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In copertina il convento dei Cappuccini a Pozzuoli foto personale da una maiolica di autore ignoto incorniciata. Le storie del Pavone Bianco

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In copertina il convento dei Cappuccini a Pozzuoli foto personale da una

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ROBERTO MARIA GRIPPO

LA CASA SUL MARE

Le storie del Pavone Bianco

2018 By Roberto Maria Grippo Edito dall’autore Il Pavone Bianco

Seconda edizione r.c.

Stampa e distribuzione lulu.com e ilmiolibro.kataweb.it ISBN 978-0-244-39896-5

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INDICE INDICE INDICE

Prefazione - Il Pavone Bianco perché 4

La casa sul mare 9

Il monopattino 16

Il pesciolino verde 23

Il primo giorno di scuola 28

La pistola 38

Il Bradisismo 43

L’isola del tesoro ed il canotto giallo 53

Bullismo 76

Scoutismo per ragazzi 85

Autogestione 95

La buona azione 104

Femminielli 108

Il balcone sul mare 113

La casa sulla ferrovia 118

La casa sul lago 137

Il primo lavoro 156

Effetto collaterale 177

Dediche e ringraziamenti 193

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Prefazione

Il Pavone Bianco perché.

Non sono un ornitologo ed il pavone, per me, è sempre stato un uccello dalle piume sgargianti con mille colori. Almeno questo è quanto mi pare di ricordare dalle reminiscenze delle scuole elementari.

Un giorno mi è capitato di fare una gita alle Isole Borromee sul Lago Maggiore e così, con mia grande sorpresa, ho scoperto che il pavone può essere anche bianco e che il pavone bianco mi piace di più perché ha una sua eleganza particolare che deriva proprio dalla sobrietà del del suo colore.

Così ho messo la fotografia del pavone bianco sul desktop del mio computer.

Con il piumaggio bianco della ruota sullo sfondo verde della vegetazione le icone colorate dei programmi spiccano benissimo e la testa in

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primo piano dell’animale sembra vigilare che tutto sia in ordine come piace a me.

La Casa sul mare è stata in larga parte pubblicata sul Blog del Pavone Bianco sotto la raccolta “I migliori anni” da cui ho preso la copertina che è una foto di un dipinto che ritrae il ristorante sul mare che vedevo da casa mia.

Il Blog, intitolato al Pavone Bianco, nasce da due esigenze.

Una, propria dell’età, di guardare al passato con l’idea di riflettere e raccontare il cammino già percorso, perché sia più lieve guardare avanti alla strada che c’è ancora da percorrere secondo il pensiero del Presidente Mao.

Nel “68 circolava il “Libretto rosso” di Mao Tse Tung considerato il breviario del buon rivoluzionario.

In realtà era una raccolta di pensieri dettati dalla saggezza e dal buon senso popolare .

Uno di questi pensieri diceva: “Quando devi arare il tuo campo se lavori volgendo le spalle

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alla parte che devi ancora arare, guardando invece a quello che hai già fatto il lavoro ti sembrerà più lieve”

Così mi piace pensare di avere ancora un ruolo da giocare per i miei figli per gli amici e per me stesso. Riflettere e raccontare. Raccontare e riflettere.

L’altra esigenza è la socialità.

Quando eravamo ragazzi i nostri amici li avevamo nel quartiere; le loro case erano facilmente raggiungibili a piedi e se proprio non volevi andare a casa li trovavi tutti in piazzetta, ai giardinetti, al muretto.

Oggi, da grandi, gli amici o i semplici conoscenti o tutte le persone che per vari motivi hai incontrato sono diventati molto numerosi e sono sparsi in tutto il mondo globalizzato.

Ogni tanto capita d’incontrarsi per una rimpatriata ed è molto bello e ci si ripromette di mantenere i contatti di rivedersi ma poi non se ne

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fa nulla presi come siamo dagli impegni quotidiani.

Eppure la nostra “piazzetta” c’è e ci può essere ancora con gli strumenti che la tecnologia ci ha dato.

Basta un minimo di applicazione e si può riallacciare i rapporti con tutti quelli che non abbiamo deciso di dimenticare.

E’ una grande possibilità che la tecnologia ci regala e perciò non va sprecata.

Condividere una riflessione non è la stessa cosa che utilizzare una lavagna pulita per scriverci sopra “fesso chi legge”

Il Blog del Pavone Bianco è articolato, per ora, in quattro raccolte che organizzano i miei interessi attuali.

I Migliori Anni - Ricordi di gioventù come eravamo -

I Bambini ci guardano - Storie di bambini che ho trattato quando ero giudice minorile -

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Dei Delitti e Delle Pene - riflessioni dopo 40 anni di lavoro sul campo dell’esecuzione penale.

Fantasy - Racconti in libertà del Pavone Bianco - Il libro “La casa sul mare” lo si può trovare ed acquistare sul sito lulu.com in una edizione più curata oppure in una edizione più economica sul sito ilmiolibro.kataweb.it

Il Blog del Pavone Bianco si raggiunge con una semplice ricerca google “Roberto Maria Grippo” che porta al profilo Linkedin nella sezione pubblicazioni.

Nella raccolta “I migliori anni” c’è un link per scaricare gratuitamente “La casa sul mare” in formato PDF.

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La casa sul mare.

I primi dieci anni della mia vita li ho trascorsi in una casa sul mare che affacciava su di una piccola darsena di pescatori.

La casa è all’ultimo piano di un agglomerato abitativo proprio al centro della fotografia.

Di fronte al mio balcone c’era quella costruzione che vedete collegata a terra da una passerella.

Era un convento dei Cappuccini - che dava il nome al rione, appunto, dei Cappuccini - trasformato in un

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noto ristorante degli anni cinquanta - “Vicienzo a’mmare”.

Nonostante le scogliere di protezione, quando era mare mosso, l’acqua arrivava fin sotto casa e poi defluiva attraverso le feritoie del molo che era stato costruito a protezione delle case.

Così da bambino io vedevo soprattutto barche, gabbiani che si posavano sulla ringhiera del balcone, vedevo lo sbarco dei fusti di benzina che venivano portati nell’androne delle case, che affacciavano sulla via Matteotti, per essere poi venduti di contrabbando, sulla strada, alle poche macchine che passavano.

Vedevo, nei giorni di festa, i ragazzini (scugnizzi) che chiedevano l’elemosina, ai signori che passavano sulla passerella che portava al ristorante in modo pittoresco sollecitandoli a buttare in acqua una monetina.

I più bravi erano capaci di immergersi ed afferrare con la bocca la moneta prima che toccasse il fondo;

per loro era una specie di gioco mentre per i passanti era uno spettacolo e quindi giù a lanciare monetine.

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Un gioco pericoloso non tanto per il rischio di annegare quanto piuttosto per il rischio di prendersi una brutta infezione.

Difatti quel mare, così vicino e a portata di mano, non era balneabile perché le case scaricavano direttamente in acqua i loro liquami; a volte, io stesso ho visto scaricare a mare il bugliolo che in alcune case sostituiva i servizi igienici.

Della serie noi bambini sopravvissuti a tanti rischi che oggi sono risparmiati alla maggior parte dei bambini italiani.

Io non ho mai fatto il bagno sotto casa oppure lungo la spiaggia del lungomare di Pozzuoli.

Noi si andava al mare in un paesino del Cilento dove viveva una mia zia materna; un paese dove l’acqua era trasparente e la spiaggia era di sabbia vera.

Allora la villeggiatura si faceva così, dai parenti oppure si restava a casa.

Ma la tentazione del mare sotto casa era forte e perciò qualche volta mia madre pagava un barcaiolo che ci portava a fare il bagno al largo, ovvero, al di là delle scogliere.

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Ma il mare sotto casa, per un bambino, significava poter lanciare qualche cosa in acqua e vedere i cerchi che si formavano in conseguenza del lancio.

Ma su di un balcone di cose da lanciare ce ne erano ben poche e così a parte qualche torsolo di mela non c’era nulla da buttare in acqua finché non mi venne in mente che potevo lanciare in acqua dei libri.

Intendiamoci, per i libri ho sempre avuto un grande rispetto.

Appena ho imparato a leggere e scrivere cioè poco dopo aver compiuto i sei anni ho cominciato a leggere di tutto.

Per prima cosa i libri per ragazzi di cui era fornitissima la libreria di casa, avendo due fratelli di diversi anni più grandi di me: Salgari, Verne, Collodi, De Amicis sono stati i miei primi autori ed ogni libro è stato letto o per meglio dire divorato più volte.

Allora, quando prendevi una influenza non te la cavavi con i tre giorni canonici di oggi ma, grazie a Dio, c’era la convalescenza che durava diversi giorni, perciò c’era tanto tempo per leggere.

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In terza elementare avevo ormai letto e riletto tutti i libri per ragazzi che c’erano in casa oltre a quelli nuovi che mi erano stati regalati.

Così cominciai a leggere tutto quello che c’era nella libreria di casa purché si trattasse di un romanzo.

Prima che finissero le elementari avevo già letto cinque sei volte i Miserabili di Victor Ugo, Dumas, Balzac, Flaubert, Tolstoj, Cecov, Dostoieski, ecc.

Gli unici libri che proprio non mi era riuscito di leggere, nonostante li avessi più volte sfogliati, erano una decina di libri di apologetica fascista gonfi di retorica ed inneggianti al Duce.

Propaganda fascista che si trovava in casa perché mio padre, negli anni trenta, era stato un gerarchetto fascista; in realtà papà era un socialista come lo era Mussolini e caduto il fascismo ritornò ad essere socialista.

Io in verità di fascismo, all’epoca, sapevo poco o nulla.

In casa nessuno ne parlava e a scuola meno che mai.

Probabilmente, negli anni cinquanta, i grandi provavano imbarazzo a ricordare che durante il ventennio erano stati tutti fascisti.

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Si sapeva che mio padre era stato segretario del fascio in un piccolo paese della Basilicata, c’era una fotografia che lo ritraeva in divisa da fascista e con la pistola d’ordinanza nella fondina, pistola di cui dovrò parlare in seguito; mia madre invece vantava i discorsi politici che mio padre faceva in qualità di segretario del paese.

Erano tutti fascisti ma mia madre con la stessa verve con cui vantava le capacità oratorie del marito rivendicava di aver cacciato dalla sua aula di maestra elementare un gerarca che la rimproverava di non aver indossato il prescritto grembiule nero che anche le insegnanti erano tenute ad indossare quale testimonianza di fedeltà al regime.

“Voi non siete il mio superiore gerarchico, se volete avere risposte al mio comportamento chiedete al mio Direttore che è stato informato che non indosso la divisa fascista perché sono in lutto per la morte di mia madre; per il momento uscite fuori, state disturbando la lezione senza averne alcun diritto” - disse mia madre - e per questo gesto si prese una bella nota di biasimo a fascicolo personale che diventò poi una nota di merito quando cadde il fascismo.

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Mio padre, invece pagò la sua esperienza di segretario del fascio con un trasferimento e tutto sommato se la cavò bene.

Tuttavia, istintivamente, quei libri io proprio non li sopportavo e così un bel giorno decisi di lanciarli in mare dal balcone di casa mia.

Nessuno in casa mi rimproverò per quella iniziativa e neppure fui lodato.

La cosa passò sotto silenzio ma io ho sempre pensato di aver fatto la cosa giusta.

Ma il mare per un bambino che osserva dal balcone quello che succede sotto casa è anche il posto dove si pesca e si tirano su con la canna tanti pesciolini argentati come vedevo fare ai ragazzi più grandi.

I passatempo per un ragazzino negli anni cinquanta, prima che il televisore, invadesse le nostre case, non erano molto diversi da quelli di Tom Sawier, il protagonista di un libro per ragazzi dell’800 di Mark Twain, che naturalmente avevo letto ricavandone molte proficue indicazioni.

Così tra le attività descritte nel libro c’era la costruzione di qualche cosa, l’esplorazione, l’arrampicarsi sugli alberi, e la pesca.

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Il monopattino.

Negli anni “50 i ragazzi facevano più o meno le stesse cose e soprattutto giocavano per la strada.

Anche io avevo l’autorizzazione ad uscire di casa da solo a condizione che rimanessi nei pressi della casa e che mi si potesse vedere e chiamare dal balcone che affacciava sulla Via Matteotti.

Il mio raggio d’azione era, grosso modo, centocinquanta metri a destra e a sinistra della mia casa.

Circa trecento metri di strada in cui si potevano organizzare i giochi dei ragazzi da quelli più antichi a quelli più moderni come il calcio per il quale si disponeva oltre che della strada anche del cortiletto della Parrocchia.

I trecento metri di strada erano anche sufficienti ad organizzare le gare di “carruocciolo” o di monopattino approfittando della leggera discesa di quel tratto di strada.

Le gare di “carruocciolo” o di monopattino erano un’attività che richiedeva tempo ed un notevole livello di organizzazione.

Intanto andavano costruite le macchine perché né il monopattino né il “carruocciolo” esistevano in

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natura e neppure si potevano comprare perché nessuno li vendeva.

La prima cosa da fare era procurarsi le ruote che dovevano essere di acciaio e con cuscinetti a sfera.

Queste ruote garantivano una durata nel tempo con la possibilità di lubrificazione e quindi maggiore velocità; avevano però il difetto di essere rumorose e non ammortizzavano le asperità della strada.

Trovarle non era facile e poiché non si vendevano le potevi trovare solo da un meccanico di motorini o da un biciclettaio che doveva essere corteggiato e impietosito finché non si decideva a regalarti le ruote usate dopo qualche riparazione.

In alternativa i cuscinetti a sfera potevano essere oggetto di baratto dando in cambio figurine dei calciatori o biglie di vetro colorate.

Una volta che avevi le ruote potevi iniziare l’impresa di costruire il monopattino.

Occorrevano due assi di legno di circa 10/15 centimetri di larghezza per 80 centimetri di lunghezza; si potevano trovare facilmente dal falegname fra gli scarti di lavorazione o in un cantiere edile dove tutte le impalcature erano di legno e gli scarti di lavorazione abbondavano.

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Soprattutto potevi trovare il “pezzotto” ovvero un palo di legno di 8/10 centimetri di diametro alto 20/30 centimetri; un classico scarto di lavorazione nei cantieri dove venivano usati questi pali.

Il “pezzotto” era molto importante perché su di esso si aggancia lo snodo del manubrio.

Il “pezzotto” veniva inchiodato, in verticale e perpendicolare all’asse con le ruote, ad una delle estremità.

All’altra estremità veniva eseguito un taglio a coda di rondine in cui si poteva infilare e bloccare il perno attorno cui girava il cuscinetto a sfera.

Sul lato esterno del “pezzotto” venivano avvitati due occhi a vite (quelli che una volta si usavano per i lucchetti); sull’altro asse di legno venivano montati altri due occhi a vite in corrispondenza di quelli montati sul “pezzotto” in modo tale che l’asse poteva essere appoggiato in verticale al “pezzotto” e fermato con un grosso perno di ferro che passava nei quattro occhielli consentendo il movimento del manubrio.

Un manubrio essenziale che si otteneva inchiodando un pezzo di manico di scopa in testa all’asse di legno; ovviamente dall’altra parte dell’asse c’era il

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solito taglio a nido di rondine in cui incastrare il perno con la ruota anteriore ed a questo punto il monopattino era pronto per l’uso.

Non restava che abbellirlo con colori disegni e qualche opzional quale un pezzo di copertone di gomma che veniva lasciato strusciare per terra sul retro e fungeva da freno d’emergenza per fermare il mezzo quando prendeva velocità in discesa.

La foto che ho trovato nel Web da una qualche idea di come era il monopattino che costruivamo negli anni “50.

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Ma il modello rappresentato è molto più raffinato perché ha addirittura le ruote gommate e quindi è di un periodo successivo, diciamo fine anni sessanta.

Ho parlato del monopattino perché è stata la mia prima costruzione individuale ma noi ragazzi eravamo tutti costruttori dei nostri giocattoli.

La fionda per scagliare lontano pericolosissime pietre era una forcina ricavata da un ramo d’albero adatto e rifinito con il coltello, avanzi di camere d’aria di biciclette ottenute dal solito biciclettaio, il pezzo di cuoio dove si metteva la pietra prima di caricare l’elastico lo regalava lo “scarparo”.

Più difficile era costruire l’arco con le frecce poiché in città era difficile trovare l’albero adatto per ottenere flessibilità e resistenza; per rimediare si poteva usare la canna fresca che si trovava più facilmente vicino ai rigagnoli che pure si trovavano in città; ma durava poco e se sforzavi troppo l’arco si spezzava; allora, era più facile costruire la cerbottana con la stessa canna o con qualsiasi altro tubo che non era difficile trovare; il micidiale proiettile si faceva con uno spillo che veniva reso aerodinamico legando alla testa piume di gallina.

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Il più delle volte, però, ci si accontentava di lanciare delle palline di carta, bagnata per appesantirla, o delle palline fatte con la mollica di pane.

C’erano anche le costruzioni di squadra.

Ad esempio, il “carruocciolo” era costruito dall’equipaggio costituito in genere da tre o quattro ragazzi di cui uno guidava e gli altri spingevano saltando poi sul mezzo una volta che avesse preso velocità.

Per le ruote ci si regolava come per il monopattino ma per il resto era tutto più facile perché bastava una tavola ed un timone, con le due ruote motrici anteriori, che veniva orientato a destra o a sinistra mediante una cordicella tipo redini.

Ma in quegli anni anche l’immancabile pallone per fare qualche tiro nel cortile dell’oratorio o per la strada non era sempre disponibile.

Bisognava procurarselo.

Ricordo un modo un po’ complicato per avere un pallone.

La mesticheria vicino casa fece una specie di concorso; diede a noi ragazzini un quaderno in cui avremmo dovuto segnare le targhe delle macchine che passavano davanti casa; una volta riempito il

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quaderno con i numeri di targa avremmo avuto in regalo un pallone per il calcio.

Non ho mai saputo a cosa servisse questa registrazione di targhe ma assicuro che quel pallone fu guadagnato perché ci volle un buon mese per riempire il quaderno con i numeri di targa delle macchine che passavano per una via centrale come quella dove abitavamo.

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Il pesciolino verde.

La pesca con la canna era tra i passatempo preferiti di noi ragazzi.

Figuriamoci quale desiderio potesse avere un bambino, con un balcone che affacciava proprio sul mare, di poter scendere sul molo sottostante con una canna da pesca.

Ma la cosa sembrava semplice ma era molto più complessa.

Intanto, nessuno in casa aveva questo hobby; poi scendere sul molo era considerato pericoloso ed io stesso avevo visto bambini cadere in acqua e salvati a stento da adulti che si buttavano in acqua per salvarli.

Non c’era un vero e proprio divieto esplicito ma bastava la regola di non allontanarsi dal portone del palazzo di oltre 150 metri perché l’accesso al molo dalla strada si trovava ad oltre 150 metri all’altezza del ponticello che portava al ristorante in mezzo al mare.

Tuttavia, osservando i pescatori che scaricavano i fusti di benzina di contrabbando avevo notato che non facevano la strada che avrei dovuto fare io per

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arrivare sul molo ma uscivano sulla strada carrabile direttamente dal punto dove erano sbarcati.

Così andai in esplorazione e scoprii che a due numeri civici dal mio palazzo, nell’androne, c’era una rampa di scale che scendeva oltre a quella che saliva; così percorsa la scala a scendere mi trovai di fronte ad un cancello appena accostato che portava direttamente sul molo; dunque eravamo ne limiti della regola che mi era stata data di non allontanarmi da casa oltre i 150 metri.

Risolto il primo problema dell’accesso al molo bisogna risolvere il secondo, ovvero, procurarsi la canna da pesca.

Su consiglio dei compagni di gioco esclusi la canna lacustre che pure potevo trovare in uno spiazzo vicino casa ed optai per la canna di bambù molto più robusta e flessibile.

La canna era in vendita in un negozio di pesca al centro di Pozzuoli e sicuramente oltre il limite che mi era stato assegnato, dato che il negozio era a circa un chilometro da casa.

Per quanto studiassi la cosa non c’era verso bisognava infrangere la regola senza farsi accorgere.

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Così misi da parte un po’ di soldi della paghetta settimanale, rinunciando a qualche merenda, ed appena mi trovai in casa da solo con mia nonna, mentre tutti gli altri componenti erano usciti, decisi di fare la scappata al negozio della pesca e così dissi alla nonna che andavo a casa di un mio amichetto al primo piano del palazzo e che sarei tornato dopo un’ora.

Avvertii l’amico di coprirmi il gioco e dopo un’ora ritornai con la canna e con la lenza già predisposta dal negoziante con amo, piombo e galleggiante.

A questo punto avevo tutto ma mi mancava l’esca che, sempre secondo i miei compagni, potevo preparare io stesso impastando della mollica di pane con formaggio; per maggiore sicurezza aggiunsi all’impasto un’acciuga salata presa da un grosso vaso di terracotta smaltata dove erano conservate le acciughe sotto sale e sotto la pressione di una pietra piatta.

Ancora una volta attesi che in casa non ci fosse nessuno salvo la nonna che aveva l’incarico della mia sorveglianza e le rifilai la solita scusa dell’amichetto al primo piano.

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Armato di canna, secchiello, ed esca finalmente raggiunsi il molo sotto casa e cominciai a pescare dopo aver sistemato piccole palline dell’impasto preparato sul mio amo.

Il galleggiante che andava giù mi indicava che i pesci c’erano e mangiavano l’esca allora tiravo su ma con scarsi risultati e soprattutto senza esca che doveva essere riposizionata sull’amo.

Finalmente dopo una mezz’ora nel tirare su la lenza dopo l’ennesimo affondamento del galleggiante sentii la canna pesante e ricurva all’estremità sotto il peso di un pesciolino che finalmente aveva abboccato; un tuffo al cuore e lo vidi emergere appeso alla mia lenza.

Era un pesciolino verde di circa 15/20 centimetri.

Un marvizzo, un pesce di scoglio, che forse era stato attratto proprio dall’odore di acciuga aggiunta all’impasto.

Lo slamai, aiutandomi con uno straccio che mi ero portato e lo misi nel secchiello riempito di acqua di mare.

Continuai a pescare ancora un po’ guardando spesso il pesciolino verde che nuotava boccheggiando nel piccolo secchiello.

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Ma si era fatta l’ora del ritorno.

Nessuno ancora mi aveva cercato e quindi era meglio non tirare la corda.

Raccolsi le mie cose ed infine presi il secchiello dove nuotava l’unico pesce che avevo tirato su.

Era solo e fu la sua salvezza perché rovesciai il secchiello a mare e così il pesciolino verde poté riprendere a nuotare libero.

Il mio eroe e suggeritore d’avventure Tom Sawier oltre a costruire cose ed a pescare si dedicava anche all’esplorazione di grotte misteriose e buie.

Ma questa è un’altra storia anche perché non riguarda più la casa sul mare ma le lunghe vacanze estive, dopo la chiusura delle scuole, che trascorrevo a casa di mia zia in un paesino del Cilento.

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Il primo giorno di scuola.

Il mio primo giorno di scuola fu da me vissuto con grande apprensione.

Ero un bambino sveglio e pieno d’iniziative ma ero e sono abbastanza timido perciò la nuova situazione che avrei dovuto affrontare mi spaventava un po’

considerato che non avevo l’esperienza dell’asilo e, anzi, avevo l’esperienza del fallito inserimento all’asilo.

Verso i quattro anni mia madre mi aveva portato all’asilo delle suore vicino casa; le suorine in presenza di mia madre furono molto accoglienti e piene di complimenti nei miei confronti.

Aprirono una loro vetrinetta piena di giocattoli di tutti i tipi come si usava allora ed io fui molto entusiasta di quello che si prospettava in quell’asilo.

Ma appena mia madre mi lasciò e rimasi solo con le suore la musica cambiò.

I giochi furono rimessi nella vetrina che venne rigorosamente chiusa a chiave.

Noi bambini potevamo vedere i giocattoli ma non li potevamo toccare e non c’era neppure la promessa che successivamente avremmo potuto giocarci.

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Ci fecero sedere ad un banchetto con un quaderno d’avanti in cui dovevamo disegnare delle asticelle allineate e fino a nuovo ordine.

Il giorno dopo comunicai alla mamma che non sarei andato all’asilo; naturalmente raccontai quello che era successo con le suore e lei mi diede ragione ed accettò la mia decisione.

Ma, di circostanze che mi avevano procurato cocenti delusioni ce ne erano state diverse nella mia giovane vita.

Da piccolo soffrivo di frequenti tonsilliti e quindi ero spesso a letto con la febbre alta e le tonsille infiammate.

Un medico ebbe l’infelice idea di raccontare a mia madre che con una super alimentazione si sarebbe potuto evitare l’intervento e così la mamma si diede da fare per ingozzarmi senza ritegno nonostante fossi un bambino per niente inappetente; in breve mi ritrovai davvero grasso quando, in realtà, ero considerato un bambino mingherlino ma le tonsilliti non furono debellate ed alla fine un altro medico disse che era stata una sciocchezza ipotizzare che con la super alimentazione si potesse evitare l’intervento.

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Così mi spiegarono che era una cosa da niente che tutti i bambini dovevano fare e dopo non avrei più avuto le tonsilliti che effettivamente mi davano tanto fastidio.

Il giorno fatidico uscii di casa con i miei genitori con le mani in tasca fischiettando come se dovessimo andare al cinema; sembrava che la cosa non riguardasse me.

Ma ben presto mi ritrovai legato ad una sedia delle torture con un apparecchio in bocca che me la teneva spalancata ed il macellaio che mi operò, rigorosamente senza anestesia, mi strappo letteralmente le tonsille dopo averle legate con un cappio di nailon; cominciai allora a strillare come un matto “mi avete imbrogliato, mi avete imbrogliato”;

il macellaio rideva e diceva ai miei genitori “è bene che strilli così caccia fuori il flusso di sangue che altrimenti lo potrebbe soffocare”; per fortuna la tortura durò pochi minuti ed il sangue cessò di sgorgare.

L’unica cosa positiva fu che durante la degenza, per il primo giorno, mangiai solo gelato, tanto gelato;

inoltre ricevetti tanti bei regali e fui lodato per il

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coraggio dimostrato nel sedermi sulla sedia delle torture senza fare storie.

Perciò, quel primo giorno di scuola, all’ingresso, tenevo ben stretta la mano di mia sorella Silvana che mi aveva accompagnato.

Mia sorella ha nove anni più di me e perciò quando io ero in prima elementare lei faceva il primo ginnasio; era in pratica una vice mamma cui mi rivolgevo per tutte le richieste di aiuto che i genitori non esaudivano: per il gioco e, successivamente, per lo studio.

Inoltre, Silvana aveva una l’età per i primi amoreggiamenti e perciò si cominciavano a vedere per casa i primi giovani corteggiatori che erano a mia completa disposizione per ingraziarsela.

Ma nessuno di loro ebbe successo con lei.

Quando si aprirono i cancelli mia sorella cercò di farsi lasciare la mano incoraggiandomi ad entrare ma non ci fu verso: “ tu entri con me e se non mi piace ce ne andiamo subito” - dissi.

Entrammo insieme e si sedette vicino a me;

cominciai a guardarmi intorno; la classe era composta tutta da bambine salvo il sottoscritto ed un altro maschietto.

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Allora le classi di norma non erano miste anche se non c’era nessuna disposizione tassativa in merito;

era solo una modalità organizzativa per formare le classi.

La mamma, maestra elementare nella stessa scuola, stimava molto la collega che sarebbe diventata la mia maestra e quindi visto che cominciava il ciclo delle elementari con una prima le chiese di prendermi nella sua classe.

La maestra acconsentì anche perché doveva prendersi anche un altro bambino che abitava nel suo stesso palazzo e quindi pensò che i due maschietti si sarebbero fatti compagnia.

In verità la stranezza di una classe tutta di femmine sulle prime non mi colpì e non mi diede problemi perciò cominciai a disegnare a piacere come richiesto dalla maestra e, dopo un po’, mi sentii a mio agio e dissi a mia sorella che se ne poteva andare.

I bambini disegnarono soprattutto case ed alberi io disegnai barche a vela e fui considerato dalla maestra un originale; mi chiese come mai avessi disegnato barche ma io non seppi rispondere.

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I miei genitori decisero, però, che avrei fatto l’ingegnere navale.

A proposito di cocenti delusioni, nei primo giorni di scuola devo dire che mi sono subito ambientato ed ho cercato di socializzare con gli altri bambini o, meglio, bambine perché di maschietti c’era solo il mio compagno di banco.

Fra le bambine ce ne era una che mi piaceva particolarmente; era rotondetta ed aveva due guanciotte rosee e paffute che dicevano baciami, baciami.

Così non seppi trattenermi, l’abbracciai e schioccai due bacioni su quelle guance invitanti.

Apriti cielo.

Se le avessi dato uno schiaffone non sarebbe successo tutto quel putiferio; le bambine in coro

“maestra, maestra Roberto ha baciato Alina (questo era il nome della bambina) ed intanto ridevano e starnazzavano; le guance rosee di Alina erano diventate rosso fuoco, imbarazzatissima; la maestra mi rimproverò soprattutto perché mi ero alzato dal mio posto senza permesso.

In effetti non avevo capito quale delitto avessi commesso e perciò il giorno dopo rifeci l’assalto ad

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Alina che secondo me doveva essere contenta delle mie attenzioni.

Questa volta i commenti furono che io ed Alina eravamo fidanzati e questa cosa arrivò anche a casa dove mi presero in giro divertiti per le mie prodezze.

In realtà mi sentii molto frustrato per il vespaio che avevo suscitato per un gesto che a me era sembrato assolutamente naturale.

Mi sentii come dovette sentirsi Adamo quando commise il peccato originale e fu scacciato dall’Eden.

Non ci furono altre forme di espansioni nei confronti di Alina o di qualsiasi altra bambina.

La scuola elementare passò in fretta e non mi pare che abbia richiesto grande dispendio di energia; non ho mai fatto compiti a casa e non ho mai imparato le tabelline a memoria dato che i quaderni allora avevano la tavola pitagorica nella copertina e quindi capito il meccanismo non c’era bisogno d’imparare nulla a memoria.

Il risultato a scuola era ottimo, ero figlio di una maestra e perciò nessuno mi rompeva le scatole se non facevo a casa la paginetta di copia che era stata assegnata o la paginetta di pensierini.

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Quando era necessario c’era la sorella che dava una mano; la sorella oltre che essere la vice mamma era anche la vice maestra poi la vice professoressa ed ancora oggi aiuta i nipoti a combattere con il latino ed il greco dopo una vita trascorsa nelle aule scolastiche ad insegnare.

La sorella dice che quando ero piccolo le stavo sempre attaccato alla gonnella e probabilmente è vero ma per quel che ricordo era lei che mi portava con se quando usciva con le amiche ed erano uscite e passeggiate di cui non ho un buon ricordo.

Le passeggiate di cui parliamo erano il famoso

“struscio” parola che richiama lo strusciare dei piedi sul pavimento con passo lentissimo e con l’obbiettivo esplicito di farsi vedere, di mettersi in mostra, più che di fare un po’ di sano movimento.

Lo “struscio” si fa sul corso principale ma, a Pozzuoli, anche sul lungo mare.

L’andatura dello “struscio” non è l’ideale per un bambino che magari vorrebbe correre e saltellare ma, inoltre, ero infastidito anche per quello che succedeva durante la passeggiata.

Mia sorella a sedici anni era proprio una bella ragazza che assomigliava alla Mangano e le amiche

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che solitamente l’accompagnavano non erano da meno; di conseguenza i ragazzi seduti sul muretto, che delimitava la strada dalla parte del mare, rivolgevano loro apprezzamenti che io capivo poco ma che, guardando le loro facce, non dovevano essere parole gentili o galanti.

Quello era il loro modo di corteggiare le ragazze dove l’espressione più pulita era “quanto sei bona”

lasciando immaginare quali potessero essere quelle più sporche che avevano a che fare con specifiche parti anatomiche del corpo femminile.

Io ero abbastanza sconcertato e chiedevo lumi con lo sguardo a mia sorella la quale procedeva dritto senza dare confidenza a nessuno, magari, rimproverando le amiche che, qualche volta, rispondevano per mettere a posto i maleducati corteggiatori.

Era quello che volevano rifacendosi al Manzoni, che, per altro, non avevano mai letto, che sintetizza l’inizio della relazione peccaminosa della Monaca di Monza con la famosa frase “e la sciagurata rispose”.

Io sentivo che quel modo di fare dei maschi era violento e molesto e mi ripromisi che da grande mai avrei fatto cose del genere.

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La violenza dei maschi che ritenevano che quello fosse il modo di corteggiare una ragazza o comunque di richiamare la sua attenzione, si manifestava in maniera ancora meno simpatica quando io mia sorella e le amiche prendevamo una barca a remi per andare a fare il bagno al largo oltre la scogliera di protezione; i ragazzi ci seguivano o, meglio, ci inseguivano pronti ad un vero e proprio arrembaggio; altri ragazzi dal molo ci lanciavano bombe di sabbia bagnata e lo stesso destino ci attendeva quando passavamo sotto la passerella che collegava il ristorante “Vicienz’ a mmare” alla terraferma; li si appostavano e la bomba di sabbia arrivava puntuale addosso a qualcuno di noi.

L’unica via di scampo era entrare sotto il ristorante attraverso una delle arcate che una volta dovevano essere le porte del vecchio convento trasformato in ristorante in epoca più recente.

Sotto quelle volte l’immagine che mi è rimasta impressa è un cumulo enorme di teste e zampe di gallina che la cucina del ristorante scaricava direttamente a mare.

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La pistola

A proposito di mare e di cose gettate in quel mare sotto casa mi è stato raccontato che non sono stato il solo ad usare il tratto di mare sotto casa come discarica di cose imbarazzanti.

Non è un mio ricordo perché avevo poco più di un anno di vita e stavo in culla.

Mio fratello tredicenne trovò la famosa pistola d’ordinanza di nostro padre, quando faceva il segretario del fascio del paese, nascosta in un cassetto, completamente smontata ed avvolta in carta velina unta di grasso lubrificante.

Era una Berretta calibro 9.

Il fratello riuscì tranquillamente a mettere insieme i pezzi della pistola ed a renderla, così, funzionante.

Sembra che tutto questo avvenne nello studio di casa dove anche io ero stato parcheggiato nella mia cullina con le ruote.

Il fratello cominciò a fare quello che fanno tutti i ragazzini con una pistola in mano: pum, pum, pam, mirando di qua e di là e facendo finta di sparare; ma purtroppo la pistola era vera e partì un colpo vero che mi sfiorò ed andò a spaccare il vetro con cui era ricoperta la scrivania.

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Lascio immaginare le grida e le punizioni inflitte a mio fratello.

Mio padre non se la sentì di disfarsi della pistola che, forse, gli ricordava la gioventù ma non esitò, questa volta, a renderla innocua buttando a mare il caricatore con i proiettili.

Dell’episodio, come ho detto, non ricordo nulla e mi fu raccontato, ma quella pistola l’ho trovata anche io dietro una pila di documenti sistemati in uno scomparto del mobile in sala da pranzo, quando avevo sette o otto anni.

Anche io l’ho rimontata ed anche io l’ho impugnata ed ho giocato a sparare a destra e a sinistra pum, pum, pam come avevo visto in qualche film di cowboy.

Quella pistola era il mio giocattolo preferito ed appena rimanevo solo in casa la prendevo, la rimontavo e ci giocavo.

Non amo la violenza, non ho mai fatto a botte, e se posso liberarmi di un insetto semplicemente buttandolo dalla finestra lo faccio volentieri.

Non ho fatto neppure il servizio militare e quei due giorni di vita militare per la visita medica sono stati più che sufficienti.

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Ma i più bei regali che ricordo di avere ricevuto sono stati un fucile Winchester, regalatomi da mio padre che me lo aveva comprato a Torino dove si era recato per un concorso, ed un cinturone con le fondine e due pistoloni da cowboy regalo della “zia d’America” - una sorella di mio padre emigrata in America prima della guerra - che nel dopo guerra ci mandava pacchi con generi che in Italia non si trovavano.

Era una bella cosa, che a me portava sempre qualche bel regalino e che durò fino agli anni sessanta quando la zia cominciò a venire in vacanza in Italia almeno una volta all’anno e nel suo giro di nostalgia per l’Italia dell’infanzia veniva anche da noi per qualche giorno.

Ovviamente preferiva fare dei regali in dollari che erano molto apprezzati da noi nipoti.

A me spettava una banconota da un dollaro che, allora, ci sembrava anche una bella cifra perché ci si poteva comprare un pallone per il calcio.

Le mie armi giocattolo durarono e furono usate fino ai dodici tredici anni dopo sparirono dalla mia attenzione e non ricordo più che fine abbiano fatto.

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Tuttavia la pistola vera è stata sempre in casa nostra ed è sopravvissuta a diversi traslochi.

Il fatto è che era divenuta una detenzione illegale con la legge Reale degli anni settanta perché era un’arma da guerra.

Non si sapeva cosa farne perché se la avessimo dichiarata per regolarizzare la detenzione avremmo dovuto dire come ce la eravamo procurata cosa che avrebbe potuto dire solo mio padre che era però deceduto nel 1966; se l’avessimo semplicemente buttata nella spazzatura magari poteva essere ritrovata da qualcuno e poteva essere utilizzata per commettere un reato.

Non abitavamo più nella casa sul mare e quindi non la si poteva buttare in mare.

Certo la si poteva portare sul molo e buttarla lo stesso ma se poi ti vedevano mentre la buttavi o ti fermavano per un qualsiasi motivo ?

Così la pistola rimase in casa ormai neanche più avvolta nella carta oleata, abbandonata in un cassetto in mezzo ad altre cianfrusaglie.

Ogni tanto la prendevo e la impugnavo perché ne subivo ancora il fascino inspiegabile nonostante fossi oramai grande.

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La pistola rimase a casa di mamma anche quando tutti noi figli eravamo andati via.

Fu il fratello maggiore che risolse il problema prima che mia madre morisse.

Erano stati fatti dei lavori di ristrutturazione ed in particolare si era rifatto il muro di contenimento del pozzo nero.

La pistola finì affogata nel cemento.

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Il bradisismo.

Oggi quel molo non esiste più perché il mare si è ritirato di una ventina di metri lasciando il convento dei Cappuccini all’asciutto e sotto le case ora ci sono alberi e giardini.

Nel complesso il paesaggio non sembra migliorato anche grazie allo scheletro in cemento armato del convento che qualcuno ha abbattuto e tentato di ricostruire abusivamente.

In realtà solo lo sconcio dello scheletro della costruzione è opera dell’uomo tutto il resto è opera della natura che a Pozzuoli si chiama bradisismo, ovvero, fenomeno vulcanico che periodicamente

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produce innalzamenti ed abbassamenti della crosta terrestre.

Una sorta di lento terremoto conosciuto fin dall’antichità a causa della natura vulcanica del territorio che i romani chiamavano Campi Flegrei.

Il Bradisismo di Pozzuoli si studia già dalle scuole elementari perché è un fenomeno particolare che a Pozzuoli ha la massima notorietà e che suscita più curiosità che sensazione di pericolosità e paura.

Così il Bradisismo di Pozzuoli non ha mai avuto l’onore della cronaca come i più recenti sismi.

Eppure il Bradisismo di Pozzuoli è stato l’unico esempio, in Italia, di tentativo di prevedere una catastrofe e di provvedere a mettere in salvo la popolazione.

Ricordo che la crisi bradisismica, ovvero, l’accelerazione del movimento di abbassamento o di innalzamento del terreno, ha avuto un picco negli anni settanta ed uno negli anni ottanta.

La prima crisi ha comportato l’evacuazione di un intero quartiere, ovvero, il “Rione Terra” che è il più antico insediamento della città e che è rimasto interdetto persino al passaggio pedonale per 30 anni.

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La seconda crisi ha comportato l’evacuazione dell’intera città e la nascita di un nuovo quartiere, Monterusciello, appena fuori della zona vulcanica dei Campi Flegrei.

Ho parlato del bradisismo, di cui ricordo qualche cosa dai dibattiti televisivi di quegli anni, perché la forza degli eventi naturali spesso è la principale ed ineluttabile causa di importanti mutamenti sociali.

L a c r i s i b r a d i s i s m i c a d e l “ 7 0 p r o v o c ò l’innalzamento del territorio di circa un metro e mezzo in pochi mesi.

Poca roba e qualche scossa sismica di assestamento;

ma nel 1538 l’innalzamento della crosta terrestre di circa sette metri si concluse con una eruzione vulcanica che distrusse un villaggio di pescatori, a nord del centro di Pozzuoli, che fu completamento seppellito sotto i detriti dell’eruzione che formarono una collinetta (Montenuovo) con un cratere al centro.

Perciò l’allarme e la preoccupazione erano pienamente giustificati.

Ricordo che all’epoca io abitavo proprio in una casa alle falde di Montenuovo insieme a mia madre che

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pensò bene di trasferirsi per qualche giorno a casa di mia sorella a Napoli ritenendola più sicura.

Io restai a casa mia ma avevo pronto lo zaino in macchina con tendina e sacco a pelo per una rapida evacuazione in caso di necessità.

Fra il “70 ed il “72 l’innalzamento del terreno rispetto al mare fu circa un metro e mezzo come già ho detto; ci furono altri fenomeni concomitanti come l’incremento dell’attività vulcanica della Solfatara e si notarono dissesti negli edifici del Rione Terra e l’ampliamento di molti metri delle spiagge di Pozzuoli.

Furono elaborati piani di evacuazione che avrebbero riguarda circa 65.000 persone ma il 3 marzo del 1970 fu ordinato solo lo sgombero totale del Rione Terra che ospitava circa 6.000 persone.

L’intero quartiere, un promontorio a picco sul mare, fu murato ed inibito persino al passaggio pedonale.

Si parlò di un piano speculativo dato che il quartiere aveva ed ha grandi valenze turistiche; ma probabilmente gli appetiti erano talmente elevati da non consentire agli speculatori di raggiungere un accordo e così, alla fine, dopo trenta anni, l’evacuazione di quel quartiere ha comportato

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davvero un vantaggio turistico perché oggi chi va a Pozzuoli può visitare nel sottosuolo del Rione Terra un’intera città romana molto ben conservata frutto di scavi e restauri.

In un paio d’anni il movimento ascendente si esaurì e per un po’ ci si dimenticò del bradisismo e dei 6.000 abitanti del Rione Terra mandati prima nelle zone balneari a nord di Pozzuoli e poi successivamente in un nuovo insediamento: Rione Toiano - considerato sicuro nonostante fosse distante solo cinquecento metri dal quel famoso Montenuovo sorto nel 1538.

Ma fra l’83 e l’84 ci fu una nuova crisi e la terra riprese a salire raggiungendo il livello di circa un metro e ottanta.

In quel periodo viaggiavo ogni giorno con il traghetto per l’Isola di Procida ed alla fine dell’anno il mio traghetto ormai attraccava alla nuova banchina costruita, in tutta fretta, tre metri sotto la vecchia banchina.

Ma questa volta oltre l’innalzamento del suolo c’erano anche le scosse telluriche, numerosissime, circa diecimila di cui una di quinto grado nel mese di settembre del 1983.

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Ad agosto era scattato il piano di emergenza che prevedeva fra l’altro l’alleggerimento degli edifici del centro per i quali era previsto l’abbattimento dell’ultimo piano e l’abbattimento degli edifici più compromessi.

Non mi pare di ricordare crolli o vittime del bradisismo anche perché i puteolani non si fecero pregare ed abbandonarono in tutta fretta la città per rifugiarsi nelle zone di villeggiatura a nord, lungo la Domitiana, in strutture turistiche e poi s u c c e s s i v a m e n t e n e l n u o v o q u a r t i e r e d i Monterusciello che fu realizzato in tempi rapidi con strutture prefabbricate che poi negli anni hanno richiesto onerosi lavori di manutenzione.

Nel giro di pochi mesi e per molti anni Pozzuoli diventò una città fantasma senza abitanti e senza negozi mantenendo un minimo di vitalità al centro, nella zona del porto, dove ancora arrivavano i turisti che si imbarcavano per le isole di Ischia e Procida.

La zona adiacente al porto si animava nelle ore centrali della mattinata con i nostalgici che ritornavano a Pozzuoli per incontrare gli amici sparsi in un territorio più vasto.

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Tutti i miei amici che abitavano a Pozzuoli si trasferirono nel nuovo quartiere.

Io rimasi nella casa alle falde di Montenuovo.

Incoscienza o fatalismo dato che gli esperti collocavano l’epicentro del fenomeno ed il massimo innalzamento della crosta terrestre nella zona centrale del porto e perciò Montenuovo era considerato sicuro.

Ma il Bradisismo comunque influì sulla mia vita privata.

Alla fine del 1984 io avrei dovuto scegliere la sede di servizio in quanto vincitore di concorso.

Ero già sposato con due figlie che vivevano a Perugia con la madre ed il concorso che avevo vinto serviva anche a ricongiungere finalmente la famiglia.

Se non ci fosse stato il bradisismo io mia moglie e le mie figlie avremmo vissuto nella casa a Montenuovo.

Ma una notte ci furono cinquecento piccole scosse;

furono sufficienti a sconsigliare l’attuazione del progetto di trasferimento di moglie e figlie a Pozzuoli.

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Così nel gennaio del 1985 la mia famiglia poté ricongiungersi nella città di Firenze dove tutt’ora vivo.

Ma gli effetti del Bradisismo sulla storia della mia famiglia sono ben poca cosa rispetto a quello che è successo a Pozzuoli.

Come si è detto i puteolani si erano tutti trasferiti nel nuovo quartiere e la città fu completamente abbandonata per diversi anni.

Poi un po’ alla volta la città si è ripopolata di nuovi abitanti provenienti prevalentemente da Napoli dato che i prezzi delle case a Pozzuoli erano crollati in conseguenza del rischio sismico.

Le case sono state rimesse in sesto con i contributi statali erogati ed alla fine Pozzuoli è risorta con una decisa vocazione turistica.

Si è già detto del Rione Terra che è divenuta una pregiata zona archeologica.

Ma è soprattutto sul bel lungomare di Pozzuoli che si respira la vocazione turistica con un susseguirsi ininterrotto di ristoranti, pub, bar gelaterie che d’estate occupano gli spazi all’aperto creati dal ritirarsi del mare per l’effetto del bradisismo.

E’ un ciclo che si ripete.

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Negli anni “50 il lungomare di Pozzuoli era zona di villeggiatura per i napoletani dell’entroterra che prendevano in affitto le case dei puteolani durante il periodo estivo per garantire sole e mare alla famiglia; così il lungomare era un susseguirsi di stabilimenti balneari su palafitte; la spiaggia era piccola ed il mare non era un granché pulito ma bastava arrivare alla scogliera esterna e si aveva spazio per prendere il sole ed acqua pulita per il bagno.

C’erano anche due alberghi dove si potevano fare le cure termali con fanghi naturali provenienti dalla Solfatara.

Poi con il tempo i puteolani non ebbero più bisogno di affittare la casa d’estate perché si cominciò a vedere il benessere con l’impiego nelle numerose industrie sorte nella zona: l’Olivetti che produceva macchine da scrivere in uno stabilimento avveniristico sorto nella parte alta e panoramica di Pozzuoli; ma anche il lungomare a nord era un susseguirsi di stabilimenti industriali: Pirelli, Sofer, cantieri navali per la costruzione d’imbarcazioni da diporto.

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E così, alla fine, Pozzuoli sacrificò la vocazione turistica per molti anni.

Ogni tanto mi capita di ritornare a Pozzuoli e devo dire che è decisamente migliorata rispetto a come la ricordo io quando abitavo nella casa sul mare.

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L’isola del tesoro ed il canotto giallo.

All’inizio dell’estate io andavo in villeggiatura.

Una lunga villeggiatura che cominciava a metà giugno e finiva alla fine di settembre poco prima che iniziassero le lezioni della scuola che, allora, riapriva i battenti il fatidico primo ottobre.

Negli anni “50 la villeggiatura era una cosa da signori, da ricchi e significava letteralmente andare in in villa, ovvero, lasciare il caldo estivo in città alla ricerca di un po’ di frescura in campagna.

Quindi per fare la villeggiatura dovevi avere la casa in campagna e tanto tempo libero per dedicarsi ai piaceri della villeggiatura così come ben descritto da Carlo Goldoni nella famosa pièce teatrale.

Io avevo sia l’uno che l’altro requisito senza essere, per altro, figlio di ricchi.

Del tempo libero si è detto e lo stesso tempo libero lo aveva mia madre che era maestra alle scuole elementari.

La casa era quella di una zia, sorella di mia madre, che viveva in un paesino del Cilento, San Marco di Castellabate, anch’essa maestra e quindi con analogo tempo libero.

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Della mia famiglia solo io e mia madre andavamo in villeggiatura; i miei due fratelli venivano per qualche giorno in agosto perché erano impegnati con gli esami all’Università; mio padre non veniva mai perché non amava il mare essendo nato e vissuto in un paese della Basilicata in mezzo ai monti; la nonna paterna ugualmente non amava il mare e doveva accudire il figlio che rimaneva solo.

La casa di mia zia era molto diversa da casa mia che era un semplice appartamento.

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Intanto era su due piani ed aveva ben tre ingressi sulla strada; il primo era di rappresentanza ed era quasi sempre chiuso tranne che quando si riceveva;

allora il portone si spalancava e rimaneva aperto mentre l’accesso alla sala, che conteneva il salotto buono, avveniva attraverso una porta a vetri decorati per non far vedere l’interno dalla strada.

Il secondo era quello usuale che immetteva nell’androne della scala che portava al secondo piano e in un corridoio a fianco della scala che

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portava alla cucina ed al tinello, ovvero, la stanza da pranzo.

Lungo il corridoio a fianco della scala c’era il sottoscala che funzionava da cambusa e da cantina ed era chiuso da una porticina munita di zanzariera da cui esalavano effluvi di salumi e formaggi che ancora me li sogno.

La scala portava alle camere da letto: quella padronale cui si accedeva dal pianerottolo alla fine della scala; quella per gli ospiti cui si accedeva da un corridoio aperto con ringhiera che affacciava nell’androne; la terza camera, cui si accedeva o dalla camera da letto matrimoniale o dalla stanzetta degli ospiti, era lo studio dello zio, professore di lettere, scomparso prematuramente quando io avevo sei anni.

Dello zio ricordo poco; ricordo solo che mi portava al mare a fare il bagno o in barca al largo della spiaggia.

I ricordi più vivi della casa e della villeggiatura sono tutti successivi alla sua scomparsa.

Il terzo ingresso era quello del giardino da cui si accedeva alla cucina; il giardino per me era la parte più bella della casa.

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C’era un grande albero di nespole su cui ci si poteva arrampicare e c’era una baracca per conservare il legname per la cucina economica all’interno di una parte recintata del giardino interdetta a noi ragazzi e per questo assolutamente appetita.

Per noi quello era il fortino dell’Isola del tesoro dove erano asserragliati i buoni che dovevano difendersi dai pirati cattivi.

Nel 1959 andava in onda alla televisione uno sceneggiato per la regia di Anton Giulio Majano tratto dal romanzo per ragazzi di Stevenson: l’Isola del tesoro.

Lo sceneggiato era una fonte inesauribile d’ispirazione per il nostro desiderio di avventure per noi ragazzi così come Tom Sawyer di Mark Twain era stata la mia fonte d’ispirazione per le mie avventure puteolane.

La casa aveva un unico difetto. Non c’era il bagno così come lo intendiamo noi oggi.

C’era un bugigattolo ricavato nello spessore del muro esterno ed appena ampliato con una mezza lunetta che sporgeva all’esterno, in tutto, si e no, un metro quadrato in cui trovava posto solo il vaso.

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Una piccola feritoia doveva garantire l’areazione ma vi assicuro che la puzza era inimmaginabile, a causa del collegamento diretto con il pozzo nero, perciò, alle volte, preferivo farla sotto un albero in giardino.

Non ho mai capito perché una casa decisamente bella e persino elegante potesse avere un bagno così orrendo.

Le case del paese era tutte come quella della zia con una maggiore accentuazione della dimensione agricola.

Così i giardini erano quasi sempre coltivati ad orto e c’era il pollaio e le gabbie dei conigli e, a volte, anche la porcilaia.

C’era il pozzo che fungeva anche da frigorifero naturale e di solito al piano terra c’erano locali di servizio con attrezzi, botti, granai, otri con l’olio e quanto altro.

Era immancabile il forno a legna per il pane che si faceva un paio di volte al mese.

San Marco era una piccola frazione del comune di Castellabate situato in alto; in pratica tre strade, una Y, con il centro nella piazzetta dove c’è la chiesa, una strada per uscire dal paese, una strada per il

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porto, un’altra per la spiaggia denominata

“Pozzillo”.

Il paese in quegli anni viveva di agricoltura e di pesca.

I turisti non esistevano; c’era qualche villeggiante come noi, ovvero, erano parenti dei paesani che in estate venivano a fare il bagno nel mare trasparente e pulitissimo (allora) del paese.

Ma i villeggianti si contavano sulle dita di una sola mano; poi, un po’ alla volta, cominciarono ad arrivare i turisti; prima pochi stranieri poi anche gli italiani da Salerno e da Napoli soprattutto.

I paesani cominciarono ad affittare le proprie case ai turisti in aumento di anno in anno e con i turisti arrivarono pizzerie, bar, ristoranti alberghi, cementificazione, soldi e benessere che hanno completamente trasformato il paese in un importante centro turistico del Cilento.

Stavo per dire “snaturato il paese” ma mi sono fermato perché è un giudizio superficiale.

Lo snaturamento è un effetto collaterale dello sviluppo economico e spetta solo agli abitanti di San Marco decidere se il prezzo pagato per lo sviluppo e

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la trasformazione del paese sia stato conveniente o meno.

Io posso solo osservare che anche senza turisti, con pochi soldi e molto lavoro, quello vero, con la zappa, senza il consumismo sfrenato di oggi, la gente mi sembrava, serena.

Ma, probabilmente, questa sensazione era dovuta alla mia giovane età che colorava il mondo di ottimismo e speranza per il futuro.

I periodi di villeggiatura a San Marco per me sono stati anche molto formativi e devo dire che ho imparato più a San Marco che in tutto il ciclo delle scuole elementari.

Ho imparato a scoprire ed apprezzare le differenze.

Ad esempio il netturbino che passava a ritirare le immondizie con un cassoncino montato sul telaio di una bicicletta aveva un nome e un cognome e quando passava a ritirare l’immondizia lo salutavano e scambiavano quattro chiacchiere; tra l’altro il netturbino faceva anche il postino e quando aveva esaurito nell’arco della mattinata i suoi compiti istituzionali andava ad aprire il suo negozio di alimentari dove vendeva pochi generi essenziali soprattutto ai villeggianti.

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Un’altra differenza importante tra noi cittadini ed i paesani era il rapporto con il denaro.

Per noi cittadini il denaro era importante perché qualsiasi cosa ci potesse servire doveva essere comprata; per i paesani era importante avere quello che serviva anche e soprattutto se bisognava aggiungere lavoro per poterne usufruire; così non si comprava mai il pane fresco ma si comprava la farina per fare il pane perché nella zona non si produceva grano; così non si compravano salumi ma si comprava il maiale che veniva allevato e poi macellato per fare i salumi da mangiare solo, rigorosamente, nei mesi invernali; la regola era che si mangiava quello che produceva l’orto secondo, la stagione.

Dicono che la dieta mediterranea sia stata scoperta nel Cilento.

All’epoca la nozione di dieta mediterranea non esisteva ma ripensandoci la prima regola che veniva applicata alla dieta era quella del si mangia quello che c’è; la seconda regola riguarda la quantità: si mangiano a volontà gli alimenti di cui c’è abbondanza e si razionano quelli di cui c’è scarsità come, appunto, la carne; la terza regola è quella

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della varietà che si traduceva nel detto popolare o mangi questa minestra o salti dalla finestra.

Applicando queste tre regole si organizzava il menù giornaliero e settimanale.

D’estate c’era tanto pomodoro e quindi pane e pomodoro era il piatto forte estivo.

A San Marco il pane e pomodoro si chiama “acqua sale”. Gli ingredienti sono il pane, il pomodoro, l’olio, il basilico, l’origano, il sale e l’acqua.

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Già, l’acqua perché nel Cilento il pane, che si faceva un paio di volte al mese, veniva fatto biscottare per poterlo conservare a lungo.

Così il pane veniva bagnato nell’acqua e poi condito con il pomodoro tagliato grossolanamente, il sale, l’olio e qualche foglia di basilico ed una spruzzata di origano.

Piatto semplice e sublime che fa brillare gli occhi solo a ricordarlo.

Era la colazione del mattino dei contadini, che si alzavano alle quattro, e quindi alle otto avevano già tre o quattro ore di lavoro nei campi ed avevano fame.

Io che non mi alzavo certo alle quattro del mattino ero però puntuale alle otto a casa degli amici per il rito dell’acqua sale: una grande zuppiera in cui tutti si attingeva con le mani al pezzo di pane con il pomodoro.

La cucina oltre al pomodoro in abbondanza, la pasta ed i legumi freschi e secchi, prevedeva le melanzane cucinate in tutti i modi possibili, le zucchine, la zucca, i peperoni da quelli piccoli e verdi da fare fritti e da ripassare in padella con il pomodoro e l’aglio a quelli grossi gialli o rossi da farci la

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peperonata; sempre immancabili le patate e le cipolle.

Spesso in cucina arrivava il pesce: la paranza da fare fritta o le alici, in grande abbondanza, da cucinare in tegame con l’origano oppure in pastella con l’uovo e fritte o semplicemente intere infarinate e fritte.

Pesce di scarso valore commerciale che i pescatori non riuscivano a vendere e perciò portavano a casa.

Ancora immancabile l’uovo prelevato fresco dal pollaio, alimento prezioso da cucinare in tanti modi o elemento essenziale complementare di tante pietanze.

Un po’ di formaggio o ricotta portata a valle dal pastore, dai primi contrafforti appenninici dell’interno completava l’elenco dei generi conservati nella dispensa

La domenica c’era finalmente la carne, ovvero, pollo o coniglio secondo la crescita e maturazione degli animali ma, se il tempo era buono e la pesca proficua, il secondo piatto era ancora pesce.

Infine la frutta, tanta e varia, vero dono della stagione estiva per abbondanza e varietà.

Da grandi abbiamo saputo che questa era la dieta mediterranea patrimonio dell’Unesco ma allora era

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il nostro modo di mangiare, anche in città dove non c’era l’orto a disposizione ma si organizzava la cucina secondo le stesse regole.

Un’altra cosa che ho imparato durante la mia villeggiatura è che il divertimento segue sempre l’impegno ed il lavoro e che entrambi vanno equamente divisi.

Così i nostri amici del paese prima di andare al mare a fare il bagno e prendere il sole dovevano fare il lavoro che gli era stato assegnato: innaffiare l’orto, governare il maiale, raccogliere la frutta, pulire il terreno sotto gli ulivi.

Io spesso andavo con loro in campagna ad aiutarli e poi tutti insieme si andava al mare.

Fra le attività in campagna con gli amici ricordo con grande piacere, per le grandi scorpacciate che si facevano, la raccolta dei fichi verso la fine di agosto;

la grande abbondanza di fichi ci consentiva di mangiarne a volontà mentre il resto della raccolta veniva steso a seccare al sole in grandi piatti di ginestre intrecciate.

Un’altra attività che mi è rimasta impressa nella memoria è l’innaffiamento dell’orto che avveniva grazie ad un marchingegno millenario.

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Si trattava di un bilanciere con una grossa pietra ad una estremità ed un secchio all’altra; in pratica una leva che consentiva di tirare su l’acqua dalla cisterna ottimizzando lo sforzo; il secchio d’acqua veniva scaricato in una vaschetta collegata con coppi alla canalizzazione dell’orto, ovvero, una rete di canaletti; il lavoro andava fatto in due; uno tirava su l’acqua e l’altro, con una zappa provvedeva a chiudere il canaletto una volta riempito in modo che il flusso potesse passare al secondo canale corrispondente al filare di piante.

Noi ragazzi eravamo una bella banda costituita dai miei cugini e dai cugini dei miei cugini.

In ordine di età c’era Alfonso, il più grande, Franco, mio coetaneo, erano i cugini dei cugini, poi c’erano i miei cugini Pierangelo e Vittorio, il più piccolo; poi c’era un’altra cuginetta Mirella che cercava di entrare nella banda ma era sempre respinta perché era troppo piccola e poi era femmina.

A volte si aggregava anche un altro cugino dei cugini dei miei cugini.

Se la baracca nel giardino della zia era il fortino dell’Isola del tesoro il canotto giallo era la nostra nave dei pirati.

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Il canotto giallo che, in realtà, era arancione era un gonfiabile lungo poco più di due metri come se ne vendono tanti in tutti i supermercati.

All’epoca non era così facile trovarlo ed a me fu regalato per una ricorrenza che mi pare fosse la promozione all’esame di ammissione alla scuola media; mio padre lo comprò usato da un amico che lo aveva comprato per il figlio che, però, non ci andava perché aveva paura del mare.

Il canotto era omologato per due ma noi ci andavamo in sei.

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