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II. L ultima Thule. La storia del tempo libero è la parte più importante della nostra vita (Diderot)

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II. L’ultima Thule

La storia del tempo libero è la parte più importante della nostra vita (Diderot)

La storia del tempo libero è la storia della giornata lavorativa. « Ma, che cos’è una giornata lavorativa? », si domandava Karl Marx, e rispondeva: « In ogni caso, è meno di un giorno naturale di vita. Quanto meno? Il capitalista ha sua opinione su questa ultima Thule che è il limite necessario della giornata lavorativa »

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Un’opinione sull’ultima Thule l’hanno, per fortuna, anche i lavoratori. Per loro l’estrema terra visitata da Pitea nel IV secolo a.C., Groenlandia o Islanda che fosse, è stata superata da tempi antichissimi e, seppure la sua distanza è stata ridotta nei secoli, è sempre troppo lontana, è la distanza tra il lavoro e l’avvenire.

Per saldare la distanza tra l’operaio e l’avvenire togli ogni giorno un’ora di lavoro,

guadagna tempo per la felicità.

Il turno per l’eternità è una fila di lunghe ore,

cantavano i falegnami americani agli inizi del XIX secolo. I lavoratori e i capitalisti hanno opinioni fortemente divergenti a proposito del limite necessario della giornata lavorativa Per il padrone il tempo libero consumato dall’operaio è tempo rubato

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. Per l’operaio è tempo rubato invece il tempo di lavoro alienato al padrone. Per il capitalista è del tutto naturale quest’idea del lavoro altrui come sua proprietà privata. « Come capitalista, egli è soltanto capitale personificato. La sua anima è l’anima del capitale. Ma il capitale ha un unico istinto vitale, l’istinto cioè di valorizzarsi, di creare plusvalore, di assorbire con la sua parte costante, che sono i mezzi di produzione, la massa di pluslavoro più grande possibile. Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo, e più vive quanto più ne succhia. Il tempo durante il quale l’operaio lavora è il tempo durante il quale il capitale consuma la forza-lavoro che ha comprato. Se l’operaio consuma per se stesso il proprio tempo disponibile, egli deruba il capitalista. »

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Non bisogna credere però che sia stato il capitale a inventare il pluslavoro. « Ovunque una

parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o

schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento tempo di lavoro

eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione, sia

questo proprietario un nobile ateniese, teocrate etrusco, civis romanus, barone normanno,

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negriero americano, boiardo valacco, proprietario agrario moderno, o capitalista

4.

Tuttavia Marx distingue tra le formazioni economiche più primitive, nelle quali è preponderante non il valore di scambio ma il valore d’uso del prodotto, e quelle più evolute. Nelle prime infatti il pluslavoro è limitato da una cerchia di bisogni più o meno ampi, ma non sorge dal carattere stesso della produzione nessun bisogno illimitato di pluslavoro. Per questo motivo, « nell’

antichità il sovraccarico di lavoro si mostra spaventoso dove si tratta di ottenere il valore di scambio nel sua forma indipendente di moneta, cioè nella produzione di oro e di argento. Qui la forma ufficiale del sovraccarico di lavoro è il lavorare coatti fino a morirne»

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. Basta leggere, continua Marx, Diodoro Siculo, lo storico greco vissuto ai tempi di Cesare, nella cui Biblioteca storica la descrizione delle condizioni di lavoro nelle miniere d’oro d’Egitto, d’Etiopia e d’Arabia è agghiacciante: «E poiché a nessuno d’essi [lavoratori ] è permesso di fare quanto per l’esigenza del corpo vorrebbesi, a modo che nemmeno hanno fascia, ed altro, che copra le parti che ognuno vorrebbe nascoste, facile cosa concepire quale acuto senso di pietà debbano fare gli infelici a chiunque veda l’estrema calamità in cui sono. Né a chi tra essi sia ammalato o mutilato, si accorda venia, o remissione di sorte; né in nessun caso scusa l’età senile, o la femminil debolezza; e tutti vengono spinti a tirar innanzi il lavoro a furia di flagello, finché oppressi dalla enormità dei mali, spirino sotto la fatica»

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.

È questa forse la prima « corrispondenza » dal passato sulla schiavitù totale del lavoro. E sembra lontanissima nel tempo, per quanto sul nostro pianeta anche oggi non siano scomparse del tutto forme antiche e moderne di questa rapina umana.

Lavoro schiavistico, corvée legata alla servitù della gleba manifatture primitive, manifatture specializzate: via via che dal lavoro umano non si tratta più soltanto di trarre una certa massa di prodotti utili, ma diventa interesse preponderante la vendita all’estero dei prodotti, sugli orrori dello sfruttamento barbarico si innesta l’orrore civilizzato del sovraccarico del lavoro, dice Marx. Cosi, ad esempio, negli Stati meridionali dell'Unione americana, il lavoro dei negri conservò un carattere patriarcale moderato fino a quando l’esportazione del cotone divenne interesse vitale di quegli Stati: allora il consumo della vita del negro, in soli sette anni, divenne fattore di un sistema calcolato e calcolatore, di una spietatezza pari a quella riscontrata da Diodoro Siculo nelle miniere egiziane.

La giornata lavorativa non è stata mai una grandezza costante, insomma, ma una grandezza variabile, che si muove entro limiti fisici, sociali e morali, diversissimi nelle diverse condizioni. A norma del Réglement organique, ossia del codice della corvée proclamato dal generale russo Kisselev nel 1831, per esempio, la giornata lavorativa non viene intesa nel suo senso ordinario, ma come « giornata lavorativa necessaria a fornire un prodotto medio giornaliero; però il prodotto giornaliero è astutamente determinato in modo che neppure un ciclope ne verrebbe a capo in ventiquattro ore ». Non si tratta più di uso, ma di depredamento della forza-lavoro.

Due cose molto diverse, come faceva notare nel 1860, il comitato di sciopero dei London

Builders in una dichiarazione pubblicata durante la lotta per la riduzione della giornata

lavorativa a nove ore. Ben presto infatti gli operai più avanzati si resero conto che tra l’uso e il

depredamento della forza-lavoro, tra la quantità di lavoro necessaria alla riproduzione della

propria forza-lavoro e la quantità di lavoro erogata, la differenza era grande e che il contrasto

era nelle cose, cioè nel sistema, nei rapporti di produzione. Per questo cominciarono ad

amministrare il loro unico patrimonio, la forza-lavoro, afferrmando contro l’avidità del

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compratore il loro diritto di venditori a limitare la giornata lavorativa a una grandezza normale determinata. « Diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci.

Fra diritti uguali decide la forza. Cosi nella storia della produzione capitalistica la regola della giornata lavorativa si presenta come lotta per i limiti della giornata lavorativa, lotta tra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio collettivo, cioè la classe operaia. »

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Ma a questa consapevolezza dello sfruttamento si giunse lentamente, attraverso lunghe e tragiche esperienze, con la rivoluzione industriale, l’urbanismo e le prime forme di associazionismo operaio moderno nei primi decenni del secolo XIX. Prima della nascita del movimento operaio, per millenni e secoli, la giornata lavorativa non conobbe regolamentazione che non fossero quelle fissate dalle consuetudini o dal capriccio dei potenti.

Le cronache dei secoli passati, quando dedicavano note frettolose alle condizioni di lavoro, parlavano di alba- tramonto, di interruzioni nelle ore più calde del giorno nel mese di agosto, di sospensioni per le pratiche pie, senza precisare mai la loro misura. La prima legislazione del lavoro che si possa ragguagliare a quelle moderne risale forse al 1630 ed è registrata nei polverosi archivi giuridici del Massachusetts in America. Allora, per regolare le prestazioni dei lavoratori liberi, le autorità coloniali stabilirono per legge i massimi salariali, proibirono i cambiamenti di occupazione e prescrissero distinzioni nel vestire e nelle abitudini sociali tra le varie classi « per tenere le categorie inferiori in una condizione suboordinata ». La Corte generale del Massachusetts tentò di applicare i massimi salariali di due scellini al giorno per i falegnami, i carpentieri, i muratori, i segatori, gli impagliatori e altri artigiani e di 18 pence al giorno per i giornalieri, con la prescrizione che « tutti i lavoratori lavoreranno l’intera giornata, tolto un tempo conveniente per i pasti e il riposo ». Quarant’anni più tardi, un’altra legge riconfermò le medie salariali generali precisando più specificamente che la giornata lavorativa doveva essere « di dieci ore quotidiane, a parte i pasti ». Ed era una buona giornata lavorativa, se si pensa che in molti paesi europei dovettero passare due secoli perché si riducesse la giornata lavorativa a dieci ore.

La fissazione della giornata lavorativa normale è quindi il risultato di una lotta plurisecolare tra

il capitalista e l'operaio una lotta che mostra due correnti contrapposte. Per tutto un lungo

periodo, durato secoli, qualsiasi legislazione sul lavoro palesa la tendenza ad allungare la

giornata lavorativa, coercitivamente, mentre le prime legislazioni moderne l’accorciano. Per

questo abbiamo detto che la prima legislazione del lavoro che si possa ragguagliare a quelle

moderne risale al 1630. Basta tornare tre secoli addietro e ritrovare infatti monumenti di

legislazione del lavoro improntati a tutt’altra esigenza. Il primo Statute of labourers

(ventitreesimo anno del regno Edoardo III, 1349) fissava gli orari per tutti gli artigiani e lavoranti

agricoli, nel periodo da marzo a settembre, dalle cinque di mattina fin verso le sette e le otto di

sera, con un’ora di riposo per la prima colazione, un’ora e mezza per il pasto di mezzogiorno, e

mezz’ora per il pasto delle quattro

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(tutto sommato, il doppio del tempo rimasto libero al

lavoratore cinque secoli dopo nella stessa Inghilterra). Si era appena spenta la peste, che aveva

decimato la popolazione, e Edoardo III era stato costretto a quello statuto perché « la difficoltà

di far lavorare operai a prezzi ragionevoli era divenuta di fatto intollerabile ». Ma la verità è che

ci vollero secoli perchè il libero lavoratore si adattasse « volontariamente in conseguenza dello

sviluppo del modo capitalistico di produzione cioè sia socialmente costretto a vendere per il

prezzo dei suoi mezzi di sussistenza abituali l’intero suo periodo attivo di vita anzi, la sua

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capacità stessa di lavoro, sia costretto a vendere la sua primogenitura per un piatto di lenticchie»

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Prima di assicurarsi una quantità sufficiente di pluslavoro, mediante la pura e semplice forza dei rapporti economici, il capitale fu quindi costretto a ricorrere, nel suo stato embrionale, all’ausilio dello Stato, e, per la verità, le sue pretese furono assai modeste in principio, osserva sempre Marx, di fronte alle concessioni cui sarebbe stato costretto, ringhiando e resistendo in età adulta. Nella prima fase di sviluppo del capitale, la tendenza e il bisogno fondamentali furono quelli di appropriarsi il lavoro durante tutte le ventiquattr’ore del giorno. Secondo la logica e l’istinto immanenti del capitale, l’operaio, durante tutto il tempo della sua vita, non è altro che forza-lavoro e perciò tutto il suo tempo disponibile è, per natura e diritto, tempo di lavoro che appartiene alla valorizzazione del capitale. Ma si dovette arrivare alla fine del secolo XVllI perché il capitale riuscisse ad appropriarsi l'intera settimana, dell’operaio mediante il pagamento del valore settimanale della forza-lavoro. I lavoratori agricoli sfuggivano ancora alla norma, e ai capitalisti sembrava assurdo che questi potessero vivere una settimana intera col risultato di soli quattro giorni lavoro. Scoppiarono anzi polemiche vivacissime, e l’opinione pubblica si appassionò al problema. Il Postlethwayt ne riassunse il senso in una vivacissima difesa degli operai e del loro diritto a resistere alla tendenza che voleva ottenere il loro sfruttamento totale: « [È un] modo di dire corrente in bocca a troppe persone che se il lavoratore (industrious poor) può ottenere in cinque giornate tanto che gli basti per vivere non vuol lavorare sei intere giornate. Di qui essi concludono che è necessario rincarare anche i mezzi di sussistenza più necessari, per mezzo di imposte o con qualsiasi altro mezzo per costringere l’artigiano e l’operaio della manifattura a lavoro ininterrotto di sei giornate alla settimana. Sono costretto a chiedere il permesso di essere di opinione differente da quella di questi grandi politici, che lottano per la schiavitù perpetua della popolazione lavoratrice di questo regno;essi dimenticano il proverbio "all work and no play"(solo lavoro e niente giochi)»

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. Al Postlethwayt replicava, con incredibili argomenti, purtroppo diventati in seguito luoghi comuni della pubblica opinione più conformista, l’anonimo autore di un famoso Essay on trade and commerce: « Se vien ritenuto istituzione divina solennizzare il settimo giorno della settimana ciò implica che gli altri giorni appartengono al lavoro, e non si può biasimare come cosa crudele costringere alla osservanza di questo comandamento di Dio... Che l’umanità inclini per natura all’agio e all’indolenza, ne facciamo funesta esperienza nella condotta della nostra plebe delle manifatture, che in media non lavora più di quattro giornate alla settimana, fuorchè nel caso di un rincaro dei mezzi di sussistenza...

Un lavoro moderato per sei giorni alla settimana non è una schiavitù....

bisogna che i nostri poveri dell’industria si acconcino a lavorare sei giornate per la stessa somma che ora guadagnano in quattro giornate! »

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.

C’erano voluti secoli per arrivare a questo, al punto più alto dello sfruttamento dell’uomo,

per arrivare cioè a prolungare la giornata lavorativa fino ai suoi limiti massimi normali e poi,

oltre questi, ai limiti della « giornata naturale » di dodici ore! Ma, al culmine della parabola, la

tendenza padronale si scontrò con la forza contrastante dei lavoratori e al gìorno d’oggi la

pretesa dell’anonimo autore di An essay on trade and commerce viene rovesciata: i lavoratori

esigono di conservare il salario di sei giorni e di lavorarne quattro e si instaura cosi una

tendenza nuova nella storia: la battaglia per la conquista del tempo prende tutt’altra

direzione. Un’altra cultura, un'altra concezione della vita si profilano all’orizzonte della

coscienza umana! Per molto tempo comunque la tendenza fu quella dell’avversario di

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Postlethwayt: bassi salari e molte ore di lavoro: sono sempre stati questi gli ideali delle società presocialistiche. Anche nel 1630, d’altro canto, nel progredito Massachusetts era chiara e dichiarata intenzióne della magnanima Corte generale di aiutare i datori di lavoro a trattenere i lavoratori al loro posto come misura di pubblica utilità. «Il costo eccessivo del lavoro eseguito da artieri, manovali e servi era considerato causa di molte conseguenze spiacevoli agli occhi puritani dei fondatori della Nuova Inghilterra « Il ricavato — essi dichiararono — è da molti speso soltanto per mantenere eleganze assolutamente sconvenienti alle loro categorie e condizioni e per condurre una vita oziosa; una gran parte di questi guadagni finisce nelle taverne e nelle rivendite di birra e mantiene altre abitudini peccaminose con grande dispiacere di Dio, scandalo della religione e grande offesa e dispiacere della gente sobria e timorata di Dio. »

Anche allora, come oggi (con la «bramosia di piacere degli operai e le loro peccaminose lambrette

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), l’economia e la moraile camminavano a braccetto. Un secolo dopo, nella Vecchia Inghilterra, la moraletta della Nuova Inghilterra veniva ripetuta con gli stessi accenti: « Un’ora di lavoro perduta ogni giorno è un danno straordinario per uno Stato commerciale [...], grandissimo è il consumo dei beni di lusso fra i lavoratori poveri di questo regno:

particolarmente fra la plebe manifatturiera; ma cosi consumano anche il loro tempo, il più fatale dei consumi»

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.

Comunque, per difendere il loro diritto di consumare liberamente almeno una parte del loro tempo umano, i Iavoratori continuarono a battersi, in forme via via più organizzate, a seconda anche delle condizioni di lavoro, della graduale concentrazione della manodopera in sale comuni sempre più grandi in vasti fabbricati. Le prime agitazioni per il tempo Iibero si mescolarono con quelle promosse per le rivendicazioni salariali. Per lungo tempo, d’altra parte, la necessità di un lavoro purchessia, di qualunque durata, sovrastò qualsiasi altra esigenza. Le occupazioni fondamentali erano agricole e, forse, non era neppure formulabile una contrapposizione tra tempo di lavoro e tempo di libertà, come categorie temporali, sociali e culturali. Il problema e l’ideologia del tempo libero si può dire che siano apparsi con il fenomeno dell’urbanizzazione strettamente legato al macchinismo industriale, a cavallo tra il secolo XVIII e il secolo XIX. Prima di questo periodo il tempo libero spesso si confondeva con il tempo in cui per morivi stagionali o per mancanza di un’occupazione costante, non si lavorava, ed era, si può dire, imposto temporaneamente dal ritmo delle feste liturgiche e religiose, dalle ricorrenze tradizionali, dalle cerimonie rituali collegate a determinati lavori agricoli. Il ritmo dell’esistenza era d’altronde ben diverso da quello che regola le nostre ansiose giornate e i loisirs, i piaceri stessi del tempo libero, erano regolati da una concezione della vita che ha pochi punti di contatto con il nostro modo di concepire i loisirs dell'attuale civiltà industriale. La vita delle masse era lenta e collettiva quanto oggi è frettolosa e atomizzata, e il tempo era una dimensione unitaria, misurata da scadenze naturali (si pensi soltanto ai mutamenti provocati (nella vita moderna dall’illuminazione elettrica e dalla sostituzione delle candele e delle lampade a combustibile). Poco organizzati, i lavoratori si preoccupavano soprattutto dell’ alimentazione per le loro famiglie e non già di reclamare una riduzione dell'orario di lavoro, quand’anche durasse dall’alba al tramonto. Primum vivere...

Importanti agitazioni operaie per la riduzione delle ore di lavoro si ebbero comunque, in Europa e

nel nuovo continente, anche prima di quella data del 1830 alla quale molti sociologi fanno risalire

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l’apparizione del problema dei loisirs

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. Nella storia del movimento operaio americano, la prima azione per il tempo libero venne organizzata a Filadelfia nel 1791. Le cronache da circa vent’anni registravano proteste, movimenti, agitazioni di categorie diverse di lavoratori: i carretti e i sarti di New York, i barbieri di Boston, i marinai e i tipografi di Filadelfia, i calzolai di numerose città avevano promosso i primi scioperi contro i moderni datori di lavoro. A Filadelfia infine esplose tra lavoranti e mastri carpentieri un conflitto covato a lungo. I muratori dichiararono che i loro padroni stavano tentando di ridurre i salari «a un livello anche più basso di sei dollari alla settimana, con tutti i mezzi che l'avarizia può suggerire » e richiesero specificamente una riduzione dell’orario di lavoro e il pagamento del lavoro straordinario lamentando aspramente di essere stati sino ad allora « obbligati a faticare per l’intero corso delle più lunghe giornate estive, in molti casi senza nemmeno la consolazione di sentire il lavoro addolcito dalla tonificante speranza di una ricompensa immediata ». Le cronache non dànno però notizia dell’esito dell'agitazione. Non erano certo generose di spazio e di attenzione per le prime vertenze sindacali (anche adesso, del resto la stampa padronale cerca di parlare il meno possibile del movimento operaio).

In Europa le prime importanti agitazioni per l’orario di lavoro riguardano la Germania. Il carattere di questi movimenti è però alquanto diverso da quello riscontrato in America, dove la lotta di classe non era soffocata da tradizioni statali antichissime, e qualche volta primitive, come nel cuore dell’Europa. In Germania non furono i padroni in prima persona a battersi contro i diritti dei lavoratori, ma Io Stato. Nel 1783 infatti un editto prussiano vietò l’usanza del « lunedi blu », molto diffusa tra le corporazioni di mestiere che consideravano il lunedi, oltre la domenica, come giorno di riposo (qualcosa insomma come il sabato inglese, o come il nostro « lunedi dei barbieri »). L’editto, severissimo, descriveva il «lunedi blu » come un grave danno perché privava Io Stato di due mesi di lavoro l’anno. Per questa ragione stabiliva che gli apprendisti che non lavoravano il lunedi dovessero essere puniti con otto giorni di prigione la prima volta, con quattordici giorni la seconda e con quattro settimane la terza, mentre gli operai tradizionali venivano esclusi dalla loro corporazione. Passerà molto tempo prima che i lavoratori tedeschi organizzino una vera e propria agitazione sindacale per la riduzione dell'orario di lavoro. In America invece il processo fu più rapido e già nel 1799 le organizzazioni dei calzolai di Filadelfia e dei lavoranti tipografi di New York cominciarono a organizzare tutta una serie di agitazioni che riguardavano salari e tempo libero, unendo sempre la prima alla seconda rivendicazione. Due anni più tardi a New York venne fondata una società di Joumeymen Cabinet Makers la quale fece pubblicare sui giornali un listino completo delle tariffe salariali con la precisazione che i lavoranti seggiolai « avrebbero lavorato solo dieci ore al giorno;

candele a carico dei datori di lavoro ».

Erano i primi tentativi di organizzazione sindacale che indicavano la strada verso quella più vasta

espansione delle « società di mestiere » che accompagnò lo sviluppo del capitalismo. Le botteghe per le

lavorazioni al dettaglio e su ordinazione cedevano gradualmente il passo agli affari all'ingrosso: i vecchi

tranquilli rapporti tra mastro e lavorante si logoravano e tendevano a inasprirsi. Mestiere per mestiere, i

lavoratori americani seguivano l’esempio dei calzolai, dei tipografi e dei muratori e si organizzavano in

società che, pur avendo spesso le caratteristiche delle associazioni di mutuo soccorso, avevano come

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scopo principale quello di salvaguardare i loro interessi contro « gli artifici e gli intrighi » dei datori di lavoro, a garantirsi un salario migliore e una giornata di lavoro meno lunga, a contrastare la tendenza dei padroni a prolungare giornata lavorativa e ad applicare su larga scala il sistema dello sweat shop, cioè della

"bottega del sudore "

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.

Le caratteristiche delle prime associazioni di mestiere americane si ritrovavano contemporaneamente in Europa, e particolarmente in Inghilterra, dove il capitalismo si sviluppava in maniera quanto mai coerente. Il primo periodo dell'espansione industriale fu caratterizzato dalla rottura di tutte Ie vecchie consuetudini di lavoro e dei vincoli corporativi, dalle restrizioni agli spostamenti di residenza, dall'urbanizzazione crescente e da uno sviluppo accelerato della popolazione, quale non si era ancora riscontrato nella storia. Purtroppo, a questo vertiginoso progresso demografico non si accompagnò un analogo sviluppo urbanistico. Le città crescevano anarchicamente, senza neppure i più elementari servizi igienici, in una confusione di grossi caseggiati e di catapecchie, gli slums. Le industrie si moltiplicavano e richiamavano dalla campagna manodopera, che si accatastava in alloggi degradanti.

La mostruosa crescita della nuova società fu caratterizzata dall'introduzione di sistemi di asservimento e di sfruttamento che neppure il Medioevo aveva conósciuto, per lo meno in quelle dimensioni. Mai, come in quei primi decenni, fu tanto avvilita la dignità umana, e furono imposte e praticate forme cosi brutali di lavoro. Non si trattava soltanto di indifferenza o di mancanza di senso morale, che pure spesso costituirono i caratteri distintivi dei rapporti umani tra lavoratori e padroni: erano le ferree leggi del capitalismo che si rivelavano in tutta la loro spietatezza. I primi capitani d’industria furono, per la maggior parte commercianti che investirono i capitali accumulati, piccoli o grandi, nelle imprese industriali, immettendovi quello stesso spirito di speculazione con cui avevano esercitato prima il commercio. La morale dominante era quella protestante e puritana, rigida e feroce. Secondo l’etica imperante, il guadagno e la corsa alla ricchezza non erano affatto un peccato. Commercianti, artigiani e piccoli imprenditori impiantarono fabbriche e fabbrichette, le ingrandirono e, poiché avevano bisogno di grandi capitali per far fronte all’acquisto delle macchine e delle materie prime, li presero a prestito e si trovarono quindi costretti a rifarsi spietatamente sui salari, allungando al massimo le giornate di lavoro per aumentare il pluslavoro. Le leggi sui lavoro non erano state ancora concepite e vennero rivendicate solo più tardi, quando le organizzazioni sindacali cominciarono ad avere una certa influenza sulla cosa pubblica.

Il progresso tecnico si faceva sempre più rapido, le macchine crescevano di numero e di dimensioni e occupavano sempre più spazio a detrimento dello spazio in cui si muovevano i lavoratori.

Le fabbriche si rivelarono cosi anguste e insufficienti che gli operai non riuscivano a muoversi e a respirare.

I locali mancavano di aria, di luce, di spazio, erano diventati « botteghe del sudore », in cui si lavorava

quindici, sedici ore al giorno, con brevissimi intervalli per il riposo, i pasti e i trasferimenti. La settimana di

sessanta ore era un sogno, si lavorava per ottanta, novanta ore, qualche volta anche per cento ore alla

settimana. Il tempo libero era il tempo per dormire (quattro, cinque, sei ore al massimo), per mangiare e

andare e venire dalla fabbrica. Il capitalismo in espansione si nutriva di tempo, si sviluppava con il tempo di

lavoro, e la sua fame di tempo aumentava anziché diminuire. Quando dopo il 1815, in quasi tutti i paesi

europei vennero introdotte le tariffe doganali, la concorrenza divenne feroce, e i diversi capitalismi

riuscirono a farsi una moderna attrezzatura industriale e un’organizzazione finanziaria e commerciale

spendendo tempo di lavoro. La riduzione dei costi di produzione, il perfezionamento dei procedimenti

tecnologici venivano ottenuti falcidiando i salari e rapinando tempo umano, aumentando le

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ore di lavoro fino al limite fisico costituito dalla necessità di lasciare alla macchina umana il tempo di reintegrare la propria forza di lavoro. Era la legge ferrea del capitalismo e gli operai impararono presto a riconoscerne l'oggettività.

« Ma all’improvviso — scrive Marx — si alza la voce dell'operaio, che era ammutolita nell’

incalzare e nel tumulto del processo di produzione [...] Io esigo una giornata lavorativa di lunghezza normale, e lo esigo senza far appello al tuo cuore [di capitalista], perché in questioni di denaro non si tratta più di sentimento. Tu puoi essere un cittadino modello, forse membro della Lega per l’abolizione della crudeltà verso gli animali, e per giunta puoi anche essere in odore di santità, ma la cosa che tu rappresenti di fronte a me non ha cuore che le batta in petto.

Quel che sembra vi palpiti è il battito del mio proprio cuore. Esigo la giornata lavorativa normale, esigo il valore della mia merce, come ogni altro venditore»

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. L’arringa che Marx metteva sulla bocca dell’operaio pronunciata effettivamente, durante le agitazioni sindacali, col linguaggio delle dichiarazioni di sciopero. Si faceva strada la consapevolezza che il padrone, «come capitalista, è capitale personificato, e la sua anima è l’anima del capitale».

Quest’«anima» divorava «tempo, anche tempo giovane, appena nato come tempo, senza ancora la sensazione della sua natura limitata e misurabile: il tempo dei fanciulli, diventato tempo di lavoro, produttivo di valore. Anche allora gli uffici di collocamento che meglio funzionavano erano quelli gestiti dalla Chiesa. Le parrocchie contrattavano i fanciulli, piazzandoli nelle fabbriche. Bambini di cinque o dieci anni venivano occupati nelle miniere, nelle vetrerie, dove più tardi venivano innalzati al rango di soffiatori; altri, e in maggior numero, nelle fabbriche tessili, dove servivano da attaccafili o da « fanciulli di pettinatura », che pettinavano cioè i tessuti, assorbendone polvere tossica ogni giorno. Dagli Stati Uniti all’Inghilterra, ai paesi industriali di tutta Europa, tempo giovane, tempo adulto o vecchio, tempo maschile o femminile veniva pompato senza tregua. Naturalmente, gli eccessi incredibili dello sfruttamento capitalistico mossero a sdegno tutti coloro la cui anima non era « l’anima del capitale ». Celebre è rimasto un libro del Fielden, dal titolo The curse of the factory System (La maledizione del sistema delle fabbriche), in cui si accusavano gli imprenditori britannici di

«infanticidio continuato ». Anche allora, naturalmente, si moltiplicarono le inchieste parlamentari ed extraparlamentari

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. Nel 1831, il comitato d’inchiesta Sadler denunciò con particolare violenza la scientifica esazione del tempo di lavoro dei bambini. Per quanto stanchi, i fanciulli dovevano arrivare puntualmente al lavoro, per non essere puniti con estrema severità.

Spesso i bambini si presentavano in fabbrica in condizioni di tale esaurimento da cadere sfiniti

davanti ai cancelli. « In alcune fabbriche — denunciava l’inchiesta — trascorre di rado un’ora

senza che si sentano grida dei fanciulli battuti con le verghe. E sovente avvine che siano i

genitori stessi a battere i loro figlioli per evitare loro punizioni ancor più brutali. I fanciulli sono

cosi battuti con il bill roller, una pesante sbarra di ferro, ed è frequente il caso di fanciulli che

scivolano morti di sonno sotto le macchine restando orrendamente mutilati. Per tenere i

fanciulli svegli durante le lunghe ore di lavoro, si prendono a frustate. La frusta fa d’ordinario

parte degli strumenti essenziali per lo svolgimento della produzione. È frequente il sistema della

doppia squadra: quando una squadra di bambini appare manifestamente «incapace di fare il

minimo movimento, li si manda a dormire nei lettucci caldi dei compagni i quali li sostituiscono

subito ai posti di lavoro. » Sembrano oggi invenzioni di fantasie romanzesche queste notizie,

eppure gli atti e i documenti possono essere consultati da tutti. Nella biblioteca della Camera

dei comuni è conservato il testo del discorso pronunciato, nel 1832, da Sadler in occasione della

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seconda lettura del progetto di legge sulla disciplina del lavoro nelle fabbriche: « Gli industriali hanno avuto il coraggio di affermare che il lavoro notturno non era affatto pregiudizievole ai fanciulli, ma era preferito ad ogni altro, e che il calore artificiale dei locali era giovevole e molto piacevole, e che nulla potrebbe eguagliare la ripugnanza dei fanciulli a vedere questo calore diminuito; che, lungi dall’essere spossati da dodici ore di lavoro, i fanciulli assolvevano il loro compito, proprio nell’ultima ora, con un interesse maggiore e più vivo che durante il resto della giornata. Qual danno — esclamava sarcastico il Sadler davanti ai togati e paludati rappresentanti dell’aristocrazia del capitalismo imperiale — che la durata del lavoro non sia prolungata! Ancora ore in più, e i fanciulli lavorerebbero nella più euforica delle estasi! ». Le denunce e le proteste servirono tuttavia a poco. Già nel 1802 era stata approvata una « legge sulla salute e sulla morale » che vietava il lavoro notturno e fissava a dodici ore la giornata lavorativa. « Mezzo milione di tessitori a mano — scriveva Cariyle — lavoravano 15 ore al giorno, non guadagnando da vivere in modo possibile. » Fino a quando gli operai non riuscirono a resistere alla rapina della loro forza-lavoro e del loro tempo di vita, le sole leggi che venivano veramente rispettate erano quelle del tipo della famosa legge del 1799 sulle coalizioni (il Combination Act), proposta da Pitt, la quale disponeva che

« tutti i contratti stipulati fra lavoratori, operai di officina o altri lavoratori salariati allo scopo di ottenere un aumento di salario, una riduzione o una modifica della durata del lavoro [...] dovevano considerarsi illegali». L’opinione pubblica, o meglio l’opinione pubblica della classe dominante, non riusciva a vedere in quest’atroce sfruttamento l’orrore che oggi nessuno può negare. Sidney e Beatrice Webb raccontano, nella loro History of trade unionista (Storia del tradunionismo), che « le leggi sulle coalizioni operaie ritenute generalmente necessarie per impedire estorsioni rovinose da parte dei lavoratori, le quali, se non fessero state frenate in tal guisa, avrebbero distrutto completamente l'industria, la manifattura, il commercio e l’agricoltura nazionale. Da ciò si venne alla conclusione che gli operai erano gli individui più mancanti di prindpi di tutto il genere umano, e questa convinzione finì per generare i continui sospetti, il mal volere e, in forme diverse, il malanimo tra imprenditori e operai ». Questa falsa idea si propagò talmente che, ogni qual volta gli operai erano dichiarati colpevoli di essersi coalizzati per regolare i loro salari o le ore di lavoro, per quanto grave fosse la sentenza e severamente inflitta, nessuno pensava a manifestare il minimo sentimento di compassione per i poveri disgraziati. Per comprendere meglio questo stato di coscienza sarà bene ricordare che di celebre « utopista » e riformatore Robert Owen, nella sua « officina » di New Lanark dove sperimeritava le sue idee sul « nuovo modo di considerare la società », si riteneva ed era ritenuto un grandissimo innovatore e quasi rivoluzionario per aver escluso dal lavoro i fanciulli di età inferiore a died anni, che dall’età di sei anni erano costretti a lavorare per undici ore e mezzo o dodici ore, ma continuò a impiegare fanciulli di undici e dodici anni e a farli lavorare per dieci ore.

Comunque, le cose peggiorarono quando i progressi dell tecnica permisero gradualmente ai capitalisti di

accrescere il tempo di lavoro supplementare. L’illuminazione a gas che cominciava a diffondersi rese

possibile, soprattutto durante l’inverno, l’accrescimento della durata del lavoro. Il motore idraulico non

assicurava infatti un lavoro continuo. Si arrestava nei periodi di siccità, e, lungo le rive dei fiumi, ingombre

di fabbriche e fabbrichette (ciò che era frequente, poiché le industrie ricercavano allora le cascate), era

stato necessarie regolamentare lo sfruttamento delle acque. Tutto ciò finí con l’avvento della macchina a

vapore. Senza fermarsi mai, essa forniva la forza motrice; senza fermarsi mai, incatenava l’operaio alla

fabbrica. I capitalisti sfruttarono a fondo le nuove possibilità e tanto più si mostrarono esattori implacabili

di tempo umano, in quanto il prolungamento dell’orario di lavoro assicurava un ammortamento più

rapido delle nuove macchine. D’altro canto, quando la macchina si fermava, il capitale rimasto

improduttivo era molto più ingente che ai tempi del motore idraulico. Se la macchina diventava il mezzo

più potente per elevare la produttività del lavoro, cioè per accorciare il tempo necessario alla

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produzione delle merci, essa diveniva al tempo stesso, nelle branche industriali di cui rapidamente si impadroniva, il mezzo più potente per prolungare la giornata lavorativa oltre ogni limite naturale.

Erano quelli i primi decenni del secolo, gli anni dell'impetuoso sviluppo iniziale del capitalismo. Le condizioni dei lavoratori erano tali che essi potevano formulare soltanto l'aspirazione a un più lungo riposo. E questo in tutti i paesi del vecchio e del nuovo continente.

In Francia la condizione operaia era così dura che se ne ritrova una descrizione angosciosa persino nelle carte dei governanti, come questa appartenente al ministro degli affari ecclesiastici Frayssinous: « I manifatturieri non sono contenti di ridurre in schiavitù gli operai in ambienti malsani, nei quali l’aria esterna non entra, dalle cinque del mattino fino alle otto e spesso fino alle dieci di sera nella bella stagione e, d’invemo, dalle sei del mattino alle nove di sera. Essi obbligano i lavoratori a lavorare anche una parte della domenica in modo che essi escono dal loro letto per andare in fabbrica e escono dalla fabbrica per rificcarsi nel letto »

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. Era il tempo in cui la rivendicazione delle dodici ore di lavoro veniva avanzata soltanto allo scopo di poter riposare abbastanza per non logorare troppo rapidamente la fibra umana corrosa dall’usura. Ed era anche il tempo in cui l’idea del progresso inteso come una specie di fatalità positiva veniva magnificata al punto da diventare l’ideologia del secolo. Eppure le condizioni di vita dei lavoratori non erano diverse, anzi per certi aspetti peggiori di quelle di parecchi secoli prima. Le canzoni di protesta del primo trentennio del secolo non sono molto diverse da quelle che si cantavano, ad esempio, verso il 1170, quando Chrétien de Troyes consacrava agli operai della seta i famosi versi della canzone:

E noi siamo in nera miseria, ma si arricchisce dei nostri salari

il signore per cui lavoriamo;

noi vegliamo gran parte della notte e tutto il giorno per lavorare,

e minacciano di arrotarci le membra se ci riposiamo;

e di riposare non abbiamo il coraggio...

Non assomiglia questo canto sarcastico all’ironica canzone scritta dal Vincard nel 1820, tanti secoli dopo?

Ma si, anche il vostro carattere selvaggio, operai, vi fa disprezzare,

sia che riposiate o che al lavoro voi diate quindici ore al giorno.

La vostra coscienza è troppo larga, è meglio quella del padrone che se ne infischia, quando fa i conti,

di non aver potuto lavorare.

Nonostante le promesse e le aspirazioni dei rivoluzionari e delle masse che rovesciarono il

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regime feudale nel 1789, in Francia l’orario di lavoro non diminuì, fu soggetto anzi alle esigenze di sviluppo della borghesia industriale che Napoleone favorì in tutti i modi, anche nei rapporti con le associazioni operaie. Risalgono infatti a Bonaparte le prime misure prese dal moderno Stato borghese per tenere i lavoratori in uno stato di soggezione e impedire alle coalizioni operaie di contrattare le condizioni del lavoro. Tutta una legislazione anti operaia venne promulgata dal 1803 in poi: la legge sul libretti di lavoro (vero e proprio documento di servitù alla fabbrica fondato sul potere che veniva riconosciuto al padrone di costringere al lavoro il dipendente che non avesse pagato i debiti contratti con l’azienda); la legge contro le coalizioni operaie; la legge che istituiva i consigli dei probiviri, nei quali solo i padroni erano rappresentati

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, ecc. Contro questa legislazione di classe e contro il regime di sorveglianza poliziesca scoppiarono presto scioperi e agitazioni. In quel periodo, fin verso il 1810, nonostante la costante insufficienza dei saiari di fronte alle condizioni miserevoli della classe operaia, si era ottenuto tuttavia un aumento salariale, poichè la domanda di mano d’opera cresceva più rapidamente del numero dei lavoratori e la coscrizione strappava quantità enormi di uomini alle fabbriche e ai campi. La più importante agitazione fu quella che scoppiò nel 1806 fra i lavoratori edili. Un’ordinanza del 26 settembre 1806 aveva regolamentato l’orario di lavoro, secondo le esigenze degli industriali. La giornata di lavoro cominciava, in estate (cioè dal 1° aprile al 30 settembre), alle sei del mattino per terminare alle sette di sera, e, d’inverno, (cioè dal 1° ottobre al 31 marzo), andava dalle sette del mattino al cader del sole, con la pausa di un’ora, dalle 10 alle 11 per il pranzo. L’ordinanza significava per gli operai I'obbligo di lavorare in inverno dalle 11 fino a sera senza la tradizionale interruzione della cassecroùte. Fu dichiarato lo sciopero che durò dal 6 al 13 ottobre. Gli operai ottennero un successo notevole per quei tempi: in inverno come in estate, fu loro riconosciuto il diritto di sospendere il lavoro dalle 14,30 alle 15, per la cassecroùte, per buttar giù un boccone, a condizione di non lasciare il cantiere. Fu una vittoria sintomatica, come si è detto, in quel periodo gli operai lottavano essenzialmente contro l’eccessiva durata del lavoro. Gli operai, quando si battevano, mettevano paura anche a Napoleone il quale dichiarò una volta che « temeva le insurrezioni operaie più di una battaglia contro duecentomila uomini bene organizzati e armati ».

I profeti del socialismo utopistico trovarono cosi un terreno così fertile tra i lavoratori costretti a durissime lotte per conquistare il tempo del riposo fisico, il tempo per il pasto, il tempo per partecipare alla vita delle proprie organizzazioni di mutuo soccorso. Charles Fourier aveva espresso bene il sarcasmo popolare per le moralistiche esaltazioni del lavoro con le si tentava già allora di costruire un’etica del lavoro salariato totalmente subordinato all’economia del profitto. « Amare il lavoro, ci dice la morale: è un consiglio ironico e ridicolo.

Che essa dia un lavoro a chi Io domanda e lo sappia rendere gradevole! Perché esso è odioso nella nostra civiltà per l’insufficienza dei salari, l’inquietudine che deriva dalla paura di perderlo, l’ingiustizia dei padroni, la tristezza degli ateliers, la lunga sua durata e l’uniformità delle funzioni. » Naturalmente per Fourier, questo odio per il lavoro era giustificato soltanto nella società di allora. Nei suoi falansteri, Fourier vedeva risolta la contraddizione tra lavoro e società, tra tempo di lavoro e tempo di libertà. Il lavoro diventava una gioia e cessava di essere una maledizione: ognuno lavorava per tutti ed era consapevole del rapporto che legava il suo lavoro a quello degli altri; il problema della durata del lavoro non si poneva, non essendovi limiti al piacere umano di costruire e creare.

Purtroppo, le nobili aspirazioni del socialismo utopistico non riuscirono a realizzarsi

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neppure nelle piccole isole illusorie create dai riformatori con i loro esperimenti sodali, ingenui anche se generosi. Passano vent’anni dallo sciopero del 1806 per la mezz’ora della cassecroùte, e ritroviamo la stessa pretesa padronale, il lavoro continuato, e la stessa rivendicazione, un po’

di tempo libero per mangiare. Appena potevano o credevano giunto il momento di strappare un altro po’ di tempo agli operai, i padroni toglievano le ore, le mezz’ore e persino i quarti d’ora accordati per le colazioni. Ma la resistenza si faceva di volta in volta sempre più accanita.

Uno degli scioperi più indicativi del tipo di lotte condotte nel primo quarto di secolo è quello dei filatori di cotone di Houlme (Senna inferiore)

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. Il padrone della filanda, di nome Levasseur, avido e brutale, il 5 agosto del 1824 decide di ridurre di mezz’ora il tempo concesso agli operai per la colazione. Il 6 agosto scoppia lo sciopero. Un migliaio di lavoratori incrocia le braccia per difendere la mezz’ora e nello stesso tempo rivendica un aumento di salario. Levasseur fugge a Rouen protetto dalla gendarmeria. Le autorità capiscano di aver contro non una sollevazione spontanea, ma una vera e propria organizzazione operaia di difesa creata clandestinamente nella fabbrica. Gli operai hanno infatti una cassa di resistenza con fondi raccolti da tempo per aiutare le famiglie di coloro ai quali verrà a mancare il lavoro, e resistono bene.

La gendarmeria interviene, sostenuta da un battaglione della guardia reale. Gli operai si

battono coraggiosamente a colpi di bastone, coi forconi e le pietre: morti e feriti dalle due

parti, di numero imprecisato, decine di arresti, una condanna a morte, tre ai lavori forzati, 14 a

diverse pene carcerarie. L’appello di Roustel, lo scioperante condannato a morte, viene

respinto dal prefetto della Senna inferiore il quale dichiara che « un esempio di alta severità

sembra indispensabile nell’interesse dell’industria e della tranquillità pubblica ». L’esecuzione

ha luogo il 23 novembre 1825. La data non viene comunicata in anticipo perché si teme -

confessa il prefetto — che gli operai, come hanno in effetti deciso, marcino su Rouen per

impedire l’uccisione del loro compagno di lavoro, la prima vittima forse nella storia della lunga

lotta per la riduzione dell’orario di lavoro. Le statistiche e i documenti su questi primi decenni

del secolo sono naturalmente molto scarsi; tuttavia da atti di archivio, da bollettini della polizia

e da altre fonti minori si può constatare un crescendo di agitazioni operaie del tipo di quella

condotta a Houlme, fondate quasi sempre sulla difesa di quel poco di tempo libero che si era

riusciti a conquistare. Gli storici affermano anzi che quelle agitazioni operaie prepararono il

clima in cui scoppiò la rivoluzione del 1830. La repressione antioperaia era infatti crudele ed

esasperava gli animi. Il 20 luglio del 1826, il prefetto di Marsiglia testimoniò questa irriducibile

resistenza operaia in una lettera al ministro dell’interno. «Gli operai vanno ormai in prigione

ridendo », scriveva con un senso di profonda impotenza. Non passava giorno infati che i

lavoratori di tutte le categorie dessero vita a una vertenza, a un’agitazione sindacale e sempre,

alle rivendicazioni salariali o contro il collocamento di polizia, era unita la rivendicazione

riguardante l’orario di lavoro: segno evidente che nella classe operaia era sorta una coscienza

nuova, che non reclamava più soltanto un po’ più di pane, ma avvertiva altri valori nell vita

della società, il cui soddisfacimento era legato senza alcun dubbio alla conquista di un salario

più elevato, però anche di un po’ di tempo in più per la propria libertà individuale. È' questo il

periodo in cui si diffonde una vivace « letteratura sociale », in cui si moltiplicano le inchieste

sulle spaventose condizioni in cui vivono i lavoratori che l’industrializzazione ha strappato alle

campagne affollandoli in sordidi quartieri, le inchieste di Villermé, di Villeneuve-Bargemont, di

Blanqui, di Guérin. Comincia a porsi il problema sociale: aumentare i salari o il tempo libero? E

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la risposta al quesito, anche da parte di coloro che manifestavano sincero sdegno e nutrivano umanissime preoccupazioni per la condizione operaia, non era chiara nella coscienza. Molti non sapevano scegliere o rispondere che bisognava, semplicemente, aumentare i salari ed estendere le libertà. Affioravano le preoccupazioni moralistiche del tipo di quelle che ancora ieri manifestava la Chiesa quando organizzava i suoi convegni sul « tempo libero e l’elevaziane sociale». L’ozio assoluto della domenica, diceva lo stesso Villermé, spinge i lavoratori a facili piaceri: più gli operai guadagnano, più agevolmente possono soddisfare il loro gusto della débauche. Il celebre medico, che conduceva sensazionali inchieste sulla condizione operaia, finiva molto ipocritamente per concludere che « la miseria dell’operaio è la sola che garantisce oggi la sua buona condotta». In realtà, la società capitaIistica, fondata sul profitto e per ciò stesso valorizzante le « qualità negative » dell’avidità e dell’egoismo (ancora oggi un nuovo tipo di pubblicità mercantile, valorizza sui manifesti murali « il nuovo egoismo », con cinica sincerità), sviluppantesi sulla compravendita totale della forza-lavoro e per ciò stesso tendente a non lasciare quasi nessun residuo di tempo non-lavorativo per i salariati, portava con sé inevitabilmente I’alcoolismo, la corruzione e le degenerazioni dei costumi (almeno secondo l’ottica moralistica piccolo-borghese). Non era l’ozio, « il padre dei vizi », ma la miseria era la matrigna di ogni degradazione, compresa la «buona condotta » di quel medico... Era dunque una prova dell’energia nuova che scaturiva adesso dalle classi lavoratrici il fatto che questi fenomeni degenerativi non fossero generalizzati quanto quell'avidità e quell’egoismo capitalistici, moralmente santificati.

Tuttavia, è proprio in questo periodo oscuro che cominciano a formarsi, in tutto il mondo capitalistico, quelle forti tempre di militanti che dettero inizio alla gloriosa tradizione delle associazioni operaie: gente semplice ma tenace che maturava nella dura lotta quotidiana una sua coscienza di classe e una combattività rivoluzionaria. Per questi militanti lo scarsissimo tempo che rimaneva dopo le ore di lavoro diventava tempo di combattimento o tempo di studio: l’idea di tempo libero nacque con questa impronta di lotta. Si può anzi dire che l’associazionismo di tipo più elevato, che si sviluppò sulla base delle prime società di mutuo soccorso, ebbe inizio quando alle rivendicazioni salariali si unirono le rivendicazioni circa l’orario di lavoro. E questo accadde contemporaneamente nei più lontani paesi. In Inghilterra, per esempio, ebbero vita legale e si svilupparono le trade unions proprio perché seppero porre le loro rivendicazioni sociali in modo articolato e generale. Dopo anni e anni di lotte, nel 1825, con la legge del 6 luglio (Criminal Law Amendment Act), si legalizzarono le trade unions che avevano dichiarato come loro scopo sociale « il regolamento dei salari e della durata del lavoro ». ln America, uno dei passi decisivi compiuti dalla classe operaia verso un’organizzazione che superasse lo schema ristretto delle società di mestiere fu realizzato con la creazione (Filadelfia 1827) della Mechanics’ Union of Trade Associations, un’assciazione di unioni cioè, la prima organizzazione operaia di tutto il paese che comprendesse più di un solo mestiere e rendesse possibile un’agitazione dei lavoratori condotta contemporaneamente fra tutte le categorie della città. L’associazione nacque proprio da un’agitazione per l’orario di lavoro, dallo sciopero che iniziarono i falegnami per la riduzione della giornata lavorativa a dieci ore. I falegnami ottennero in quell’occasione la solidarietà attiva dei lavoratori dell’edilizia, muratori, imbianchini, vetrai: lo sciopero falli, ma l’esperienza maturata nella lotta comune aveva ormai fatto sentire profondamente il bisogno di un’organizzazione più duratura.

Tutte le società operaie furono invitate ad associarsi e le categorie senza associazioni

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particolari furono sollecitate a organizzarsi e a inviare delegati. Fatto questo primo passo, la Mechanics’ Union of Trade Associations di Filadelfia dette il via a un vasto movimento politico che non si proponeva più soltanto l’aumento dei salari e la diminuzione dell’orario di lavoro, ma « l’instaurazione di un giusto equilibrio di potenza, mentale, politica, morale e scientifica, fra tutte le diverse classi e individui per scongiurare i desolanti mali che scaturiscono inevitabilmente dal deprezzamento del valore intrinseco del lavoro umano ». Niente di rivoluzionario, come scopo, ma abbastanza come mezzo: era riconosciuta infatti l’esigenza di un’organizzazione di classe che si impadronisse di una parte del potere. Come conseguenza di questa presa di coscienza si ebbero un vasto movimento politico di partiti operai, che furono fondati in una mezza dozzina di Stati, e una grande diffusione di giornali operai, con non meno di sessantotto pubblicazioni che sostenevano la causa dei lavoratori e agitavano le riforme sodali.

Le condizioni generali delle classi lavoratrici peggioravano allora continuamente a causa dei cambiamenti apportati all’economia americana dalla nascita del capitalismo commerciale.

I lavoratori volevano conquistarsi il diritto di condividere i benefici apportati dallo sviluppo e dalla espansione nazionale e sentivano confusamente che, se fossero rimasti nelle condizioni in cui si erano trovati nel terzo decennio del secolo, sarebbero stati privati di quella possibilità. I salari infatti crescevano, ma con un ritmo inadeguato a quello del costo della vita. Dodici o quindici ore di lavoro, continuavano a essere il normale orario di lavoro. Durante l’estate, gli operai erano ai lavoro sin dalle quattro del mattino, avevano un’ora di interruzione per la colazione alle dieci e un’altra per il pranzo alle quindici (del resto, come in Francia, dovettero spesso difendere con dure agitazioni questo diritto alle soste quotidiane per i pasti). Lasciavano il lavoro soltanto al tramonto.

Le nascenti organizzazioni politiche operaie si ponevano perciò in primo luogo cóme obiettivo quello della umanizzazione del lavoro attraverso una riduzione della sua durata: era questo, peraltro, uno dei modi e una delle condizioni per ottenere una partecipazione di massa alla vita politica.

A New York, per esempio, un partito locale molto organizzato e influente si costituì nel corso di un

comizio di « artigiani e altri » convocato il 23 aprile del 1829 per protestare contro la tendenza ad

allungare la normale giornata lavorativa di 10 ore che era stata conquistata in quella città dal

organizzazioni unionistiche. I delegati decisero di allargare il raggio della loro attività e diramarono un

invito per un comitato più vasto in cui fissarono alcune rivendicazioni dando vita a un Comitato dei

cinquanta con il compito dii studiare i mezzi per applicare il programma. Il 19 ottobre il comitato presentò

un rapporto, di cui furono fatte circolare 20.000 copie, che attaccava vigorosamente l’ordiniamento

sociale esistente e proponeva un congresso per nominare i candidati politici all’assemblea dello Stato di

New York scelti tra coloro che «vivono del loro stesso lavoro, e nessun altro». Il congresso fu tenuto

quattro giorni dopo. Dopo aver avvertito gli estranei « come i banchieri, gli agenti di cambio, le persone

ricche ecc. » di lasciare la sala, i congressisti si accordarono su una lista di candidati che includeva un

tipografo, due meccanici, due falegnami, un imbianchino e un droghiere. È interessante, in queste prime

cronache del movimento operaio americano

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, studiare la personalità dei lavoratori più influenti e lo

sviluppo del loro pensiero politico. Thomas Skidmore, per esempio, un operaio meccanico che esercitò

una forte influenza sul partito, aveva cominciato la sua azione, sostenendo l'esigenza di difendere la

giornata lavorativa di dieci ore. Ma ben presto dovette rendersi conto che, per difendere anche soltanto

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quella conquista, bisognava allargare la visuale dei lavoratori e andare oltre la semplice rivendicazione dell’orario. La base della prepotenza padronale consiste nella forza economica, nel diritto stesso di proprietà, disse Skidmore, e cercò di convincere i lavoratori della sua città ad estendere i loro programmi rivendicativi: era questo il solo mezzo per « costringere gli aristocratici oppressori» a mantenere la giornata di dieci ore. Insieme con Skidmore le figure più interessanti di questo periodo furono Robert Dale Owen, figlio del fondatore della comunità di New Harmony, e Frances Wright. I due intelligenti, coltissimi e generosi rivoluzionari fecero compiere al movimento di emancipazione operaia notevoli passi in avanti.

La rivendicazione del tempo libero diventò la più importante perché ad essa il giovane erede del grande riformatore utopista legava il suo programma educazionista, fondato sull’insegnamento generale gratuito e pubblico, inteso come l’unico mezzo efficace per rigenerare la società. Frances Wright univa a queste rivendicazioni culturali della classe operaia una visione più radicale e rivoluzionaria. Questa grande figura del movimento operaio americano parlava con estrema chiarezza di « ciò che distingue la lotta attuale da tutte le altre in cui l’umanità si è trovata impegnata, essere cioè questa, evidentemente, dichiaratamente e secondo il riconoscimento generale, una guerra di classe, e combattuta dai popoli oppressi di tutte le terre per rovesciare dal loro dorso, i cavalcatori con stivale e sperone, il cui diritto legale di farli morire di fame non durerà a lungo; è il lavoro stesso che si solleva contro l’ozio, la giustizia contro la legge e il privilegio ». Frances Wright era nata in Scozia e aveva subito l’influenza di Jeremy Bentham, diventando fin da ragazza quella «militante della rivoluzione» che si vantò di essere rimasta per tutta la vita. Alta, slanciata, con i capelli castani ondulati, conquistava gli operai che accorrevano sempre ad ascoltarla nelle poche ore libere dal lavoro. « Ella è stata per me una delle più dold memorie, — scriverà più tardi il ”bardo Americano”, Walt Whitman, — noi tutti l’amavamo; ci inchinavamo davanti a lei; la sua apparizione sembrava affascinarci; era piena di grazia, era agile, bella nelle forme del corpo e nei doni dell’anima. » Quando era arrivata negli Stati Uniti, aveva subito abbracciato la causa degli schiavi negri e aveva fondato a Nashoba nel Tennessee una colonia nella quale tentò di educare alcuni gruppi di schiavi, acquistati a sue spese, alla libertà e a un lavoro libero fuori degli Stati Uniti. Fallito il suo progetto, si trasferì nella comunità di New Harmony, poi accompagnò Robert Dale Owen a New York e lo aiutò a fondare il Free Enquirer, un battagliero giornale «educazionista». « La grande puttana rossa dell’ateismo », come venne chiamata dai giornali reazionari, seminò vento e raccolse tempesta sul suo capo. « Perduti alla società, alla terra e senza Dio e senza speranze, vestiti e nutriti di furto e di bestemmia, questi sono gli apostoli che stanno tentando di indurre una quantità di persone sane di questa città a seguire la loro strada »: scrisse il New York Commercial Advertiser

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, quando il partito operaio tentò la scalata elettorale dell'assemblea di Stato.

La battaglia di Skidmore, di Owen e Frances Wright non fu coronata da successo. Intrighi, lotte interne di fazione, tradimenti, fecero fallire l’impresa, tuttavia il seme gettato nella coscienza operaia con l’azione cominciata per l’orario di lavoro e proseguita come lotta politica fruttificò. Le idee di Robert Dale Owen sull’educazione diventarono le idee del movimento operaio, e le convinzioni di Frances Wright sulla « guerra di classe » si diffusero anche oltre i confini degli Stati Uniti.

Le rivendicazioni elementari operaie si erano ormai strettamente collegate al movimento

associazionistico e ai primi tentativi di organizzazione culturale. In America, in Francia, in

Inghilterra la giornata di dieci ore divenne un obiettivo generale, spesso il principale. Le

cronache registrano numerosi scioperi e agitazioni per la diminuzione dell’orario di lavoro: il 27

agosto 1830 gli operai tessili di Rouan si misero in sciopero sostenuti dai comuni vicini per

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conseguire la riduzione dell'orario di lavoro a dodici ore, e in prospettiva a dieci, da quattordici, sedici e persino diciassette (con un’ora e mezza in tutto di riposo per i pasti), e per la soppressione dei regolamenti di fabbrica che infliggevano agli operai assenti dal lavoro una multa uguale al doppio del salario corrispondente al tempo perduto e che prevedevano una trattenuta sulla paga quando una commessa di lavoro non veniva terminata nel tempo previsto. I padroni furono costretti ad emettere un nuovo regolamento, ma, fosse esso insufficiente o non fosse applicato, gli operai ripresero l’agitazione. Il 6 settembre del 1830 fu organizzata un’imponente manifestazione a Darnetal. Gli operai assediarono il municipio e obbligarono il procuratore del re, che vi si era rifugiato, a mettere in libertà i lavoratori che erano stati arrestati. La polizia intervenne; ci furono feriti, arresti, condanne ai lavori forzati...

Nello stesso tempo, a Parigi, gli operai meccanici e fabbri chiesero che non fosse permesso di lavorare più di undici ore al giorno. A Bagnolet e a Montreuil, gli operai delle cave di gesso rivendicarono cinque soldi di aumento e la riduzione di un’ora di lavoro.

Le agitazioni si moltiplicarono e le autorità ricorsero a tutti i mezzi per spezzare con la forza il movimento di agitazione ma, soprattutto, per screditarlo davanti all’opinione pubblica e particolarmente davanti alla piccola borghesia. Nell’ottobre del 1830, per esempio, mentre in tutta la Francia le masse operaie lottavano per l’aumento dei salari e la riduzione del l’orario di lavoro, al Théâtre des variétés veniva presentato un vaudeville intitolato: La coalition, in cui venivano presi in giro gli operai e le loro coalizioni. Ecco « il buon tipo d’operaio », cioè quello che, fatto il suo dovere militare, riprende immediatamente il lavoro, sgobba tutto il santo giorno, non legge i giornali e canta:

Io mi sono battuto, io ho servito la mia patria io, io sono contento, io non volevo niente di più, io sono contento, io non volevo niente di più

Poi esalta la guardia nazionale e si felicita perché essa interviene a spezzare gli scioperi : Bravi borghesi, non abbandonate le vostre armi,

voi salverete l’ordine e la libertà...

E l’agitatore, naturalmente, è Judas, un piccolo misterioso personaggio al servizio di qualche potenza straniera (come si vede, la propaganda antioperaia, centotrenta anni fa come adesso, ricorreva allo stesso stupido armamentario di menzogne) che paga da bere agli operai e fomenta i tumulti:

e mettono agli angoli delle strade i loro manifesti di fango e di sangue e chiedono di lavorare di meno...

Si era arrivati alla « svolta decisiva » di cui ha parlato Engels, e i bravi borghesi lo sentivano:

nel 1831 aveva avuto luogo a Lione la prima insurrezione operaia, quella dei setaioli; dal 1838

al 1842 il primo movimento nazionale, quello dei cartisti inglesi, toccò il suo apice. La lotta di

classe tra il proletariato e la borghesia passò in primo piano nella storia dei paesi più avanzati

d’Europa, in rapporto allo sviluppo della grande industria, da una parte, e della dominazione

nuovamente conquistata dalla borghesia, dall’altra.

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Non passava anno ormai senza che robuste agitazioni scuotessero la sicurezza della classe dominante: oggi erano gli agricoli di Montbazin che richiedevano la riduzione del giornata lavorativa, domani i carpentieri di Pecq o i falegnami di Caen che riuscivano con lo sciopero a far ridurre l'orario di lavoro. Dalle 16 alle 14 alle 12 ore si passava attraverso alterne vicende che spesso vedevano risalire la durata del lavoro ai livelli precedenti e poi ridiscendere fino a stabilizzarsi al livello medio: sopra le dodici ore in generale. In Inghilterra e negli Stati Uniti, in quello stesso decennio, l’agitazione per la riduzione dell’orario di lavoro era più forte e si poneva obiettivi più avanzati che in Francia e in generale nel resto d’Europa. Il movimento delle trade unions, diffusosi in tutto il territorio del regno, entrò in azione in quegli anni con il preciso obiettivo di conquistare le dieci ore di lavoro con una serie di scioperi, di cui una generale nel 1834 per ottenere il Ten Hour's Bill o « legge delle dieci ore ». La stessa richiesta era diventata ormai generale in quasi tutti gli Stati americani.

Il decennio 1830-1840 può anzi ben essere caratterizzato da questo « movimento per le dieci ore » cosi come più tardi il decennio 1880-1890 fu caratterizzato da quello per le otto ore. La resistenza del padronato industriale fu naturalmente accanita. In Inghilterra il movimento per le dieci ore fu seguito da un’offensiva generale contro le coalizioni operaie. Il parlamento intervenne e i tribunali condannarono alla deportazione chiunque si rifiutasse di lavorare quando i salari fossero ridotti e la giornata di lavoro aumentata. Il reato era di « cospirazioni contro la sicurezza dello Stato ». L’organizzazione sindacale nazionale costituita in tutta l’Inghilterra grazie anche all'impulso dato da Robert Owen all’associazionismo operaio fu la vittima di questa durissima reazione e si sgretolò rapidamente. Tuttavia da quei violenti scontri sociali maturò, nonostante le sconfitte, un movimento ancora più radicale. All’inizio del 1831, le Camere inglesi approvarono un progetto di riforma, che migliorò di poco la legge elettorale, dando il voto al ceto medio e alla « bassa classe media » ma lasciando il grosso della popolazione maschile lavoratrice fuori del recinto della Costituzione. In sostanza, nonostante le apparenze di maggiore democrazia, si dette ancor più mano libera ai capitalisti, i quali potevano cosi premunirsi da eventuali leggi che ne avrebbero circoscritto la discrezionalità quasi assoluta.

Il movimento popolare riprese con maggiore slancio per ottenere una regolamentazione più umana del lavoro nelle fabbriche e il governo ne dovette tener conto. La propaganda di scrittori, filantropi e uomini politici come John Wood, Richard Oastler, Michael Sadler e Lord Ashley aveva già vinto molte resistenze nell’opinione pubblica. Gli scritti dell’Oastler « sulla schiavitù del lavoro nelle fabbriche dello Yorkshire » avevano destato una profonda impressione. Oastler si era rivolto agli operai, incitandoli a non dare il loro voto se non a quei candidati che ai Comuni avessero appoggiato « a ten hours-day and a time block bill », e fece con gli operai di Huddersfield un patto perché tutti, senza distinzione di partito, « compissero ogni sforzo per ottenere la riduzione della giornata di lavoro » e nel 1832, quando Sadler presentò una legge per la regolamentazione

del lavoro minorile, organizzò una serie di comizi perchè ne fosse ampliato il campo di applicazione. Fu approvato così il Factory Act nel 1833, quasi come un compenso le sociale al mancato riconoscimento dei diritti politici del popolo sancito dal Reform bill. ■ Il Factory Act ebbe però una portata limitatissima in quanto stabilì soltanto restrizioni all'impiego dei fanciulli nel lavoro industriale, senza peraltro contenere norme che ne garantissero il rispetto.

La delusione e la collera delle masse lavoratrici furono profondissime e questo stato d’animo di

insofferenza e di ribellione si ingigantì quando l’anno dopo venne approvata la legge

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