II. L’ultima Thule
La storia del tempo libero è la parte più importante della nostra vita (Diderot)
La storia del tempo libero è la storia della giornata lavorativa. « Ma, che cos’è una giornata lavorativa? », si domandava Karl Marx, e rispondeva: « In ogni caso, è meno di un giorno naturale di vita. Quanto meno? Il capitalista ha sua opinione su questa ultima Thule che è il limite necessario della giornata lavorativa »
1Un’opinione sull’ultima Thule l’hanno, per fortuna, anche i lavoratori. Per loro l’estrema terra visitata da Pitea nel IV secolo a.C., Groenlandia o Islanda che fosse, è stata superata da tempi antichissimi e, seppure la sua distanza è stata ridotta nei secoli, è sempre troppo lontana, è la distanza tra il lavoro e l’avvenire.
Per saldare la distanza tra l’operaio e l’avvenire togli ogni giorno un’ora di lavoro,
guadagna tempo per la felicità.
Il turno per l’eternità è una fila di lunghe ore,
cantavano i falegnami americani agli inizi del XIX secolo. I lavoratori e i capitalisti hanno opinioni fortemente divergenti a proposito del limite necessario della giornata lavorativa Per il padrone il tempo libero consumato dall’operaio è tempo rubato
2. Per l’operaio è tempo rubato invece il tempo di lavoro alienato al padrone. Per il capitalista è del tutto naturale quest’idea del lavoro altrui come sua proprietà privata. « Come capitalista, egli è soltanto capitale personificato. La sua anima è l’anima del capitale. Ma il capitale ha un unico istinto vitale, l’istinto cioè di valorizzarsi, di creare plusvalore, di assorbire con la sua parte costante, che sono i mezzi di produzione, la massa di pluslavoro più grande possibile. Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo, e più vive quanto più ne succhia. Il tempo durante il quale l’operaio lavora è il tempo durante il quale il capitale consuma la forza-lavoro che ha comprato. Se l’operaio consuma per se stesso il proprio tempo disponibile, egli deruba il capitalista. »
3Non bisogna credere però che sia stato il capitale a inventare il pluslavoro. « Ovunque una
parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o
schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento tempo di lavoro
eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione, sia
questo proprietario un nobile ateniese, teocrate etrusco, civis romanus, barone normanno,
negriero americano, boiardo valacco, proprietario agrario moderno, o capitalista
4.Tuttavia Marx distingue tra le formazioni economiche più primitive, nelle quali è preponderante non il valore di scambio ma il valore d’uso del prodotto, e quelle più evolute. Nelle prime infatti il pluslavoro è limitato da una cerchia di bisogni più o meno ampi, ma non sorge dal carattere stesso della produzione nessun bisogno illimitato di pluslavoro. Per questo motivo, « nell’
antichità il sovraccarico di lavoro si mostra spaventoso dove si tratta di ottenere il valore di scambio nel sua forma indipendente di moneta, cioè nella produzione di oro e di argento. Qui la forma ufficiale del sovraccarico di lavoro è il lavorare coatti fino a morirne»
5. Basta leggere, continua Marx, Diodoro Siculo, lo storico greco vissuto ai tempi di Cesare, nella cui Biblioteca storica la descrizione delle condizioni di lavoro nelle miniere d’oro d’Egitto, d’Etiopia e d’Arabia è agghiacciante: «E poiché a nessuno d’essi [lavoratori ] è permesso di fare quanto per l’esigenza del corpo vorrebbesi, a modo che nemmeno hanno fascia, ed altro, che copra le parti che ognuno vorrebbe nascoste, facile cosa concepire quale acuto senso di pietà debbano fare gli infelici a chiunque veda l’estrema calamità in cui sono. Né a chi tra essi sia ammalato o mutilato, si accorda venia, o remissione di sorte; né in nessun caso scusa l’età senile, o la femminil debolezza; e tutti vengono spinti a tirar innanzi il lavoro a furia di flagello, finché oppressi dalla enormità dei mali, spirino sotto la fatica»
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È questa forse la prima « corrispondenza » dal passato sulla schiavitù totale del lavoro. E sembra lontanissima nel tempo, per quanto sul nostro pianeta anche oggi non siano scomparse del tutto forme antiche e moderne di questa rapina umana.
Lavoro schiavistico, corvée legata alla servitù della gleba manifatture primitive, manifatture specializzate: via via che dal lavoro umano non si tratta più soltanto di trarre una certa massa di prodotti utili, ma diventa interesse preponderante la vendita all’estero dei prodotti, sugli orrori dello sfruttamento barbarico si innesta l’orrore civilizzato del sovraccarico del lavoro, dice Marx. Cosi, ad esempio, negli Stati meridionali dell'Unione americana, il lavoro dei negri conservò un carattere patriarcale moderato fino a quando l’esportazione del cotone divenne interesse vitale di quegli Stati: allora il consumo della vita del negro, in soli sette anni, divenne fattore di un sistema calcolato e calcolatore, di una spietatezza pari a quella riscontrata da Diodoro Siculo nelle miniere egiziane.
La giornata lavorativa non è stata mai una grandezza costante, insomma, ma una grandezza variabile, che si muove entro limiti fisici, sociali e morali, diversissimi nelle diverse condizioni. A norma del Réglement organique, ossia del codice della corvée proclamato dal generale russo Kisselev nel 1831, per esempio, la giornata lavorativa non viene intesa nel suo senso ordinario, ma come « giornata lavorativa necessaria a fornire un prodotto medio giornaliero; però il prodotto giornaliero è astutamente determinato in modo che neppure un ciclope ne verrebbe a capo in ventiquattro ore ». Non si tratta più di uso, ma di depredamento della forza-lavoro.
Due cose molto diverse, come faceva notare nel 1860, il comitato di sciopero dei London
Builders in una dichiarazione pubblicata durante la lotta per la riduzione della giornata
lavorativa a nove ore. Ben presto infatti gli operai più avanzati si resero conto che tra l’uso e il
depredamento della forza-lavoro, tra la quantità di lavoro necessaria alla riproduzione della
propria forza-lavoro e la quantità di lavoro erogata, la differenza era grande e che il contrasto
era nelle cose, cioè nel sistema, nei rapporti di produzione. Per questo cominciarono ad
amministrare il loro unico patrimonio, la forza-lavoro, afferrmando contro l’avidità del
compratore il loro diritto di venditori a limitare la giornata lavorativa a una grandezza normale determinata. « Diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci.
Fra diritti uguali decide la forza. Cosi nella storia della produzione capitalistica la regola della giornata lavorativa si presenta come lotta per i limiti della giornata lavorativa, lotta tra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio collettivo, cioè la classe operaia. »
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