministrano nelle varie sedi giudiziali e transattive del nostro Paese e, soprattutto, una relazione con le riserve economiche disponibili nella nostra società.

L'interrogativo assume particolare pregnanza oggi, alle soglie della liberalizzazione delle tariffe RCA, nonché del radicale mutamento del nostro sistema processuale civile, nel quale le parti in causa saranno tenute fin dalle primissime battute del giudizio a precisare con la massima trasparenza e lealtà le rispettive posizioni, e dunque l'assicuratore dovrà partecipare ad un'udienza preliminare esplicitando un'offerta risarcitoria che, se ritenuta non equa, ne determinerà la soccombenza, con tutti i pregiudizi economici conseguenti.

In altre parole l'assicuratore, che pure desidera, oltre ad esserne obbligato, adempiere all'onere di risarcire i danni, specie quelli più gravi in termini adeguati, equi e tempestivi, ha necessità di disporre di parametri di riferimento affidabili, in base ai quali, tra l'altro deve costruire il proprio fabbisogno tariffario. E di tale realtà economica e sociale ritengo debbano farsi carico tutti gli operatori del diritto infortunistico ed assicurativo, magistrati non esclusi.

Per la verità, esiste qualche recente caso nel quale la magistratura di merito ha mostrato di avere consapevolezza dell'indissolubile legame esistente tra costo dei sinistri e costo del servizio assicurativo, oltre che della necessità di evitare possibili disparità di applicazione del criterio equitativo. Così ad esempio il Tribunale di Trieste, che con sentenza del 21/5/1993 n.

556, ha espressamente affermato la necessità che la valutazione del danno, pur nel rispetto dei principi di flessibilità ribaditi dalla sentenza n. 184/86 della Corte Costituzionale, risponda ad un tempo "ad esigenze di parità di trattamento" e "di adeguamento al funzionamento di meccanismi assicurativi", essendo evidente (almeno per quel giudice relatore...) che " criteri risarcitori coerenti vanno applicati in tutti i casi di danno alla salute, anche se non causati da incidenti stradali, mentre per questi, una lievitazione dei costi comporterebbe senz'altro un aumento del premio assicurativo non sempre da tutti sopportabile".

Il problema assume particolare evidenza se si entra nello specifico dei criteri di liquidazione dei danni utilizzati nel nostro Paese, soprattutto in relazione ai danni extrapatrimoniali, che trovano in Italia un rilievo ed una dimensione preminente rispetto ai sistemi liquidativi adottati nel resto dell'Europa.

Come vedremo meglio più avanti, quanto viene corrisposto oggi in Italia a titolo di risarcimento del danno alla salute (o biologico), dei danni morali in senso stretto, dei cosiddetti danni "riflessi" costituisce di regola la quota prevalente dell'intero esborso, mentre altrove il massimo rilievo rimane attribuito alle spese di assistenza ed al lucro cessante.

In un interessante studio comparato dei criteri liquidativi adottati nei vari paesi della Comunità Europea effettuato recentemente nell'ambito della Commissione Danni Fisici della CEA (in pratica l'ANIA europea) su alcuni casi predeterminati, è emerso che ad una giovane studentessa liceale affetta da stato di coma vegetativo gli esperti dei singoli paesi membri hanno riconosciuto per danni non patrimoniali importi oscillanti tra i 90 milioni (Finlandia) ed i 230/265 (Belgio e Gran Bretagna), contro i 600 milioni indicati dal delegato italiano, di cui 400 per danno biologico e 200 per danno morale. Fa eccezione la Svizzera con circa un miliardo di indennizzo ipotizzato.

Non vi è dubbio che il nostro sia un approccio di tipo emozionale, rappresentativo di una visione "latina" dei fenomeni socio economici legati a un macro danno, che non va necessariamente ripudiata, ma di cui occorre tenere conto in ogni fase del processo attuativo del servizio assicurativo.

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Passando ora ad una sintetica rappresentazione dei criteri risarcitori usualmente assunti a base del calcolo di un macro-danno da lesioni in Italia, secondo l'insegnamento della sentenza n. 184/86 della Corte Costituzionale non si può non partire dal danno alla salute o biologico, della stessa Corte definito come "danno primario" o "danno evento".

Praticamente trascurabile la posta relativa alla lesione biologica temporanea, che finisce quasi sempre con l'essere assorbita dal danno permanente, occorre determinare l'effettiva consistenza di quest'ultimo.

Qui l'operatore incontra una prima difficoltà in quanto a tutt'oggi non è disponibile una tabella medico-legale per la valutazione del danno biologico, inteso come lesione dell'integrità psicofisica del danneggiato.

Sappiamo tutti che le tabelle oggi largamente usate - che per la verità hanno subito di recente un processo di parziale rettifica, proprio in prospettiva di un loro utilizzo per la valutazione del danno alla salute - sono state concepite per valutare ipotesi lesive affatto diverse, quelle dell'efficienza lavorativa, ancorché generica.

Il solo fatto che la cosiddetta "capacità lavorativa generica" sia stata fatta confluire dal Giudice delle Leggi nel più vasto ambito della "capacità biologica", e ne rappresenti solo una delle componenti, già denota l'inadeguatezza dello strumento oggi disponibile.

In proposito esiste oggi un certo consenso nel riconoscere che un'invalidità "biologica" del 100% non trovi quasi mai riscontro con la realtà. Tale potrebbe essere tutt'al più la condizione di un soggetto in stato di coma vegetativo, o di un tetraplegico totalmente dipendente dall'assistenza di altre persone.

Occorre allora graduare le molteplici fattispecie possibili al di sotto di tali situazioni estreme, tenendo adeguatamente conto di quanta "capacità biologica" residui, di quanto siano efficaci gli interventi riabilitativi e protesici, di quale apporto possa essere fornito dalla moderna tecnologia in termini di recupero della capacità di una vita di relazione, od anche di una residua apprezzabile attitudine al lavoro.

Quale operatore assicurativo, non particolarmente versato in problematiche squisitamente medico-legali, confesso di essermi trovato talvolta in imbarazzo nell'inquadrare correttamente il danno alla salute di casi particolari, come quello di quel giovane atleta, che pur avendo subito l'amputazione di una gamba, aveva avuto la fortuna (o la capacità?) di adattarsi così bene alla protesi che gli era stata confezionata, da continuare la propria attività sportiva agonistica al punto di essere inserito nella rappresentativa nazionale dei disabili, e di realizzare delle performances nella corsa veloce non raggiungibili dalla maggior parte dei soggetti sani. Oppure il caso di quel notaio, rimasto paralizzato agli arti inferiori per una lesione vertebrale, che aveva potuto avvalersi dei supporti tecnologici più avanzati (una casa adattata ad hoc, un'autovettura speciale ecc.) tanto da poter continuare in toto la propria attività professionale, e quasi tutte le attività relazionali pregresse.

Sicuramente i due danni restano gravissimi, ma è difficile accettare la valutazione percentuale espressa in ambito peritale, che aveva riconosciuto rispettivamente postumi biologici del 70% e dell'80%.

Abbiamo notizia del fatto che la Società Italiana di Medica Legale sta mettendo a punto una nuova tabella per la valutazione del danno biologico. Spero che tale indispensabile strumento venga reso disponibile agli operatori il più presto possibile. Nel frattempo ritengo che le tabelle oggi in uso non possano che costituire un riferimento orientativo, destinato a soffrire di frequenti rettifiche nell'adattamento ai casi concreti.

Una volta determinato l'aspetto medico-legale delle lesioni, occorre monetizzarne la menomazione conseguita. I criteri disponibili sono tre: il triplo (od altro multiplo) della pensione sociale; quello del valore a punto suggerito dalla scuola pisana cara al prof. Bargagna, oppure un giudizio impropriamente definito "secondo pura equità", cioè espresso in un unico

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importo complessivo, non legato a predeterminazioni tabellate (in effetti, non va dimenticato che tutti i criteri liquidativi utilizzati sono "equitativi", discendendo dal disposto degli artt.

1226 e 2056 del codice civile).

I riscontri giurisprudenziali sono sul punto alquanto disparati, essendosi registrate, anche in tempi recenti (ad esempio per un danno consistente in una tetraplegia in soggetto giovane, valutato intorno al 90%), liquidazioni oscillanti tra i 150 ed i 750 milioni, rispettivamente di un tribunale meridionale e di uno del nord, per la precisione quello di Treviso.

Vengono successivamente in esame il danno economico da lucro cessante temporaneo e permanente. Qui non dovrebbero sorgere problemi particolari, in quanto - come è ovvio - i macro-danni hanno quasi sempre pesanti e riconoscibili effetti sulla capacità reddituale del soggetto leso. La mia impressione di operatore è nel senso di una certa superficialità di approccio al problema, anche da parte di qualche giudice, che a volte dà ingresso a risarcimenti non giustificati, ed altre volte perviene ad una sottostima del danno reale, o ricorrendo troppo semplicisticamente alla "fictio" reddituale del triplo della pensione sociale per soggetti non ancora produttori di reddito, ovvero non dando adeguato peso alle prospettive di carriera e di progresso reddituale di un soggetto all'inizio della propria attività lavorativa.

Altro danno conseguenza è il danno morale che la Corte Costituzionale ha circoscritto al cosiddetto "danno morale subiettivo", essendo l'altro, quello obiettivo e non transeunte, definitivamente riconosciuto come danno alla salute.

E' importante notare come tale danno, noto nel nostro ordinamento come "pena privata", strettamente connessa ad un fatto reato, abbia progressivamente finito con il perdere i propri connotati originari che lo vedevano fortemente rapportato ai cosiddetti danni conseguenza, cioè quelli che, a differenza di quello biologico, sono eventuali e richiedono un valido sostegno probatorio.In primo luogo all'intensità del reato, mentre oggi rimane commisurato unicamente alla gravità del danno.

Come sappiamo, il progetto di riforma della responsabilità civile automobilistica prevede il definitivo sganciamento del fatto reato (e qui sembrano fondate le obiezioni di coloro che lamentano un'ingiustificata differenziazione con le restanti situazioni di danni da responsabilità aquiliana).

Probabilmente, se tale innovazione avesse trovato realizzazione qualche anno fa, molti problemi sarebbero stati risolti a monte e forse non avremmo avuto la pur illuminante sentenza n. 184 della Corte Costituzionale.

Anche nel danno morale le valutazioni espresse in magistratura sono assai varie, per lo più fissate in un importo valutato "secondo pura equità, oscillante tra i 100/150 milioni ed i 500 milioni rilevati nei casi più gravi.

Da notare che qualche ordinamento comunitario (ad esempio quello britannico) attribuisce importanza determinante allo stato di coscienza e di consapevolezza del soggetto leso, mancando il quale l'indennizzo viene fortemente ridotto. Tale principio non trova adesione nella giurisprudenza e nella dottrina del nostro Paese se non in situazioni del tutto sporadiche.

Rimane da ultimo la questione delle spese di cura, di assistenza e di supporto logistico del soggetto leso.

Qui le situazioni sono le più varie, essendo intimamente legate alla peculiarità della lesione, alla personalità e natura del soggetto leso, alla situazione familiare ed ambientale, alla disponibilità in loco di centro specializzati di assistenza e di riabilitazione.

Si va dalle spese per l'adattamento dell'abitazione a quelle protesiche, a quelle per l'acquisto di mezzi speciali (dalla carrozzella all'autovettura speciale predisposta, ecc.) alle spese per l'assistenza personale, a quelle di terapia, di riabilitazione e recupero dell'infortunato.

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Le spese di assistenza personale determinano a volte qualche problema, sia perché non è facile valutarne con esattezza l'effettiva necessità in termini di durata nell'arco della giornata e di distinzione tra assistenza generica e specialistica, sia perché può riuscire difficile acquisirne adeguato supporto probatorio.

Ed allora l'operatore, e lo stesso magistrato, debbono fare ricorso a non sempre scontati parametri di giudizio, e si corre il rischio di procedere a liquidazioni eccessivamente forfetizzate e non rispondenti alle reali necessità, ovvero all'opposto ad inaccettabili esagerazioni, come quella compiuta dal già citato tribunale di Treviso che ha ritenuto di assegnare ad un soggetto per la verità gravemente invalido ed impedito, un importo annuo di 50 milioni di lire per 40 anni di probabile futura sopravvivenza, che, semplicemente moltiplicati (con buona pace delle basilari regole di capitalizzazione), hanno dato luogo ad una liquidazione di 2 miliardi di lire (!). Il tutto, tra l'altro, gravato da interessi legali dall'evento, cioè su somme ancora ben lungi dall'essere state spese (la sentenza è del 16 dicembre 1993 e porta il n. 69/94).

Un altro problema sorge talora dalla necessità per i familiari dell'infortunato di fare fronte a spese di cura e riabilitazione specializzate sostenute all'estero.

Tali spese, normalmente assai elevate, che si sommano ad ulteriori oneri quali le spese di viaggio e di soggiorno per un accompagnatore, dovrebbero venire sostenute dal Servizio Sanitario Nazionale, il quale non sempre è sollecito nel fare fronte alle richieste e non sempre, nelle singole realtà territoriali, vigono i medesimi criteri di concedibilità che dipendono dagli organismi regionali in sede consultiva. Accade infatti qualche volta che vengano sollevate eccezioni sia in ordine alle condizioni soggettive dell'infortunato, sia con riguardo alla reperibilità di analoghe prestazioni nell'ambito delle strutture sanitarie nazionali.

A me pare davvero arduo sostenere sul piano della sensibilità umana siffatti argomenti, ed ostacolare il cosiddetto "cammino della speranza" nel quale si avviano le famiglie degli sfortunati così duramente colpiti. Tra l'altro, non credo si possa neppure sostenere con convinzione che le nostre strutture sanitarie siano sempre in grado di competere con quelle di altri paesi europei, sia per livello tecnico-scientifico, sia per qualità e tempestività della prestazione.

Probabilmente sarebbe necessario un riesame legislativo della materia, senza che sia trascurato, tra l'altro, che grava già sull'assicuratore privato, e dunque sulla collettività, un non trascurabile onere finanziario in favore del Servizio Sanitario Nazionale, che si sostanzia in un contributo annuo pari al 6,5% del fatturato del comparto auto.

Resterebbe da dire qualche cosa, anzi, più di qualche cosa, su una uova figura di danno che sta prendendo piede in questi ultimi tempi, quella del cosiddetto "danno alla serenità familiare", o "danno riflesso", o "danno di rimbalzo", che è in sostanza il danno che si ripercuote sui familiari del soggetto macro-leso in termini di sofferenza morale, di sconvolgimento del ménage domestico, talvolta anche di quello lavorativo.

Tale istituto, inizialmente avversato in quanto espressione di danno indiretto, e dunque non risarcibile, ha subito di recente un ripensamento da parte della magistratura, ed ha nel contempo avuto dignità di espressa previsione nel disagio legge di riforma della RCA.

Non posso astenermi tuttavia dall'esprimere assenso per l'ingresso di tale istituto nel nostro sistema risarcitorio, sulla scorta di quanto è già avvenuto in altri ordinamenti europei, come la Svizzera ed il Belgio.

Credo comunque che su questo problema si potrà avere un significativo contributo anche da parte della Corte Costituzionale, ancorché su di un versante analogo, quello del danno riflesso in caso di uccisione, del quale il Giudice delle Leggi è stato di recente investito.

Un'ultima riflessione la vorrei dedicare ad un problema a mio avviso a tutt'oggi poco considerato da tutti gli operatori nonostante la sua indubbia importanza pratica: quello del pagamento dei macro-danni in forma di rendita.

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Sappiamo, attraverso l'esperienza di tutti i giorni, quanto sia difficile procedere ad una rapida definizione di un danno grave, sia per l'oggettiva complessità dello stesso, sia per i tempi lunghi occorrenti per una corretta valutazione medico-legale a caso stabilizzato, sia perché sono spesso gli stessi aventi diritto nell'imbarazzo per una sollecita conclusione transattiva della vicenda.

A ciò vorrei aggiungere che non sempre la corresponsione di un'ingente somma in forma capitalizzata, nell'ordine di svariate centinaia di milioni, ai congiunti dell'infortunato sembra il modo più idoneo e più corretto per assicurare a quest'ultimo una copertura finanziaria adeguata per le necessità di tutta la vita.

Gli operatori sanno che non di rado la disponibilità di somme così ingenti ha finito con lo sconvolgere il pregresso equilibrio socio-economico della famiglia e che qualche volta una parte più o meno grande del quantum risarcitorio ha finito con l'essere dissipata in investimenti poco opportuni di cui il soggetto leso ha tratto poco o nessun beneficio.

Né può soccorrere sempre l'intervento del Giudice Tutelare, perché non sempre il soggetto leso perde in toto la capacità di intendere e di volere e non ricorrono i presupposti per l'interdizione o l'inabilitazione legale.

In questa prospettiva, il ricorso al pagamento mediante rendita, espressamente previsto dal progetto di riforma RCA, ma esistente già oggi nel nostro ordinamento, mediante l'articolo 2057 del codice civile (oltre che in altri ordinamenti comunitari, come la Norvegia che lo utilizza in via generale ed il Belgio che lo prevede in alternativa al pagamento capitalizzato), consentirebbe da una parte all'assicuratore di essere molto più sollecito nel dare avvio al pagamento, dall’altra garantirebbe un più corretto utilizzo delle somme corrisposte in favore dell'infortunato.

Tra l'altro un pagamento rateizzato, magari in forma provvisoria, salvo conversione in forma definitiva anche nella struttura mista capitale/rendita, al completamento di tutte le necessarie incombenze istruttorie, consentirebbe la realizzazione dell'obbligo, previsto dal legislatore nel progetto di riforma RCA, di procedere al pagamento entro brevissimo tempo dall'accadimento del fatto, che diversamente rimarrebbe mera utopia.

E' probabile che un rilevante contributo alla soluzione del problema possa essere dato anche dall'imminente modifica delle norme disciplinanti il comparto delle polizze vite, attraverso le quali oggi risulta problematico operare, per i rigidi schemi attuativi in vigore e per il rilevante peso fiscale gravante sui ratei di rendita.

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